sabato, marzo 31, 2012

17 RAGAZZE

17 ragazze
Regia di Delphine e Muriel Coulin


Ogni società ha i suoi tabù. Nel mondo occidentale la gravidanza di una minorenne anche solo pronunciata o mostrata sullo schermo continua ad essere motivo di preoccupazione per una morale abbarbicata nella difesa di valori con cui si illude di resistere al corso della storia.
Eppure basterebbe guardarsi indietro per accorgersi che la questione è un problema culturale, svincolato dalla possibile inadeguatezza delle interessate ma legata al rispetto della consuetudine.

Quindi, come già accaduto per "Juno" (2007), il film che seppur con un velo di ipocrisia - la storia in fondo si serviva di un personaggio fuori dalle regole per confermare la bontà dello status quo - era stato capace di accendere il dibattito, la questione torna d'attualità grazie al lungometraggio di Delphine e Muriel Coulin ,"17 ragazze", che riprendendo un fatto realmente accaduto, racconta la storia di un gruppo di adolescenti che decidono di rimanere in cinta per rimanere vicine a Camille, l'amica che dopo aver scoperto di aspettare un bambino ha deciso di tenerlo tra lo scetticismo generale.
Al disappunto degli adulti chiamati a confrontarsi con un gesto senza precedenti fa da contraltare la convinzione delle ragazze disposte a tutto pur di far venire alla luce la propria prole.

Contrariamente al film di Jason Reitman, quello delle sorelle Coulin si sbarazza immediatamente di eventuali non detti legati agli aspetti sessuali del problema mostrando una femminilità ancora acerba, ma egualmente capace di far un sol boccone di una controparte maschile ridotta a mera funzione da una virago (Camille) ribelle ed insoddisfatta ma decisa ad affermare la propria identità.

Ed è proprio attorno alle motivazioni dell'inusuale gesto che il film si sviluppa, mostrando da una parte la progressiva presa di coscienza delle ragazze, costellata di saliscendi emotivi, un po' per ragioni ormonali, un po' per la paura di affrontare le conseguenze di quella scelta, dall'altra bilanciando l'urgenza delle protagoniste con le riflessioni di coloro che gli stanno accanto, maestri, genitori e persino l'infermiera della scuola (la regista ed attrice Noémie Lvosky, un'icona del cinema d'oltralpe al femminile) a cui peraltro spetta il compito di riportare la faccenda all'interno di un contesto in cui le varie posizioni sono costrette a tenere conto del dato scientifico, quello che preoccupandosi dello stato di salute delle inquiete pazienti metterà a tacere qualsiasi discussione.

Sulla scia di una stagione che il cinema francese ricorderà in maniera particolare per la congiuntura che lo ha premiato sia a livello critico che di incassi, il film delle sorelle Coulin conferma le qualità di un movimento che sa affrontare l'oggetto della sua analisi in maniera diretta, senza appesantirlo con inutili circonlocuzioni.
Basterebbe l'apertura del film che in rapida successione riesce a passare dall'immagine spensierata e sbarazzina delle studentesse in deshabillè, colte nell'attesa della visita medica organizzata dalla scuola, al primo piano di Camille che annuncia in modo asettico la sua condizione per poi rifugiarsi in un silenzio fatto di solitudine, mare e musica rock sparata a tutto volume attraverso le cuffiette di un mp3.

Un montaggio che nell'accostamento tra una rappresentazione della giovinezza ritratta nella purezza astratta di quelle nudità e successivamente calata in un quotidiano che non lascia spazio ad alcuna immaginazione, riesce a definire il tono di una storia continuamente in bilico tra onnipotenza e vulnerabilità, da sempre caratteristiche dell'età giovanile.
Un ambivalenza presente anche nel contrasto tra l'infinito delle vedute marine a cui si affacciano gli sguardi delle ragazze e l'architettura circoscritta dei palazzi dove devono tornare alla fine di ogni giornata, oppure nelle sequenze che nel filmare il vagabondare della protagonista lungo il crinale di un promontorio restituiscono alla perfezione l'idea di un stabilità, psicologica e materiale, mantenuta sul filo del rasoio.

E poi le capacità di una regia che riesce a dialogare con le inquietudini delle protagoniste, chiamandole a raccolta quando deve rendere la dimensione selvaggia e vitalista in cui si muovono i personaggi. Ma i wild days delle 17 ragazze devono fare i conti con la cronaca e con un impatto iniziale che si consuma con la decisione delle giovani di aderire fattivamente e senza esitazione al destino della loro amica.
Da quel momento la storia si istituzionalizza ripetendosi nell'attesa del lieto evento con spiegazioni che sembrano voler prendere per mano lo spettatore attraverso ipotesi e tentativi di dissuasione piuttosto scontati quando per esempio il film fa riunire il corpo degli insegnanti, ed a rotazione li interroga sulle loro posizioni con la telecamera a filmare i primi piani delle loro ovvietà.
Oppure facendoci conoscere uno spaccato sociale fatto di famiglie separate dalla guerra (il fratello di Camille è appena tornato dall'Afghanistan dove presta servizio nell'esercito del suo paese) e segnate dal fallimento (in assenza del marito la madre della ragazza è costretta a lasciare sola la figlia per guadagnarsi lo stipendio).

Particolari necessari a delineare il quadro ma francamente di routine rispetto alla forza di quello che l'aveva preceduto.

A conti fatti "17 ragazze" rimane sulla soglia di ciò che poteva essere ed invece non è. A suo vantaggio i corpi e la faccia di un manipolo di nuove leve, da Louise Grinberg nella parte della protagonista, a Esther Garrel in quello dell'amica più complicata, su cui si può già contare per un futuro ancora ricco di soddisfazioni.

Presentato all'ultimo TFF, il film ha vinto il premio speciale della giuria

(pubblicata su ondacinema.it)

giovedì, marzo 29, 2012

Film in sala dal 30 marzo 2012

Buona giornata
(Buona giornata)
GENERE: Commedia
ANNO: 2012
NAZIONALITÀ: Italia
REGIA: Carlo Vanzina

I colori della passione
(The Mill and The Cross)
GENERE: Drammatico, Storico
ANNO: 2011
NAZIONALITÀ: Polonia, Svezia
REGIA: Lech Majewski

Il mio migliore incubo!
(Mon pire cauchemar)
GENERE: Commedia
ANNO: 2011
NAZIONALITÀ: Belgio, Francia
REGIA: Anne Fontaine

La Furia dei Titani
(Wrath of the Titans)
GENERE: Azione, Avventura
ANNO: 2012
NAZIONALITÀ: USA
REGIA: Jonathan Liebesman

Marigold Hotel
(The best exotic Marigold Hotel)
GENERE: Commedia, Drammatico
ANNO: 2012
NAZIONALITÀ: Gran Bretagna
REGIA: John Madden

Paranormal Xperience 3D
(Paranormal Xperience 3D)
GENERE: Horror, Thriller
ANNO: 2011
NAZIONALITÀ: Spagna
REGIA: Sergi Vizcaino

Romanzo di una strage
(Romanzo di una strage)
GENERE: Drammatico
ANNO: 2012
NAZIONALITÀ: Italia
REGIA: Marco Tullio Giordana

mercoledì, marzo 28, 2012

E' NATA UNA STAR?



E' NATA UNA STAR?

Una mattina Lucia (Luciana Littizzetto) trova nella cassetta delle lettere una busta contenente un film porno.
Dopo aver esaminato la copertina del video, scopre con stupore che il protagonista del film è il figlio Marco (Pietro Castellitto).
La visione del film rivela a Lucia le enormi dimensioni del membro di Marco.
Sconvolta dalla scoperta, Lucia aspetta a casa il ritorno del marito Fausto (Rocco Papaleo), che una volta messo al corrente rimane turbato dall'inaspettata notizia.

