martedì, novembre 20, 2012

La sposa promessa

La sposa promessa
di Rama Burshstein
con Hadas Yaron
Israele 2012

Il cinema si era già occupato della comunità ebraico ortodossa ma lo aveva fatto con uno sguardo critico volto ad evidenziarne le disfunzioni (“Kadosh”, 1999 di Amos Gitai) oppure come sfondo per raccontare storie di genere (“Un’estranea fra di noi”, 1992 del compianto Sidney Lumet). Sguardi tutto sommato esterni ad un panorama di valori e tradizioni refrattario a qualsiasi tentativo di osmosi sociale e conoscitiva, e per questo vittima del pregiudizio frutto di scarsa conoscenza. A colmare questa lacuna ci pensa il film di Rama Burshstein, “Fill the void”, arrivato direttamente dal concorso veneziano dove ha ricevuto parecchi consensi e vinto il premio per la miglior interpretazione femminile andato ad Hadas Yaron per il ruolo di Shira, la figlia di una famiglia di religione ebraica ortodossa di Tel Aviv, messa in crisi dalla proposta di matrimonio di Yochay, il marito della sorella improvvisamente scomparsa dopo aver dato alla luce un bambino. Sottolineata da una fotografia che soprattutto negli esterni, rari e delegati a scene di raccordo, è caratterizzata da una luminosità quasi lattea, a sottolineare forse la dimensione di purezza dentro la quale si muove ed agisce la protagonista, “Fill the Void” è soprattutto il racconto di un lutto e della sua metabolizzazione all’interno di un gruppo nel quale come al solito le donne fanno la parte del leone: non solo Shira, appena diciottenne ma già pronta a diventare moglie, ma anche la madre, deus ex machina della famiglia che progetta di farla sposare con Yochay per colmare in qualche modo la perdita della figlia maggiore con la presenza del nipotino altrimenti destinato a seguire il padre in un altro matrimonio, e poi con altre rappresentanti del gentil sesso che partecipano con le rispettive vicissitudini al gineceo immaginato dalla regista. Accanto a loro ma separato per ruolo e funzioni il corrispettivo maschile, detentore del potere religioso ed impegnato a provvedere al sostentamento della famiglia. Tra questi due fuochi si ritrova con mille tormenti e molte responsabilità (la madre arriva a rinfacciargli la propria infelicità quando la ragazza rifiuta la proposta di Yochay) Shira, il cui percorso di consapevolezza diventerà il termometro esistenziale e psicologico dell’intera comunità

Chiamata in causa in prima persona per il fatto di appartenere al medesimo ambiente, la Burshstein sa di cosa parla e lo racconta riuscendo ad integrare, all’opposto di quanto aveva fatto Brillante Mendoza con il suo “Thy Womb”, altro film del concorso veneziano, aspetti antropologici (legati alla rappresentazioni delle liturgie e delle consuetudini) e funzione narrativa. Nel far questo la regista è brava a far sentire quanto spazio abbia nella formazione dei caratteri e delle psicologie, e quindi delle loro scelte, il fervore religioso ed il rispetto delle regole nelle quale sono immersi. La dimensione individuale, quella in cui i protagonisti sono chiamati a fare i conti con le proprie aspirazioni, e quella collettiva, in cui identità ed appartenenza vengono leggittimate dalla condivisione delle gioie e dei dolori, si traducono in una messa in scena un po’ rigida ma comunque efficace, che alterna momenti di puro intimismo ad altri di sfrenata convivialità con numerose scene di canti e di balli. Partecipando al dramma dei personaggi – la telecamera è quasi sempre incollata alle facce ed ai corpi – ed evitando di schierarsi o di giudicarli (anche Yochai nella sua posizione di predominio nei confronti della ragazza non va mai sopra le righe) la Burshtein restituisce sullo schermo un mondo che sembra avvolgersi su se stesso chiudendosi a qualsiasi tentativo di irruzione esterna. Non c’è mai la voglia di scappare o di interrompere il filo del discorso nelle scelte di Shira, ma solo la voglia d comprendere e di fare la cosa più giusta. Ma forse un film dove l’incipit(la morte della sorella) rappresenta il novanta per cento dell’intreccio e quello che segue è il resoconto di una crisi di coscienza – ad un certo punto Shira afferma di essere cattiva per non aver corrisposto alle scelte delle persone che ama – avrebbe avuto bisogno di un andamento meno compassato, di un cambio di ritmo o di un'invenzione che questo film purtroppo non ha.

3 commenti:

veri paccheri ha detto...

ciao nick, condivido le tue riflessioni ma la mia conclusione è di piena approvazione del film, la messa in scena è molto efficace e come hai accennato la regista è riuscita bene a mostrare e a far percepire il vissuto dei protagonisti e la loro, mi sento di dire, tragedia personale. è un film anche di piu largo respiro, dalle microstorie si apre alla questione religionsa che qui davvero conduce le vite di tutti. persone chiuse nelle loro angosce che cercano la salvezza aggrappandosi al dogma e alle preghiere, sperando di essere amati dalla comunità e dalla famiglia dalla quale non riescono ad allontanarsi. lo trovo un film molto intenso e doloroso, i temi trattati sono motlo forti. la donna è la unica fonte di vera fita ed energia, qui gli uomini sono ancora una volta "salvati" dallpamore e dalla forza femminile, quel femminile.
Yochai è chiuso in se stesso, avvolto nel proprio lutto e nella disperata ricerca di una salvezza umana, un personaggio che mi ha colkpita, come shira, capace del sacrificio supremo.
complimenti per la tua rece.
buon cinema!

Onesto e Spietato ha detto...

Un film delicato e raffinato, che rende concreto quel senso/dovere di riempimento, palesato dal titolo, tramite un pronunciato accostamento di bianchi e neri, i primi dei vestiti candidi delle donne (non solo spose), i secondi delle tuniche cupe degli uomini tutti barba riccioluta e lunghi mustacchi. http://goo.gl/t4EDd :D

nickoftime ha detto...

quello che mi ha colpito maggiormente e che a distanza di tempo ancora mi resta è la compattezza tanto della comunità quanto del film..e poi certamente la verità dei personaggi, il modo netto con cui emergono come persone realmente esistenti..