giovedì, ottobre 31, 2013

Un viaggio personale nel cinema americano: Apocalypse Now


Il capolavoro di Francis Ford Coppola come non l'avete mai letto. Da lunedi 4 novembre con cadenza settimanale icinemaniaci ripercorreranno le tappe salienti di uno dei film più importanti del cinema americano attraverso un analisi che partendo dalle parole di Joseph Conrad e del suo "Cuore di tenebra", fonte primaria dell'ispirazione Coppoliana, cercherà di allargare lo sguardo sul quadro storico e culturale, ma anche sulle vicissitudini che hanno influenzato la realizzazione dell'opera. Consapevoli del rischio di una sovrapposizione ridondante e superflua abbiamo cercato di offrire un  punto di vista se non inedito almeno stimolante. Al lettore il giudizio finale, noi intanto ringraziamo la penna ed il coraggio di TheFisherKing che si è cimentato nell'impresa, e la fantasia di Parsec che ne ha curato la pubblicazione. 

martedì, ottobre 29, 2013

La vita di Adele


La vita di Adele 
di Abdellatif Kechiche
con  Léa Seydoux, Adèle Exarchopoulos
Francia, 2013
genere, drammatico
durata, 179 

Adele è una liceale che sogna il grande amore, quello da romanzo, un po' come tante della sua età. Consuma una relazione breve e poco intensa con Thomas, suo coetaneo, al quale si concede senza troppo trasporto. In un locale gay conosce Emma, eccentrica studentessa dell'accademia delle belle arti.
E qui bisogna fermarsi, bisogna fermarsi perchè la vita di Adele inizia a prendere forma in sè stessa e in chi guarda, l'amore vissuto senza accenni di morbosità, trasparente; carne e spirto si fondono senza sfiorare reticenza ridondante o vano richiamo trasgressivo, ed Emma prende per mano Adele e l'accompagna nel suo diventare donna, la dipinge immolando i contrasti di un'animo che fuoriesce da quel viso dilagante di vero, che incanta e sturba in ogni sguardo ed ogni lacrima versata.
Abdellatif Kechiche porta sullo schermo tre ore che diventano Attimo, quell'attimo fugace e intenso che poche volte è possibile cogliere sullo schermo, Léa Seydoux ed Adéle Exarchopoulos si buttano a capofitto nel travolgente flusso narrativo, senza interpretare ma semplicemente "vivendosi". Ed il resto è tutto sensazione, atmosfera, essenza. Quei primi piani che vanno oltre il cogliere le espressioni e tendono la mano all'illimite, e  la telecamera, sospesa, segue ogni gesto spontaneo o apparentemente superfluo, come una carezza lungo la schienza, come se gli interpreti ne fossero i burattinai, mettendoci a confronto con il reale.
"...Nell'ora in cui tremiamo
Di tenerezza
Le labbra che vorrebbero baciare
Innalzano una preghiera a quella pietra infranta".

Mi vengono in mente queste parole di Thomas Stearns Eliot per descrivere l'emozione che rimane cucita addoso alla fine di una visione sconvolgente, che non ha paura di guardare e gettarsi nell' immenso abisso umano, cruda e mera autopsia dell'Io. Il blu è un colore caldo, e rimane dietro ogni angolo, e Adele se ne va col suo vestito blu, ma ci lascia li, come una dolce carezza d'abbandono.

di Antonio Romagnoli

Immaginario cinematografico: Questioni di tempo

L'amore come non l'avete mai visto e come ve lo siete sempre immaginato








Questioni di Tempo di Richard Curtis

Runner Runner

Runner Runner
di Brad Furman
con Ben Affleck, Justin Timberlake, Gemma Arterton
Usa 2013
genere, thriller
durata, 91



Viene certo da pensare di fronte a un'operazione come quella di "Runner Runner", thriller diretto dal semisconosciuto Brad Furman, capace di annoverare tra i suoi produttori una star assoluta come Leonardo Di Caprio, ed in grado di accaparrarsi tra gli altri un divo sulla cresta dell'onda come Ben Affleck, consacrato dal successo personale ottenuto nell'ultima edizione degli Oscar ("Argo" è stato premiato tra l'altro come miglior film) e artefice di una resurrezione artistica che ribadisce, se mai ce ne fosse bisogno, le possibilità intrinseche del sogno americano. Le perplessità non nascono dal basso cabotaggio produttivo di un film che strizza l'occhio al genere, infilandosi nelle convenzioni e nei codici di una classica crime story, con la scalata sociale del protagonista ad innescare una spirale di violenza e sensi di colpa. D'altra parte fin dalle origini il genere in questione scaturiva dalla necessità di organizzare uno spettacolo efficace senza il bisogno di grossi investimenti finanziari. Nel caso di "Runner Runner" a non funzionare, prima ancora di entrare nei dettagli è la mancanza d'empatia tra gli attori principali ed i ruoli a loro assegnati. Il copione prevedeva Justin Timberlake nella parte di Richie, studente di belle speranze condotto sulla strada della perdizione dal tentativo di procurarsi i soldi per pagare la retta universitaria, mentre per Affleck si trattava di indossare i panni del diavolo tentatore nascosto dietro i modi compassati ma letali di Ivan Block, magnate delle scommesse on line costretto ad organizzare il suo impero in Costarica per sfuggire alle maglie della giustizia americana che lo ritiene un lestofante. A farli incontrare una scommessa finita male, e la certezza di Richie di essere stato raggirato dal dispositivo messo a punto da Block.