Improvvisamente quel figlio che entrambi avevano sempre creduto un po' imbranato e senza alcun talento, si rivela un potenziale pornodivo.
Il racconto breve di Nick Hornby, al quale è ispirato il film, offriva diverse strade percorribili per una commedia di italica fattura; due bravi attori come Rocco Papaleo e Luciana Littizzetto ai quali va sommata l'affidabilissima Michela Cescon garantivano solidità e sobrietà (quest'ultima cosa rara nella commedia italiana); il regista Lucio Pellegrini una certa dose di inventiva come già ci aveva fatto vedere in Figli delle stelle (2010).
Malgrado tutto questo materiale a disposizione, "E' nata una star?" si impantana da subito a causa di una sceneggiatura scarna e superficiale e una regia televisiva che porta il film a prendere addirittura una piega malinconica molto più adatta al pubblico delle fiction TV della domenica sera.
Papaleo e Littizzetto girano a vuoto con il freno a mano tirato, soprattutto l'attrice torinese, ridotta a fare le faccette quando entra in gioco la voce fuori campo di Lucia.

Pellegrini si gioca male le carte a disposizione, compresa quella onirico-allucinatoria, con Papaleo che sogna di ballare con la seducente partner cinematografica del figlio, ma anche in questo caso tutto è risolto sbrigativamente e in maniera piatta.

In definitiva si tratta di una pellicola dove si ride pochissimo, per nulla coinvolgente, svogliata, senza anima.

Una domanda. Come mai Marco, figlio di un lucano e di una torinese, nato e cresciuto a Torino parla con accento romano?

martedì, marzo 27, 2012

Romanzo di una strage

Romanzo di una strage
regia di M. T. Giordana


Marco Tullio Giordana come James Ellroy. Il paragone a prima vista stridente per le differenze di mestiere e di metodo – il primo si attiene ai fatti della storia, il secondo li mescola ad elementi di fantasia – diventa invece appropriato in un disegno generale che per entrambi ha come unico scopo quello di raccontare con le forme del romanzo criminale ed in maniera definitiva il lato oscuro dei rispettivi paesi. Parafrasando uno dei titoli più famosi del grande romanziere si potrebbe dire che Giordana firma il suo "Italian Tabloid" fissandone le origini a partire dalla strage di Piazza Fontana che nel 1969, con la morte di 17 persone, diede il via alla cosiddetta strategia della tensione, una forma di governo occulto che utilizzava il terrorismo di destra e di sinistra ma anche anarchico, per destabilizzare i tentativi di un cambiamento politico e culturale, prefigurati dall’ascesa del partito del partito comunista italiano che in quegli anni si andava affermando come la forza politica capace di insidiare lo strapotere della democrazia cristiana. L’esplosione di quella bomba fu il Big bang che spostò in avanti i limiti del lecito dando il via ad una stagione di terrore che assomigliò ad una guerra civile giocata all’insaputa del paese.
A rendersene conto nel film sono il commissario Calabresi, responsabile delle indagini che portarono al fermo dell’anarchico Pinelli, della cui morte avvenuta in circostante mai chiarite fu ingiustamente accusato, ma anche Aldo Moro, statista inviso ai suoi compagni di partito ed all'America, in virtù di un apertura al partito comunista italiano che rischiava di mettere in crisi gli equilibri dell'allenaza atlantica in Europa, e molti di quei politici e funzionari di stato che nell'opera di depistaggio agirono al servizio dei vari centri di potere.

Ma il film è soprattuto una contrapposizione di uomini ed organizzazioni, di istituzioni che non esistono più – tra questi il SID (servizio segreto militare) – di movimenti come quello anarchico che hanno ormai perduto la loro forza aggregativa, oppure di gruppi clandestini armati come quello facente capo al generale Valerio borghese, e poi ancora di figure come Valpreda, Ventura, Stefano delle Chiaie, Guido Giannettini e tanti altri che solo a pronunciarne il nome riaprono antiche ferite.

Se la storia è nota e non può essere riscritta (la strage di piazza Fontana non ha ancora trovato un colpevole) “Romanzo di una strage” ha il pregio di ricordarla in maniera corretta. Giordana ci mette dentro tutto ed inevitabilmente finisce per semplificare fatti e personaggi.
A parte Calabresi, a cui il film decide di affidare il ruolo di eroe borghese, capace di attraversare la storia con un humanitas che deve molto all’asciuttezza interpretativa di Valerio Mastandrea, ormai pronto per il grande cinema, e parzialmente Pinelli, vittima sacrificale capace di riassumere con la sua tragica morte il senso di ingiustizia che pervade le cose, il film va colto nella sua propensione a ricostruire il quadro generale e nel riuscire a mostrarlo in diretta, riproducendo dinamiche e connessioni che funzionano nel loro complesso ma sono carenti, per mancanza di tempo, quando devono rappresentare se stesse.

Alla pari di quello che avevamo ammirato ne "La Talpa" anche quello di Giordana è un mondo chiuso nelle proprie ossessioni (il film è quasi esclusivamente girato in interni), imprigionato da logiche comprensibili sono a coloro che le hanno sposate (la moglie di Calabresi e quella di Pinelli per esempio ne sono totalmente escluse)e che ad esse hanno sacrificato la vita.

Caratterizzato da una fotografia plumbea, ridotto in ambienti poco accoglienti, scarsamente illuminato "Romanzo di una strage" aggiunge poco a chi quegli anni l'ha vissuti, mentre può aiutare le generazioni più giovani a comprendere il presente di cui questa storia è il frutto.

Il titolo fa riferimento ad un articolo di Pier Paolo Pasolini che nel denunciare i mandanti delle stragi definisce le loro versioni dei fatti come un "romanzo".
A distanza di tempo ed alla luce di questo film aveva ragione.

(pubblicato su "stazione cinema" )

domenica, marzo 25, 2012

L'ultimo passaggio di Antonio Tabucchi



La scomparsa di Antonio Tabucchi si porta via un angolo della mia giovinezza. Lo scoprii quasi per caso, fermandomi a leggere il trafiletto di un quotidiano in cui si parlava di un premio con cui in Francia si nominava il miglior romanzo in lingua straniera. Era il 1987, Il libro di chiamava "Notturno indiano", l'autore appunto Tabucchi. Con la curiosità che nasce senza una vera ragione lo cercai e lo lessi.

Fu un incontro magico: il fascino di un paesaggio lontano, un uomo alla ricerca di una persona che forse non esiste, l'India, evocativa e tragica.

E poi Pessoa, nume tutelare dello scrittore toscano, ripreso nelle parole di chi aiuta il protagonista nel suo cammino di conoscenza."Abbiamo tutti due vite.." così iniziava quella frase, una specie di introduzione, al tema, quello del doppio, che avrebbe caratterizzato da lì in poi la produzione di Tabucchi, divisa impegno e introspezione, a sottolineare un’inquietudine coperta dai modi dolci, dalla voce gentile ma ravvisabile nella febbrile ricerca di un possibile altrove, geografico o temporale.

Dopo qualche tempo anche il cinema si sarebbe accorto di lui, impossessandosi delle sue atmosfere dapprima con “Notturno indiano” diretto da Alain Corneau ed interpretato con magica immedesimazione da Jean Hugh Anglade, successivamente con "Sostiene Pereira" di Roberto Faenza e con Marcello Mastroianni nel ruolo dell’anziano giornalista. Film che con differenti risultati sono riusciti solo in parte a ricostruire il sentimento del mondo che le sue pagine riuscivano a comunicare.

Questo ultimo passaggio, con la decisione di salutarci da Lisbona, la sua citta d’elezione, è l’inizio di un viaggio da sussurrare alla fantasia del prossimo cantore.

sabato, marzo 24, 2012

The Lady



THE LADY
l'amore per la libertà
regia di Luc Besson


Dopo essere rimasto folgorato e profondamente commosso dalla sceneggiatura, scritta da Rebecca Frayn, Luc Besson (Lèon, Nikita, Il quinto elemento) ha accettato di dirigere "The Lady", la necessaria biografia di Aung San Suu Kyi, Premio Nobel per la Pace 1991 e 'orchidea d'acciaio' del movimento per la democrazia in Myanmar, Birmania.

Ad interpretarla l'intensa e splendida Michelle Yeoh.

Il film racconta in poco più di due ore la storia di questa donna molto coraggiosa che ha sacrificato la sua vita privata ed i propri affetti familiari per difendere la libertà del suo paese e del suo popolo.

Morbida è la regia incorniciata da una colonna sonora appropriata. La Birmania emerge in tutto il suo ferito splendore.
Besson non riesce ad emozionare fino in fondo, ma comunque mantiene alta la tensione durante tutto il film.

A mio avviso un buon prodotto, un tributo necessario per raccontare al grande pubblico la storia di una leader "per caso" ma assolutamente di talento e di profondissima umanita, che per 20 anni ha portato avanti una lotta non violenta contro il sanguinario regime birmano.

"Usate la vostra libertà per favorire la nostra (Aung San Suu Kyi)"

The Raven


“The Raven” (id., 2012) è il terzo film del regista australiano
James McTeigue. Con una produzione Usa-Spagna-Ungheria il budget
soddisfacente incita l’ambientazione a manifestarsi in modo corposo e
sublime per meglio intagliare e scaraventare i personaggi dentro un
sortilegio narrativo introsp(o)ettivo e trallantoso! Un rigurgito di
racconto fino alla fine e un odore di inchiostro stanano le
reminiscenze dello scrittore non più in voga e del poeta che non
disdegna i versi a ciascuno di noi. E sì che il capzioso intreccio non
è poi così inspirato dal grande sanguinario ma per esso si immerge
nella tetra vita di Baltimora per salvare la sua donna e il rotoli del
suo ultimo racconto orrorifico.

In un 1849 anno di ultima vita dello scrittore Edgar Allan Poe,
Baltimora si appresta ad assistere ad una serie di orrendi delitti che
spaventano non poco la polizia del posto. Senza alcun timore
reverenziale il giovine detective Emmett Fields tende la mano al
famoso personaggio per farsi aiutare a districare il groviglio. Una
matassa che l’assassino adopera bene sullo spunto degli intrecci
narrativi dello scrittore. Un espediente, quello di mettere in scena
Allan Poe dentro alla sua stessa storia, già usato in passato e qui
usato non in modo oculato e sagacemente nel raffronto con lo stessa
indagine. Non è mai facile far penetrare chi ha scritto nelle immagini
di chi vuole descrivere l’immaginario di chi sta cercando di
compiacere chi riprende. L’iconoclasta narrativo è ordinato ma ben
lungi da essere potente e forte nella meta-lingua filmica: purtroppo
il carattere cavernoso e sinuoso delle immagini si perde in
inquadrature, congeniali sì, ma poco incisive alla versatilità del
vero contesto horror-noir. Il sangue rimarcato dalle bocche o quello
finto per deviare le indagini (e in buona pace il pubblico) si spalma
sullo schermo senza un gusto traumatico e il taglio delle gole o di
qualche ventre (siamo nei limiti del giusto) spappolano gli occhi
addomesticati da facili giochi di suspence.
Si ha la sensazione che il dialogo è meno compromissorio rispetto
ai luoghi e alle belle scenografie (aggiustate finché si vuole) così
che tutto si perde in un susseguirsi di eventi sanguinari (in
accumulo) messi lì apposta per piacere ma senza una vera
corrispondente indagine narrativa. E lo scrittore che segue se stesso
dentro la sua stessa storia diventa un ‘manichino’ e un finto
ingranaggio del tutto. La bella che grida e poi ‘dorme’ in attesa del
bacio (stile cartoon) sconsiglia l’investigatore di intromettersi
negli affari degli altri (scritti con cura e ricercati tra le sue
righe) anche perché una pallottola (che fortuna per Poe continuare da
solo!) non disdegna un sua pausa paziente a letto. Quando si fa forza
da solo il suo amico scrittore aveva già afferrato l’ultimo verso per
capire il gioco cruento (quanto mai vicino a sé). Un peregrinare
lontano tra le vie di Baltimora ma il suo studio nasconde l’inconscio
del foglio scritto e l’incubo risolto.
Certo il senso plastico dell’impasto narrativo e l’incastro
sfaccettato dai corpi muti non danno risalto ai temi veri dei racconti
di Allan Poe e il gusto macabro si perde in rituali uccisioni senza
versi d’inchiesta e paure da incubo nelle vie di Baltimora. Si deve
dire che lo girare delle carrozze, le riprese sghembe dall’alto,
l’ammanto del buio, i miscugli dei luoghi e le corse con i cavalli
danno un giusto appagamento agli occhi ma il nesso logico viene
schematizzato in modo facile ed edulcorato. Una via di mezzo tra vera
indagine e movie-spot (nel senso di intermezzi a se stanti) che non
porta ad un vero film stile noir e/o classico horror (penso al passato
di Fritz Lang e al quasi presente di Roger Corman).
Il cast alimenta abbastanza bene il contesto narrativo ma sembra
statuario oltre il dovuto (il personaggio di Allan Poe da parte di
John Cusack appare, forse. Troppo inerte e quindi poco sviluppato) o
quantomeno disegnato con poco spirito partecipativo. Luke Evans (nella
parte del detective) riesce a ritagliarsi un buon ricordo mentre Alice
Eve (Emily) riesce bene nella prima parte (ironicamente innamorata del
suo Poe). Perifrasi della suspence cartoonizzata: questo in
conclusione con un montaggio nervosetto senza senso. Mestamente gli
ultimi venti minuti (per forza di cose) alzano il senso di ricerca ma
il piatto e il poco acume fanno perdere il film in un genere
convenzionale (di routine). I titoli di coda meritano una
considerazione dopo che la pallottola scuce lo schermo (stile ‘Matrix’
a cui il regista ha collaborato nell’intera serie): post moderni e
accattivanti (per piacere…).

Recensione di: loz10cetkind.