 

Fino a quando si tratta di delineare gli aspetti più convenzionali e meno sorprendenti dei rispettivi tipi umani, Timberlake riesce almeno in parte a cavarsela. Con la faccia da bravo ragazzo e la sensazione di non perdere mai la calma l'attore non fatica ad entrare nella dimensione austera e composta dell'università di Princeton da cui la nostra prende le mosse. Per Affleck al contrario si fa subito dura quando l'introduzione ce lo mostra in atteggiamenti da padrino, all'interno di una sauna e ripreso di spalle, intento a blandire due politici corrotti. Un vantaggio che Timberlake si impegna a pareggiare per mancanza di carisma, nel momento in cui opportunamente sedotto (un po di colpa ce l'ha anche una ragazza che ha il corpo di Gemma Arterton più statuaria che mai) ed entrato nella scuderia di Block, si ritrova invischiato in una vicenda di intrighi e corruzione, tra le minacce della polizia che lo vorrebbe pronto a collaborare per incastrare il suo mentore, e l'ambiguità di Block, costantemente impegnato a manipolare la versione dei fatti. Insomma una specie di tragedia shakesperiana, simile nella tenzone tra allievo e pigmalione a quella appena vista ne "Il potere dei soldi" di Richard Luketic, con tanto di figura paterna sfruttata in chiave psicanalitica per giustificare il sacrificio, reale e figurato, delle figure dominanti. Ma nel doppio gioco che il film mette in piedi ed a cui fanno da contorno i sussulti passionali della bellona di turno e le comparsate da cane sciolto dello sbirro di Anthony Mackie, a mancare è il contributo di una scrittura senza sfumature e piena dl luoghi comuni - basterebbe vedere con quale paternalismo viene trattata la scoperta delle attività illegali praticate da Richie all'interno dell'università, o la velocità con cui il personaggio di Gemma Arterton si innamora del protagonista- capace di rasentare il ridicolo nella scena in cui per costruire l'indispensabilità di Richie nei confronti di Block fa sembrare machiavellico il raggiro orchestrato dal ragazzo per far capitolare uno scomodo rivale, con un offerta sessuale che avrebbe insospettito anche il più ingenuo degli uomini e che invece viene accettata dall'uomo con assoluta nonchalance. Soluzione di una banalità sconcertante che Block accoglie però con un tripudio di lodi e congratulazioni. E diciamo noi tra il totale disimpegno degli spettatori, a quel punto definitivamente convinti sul velleitarismo dell'intera operazione. E se per Timberlake il cinema continua ad essere un passatempo dagli impegni musicali, rimane inspiegabile il passo falso di Affleck, in predicato di interpretare il personaggio di Bruce Wayne nel prossimo film sull'uomo pipistrello, e quindi bisognoso di una credibilità attoriale che "Runner Runner" rischia di far crollare ai minimi storici. 
(pubblicato su ondacinema.it)

domenica, ottobre 27, 2013

DOWN IN THE VALLEY


"Down in the valley"/id.
di: D.Jacobson
con: con: E.Norton, D.Morse, E.R.Wood, R.Caulkin, B.Dern
- USA 2005 -
Drammatico - 115 min

Vivere oggi significa anche - se non soprattutto - misurarsi con la solitudine e con un'indefinita eppure persistente aura di follia che circonda persone e cose. "Down in the valley" - presentato al 58mo Festival di Cannes nella sezione 'Un certain regard' - racconta, contrapponendoli fino a farli deflagrare, il senso di abbandono e quel tanto di sconsideratezza presenti in due uomini qualunque: il primo, rassegnato a contenerli entrambe servendosi dello stoicismo assorbito in anni di permanenza sotto le armi, e puntando sulla famiglia per quanto la stessa produca tutto tranne che un equilibrio stabile; il secondo, testardamente e "ingenuamente" convinto che l'orologio del mondo possa ancora essere caricato all'indietro o perlomeno bloccato su un presente il meno conflittuale possibile, in cui l'amore sia in grado di fare davvero argine a tutto. Felice, allora - in tal chiave antagonistica - la scelta d'inserire la vicenda entro una cornice "western" (quella di un'aspra e selvatica San Fernando Valley, complice nel riverberare le suggestioni del genere filtrate nella contemporaneità sotto forma di sfida al paesaggio circostante sfigurato dagli eccessi irrefrenabili della Modernità, da un lato, e resa dei conti con un "Io" lacerato dalla desolazione e dall'irrequietezza, dall'altro), ossia quanto di più americano, al di la' delle mode, struggente, foriero di contraddizioni e disastri, si possa immaginare.