mercoledì, marzo 21, 2012

MAGNIFICA PRESENZA

MAGNIFICA PRESENZA
regia di F. Ozpetek


Pietro (Elio Germano) è un giovane che inforna cornetti e sogna di fare l'attore.
Lasciata la Sicilia per la capitale, trova casa nel quartiere Monteverde dopo essere stato ospite di una lontana cugina (Paola Minaccioni).
Entusiasta dell'appartamento, si accorge presto di non essere solo e di condividere la casa con inquietanti inquilini.
Le presenze sono fantasmi di attori di un'altra epoca, quella del ventennio fascista, prigioniere del passato, che chiedono a Pietro di aiutarle a recuperare la libertà.
E' ufficiale, Ozpetek è in debito di ossigeno, ha smarrito la spinta propulsiva che lo ha reso noto e di conseguenza si rigira con voluttà nella sua (indiscutibile) bravura tecnica, resta avvinghiato alla propria poetica peccando di autorefenzialità.
Dopo il flop di Un giorno perfetto (2008) e il copia-incolla del comunque divertente Mine Vaganti (2010), il regista turco si impantana in questo film che sarebbe dovuto essere onirico e invece risulta debole e soprattutto incompleto.
Debole perché è pieno zeppo di storie ed argomenti: la guerra, le donne platinate anni '40, le rivalità da palcoscenico, Pirandello, il tutto mal amalgamato, senza un progetto ben definito.
Incompleto perché la presunta teoria di "finzione o realtà?" va a farsi benedire quando l'intervento della medicina fa sparire le "magnifiche presenze" dalla vita del protagonista, decretando ufficialmente che trattasi di visioni e quindi di malattia.
Ozpetek conferma la propria visione del mondo abitato quasi esclusivamente da gay, utilizzando l'omosessualità come parco giochi.
Quasi imbarazzante la varietà di omosessuali che fanno passerella in Magnifica presenza: il protagonista timido e sognatore, il vicino di casa silenzioso e dolce, Platinette novello Colonnello Kurtz, il belloccio incazzato, un intero laboratorio cappelleria dove lavorano esclusivamente trans non proprio giovanissime e addirittura un fantasma.
C'è posto anche per qualche etero, la cugina Maria, ma ahimè, guardacaso è una sessualmente disinvolta, sentimentalmente poco affidabile e quindi patetica (quando ci prova con il protagonista gay).
Non mancano neanche situazioni davvero imbarazzanti, come la Vittoria Puccini perennemente con le ciglia umide (qualcuno ha mai provato a farle interpretare un ruolo in cui non piange?) e Maurizio Coruzzi alias Platinette che fa il verso a Marlon Brando in Apocalipse Now ( 1979).
La pellicola è faticosamente tenuta in piedi da una buona direzione degli attori, dalla bravura tecnica del regista e da alcune performance di rilievo come quelle di Beppe Fiorello e Anna Proclemer, ennesima attrice ripescata dal passato dopo Lisa Gastoni (Cuore Sacro - 2005) e Lucia Bosè ( Harem Suare - 1999).
Si chiude con una stucchevole satira sulla politica italiana e il condivisibile, quanto banale, auspicio di tolleranza umana.
Qualcuno avverta Ozpetek che in Italia lo sdoganamento dell'omossessualità è già avvenuto da parecchio.
Chi in questo film ha trovato simbologie del paese attuale (la figurina di Garibaldi?), scene di liberazione (la cappelleria dove delle trans lavorano, invece di prostituirsi è un incredibile autogol) ha visto un altro film.

Film in sala dal 23 marzo 2012

17 Ragazze
(17 Filles)
GENERE: Drammatico
ANNO: 2011
NAZIONALITÀ: Francia
REGIA: Muriel Coulin, Delphine Coulin

Act of valor
(Act of valor)
GENERE: Azione, Thriller, Avventura
ANNO: 2012
NAZIONALITÀ: USA
REGIA: Mike McCoy, Scott Waugh

E' nata una star?
(E' nata una star?)
GENERE: Commedia
ANNO: 2012
NAZIONALITÀ: Italia
REGIA: Lucio Pellegrini

Ghost Rider - Spirito di vendetta
(Ghost Rider: Spirit of Vengeance)
GENERE: Azione, Thriller, Fantasy
ANNO: 2012
NAZIONALITÀ: USA
REGIA: Mark Neveldine, Brian Taylor

Take Me Home Tonight
(Take Me Home Tonight)
GENERE: Commedia, Drammatico
ANNO: 2011
NAZIONALITÀ: Germania, USA
REGIA: Michael Dowse

The Lady
(The Lady)
GENERE: Biografico, Drammatico
ANNO: 2011
NAZIONALITÀ: Francia, Gran Bretagna
REGIA: Luc Besson

The Raven
(The Raven)
GENERE: Thriller
ANNO: 2012
NAZIONALITÀ: USA
REGIA: James McTeigue

martedì, marzo 20, 2012

Gente comune


Quando Robert Redford salì sul palco per ritirare l’Oscar per la miglior regia in molti rimasero meravigliati. La storia di una famiglia alle prese con l’elaborazione di un lutto famigliare era riuscita a sbaragliare una cinquina composta anche da “Elephant Man” e “Toro scatenato”. Era il 1981 ed il film suggellò un cambiamento già in atto nella carriera dell’attore americano. Abituati a considerarlo nella sua veste attoriale, Redford era diventato nel frattempo un uomo di cinema a tutto campo, con la fondazione dello Utah Film Institute (1979) e successivamente del Sundance Film Festival. L’esordio registico rappresentò quindi la legittimazione di un cambiamento segnalato anche dalla scelta di un tema, quello del dramma familiare, lontano dalle corde di un attore che aveva forgiato la sua immagine sull’espressione più vitale dell’essenza americana. Qui al contrario la voglia di fare lascia il posto ad un ripiegamento per molti versi riconducibile alla delusione suscitata dalla sconfitta delle grandi utopie del decennio precedente, su cui l’attore si era già soffermato con “Tutti gli uomini del presidente” ed “I tre giorni del condor”. Senza una guerra da combattere i protagonisti del film esprimono un reducismo esistenziale tradotto da un percorso dolente e contraddittorio. Beth (Mary Tyler Moore) è una madre ferita che inconsapevolmente rimprovera al figlio di essere sovravvissuto al fratello annegato in mare, mentre Calvin (Donald Sutherland) è un padre impegnato ad impedire la disgregazione del nucleo familiare messo a dura prova dal senso di colpa di Conrad, convinto di essere responsabile di quella sciagura. Sullo sfondo di un paesaggio autunnale e nel decoro delle case borghesi il dramma si colora di elementi psicanalitici – in funzione simbolica l’acqua ritorna continuamente con ricordi del naufragio e nelle sessioni di nuoto di Conrad, mentre l’entrata in scena dello psicologo sarà determinante per spezzare gli schemi instauratisi all’interno del nucleo familiare - per arrivare a delineare una crisi che nella negazione dell’amore materno mette in dubbio la natura stessa dell’istituzione familiare. Se il punto di forza del film rimane la capacità degli attori di restituire le fragilità emotive dei personaggi “Gente comune”, con il suo successo diventerà l’apripista di un’annata in cui l’analisi delle disfunzioni familiari diventerà centrale sia nella letteratura (Raymond Carver ed il romanzo minimalista) che in molto di quel cinema indipendente sponsorizzato dallo stesso regista. Forse non è stato un caso.

venerdì, marzo 16, 2012

Young Adult


Young Adult” (id., 2011) è il quarto lungometraggio di Jason Reitman (figlio del regista Ivan). Una carriera breve ma fatta di commedie spiritose e di riflessione sociale (da “Thank You For Smoking”, 2005, a “Up in the Air”, 2009).

Questo “Young Adult” chiama in prima fila Charlize Theron, attrice che da oltre quindici anni varia il tipo di film (commedia-dramma-sociale) e che riesce bene a tenere il film fino alla fine. Un encomio non da poco per una storia al femminile e i suoi risvolti nella provincia americana.