Un cow-boy fuori tempo massimo - passato oscuro e presente improbabile - (un Norton sempre puntuale ma su cui con altrettanta sollecitudine si addensano le ombre di quel manierismo d'alta scuola che ha appesantito molte carriere, non solo hollywoodiane) s'innamora ricambiato di una ragazzina difficile (la E.R.Wood di "Thirteen", pelle bianchissima, occhi assassini e umore quasi sempre sotto i tacchi) e al tempo prova ad educare da par suo il fratello minore di lei, bambino senza madre, taciturno ma vigile, condannato a crescere in fretta (un altro prodotto della nidiata Caulkin, questo - Rory, nel caso - piuttosto convincente). Le cose filano fin quando l'intervento del padre (D.Morse in un riuscito concentrato di forza e impotenza), la volubilità della ragazzina e alcune derive anticonformiste del cow-boy non collidono tra loro, preparando il campo all'inevitabile tragedia. Girato con mestiere e mano sciolta, tra romanzo di formazione e incursioni nel melodramma, immerso in una bellissima luce diffusa - morbida e "afflitta" - che esalta ma "allontana" i paesaggi e i corpi, come se tutto fosse già avvenuto chissà quante volte nello stesso penoso modo e fosse destinato a ripetersi in un eterno ritorno senza scampo, il film tratteggia i personaggi - in specie il cow-boy e la ragazzina - mentre provano a sottrarsi ad una realtà uniforme di villette prefabbricate, mobilio dozzinale, "highways" intasate e false scappatoie, seguendo il percorso casuale e gratuito dei ribelli "innocenti" della "Rabbia giovane" di Malick (non a caso il nome, benché falso, usato da Norton e' Carruthers, lo stesso di M.Sheen nell'opera di trenta e passa anni prima) più che le ipotetiche gesta fin troppo esemplari e maldestramente assertive di innumerevoli eroi problematici/negativi che il cinema americano ha sfornato almeno da Dean in poi.

Si amano teneramente, i due; si scambiano promesse impossibili. Lui, alle strette, s'inventa una fuga insensata. Lei e' allettata ma recalcitra. Si dividono, si tormentano: non sanno cosa fare. In mezzo, il fratello li osserva e nel silenzio tratteggia i confini della propria futura emarginazione psicologica e morale. Di lato, il padre - certo adesso che i pochi affetti che possiede, per quanto controversi, siano l'unico mezzo per tornare a sperare - decide di finirla con le intrusioni di un "pazzo", oramai sempre più simile agli spostati violenti loro malgrado di molte storie di McCarthy. Così - il linguaggio sempre asciutto, disadorno - ecco che il cow- boy (nella sequenza più delicata e "assurda" del film), asseconda l'inerzia cieca di un istante e innesca il caos, un caos che, coerente alle premesse, non ha niente d'imprevisto o d'illogico ma s'impone senza sforzo come uno dei tanti squarci possibili che possono aprirsi su qualcosa di ben più profondo e definitivo. Sorvolando su alcune cadute di tono (la scena al limite del caricaturale in cui Norton ricalca il delirio solipsistico del De Niro di "Taxi Driver"), certi momenti telefonati (l'anticipazione della resa dei conti sul set di un film western), "Down in the valley" mantiene saldo dall'inizio alla fine il suo nucleo amaro e malinconico fatto di romanticismo e fatalismo, il suo approccio sincero e non conciliante all'avventura umana, il suo tono di elegia dimessa scientemente votata al fallimento.

Da groppo alla gola la colonna sonora di Peter Salett.

TFK

giovedì, ottobre 24, 2013

Film in sala da Giovedì 24 Ottobre


La Vita di Adele
LA VIE D'ADELE
di Abdellatif Kechiche
con Léa Seydoux, Adèle Exarchopoulos
2013 FRA - 179 min - Drammatico

Cani sciolti
TWO GUNS
di Baltazar Kormakur
con Mark Wahlberg, Denzel Washington, James Marsden, Bill Paxton
2013 USA - 109 min - Azione/Poliziesco

Il Quinto Potere
THE FIFTH ESTATE
di Bill Condon
con Benedict Cumberbatch, Carice van Houten,
Daniel Bruehl, Stanley Tucci
2013 USA - 129 min - Drammatico

RUNNER, RUNNER
di Brad Furman
con Ben Affleck, Gemma Arterton, Justin Timberlake
2013 USA - 91 min - Drammatico/Thriller

DARK SKIES - Oscure Presenze
di Scott Stewart
con Keri Russell, Dakota Goyo, Josh Hamilton, J.K. Simmons
2013 USA - 97 min - Horror

OH BOY - Un Caffé a Berlino
di Jan Ole Gerster
con Tom Schilling, Friederike Kempter,
Marc Hosemann, Katharina Schuttler
2012 GER - 83 min - Commedia

NOI, ZAGOR
di Riccardo Jacopino
2013 ITA - Documentario

Cani Sciolti

Cani Sciolti
di Baltasar Kormakur
con Denzel Washington, Mark Whalberg, Paula Patton
genere, thriller, drammatico
durata, 109
 

Ci sono diversi modi di aprire un festival. Sarà quindi per alleggerire la formalità di un protocollo necessariamente affollato da presentazioni, ringraziamenti e auspici beneauguranti che l'apertura delle danze dell'ultimo Locarno sia stata affidata a un film come "Cani sciolti" ("2 Guns"), fumettone americano diretto da un regista islandese (Baltasar Kormakur, dopo "Contraband" alla sua seconda regia americana) e ispirato all'immancabile graphic novel. Il punto centrale del film, quello per cui vale la pena comprare il biglietto e anche sfidare l'acquazzone che ha complicato non poco la proiezione serale in Piazza Grande, è la presenza di due divi dello star system come Denzel Washington e Mark Wahlberg, qui nel ruolo di due agenti sotto copertura, Bobby/Washington agente della DEA, e Stig/Whalberg appartenente all'intelligence della Marina, costretti a collaborare, seppur di malavoglia, per salvarsi dall'ordalia di manigoldi che vorrebbe far loro la pelle ed impossessarsi dei milioni di dollari frutto di una rapina che i due hanno organizzato per provocare la reazione del cartello della droga, in cui sotto mentite spoglie, ed all'insaputa uno dell'altro, sono riusciti ad infiltrarsi.

 

Incastrati in una trama ad orologeria, tanto scontata nella proposizione di un soggetto che strizza l'occhio all'amicizia virile ed in generale ad un superomismo espresso di puro muscolo, quanto puntuale nella costruzione delle situazioni che permettono al film di mantenersi in costante progressione, i due attori si prestano con professionalità e verosimiglianza ai meccanismi del buddy movie, genere a cui "Cani sciolti" appartiene di diritto, adeguando la propria performance alle necessità di una recitazione dinamica, costruita come vuole il genere sulla continua oscillazione tra prestazione fisica e rispetto dei tempi comici. Una puzzle di possibilità attoriali che Kormakur trasforma in una danza tribale, scandita da un repertorio sonoro e visuale all'insegna della potenza e del machismo, con possibilità balistiche, esplosioni ed inseguimenti che riescono però preservare la caratterizzazione dei personaggi, ed in particolare il continuo scambio di battute e le schermaglie che alimentano il rapporto tra i due bad guys.

 

Così accanto a una serie continua di smargiassate e a frasi da fumetto del tipo "Conosci il detto, non rapinare mai una banca vicino alla caffetteria che fa le ciambelle più buone della zona", "Cani sciolti" riesce a far convivere estetica da blockbuster e pochade di alta classe, con Washington e Wahlberg perfettamente amalgamati nel dar vita ai rispettivi understatement. Abituati a frequentare ruoli di questo tipo, ma quasi sempre saturi di una drammaticità a forti tinte, i due attori dimostrano, se mai c'è ne fosse bisogno, una versatilità che il cinema fatica a sfruttare (ma Wahlberg dopo il successo di "Ted" pare aver trovato una nuova dimensione) e che qui invece emerge in una commistione di solidità e voglia di non prendersi troppo sul serio. Girato con una regia robusta e sporca, il film ed il suo regista sono bravi a far coincidere la dimensione da frontiera di un paesaggio da film western, con la predisposizione interiore delle figure che lo attraversano. In questo modo la natura selvaggia ed asciutta della prateria americana, le sue strade dimenticate ed assolate, ed il predominio degli elementi naturali su quelli architettonici - la luce soprattutto, accecante o tenebrosa a secondo dei casi - diventano lo specchio d'individualità, quelle dei protagonisti ma anche di chi gli sta attorno (il boss della droga di Edward James Olmos ma anche il perfido agente della Cia del redivivo Bill Paxton) abituate a ragionare con meccanismi di causa effetto che trovano sfogo in un istinto di morte perpetrato ad oltranza. E se il messaggio del film non è dei più rassicuranti, con la rappresentazione di un mondo endemicamente aggredito dalla violenza e dalla corruzione - dalla Cia alla Marina nessuno è immune al suo retaggio- rimane la speranza d'amicizia e di condivisione che il film ci lascia, con Bobby e Stig che si allontano dall'ennesimo massacro sostenendosi uno con l'altro, in una atmosfera di totale e reciproca condivisione.
(ondacinema.it/speciale 66 Festival Cinema di Locarno)

La prima neve

La prima neve
di Daniele Segre
con Jean-Christophe Folly, Matteo Marchel, Anita Caprioli, Peter Mitterutzner, Giuseppe Battiston
Italia 2013
genere, drammatico
durata,105