Un film amaro e poco compiaciuto, che chiama a raccolta interiorizzazioni adolescenziali ma sopite e spinte da bella del liceo mai decisa a perdere. Essere la prima e più ricercata dai ragazzi in età scolare crea in Mavis Gary una crisi di rirorno alle origini. Vuole recuperare e (ri)prendersi tutto quello che aveva lasciato nella sua piccola provincia dove è nata e contava qualcosa. Il ritorno è di quelli mesti e furenti, sognati e accaniti: incontri e situazioni dilavati da immagini stereotipate ma pur sempre di fronte a balli da sola e alcolici distruttivi. Una bambina che vuole diventare donna e cerca rivincite di fronte a tutti. “Come mai sei tornata?” tutto per “un’operazione immobiliare”. Tutto il vuoto che lascia il suo passaggio è desolante ed ogni personaggio appare ‘falsamente’ plastificato per compiacere la lei fiamma di un tempo andato e il regista che prende a ‘sberle’ una provincia ridotta al lumicino. E pensare che il gusto goliardico di un college americano lascia sensazioni di gusto ridanciano ma evidentemente le sensazioni sono ben altre e possono portare ad una crescita scriteriata e fuori regola. Tutto secondo una norma non scritta. “Tu sei una stronza”, “pezzo di merda” risponde Mavis all’amico liceale Matt Freehauf che è un ‘grassone’ inconcludente che ha subito un’aggressione alle gambe e alle parti basse e cammina con difficoltà. Mavis vede tutto al rovescio e il bicchiere pieno di alcol gli dà coraggio per continuare e rispondere con piglio e tono da ‘bellimbusto(a)’. L’incontro (casuale) con sua madre in città e il ritorno a casa con un tavolo imbandito per tre è descritto in modo asciutto e amorfo: la figlia è persa nell’aver rivisto il suo ex ragazzo liceale ma oramai sposato e con neonato. Buddy Slade dà a Mavis un allontanamento definitivo ed una solitudine poco vera per una ragazzina cercata da tutti (mentre torna in un piccolo bosco con Matt dice “qui era il posto delle trombate” e gli risponde l’amico “come mai volevi tornare….quindi eri una zoccola”. In un paio di battute incrociate tra Mavis con Matt e la stessa Mavis con Buddy si snodano i mondi e le vite di una provincia perdente e tagliente dove ogni luogo di ritrovo diventa specchio di un bicchiere da bere e assuefazione (senza andare oltre) ai problemi evidenti. Pochi hanno voglia di parlarne. Solo un’amica fa capire a Mavis che ‘quel posto non vale niente’. Forse tornare a Minneapolis è la sua ultima speranza. Il suo vero sogno. Il rifiuto della sua città d’origine è duplice. Va da sola e dice ’no tu no… resta nella città degli uomini che non vedono il domani’…il domani che la provincia americana sognava e che la metropoli sta ancora cercando. E che dire della ‘bottiglia di guerre stellari’ che fa ‘girare la testa’ mentre Mavis è ‘una galassia’.

Una Charlize Theron convincente che prende il mano la storia e tiene bene il suo personaggio. Una donna a tutto tondo. Sorretta forse poco da alcuni contesti di scrittura e da una parte finale resa convenzionale: la verità del dramma sociale viene solo sfiorata con una scappatoia di comodo. Rimane agli occhi del pubblico la figura inerme del padre David (Richard Bekins) e di una madre (Jill Eikenberry) sconfitta dagli eventi. Le risposte non arrivano e la fuga della figlia senza vita e alcolizzata rimangono lì impietose e destabilizzanti per la famiglia di quel paese (e di incomprensioni nella nostra). Manca alla pellicola un’acidità e un’avvedutezza narrativa di grande consistenza: pur tuttavia si nota una certa sincerità di fondo e una descrizione opportuna e mai furba. I luoghi di ripresa diventa prigioni interiori e spirali contorte; una fotografia blanda, offuscata e asettica dà uno stile al film di ricerca documentaristica. L’assenza di una vera colonna sonora con richiami ai rumori di fondo stemperano il finto non-gioco mentre alcune musiche dei ‘ricordi’ danno il conforto a Mavis dentro al suo mondo.

Stilemi e incroci in un film da chiaroscuri immediati e da scappatoie vicine. Mai si vede un orizzonte di linguaggi e mai si assiste a un incontro di immagini (veramente) consolatorie. La sconfitta è anche sentire il refrain di una canzone (per sempre amata).

Regia discreta (sono piaciute le riprese degli esterni).

voto 7-

recensione di loz10cetkind

giovedì, marzo 15, 2012

Safe House



In una delle solite diatribe che si sviluppano intorno alle cose del cinema a lungo si è parlato della presunta autorialità di Tony Scott, fratello minore, anche in termini artistici, del più celebrato Ridley.

La discussione si irrigidiva sulle peculiarità di un regista accusato di rappresentare la parte più edonista di un periodo cinematografico che a cavallo degli anni 80 traduceva in immagini i muscoli della politica reganiana. Vent'anni dopo Daniel Espinosa sembra dar ragione a chi gli aveva riconosciuto un linguaggio personale realizzando un prodotto che dell'autore di Top Gun adotta le caratteristiche di un cinema votato ad una dimensione di potenza e di spettacolarità.

Un paragone certamente favorito dalla presenza di Denzel Washington, attore feticcio di Scott, ma concretamente riscontrabile tanto nelle tematiche, quello dell'uomo solo contro tutti, quanto nella forma, seppure edulcorata rispetto alla forte stilizzazione che da sempre accompagna le sue opere.

Oltre a questo ed ancora in stretta connessione tra i due registi il contrasto tra le possibilità di uno strumento cinematografico che non conosce limiti in fatto di possibilità visive e che nel caso di questo film esibisce una straordinaria capacità di rendere le scene degli inseguimenti a piedi e su quattro ruote, ed il feroce pessimismo riscontrabile nelle scelta di una storia che alla fine non fa vincere nessuno, neanche il giovane agente Matt Weston (Ryan Reynolds)incaricato della custodia temporanea Tobin Frost (Denzel Washington) ex agente della CIA convertitosi al commercio illegale di informazioni riservate. Quando un commando fa irruzione nella safe house nel tentativo di catturare il prigioniero i due sono costretti a solidarizzare per cercare di salvare la pelle.

Riassunto in questa maniera il film sembrerebbe un buddy movie, più o meno spettacolare, con i due protagonisti impegnati a scansare una serie di pericoli che gli permettono di mettere in mostra un talento soprattutto fisico. Ed invece seppur occupato per buona parte da scontri fisici ed armati, safe House è anche un film di performance recitative quando attraverso Weston e Frost sono chiamati a fornire la loro versione dei fatti in un confronto di filosofie, il primo idealista e costruttivo, il secondo pragmatico e pessimista, che ne metterà in luce insospettabili somiglianze. Sono loro, soprattutto Washington in un ruolo, quello del cattivo maestro, che si colora di sfumature esistenziali rese credibili dal carisma dell'attore (la foggia dei vestiti e taglio di capelli ricordano rimandano all'interpretazione di Malcon X) ed una regia dinamica ma non isterica a sopperire ai punti deboli di una sceneggiatura che in certi passaggi pecca di verosimiglianza, e nel doppio finale anche di coraggio, nel tentativo di cancellare in parte il pessimismo di un film che non avrebbe avuto bisogno di ulteriori conclusioni.

Film in sala dal 16 marzo 2012

Non me lo dire
(Non me lo dire)
GENERE: Commedia
ANNO: 2012
NAZIONALITÀ: Italia
REGIA: Vito Cea

10 regole per fare innamorare
(10 regole per fare innamorare)
GENERE: Commedia
ANNO: 2012
NAZIONALITÀ: Italia
REGIA: Cristiano Bortone

L'altra faccia del diavolo
(The Devil Inside)
GENERE: Horror, Thriller
ANNO: 2012
NAZIONALITÀ: USA
REGIA: William Brent Bell

Magnifica presenza
(Magnifica presenza)
GENERE: Commedia, Drammatico
ANNO: 2012
NAZIONALITÀ: Italia
REGIA: Ferzan Ozpetek

martedì, marzo 13, 2012

The Grey

The Grey

Il cinema come forma di terapia.
Non solo per chi lo guarda ma anche per chi lo fa.

Non è un mistero che l'identificazione tra la realtà dello spettatore e la finzione dello schermo possa favorire la presa di coscienza di un determinato aspetto della nostra vita oppure cambiare uno stato interiore attraverso i processi catartici che un film può stimolare.

Se poi annulliamo la distanza tra il mondo ideale e quello vissuto come avviene per gli attori che quella trasposizione le devono interpretare, allora il transfert è totale, così come gli effetti da quello provocato.

Di conseguenza non sarà stato facile per Liam Neeson impersonare un uomo tormentato dal ricordo della moglie morta prematuramente. "Non avere paura" ripete la giovane donna rivolgendosi al compagno che la assiste durante gli ultimi giorni.
Una frase che deve essere riecheggiata spesso nella mente dell'attore mentre cercava di entrare dentro un personaggio che come lui era alle prese con un lutto ancora fresco.