 
Punto di partenza dell’epifania cinematografica, la realtà è oggetto di sollecitazioni che la possibilità tecnologica ha reso sempre più frequenti ed onnicomprensive, con tecniche di ripresa che alla pari di manifestazioni sciamaniche sembrano provenire da un osservatore invisibile ed ubiquo. Una delle conseguenze più evidenti è quella di un immersione, nei personaggi e nei fatti, capace di rompere la membrana sottile che costituisce la linea di demarcazione tra sguardo ed oggettività. Succede a volte che il regista si dimentichi del suo ruolo di demiurgo per confondersi con la materia del suo film. Una visione dall'interno, e verso l'interno di uomini e cose che lascia esterrefatti, inducendo chi guarda ad una presa di coscienza continua per evitare di trasformarsi nell'immagine dell'esistenza altrui. Il cinema diventa allora un problema di distanze che c'entra molto con la sensibilità del regista, responsabile di decidere qual e il punto in cui l'obiettivo deve smettere di possedere le storie per lasciarle vivere al di fuori di lui.

Rispetto all'argomento in questione "La prima neve" di Andrea Segre offre più di uno spunto per il fatto di essere diretto da un'artista proveniente dal documentario, e quindi abituato a camminare sul filo del rasoio che separa la realtà dalla sua rappresentazione. In questo caso a fronteggiarsi si trovano da una parte il paesaggio e la natura della valle dei Mocheni, in Trentino, intessuta dalle abitudini di un quotidiano che di recente ha dovuto confrontarsi con il fenomeno dell'immigrazione, mentre dall'altra c'è la voglia di raccontare un incrocio di solitudini e di dolore rappresentato dal rapporto d'amicizia tra Dani, fuggito dal Togo attraverso un viaggio che gli ha tolto la moglie e l'ha lasciato con la figlia neonata, e Michele, adolescente alle prese con un quotidiano segnato dalla morte del padre. In altre parole si trattava d'armonizzare "sopralluogo" e romanzo, ricerca antropologica ed ispirazione creativa, verità e finzione.

Partendo dalla condivisione di un lutto che lacera e fa soffrire Segre costruisce una favola moderna, tenera ed insieme drammatica, che utilizza l'archetipo - il gigante ed il bambino raffigurati nell'eterogeneità fisica di Dani e Michele, ma anche la paura, la rabbia ed il senso di morte, stati d'animo che il film materializza mediante la potenza evocativa del sublime naturale dell'ambiente -  ma anche la cronaca - attraverso il rapporto tra Dani ed i suoi connazionali veniamo a conoscenza delle vicissitudini della piccola comunità d'immigrati ospitata nel centro di accoglienza del paese - per descrivere un percorso di salvezza che si colora di sfumature e di silenzi. A fargli da contorno una serie di figure scolpite nel solco di un'emozione trattenuta e pudica come quella della madre di Michele interpretata da una rarefatta Anita Caprioli, e del nonno presso cui Dani andrà a lavorare, testimoni impotenti di quella condizione.

Segre è perfetto nel depotenziare la tecnica di solidi professionisti come Giuseppe Battiston, Anita Caprioli e di Jean Christophe Folly (Dani), uniformandola alla spontaneità della prima volta di Matteo Marchel, perfetto nei "400 colpi" di Michele. Così come funziona l'integrazione tra la dimensione del reale e quella della finzione. A far calare le quotazioni è invece il desiderio di inquadrare il particolare della storia su un pianod’universalità che il film avrebbe già, e che viene riproposto quando chiede a Dani di tenere alta la bandiera degli umiliati ed offesi, con l'affermazione della propria condizione di profugo che sembra dettata più che altro dal desiderio di solidarizzare in maniera evidente con il destino del personaggio.  Sono passaggi di breve durata ma resi con una drammaturgia che fa sentire di colpo la sua presenza. La sensazione è allora quella di un’invasione di campo che interrompe la magia creata da quella giusta distanza di cui si parlava in principio, e che Segre prometteva di mantenere fino in fondo. Ci si distrae con movimenti che non sanno più di scoperta ma che si muovono nella superficie del conosciuto, come succede per l’inversione di tendenza rappresentata dallo zio di Michele (Battiston che aspettiamo in un ruolo di prima fila),emblema di quell’Italia costretta a pensarsi di nuovo migrante per riuscire a sbarcare il lunario. Rimane l’eccezionalità di un’amicizia insolita e la virtù di un film che assegnando alla diversità – quella di Dani- una funzione catartica e diremo quasi salvifica, sancisce in maniera profonda il diritto all’uguaglianza ed alla pari dignità di uomini e donne. Sotto questo punto di vista la favola di Segre merita attenzione e rispetto.  

mercoledì, ottobre 23, 2013

The Bling Ring

 Siamo lieti di accogliere Antonio Romagnoli che da oggi inizia la sua collaborazione con il blog. Se son rose fioriranno e senza perdere tempo iniziamo a dargli spazio.