E' da lì che deve essere partito per interpretare John Ottway cacciatore di lupi assoldato per proteggere gli operai di una compagnia petrolifera dagli assalti dei feroci animali. Un processo di assimilazione capace di ridisegnare il volto dell'attore consegnandolo ad un espressivirtà colorata di sofferenza vissuta sulla pelle.
Una trasformazione che Joe Carnahan utilizza per accrescere il carisma di un uomo che si ritrova a capo di un manipolo di uomini scampati ad un terribile incidente aereo. Persi in un deserto di ghiaccio e minacciati da un branco di lupi, i superstiti cercheranno di attaccarsi alla vita con la disperazione di chi non ha più nulla da perdere.


Joe Carnahan, un regista di belle speranze convertitosi a produzioni di routine aveva due possibilità: enfatizzare i meccanismi della suspence e dell' azione per puntare ad un intrattenimento spettacolare, basato sul continuo confronto tra il cacciatore e la sua preda, oppure innestare in un racconto di avventura dalle venature horror elementi di riflessione scaturiti dal contatto con l'elemento naturale prima e con quello animale poi.

Ne sceglie invece una terza in cui dapprima riduce i personaggi a una tipologia caratteriale, funzionale ad alterare le dinamiche relazionali all'interno del gruppo, e poi li consegna alla morte con una serie di espedienti che diminuiscono una credibilità ricercata nella scelta di location reali e particolarmente disagiate, per la stupidità dei comportamenti messi in atto.

In questo modo il film si riempie di sentimenti infarciti di nostalgie familiari e solitudine interiore, di lunghe attese aspettando il prossimo attacco di un avversario che il film centellina con apparizioni quasi sempre nascoste all’occhio dello spettatore.
Una soluzione in economia che lascia spazio a lunghi momenti di pausa, troppi per una trama che punta in maniera scontata allo scontro finale, quello in cui il protagonista rimarrà da solo di fronte al suo destino. Alla fine l’unica cosa che rimane è la maschera di dolore di Neeson/Ottway .
Neanche un film così poco suggestivo riesce a farcela dimenticare.

venerdì, marzo 09, 2012

The Double

"The Double" (id., 2011) è il primo film da regista di Michael Brandt.

Dopo alcune sceneggiature (tra cui “3:10 to Yuma” e “Wanted”, certo non opere epocali e lungometraggi di livello eccelso) si è tolto la soddisfazione di dirigere una storia scritta da lui stesso con Derek Haas.
Tutto sembra promettere bene ma il cerchio non quadra e tutto appare un surrogato di una spy di replica e di doppi giochi, senz’altro adatti ma spenti, e per certi aspetti includenti nel passaggio registico. Un film dove la tensione non regge il contesto effettivo e ogni groviglio dei personaggi non porta ad un’ansia adrenalinica delle immagini.
Anche i volti degli attori interiorizzano in parte ciò che vogliono darci e il cast risente di una direzione poco convincente e/o almeno alquanto uniforme e piatta. Le scene vengono montate con pezzi panoramici, allungamenti sulla Casa Bianca e crocevia di strade o ponti su Washington.

Il barlume nesso tra i tetri visi (ma non più di tanto cupi) riesce con una musica che alza la tensione ma non certamente il livello thriller. Tutto il risaputo con avanzamenti logici legati e trasmessi a piombo dopo fuochi di occhiate e telefonate monitorate. E’ la regia che manca i luoghi e gli ambienti, è il girato che non convince nelle riordinazioni temporali, è lo shock del mistero che non adduce a trasmissioni nei neuroni, è il senso dei flashback che non spostano la misura dei personaggi, è il recitato quasi soporifero che aleggia oramsguardo sfinito che indietreggia negli scontri, è il culmine che manca per adottare un volto come simpatico-stronzo.

Tutto in questo film viene a noi come sappiamo (o possiamo immaginare) e il resoconto narrativo si esplica in colpi di scena e il vero doppio gioco (che si scontra abilmente) viene a noi come contesto di falso di chi racconta (e di chi vuole indagare). Un modo già visto (certamente) che non trova nel finale una ‘mattanza’ corposa delle scene e delle inquadrature. Un peccato perché lo schema a doppi binari della sceneggiatura prevede risvolti di grande partecipazione ma non riescono a venire fuori in modo forte e convincente.

Paul Shepherdson (Richard Gere) è un agente CIA che viene rimesso nel circuito lavorativo (già in pensione) per indagare sull’uccisione di un senatore. Si parla del ritorno di un certo ‘Cassio’ killer che Paul ha ucciso. A ciò non crede l’agente Ben Geary (Topher Grace), anzi ha la convinzione che non è morto. I due lavorano a fianco per cercare la verità. Tutto avviene con meccanismi e scene di suspense ‘incollate’ e ‘chiosate’: l’effetto si perde prima che arrivino.

Certo Micael Brandt non è un regista di alto lignaggio in tali situazioni e si nota la non avvedutezza a far risaltare (ed esaltare) il momento clou in modo rutilante ed energico.
D’altronde alcune sequenze sembrano che allunghino il resoconto della storia senza entusiasmare lo spettatore.
La corsa a due in auto tra Paul-Cassio (o Cassio-Paul) rimuove lo spirito spettacolare ma aggiunge ben poco a una ulteriore ‘suspence’ oramai agli sgoccioli o già finita prima di cominciare.
L’incontro-scontro in carcere fra i tre personaggi centrali del film (e l’indagine-interrogatorio) avviene troppo presto e lo smalto implosivo (del tutto) si perde e si annacqua nonostante percorsi a zig-zag e situazioni ambigue create ad arte per tenere vivo il tutto.

Inoltre è da dire che la scena dei delitti e delle foto in bella mostra dentro l’ufficio di Ben sono un gustoso piatto oramai senza commensali perché la ricerca (e il suo sillogismo molto intelligente e perspicace) si perde per gli stessi personaggi rivelando doppi giochi non fra loro ma allo spettatore oramai quasi satollo (per quel che il film di gusto prometteva).
Non siamo dalle parti di David Mamet, sceneggiatore e regista all’unisono, uno dei pochi di oggi (penso anche a Paul Schrader) che riesce a coniugare le due cose con un complesso movimento di macchina e uscite-rientri con scatole cinesi di rara raffinatezza.

Il cast non è totalmente amalgamato.
Richard Gere ci mette la 'professione' mentre Topher Grace si immerge nel ruolo con fervore (non sempre riuscendoci).
Martin Sheen trova un ruolo con poche battute ma riesce a prendersi la scena con poca fatica e molta grandezza.

Regia non sempre precisa nella direzione.

Voto: 5/6 (senza infamia e senza lode).

rece3nsione di loz10cetkind

giovedì, marzo 08, 2012

POSTI IN PIEDI IN PARADISO

POSTI IN PIEDI IN PARADISO
regia di Carlo Verdone


Tre uomini separati e molto diversi tra loro per carattere e abitudini decidono di condividere un appartamento a causa delle difficoltà economiche sopravvenute dopo la separazione.

Ulisse (Carlo Verdone), con un passato da produttore discografico, gestisce un negozio di vinili; Fulvio (Pierfrancesco Favino) è stato un apprezzato critico cinematografico prima di finire a scrivere di starlette; Domenico (Marco Giallini) è un agente immobiliare con il vizio del gioco che si è ridotto a vivere dove capita e a dover pagare gli alimenti a un numero imprecisato di figli e di famiglie.

I tre uomini si ritrovano a fare i conti con una convivenza complicata, finché una sera Domenico, che arrotonda le entrate come "accompagnatore" per signore non proprio giovanissime, viene colto da un malore dopo aver preso troppo viagra.
A visitare Domenico viene chiamata la cardiologa Gloria (Micaela Ramazzotti), anche lei alle prese con una vita sentimetale complicata.

Nonostante i tormentati rapporti con i figli, saranno proprio quest'ultimi che consentiranno a Ulisse, Domenico e Fulvio di tornare a sperare in un futuro più roseo.

Carlo Verdone ci propone una commedia ben girata (lo so, sembra una banalità, ma confrontatela con le altre commedie italiane, piene di stacchi tra una gag e l'altra che a volte fanno venire il mal di stomaco - ogni riferimento a Gennaro Nunziante è fortissimamente voluto), che riesce nel compito di strappare un sorriso in situazioni dove c’è poco da stare allegri.

Verdone affonda il suo sguardo nei confronti di un femminile imperscrutabile (la moglie che si crede grande artista e che ritiene il marito colpevole della fine della sua carriera e che non comprende che se è riuscita a fare un disco è perché il marito, per amore, è riuscito a farlo incidere rimettendoci la carriera e finendo sul lastrico) e nelle vesti di attore si limita a rendere semplice il compito all'ottimo cast che lo circonda.

"Posti in piedi in paradiso" ci conferma la bravura di Micaela Ramazzotti e finalmente rende giustizia a Marco Giallini, che ha dovuto aspettare una trentina di film e la seconda chiamata di Verdone per essere riconsciuto come attore degno di nota, evidentemente, agli addetti ai lavori, non bastava la sua magnifica interpretazione ne "L'odore della notte" (Claudio Caligari - 1998) per capirlo.

Come al solito bisogna ribadire come Verdone sia l'unico, in Italia, a sganciarsi dalla comicità stereotipata dell'attuale commedia schiava dei volti e dei tempi televisivi.

Commedia malinconica, mai volgare, che non dispiace. Ma niente di più.


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Film in sala dal 9 marzo 2012

A simple life
(Taojie)
GENERE: Drammatico
ANNO: 2011
NAZIONALITÀ: Cina, Hong Kong
REGIA: Ann Hui

John Carter
(John Carter)
GENERE: Fantascienza, Avventura, Fantastico
ANNO: 2012
NAZIONALITÀ: USA
REGIA: Andrew Stanton

La sorgente dell'amore
(La source des femmes)
GENERE: Commedia, Drammatico
ANNO: 2011
NAZIONALITÀ: Belgio, Francia, Italia
REGIA: Radu Mihaileanu

Native
(Native)
GENERE: Thriller
ANNO: 2012
NAZIONALITÀ: Italia
REGIA: John Real

The Double
(The Double)
GENERE: Spionaggio, Thriller
ANNO: 2011
NAZIONALITÀ: USA
REGIA: Michael Brandt

Ti stimo fratello
(Ti stimo fratello)
GENERE: Commedia
ANNO: 2012
NAZIONALITÀ: Italia
REGIA: Paolo Uzzi, Giovanni Vernia

Young Adult
(Young Adult)
GENERE: Commedia, Drammatico
ANNO: 2011
NAZIONALITÀ: USA
REGIA: Jason Reitman

mercoledì, marzo 07, 2012

IL CASTELLO

IL CASTELLO


"A Giacì, ma 'ndove m'hai portata?"
"eh Augù.. e t'ho portata a vede' n'anteprima che sembra èsse 'na cosa importante.."
"importante? ma in 'sto posto co' e sedie dure e riggide come i sassi? Ah... 'nnamo bbene.."
"guarda che ha vinto pure un premio.."
"e che premio?"
"a un festival, a torino, me pare 'na cosa de solo cinema"
"ah, allora è robba importante per davero"
"eh sì, Giacinto tuo te porta a'e robe grosse, che te credevi?.. ma t'avevo detto, no? dài mettete assede lì, dài - ce scusi signò, ce lascia passà genitlmente?"
"Giacì, e nun spinge, 'spetta n'attimo, che nun ce passo"
"sssh fà piano Augù, e spicciate, che semo d'ingombro... - scusate signò, grazie tante.."
"me scusino signori, eccome ce sto quasi.. che stretto sto corridoio.."
"scusate, grazie.. dai Augù, mettate llà.."
"eccome.."
"ohh..vuoi da bere?"
"no, sto a posto.. senti, ma de che parla 'sta cosa importante?"
"si intitola Il castello e raconta quel che succede ogni ggiorno al'aeroporto de malpensa.."
"ah, ma pensa... a mappensa, ma che posto è?"
"no mappensa, Augù, se dice maLpensa co' la elle"
"ah davero? ma... ma...?"
"malpensa.."
"..senti, ma in do sta? mica mai lo visto sto posto? e che succede lì?"
"sta a milano, al nordo.. è l'aeroporto.. un sacco de ggente ch'ariva ecche parte, controlli da tutte le ore, su i passeggeri. evaligge... sai che la ggente po'contrabbandà a droga.."
"uuuh..a droga?"
"eh sì, a droga.. i sigari, e' bestie..."
"pure??"
"anche quelle, sì, dall'america ariva de tutto... n'ariva tanta de roba. ma la cosa interessante de sta cosa, de sto documentario, è che nun se limitano a farte vedè che accade, ma lo fanno in un modo delicato, te fanno entrà nel merito degli stati d'animo dei coinvolti"
"ah, mica facile però.."
"eh no, unnè un facile documentario, diciamo che se mette tra film sociale e documentario, con momenti davero intensi.."
"forte...ma senti, l'aeroporto me pare sia un posto strano, vojo dì, una specie di non luogo, è de tutti e de nessuno..."
"esatto Augù, proprio così, eppensa che ce sta pure chi ce abita.."
"uuh e come fa?"
"eh.. fa, fa... s'è organizzata...è 'na signora de mezz'età, l'hanno respinta dalle maurizius ma lei non s'arende, ce vorrebbe ritornà, che èllà che abbita.."
"oh povera, me spiace tanto, e nun ce ll'ha la casa qua?"
"eh no, lei vive in aeroporto.. capirai, sta nascosta tutto il santo giorno e compare alla sera, una presenza dignitosa e discreta, 'na vera signora.. pare sia, la sua, 'na protesta silenziosa..."
"anvedi, che coraggio.."
"..li vedi quei due laggiù?"
"sì..."
"so' Massimo D'Anolfi e Martina Parenti, i du' reggisti, l'hanno fatto loro sto documento..."
"ah bravi... e mo' parlano?"
"sì, mi sa che l'ho presenteno e poi so' vedemo..."
"allora stamo a sentì..."
"sì, Augù, ascoltamo..."
"a Giacì..."
"eh..."
"grazie per 'st'anteprima importante, stasera te faccio e pappardelle.."
"Augù, fà attenzione a a signora! - me la scusi sà, sta fuori de misura un poco.. - Augù e viè qua, spostate più in qua..."

"SSSSHH SILENZIO!"

"dai Giacì azzittate e guardamo.."
"guardamo sì..."



Il doc IL CASTELLO ha fatto il giro di diversi festival toccando anche torino e milano.
se vi capitasse a tiro andatelo a vedere, non fatevi ingannare dal titolo, nè dal genere, questo prodotto merita la vostra attenzione.



FESTIVAL DI TORINO "Il Castello", nei meandri di Malpensa

"Stazione Cinema" - il primo blog interamente dedicato al cinema italiano



E' con gioia che segnalo il neonato blog "STAZIONE CINEMA", prima risorsa del circuito cine-blogs dedicata interamente al cinema di casa nostra, ovvero alle produzioni italiane.