The Bling Ring
di Sofia Coppola
con Emma Watson, Leslie Mann, Taissa Farmiga, Erin Daniels
Usa 2013
genere, drammatico
durata, 95' 

Alcuni adolescenti di Hollywood, nonostante il benestare dilagante, sono alla costante ricerca di emozioni e trasgressioni, e arrivano ad irrompere nelle ville di Vip quali Paris Hilton e Orlando Bloom, per collezionare un bottino di quasi tre milioni di dollari.
Sofia Coppola usa una storia vera quanto stravagante, pubblicata da Vanity Fair, per gettare il suo ormai consueto sguardo sull'adolescenza. Ma questa volta sorprende, non scivola mai in introspezioni esasperate, sostiene sempre un buon ritmo e non è mai noioso. Calzante la scenografia composta da night club privati, infinite collezioni di scarpe e gioielli e i boulevard californiani. Credibilissimo il lavoro del cast, in particolare di Emma Watson, che continua a confermare di essersi sganciata dal ruolo che l'aveva resa celebre fra streghe e maghetti (a differenza del suo collega Daniel Radcliffe). A rendere ancor più inaspettatamente piacevole la visione è lo sguardo totalmente obbiettivo  della regista, con una telecamera che non è giudice ma spia, posta spesso in lontananza o nascosta dietro angoli con oggetti sfocati in primo piano.
Ed era forse questo l'unico modo di mettere su pellicola una storia che rispecchia tristemente l'inspiegabile malessere giovanile, un mondo costantemente attratto dal superfluo e dal vacuo, che va perdendosi tra borse griffate, feste, cocaina e quel mondo virtuale piacevolmente ingannevole. Le stesse dichiarazioni dei giovani colpevoli, rilasciate dopo essere stati presi, sono metafora indotta del flusso di incoscienza che li travolge come se nulla fosse. Il lavoro della regista sembra essere un docu-fiction ben congegnato dove il sogno americano si  è spinto troppo oltre, e Sofia Coppola ce lo mostra con discrezione e amoralità, lasciando trarre a chi vede le dovute riflessioni.
di Antonio Romagnoli

lunedì, ottobre 21, 2013

Una piccola impresa meridionale

Una piccola impresa meridionale
di Rocco Papaleo
con Rocco Papaleo, Riccardo Scamarcio, Barbora Bobulova, Sarah Felberbaum, Claudia Potenza
Italia, 2013
genere, commedia
durata, 103' 

Come uno swing il cinema di Rocco Papaleo sembra nascere da un bisogno che va oltre la coerenza dell'impianto, procedendo per accumulazioni successive, quasi sempre scaturire da una sensazione o da un particolare stato d'animo. Che si tratti di raggiungere un luogo geografico come accadeva al gruppo d'amici in viaggio verso il festival in cui devono suonare ("Basilicata Coast to Coat", 2010) oppure di ricostruire uno spazio esistenziale ormai logoro nel quale si trova accomunata l'umanità di questo "Una piccola impresa meridionale" a prevalere non è mai la precisione dei fatti, o la complessità dell'intreccio bensì il mood che Papaleo riesce a trasmettere attraverso una serie di variazioni che vivono e prendono il ritmo da un motivo musicale. Un'ispirazione che nel film d'esordio si armonizzava con la necessità di costruire lo spartito autobiografico dei protagonisti, tutti quanti, nessuno escluso, appassionati di note e parole. Di tutt'altra fattura invece quella che scorre nelle vene della storia in questione, organizzata attorno al faro di proprietà della famiglia di Costantino, prete che ha rinunciato alla tonaca per un illusione d'amore e ora relegato per motivi di opportunità in quell'insolito eremo. Fatiscente ed abbandonato il vecchio rudere diventa il posto ideale in cui confessare e smaltire delusioni e fallimenti che altrove non sarebbero accettati. Per metterlo a posto ci vorrà la fantasia e lo spirito di sacrificio di una tribù di personaggi eccentrici, stravaganti ed un pò sgangherati a cui Costantino darà asilo nel corso del suo soggiorno. La ricostruzione materiale del manufatto finira' per coincidere con quella interiore della simpatica manovalanza.

 
Se lo spunto iniziale, quello che pone i protagonisti nella condizione di mettersi in discussione attraverso la convivenza forzata fornisce da solo il carico di suggestioni e di riferimenti alla nostra contemporaneità - la casa da ristrutturare e l'impegno di soddisfare collettivamente quella necessità sembra da una parte la metafora di un paese in rovina ed allo stesso tempo l'indicazione di una possibile via d'uscita- "Una piccola impresa meridionale" sulla scia del film precedente continua ad essere la rappresentazione di un mondo personale ed insieme ideale che risponde quasi in tutto al gusto ed alle passioni di chi ne è l'autore. Una piccola anarchia conquistata dopo anni di gavetta e ruoli laterali che si riversa nell'assoluto protagonismo del regista e nella libertà creativa con cui mette insieme il suo puzzle esistenziale: dalla musica Jazz, avamposto di una passione che avevamo imparato a conoscere, e che ritorna struggente ma anche buffa nel personaggio di Arturo il cognato di Costantino (Riccardo Scamarcio in un ruolo che si fa beffa della icona di sex symbol) marito abbandonato e musicista frustato da ambizioni che non si sono mai realizzate, alla meridionalità più viscerale, espressa nelle dinamiche familiari dominate dalla presenza di genitori rispettati ed un pò temuti, ma anche nell'importanza del decoro sociale che fa dire a mamma Stella "il paese non deve sapere" costringendo Costantino a trasferirsi nel faro per salvaguardare l'onore famigliare. 
Ma c'è soprattutto l'attenzione per le fragilità umane che un mestiere come quello dell'attore impara a riconoscere, e che Papaleo diluisce nei caratteri dei personaggi, persino in quello della disinibita Magnolia (Barbora Bobulova in versione nude look), pragmatica e disillusa ma alla fine vinta dalle ragioni del cuore. Una miscela a base di sound, poesia e buon umore che funziona fino a quando Papaleo, forse per dimostrare la sua bravura, o per la voglia di superarsi decide di contaminare la propria ispirazione con temi da dibattito come quello sulla religiosità che il personaggio di Costantino con i suoi comportamenti eterodossi ma caritatevoli esorta ad essere meno formale e più sensibile ai bisogni dei fedeli, e sul diritto di amare al di là di ogni discriminazione, come dimostrano le vicissitudini che incontrerà Rosa Maria nel corso del suo percorso sentimentale. 

Una nobiltà d'animo che pesa sul film obbligandolo a rispettare certe tappe obbligatorie (la scena del matrimonio con gli invitati che abbandonano la cerimonia disgustati è forse l'apice di questa tendenza) che portano il film nell'alveo di quel conformismo corretto ma di maniera da cui invece Papaleo voleva stare alla larga. Incapace di tenere insieme la sua doppia natura, "Una piccola impresa meridionale" perde ritmo e compattezza, spezzato nella seconda parte da inserti un po casuali e realizzati all'insegna di un buonismo un pò facile, com'è quello relativo all'istruzione scolastica della figlia degli operai che lavorano alla manutenzione del faro, oppure della sequenza che ci "regala" la riconoscenza di Magnolia nei confronti di chi l'ha aiutata a superare un momento difficile. E se la confezione è diventata più elegante nelle carrellate e nei dolly che inglobano i personaggi nella magnificenza dello scenario naturale, e nonostante il metacinema che si affaccia in maniera circolare, all'inizio ed alla fine, attraverso la soggettiva di occhi finalmente liberi di vedere - un allusione al potere catartico e rivelatore del mezzo cinematografico- a mancare è la ruvidità umorale e sghemba dello stesso Papaleo, imbrigliata dalle portate di un menù troppo ricco. Nel tabellino delle cose riuscite la chimica di interpreti perfettamente amalgamati ed un intrattenimento certamente cool. Non poco per una commedia italiana. 
(pubblicato su ondacinema.it)

sabato, ottobre 19, 2013

Film Telecomandati: THE DESCENT - Discesa nelle Tenebre


di: N. Marshall
con: S.MacDonald, N.Mendoza, A.Reid, S.Mulder, M.Buring, N-J Noone
- GB 2005 -
Horror - 100 min

L'orrore e' uno stato d'animo primario e imbattersi in lui e' un po' come fare valutazioni sui fenomeni sismici. Ovvero: e' consentito un qualche margine di manovra in merito al "quando"; e' esclusa qualunque possibilità riguardo al "se". Di più: le infinite sfaccettature della psicologia umana permettono all'orrore di esprimersi secondo multiformi schemi narrativi che trovano nel Cinema il più ideale dei "compagni di giochi". Non c'è, infatti, campo di applicazione che possa dirsi esente dalla chiave/versione orrorifica della sua rappresentazione e a cui il Cinema non strizzi di continuo l'occhio fornendo materiali/utensili del mestiere sempre nuovi e stimolanti. Questo per dire - compresi gli esiti più paradossali, sgangherati o genericamente "trash" - quanto e come l'"horror" sia molto di più di un "genere" letterario o cinematografico ma, appunto, un "comune sentire oscuro", un presentimento spiacevole attorno al sospetto che la realtà, o ciò che definiamo tale, ed in specie quella più "ovvia", più rassicurante - il quotidiano - preveda pieghe e recessi informi, pre o post umani, la cui innegabile capacita' di attrazione/repulsione e' pari solo al monito di quel tale che la sapeva lunga per cui, all'incirca, "quando scruti a lungo l'abisso, l'abisso scruta dentro di te" (F.Nietzsche, "Al di la' del bene e del male").