Questa pregevole iniziativa colma un vuoto importante nel panorama editoriale cinematografico e si propone come punto di incontro dove discutere dello stato dell'arte cinematografica italiana.

http://stazionecinema.blogspot.com/


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martedì, marzo 06, 2012

L'arrivo di Wang

L'arrivo di Wang

Da "l'ultimo terrestre" a "l'arrivo di Wang" il cinema italiano fa le prove generali per riappropriarsi di un genere che i produttori sembravano aver cancellato dai loro programmi. Ed invece complice il festival veneziano, dove entrambi sono stati presentati la fantascienza made in Italy fa la sua réentre proponendo a pochi mesi di distanza due opere che seppur con diversità di stile ed anche di possibilità realizzative tornano a parlare il linguaggio della fantasia proponendo la visione di un mondo alle prese con una possibile invasione aliena. Insomma un genere nel genere se non fosse che i Manetti Bros ci mettono del loro per inventarsi una storia che pur rientrando di diritto nella categoria riesce allo stesso tempo a mantenere intatta la loro identità.

Se infatti la trama si sviluppa attorno ad un misterioso interrogatorio in cui sono coinvolti una giovane sinologa ed un losco agente dei servizi segreti la sorpresa consiste nel fatto che Wong, l'alieno giunto sulla terra con propositi che l'interrogatorio deve svelare si esprime utilizzando il cinese mandarino.

Una situazione paradigmatica quella del confronto tra abitanti di diversi pianeti che i Manetti trasformano in un balletto drammatico ed al tempo stesso grottesco, in cui tanto la composizione dei caratteri, anomala per il modo in cui si comportano - l'agente è costantemente sopra le righe, la traduttrice sull'orlo di una crisi di nervi, l'alieno impacciato ed a volte persino buffo - quanto il contesto in cui si svolge - la drammaticità della situazione è continuamente sabotata dalla presenza sui generis della lingua cinese - concorrono a decostruire l'incontro del terzo tipo, avvalendosi di continui cambi di direzione, affidati ai punti di vista dei personaggi, colpevolista quello di Curti (un cattivissimo Ennio Fantastichini) convinto della cattiva fede del visitatore, assolutorio quello di Gaia (la camaleontica Gaia Cuttica , attrice feticcio dei registi) schierata dalla parte del più debole più per i metodi inquisitori di chi lo interroga che per propria convinzione.
E senza far pesare troppo suggestioni sociologiche e riferimenti alla contemporaneità la vicenda riesce a far passare la metafora di un mondo dominato dal pregiudizio e da una conoscenza che si ferma sulla superficie delle cose. A perdere sarà sempre la razza umana, indipendentemente da schieramenti e ideologie.

Girato con un economia di mezzi che i due registi trasformano sempre in plus valore "L'arrivo di Wang" è un film ricco di linguaggi cinematografici, inventati di volta in volta per fornire il giusto contraltare alla performance dei personaggi.

Concentrato in un unico spazio, il bunker asettico ed opprimente dove si svolge l'interrogatorio, l'occhio dei Manetti Bros si concentra sulle facce degli attori che si diverte a deformare con lenti fuori fuoco, grand'angoli e sovrapposizioni di luce per restituirne la dimensione di follia e di pericolo in cui sono precipitati i personaggi da loro interpretati.

Ma il film ha nel contempo una costituzione materica e diremmo carnale quando, lavorando sui corpi c'è li mostra sottoposti ad ogni genere di afflizione: legati, colpiti, sudati e sanguinanti ma comunque sostenuti da un agonismo che gli impedisce di arrendersi agli ostacoli che il destino gli mette sulla strada.
Ed anche il comparto tecnico rappresentato da una squadra di giovanissimi, la Palantir Digital Media, contribuisce a questa consistenza creando un personaggio virtuale, Wang appunto, credibile per la varietà di espressioni ed una fisicità evidenziata dalla luce neutra che i registi hanno espressamente voluto per illuminare la loro creatura. Una scommessa vita quella dei Manetti, con i festival che fanno a gara per accaparrarsi il loro film e con il prossimo giunto al termine della lavorazione. Come dire che a loro la crisi gli fa un baffo.

HENRY

HENRY
regia di Alessandro Piva (Ita 2010)


Il commissario Silvestri (Claudio Gioé) coadiuvato dal collega Bellucci (Paolo Sassanelli) è impegnato nelle indagini per risolvere il caso dell'assassinio di uno spacciatore e di sua madre.
Le indagini portano all'arresto di Gianni (Michele Riondino) un ingenuo perdigiorno fidanzato con l'istruttrice di aerobica Nina (Carolina Crescentini), una tossica venuta dalla provincia.
Sullo sfondo dell'omicidio si muovono un clan di malavitosi italiani impegnati a conquistare una posizione di rilievo nel mercato della droga e una banda di africani.

Alessandro Piva autore del meraviglioso "La capagira" ( 2000) che gli valse un David di Donatello e un Nastro d'Argento come miglior regista esordiente e del sottovalutato "Mio Cognato" ( 2002 ) entrambi girati a Bari, cambia ambientazione e si trasferisce a Roma.

Una Roma ben rappresentata, lontana da quella da cartolina di Ozpetek, una Roma non abitata da romani, livida, cupa, infame e tossica.

"Henry" è un noir discretamente costruito, con personaggi interessanti come il poliziotto che sniffa e il tossico carogna e con almeno un paio di protagonisti che sfoderano una prova di buon livello (Sassanelli e Mazzotta).

Ma purtroppo "Henry" è qualcosa di molto lontano sia da "Mio Cognato" che dall'inarrivabile "La Capagira", anche se bisogna riconoscere a Piva, che ultimamente si era dedicato a fiction ospedaliere, il merito di continuare a fare un cinema indipendente che tenta di smarcarsi un minimo dai soliti clichè italiani.

Killer che sembrano macchiette assolutamente fuori luogo (Dino Abbrescia è inguardabile); dialoghi improbabili, un finale rappresentato in maniera poco credibile e uno squilibrio nella messa in scena, a volte curatissima, in molte altre trascurata (pistole giganti maneggiate in scioltezza lasciando capire anche allo spettatore meno attento che si tratta di giocattoli dal peso di pochi grammi) fanno dell'ultima pellicola di Alessandro Piva un prodotto che sfiora il grottesco che forse nelle intenzioni avrebbe dovuto essere feroce e a tratti allucinante al pari del romanzo da cui è tratto.

In definitiva, l’impressione di fronte a questo film è quella di un compromesso non riuscito tra la rappresentazione fedele della realtà piccolo-medio criminale (ottimamente ricostruita in "La Capagira") e la necessità di rendere fruibile il prodotto venendo incontro alle esigenze di un pubblico abituato al poliziesco patinato.

Il "divorzio" dal fratello Andrea, sceneggiatore dei precedenti film, non ha giovato al talentuoso regista salernitano.

Se "Henry", presentato in concorso al Torino Film Festival 2010, vincendo il premio del pubblico è rimasto nei magazzini per due anni un motivo ci sarà.


GALLERY





giovedì, marzo 01, 2012

Film in sala dal 2 marzo 2012

Cesare deve morire
(Cesare deve morire)
GENERE: Documentario
ANNO: 2012
NAZIONALITÀ: Italia
REGIA: Vittorio Taviani, Paolo Taviani

Gli sfiorati
(Gli sfiorati)
GENERE: Drammatico
ANNO: 2012
NAZIONALITÀ: Italia
REGIA: Matteo Rovere

Henry
(Henry)
GENERE: Azione, Commedia
ANNO: 2011
NAZIONALITÀ: Italia
REGIA: Alessandro Piva

Posti in piedi in paradiso
(Posti in piedi in paradiso)
GENERE: Commedia
ANNO: 2012
NAZIONALITÀ: Italia
REGIA: Carlo Verdone

Safe House
(Safe House)
GENERE: Azione, Thriller
ANNO: 2012
NAZIONALITÀ: USA
REGIA: Daniel Espinosa

The woman in black
(The woman in black)
GENERE: Drammatico, Horror, Thriller
ANNO: 2012
NAZIONALITÀ: Gran Bretagna
REGIA: James Watkins