E letteralmente nell'abisso rovista e ne viene fagocitata la compagine muliebre (a nome dell'umanità intera) di "The descent"/"Discesa nelle tenebre" (2005) del britannico Neil Marshall, autore di altre pellicole interessanti, tipo "Dog soldiers" (2002), "Doomsday" (2008) e "Centurion" (2009). L'opera, finanziata con un ammontare risicato - qualche milione di sterline - genitrice di un seguito (inedito da noi) e un ipotetico terzo capitolo, risulta nel suo complesso vincente perché in grado di dire qualcosa di coinvolgente sulla paura - e sui comportamenti sovente sconcertanti da essa innescati - scorticando le (spesso) comode alternative sedimentatesi con gli anni sul "genere" nel tentativo di reinventarlo per abradere - non solo metaforicamente - la carne viva degli eventi, dei personaggi e delle implicazioni messi in scena. Il solo fatto, ad esempio, non tanto di collocare il motore dell'azione entro la cornice monumentale e silenziosa, arcana e sfuggente degli spazi selvaggi e remoti di una zona montuosa (la catena dei Catskill negli Stati Uniti - sistema appalachiano settentrionale - evocata nella vicenda, sebbene gran parte delle riprese siano state effettuate sul suolo britannico), quanto di chiamare quegli stessi scenari ad interagire scompaginando, confondendo, inibendo, il comportamento dell'elemento umano, demolendo il luogo comune inerente le "cartoline d'ambiente", gli "sfondi rifugio", genericamente la Natura come approdo consolatorio al termine di una catena di eventi spaventosi, la dice lunga sull'intuizione di Marshall di estrarre dalla tasca e scagliare nel torbido specchio d'acqua dell'"horror" un paio di ciottoli dal profilo tagliente.

Per scendere a patti con un grande dolore, un anno può bastare. Forse. Tra i succedanei più a portata di mano, comunque, c'è l'immersione nella "pace" e nei colori del paesaggio, meglio ancora se tutto questo si riesce a condividerlo con degli amici. Tale e', più o meno, il ragionamento della protagonista Sarah/MacDonald, allorché accetta l'invito della coetanea Juno/Mendoza (a cui si uniranno poi altre ragazze: Beth/Reid, Rebecca/Mulder, Holly/Noone e Sam/Buring, a comporre un gruppetto di sei unita') a partecipare ad una esplorazione speleologica. Le circostanze sembrano filare fin quando la spavalderia indotta dall'eccitazione, un incidente improvviso, una menzogna, consegnano il drappello al cuore della montagna, mentre, man mano che ci si addentra, comincia a materializzarsi la presenza di "qualcosa"... Marshall fa crescere la tensione alternando il ritmo delle scene tra brevi stasi "preparatorie" e improvvise accelerazioni, stringendo via via le inquadrature ad isolare efficacissimi primi piani delle ragazze stravolte dal terrore quanto ricoperte di sangue, indi privilegiando i colori brillanti a contrasto col buio circostante e adattando dialoghi sulla linea di un crescente "distanziamento" che dai battibecchi iniziali inerenti le scelte da prendere per risolvere il "puzzle" della segregazione forzata, passando attraverso la rivelazione di episodi del passato che svelano reciproci dettagli inconfessabili, approda ad una esplicita e violenta ostilità verbale che troverà immediata attuazione nei comportamenti. Altro asso nella manica di "The descent" e' la capacita di trattare figure archetipiche - il buio (luogo/contenitore classico della paura); la "discesa" (itinerario a ritroso dentro se stessi dal cui dipanarsi, spesso e volentieri, emerge il peggio); la grotta/ventre materno (incubatrice dalla quale non necessariamente scaturisce qualcosa di meraviglioso); la solidarietà/ostilità di gruppo (allegoria in scala dei rapporti interni alle comunità umane); la costrizione coatta (anelito insopprimibile di liberazione, esaltazione dello spirito autoconservativo); l'"Altro" (secrezione del Male che e' in noi e che la Natura ci ritorce contro) - rifiutando l'impianto simbolico e filosofico di tanto Cinema affine, per puntare senza esitazioni su una loro declinazione immediata, "fisica", annotando cioè di continuo le trasformazioni che un frangente estremo imprime sui corpi inducendoli al riflesso scomposto, alla resa, allo scatto brutale e ferino, e riversare, infine, l'insieme dell'intollerabilità di questa condizione sulla comitiva femminile - protagonista dall'inizio alla fine - arricchendo, di fatto, l'intera operazione, di una straordinaria forza reattiva primigenia che lambisce/si fonde/stride incessantemente con l'energia altrettanto arcaica e generatrice della Natura, mater/matrigna per definizione.

Film crudele nel senso etimologico del termine, "The descent" si offre come irreconciliato "meccanismo ad eliminazione" reso ancor più inquietante dal contesto naturale e avventuroso in cui si consuma; resoconto di un orrore che non può essere esorcizzato ma pretende e ottiene di essere vissuto fino in fondo. E se tra i suoi brandelli, magari, alcuni personaggi riescono a scoprire aspetti di se' ancora ignoti, non e' per nulla detto che da esso possano anche risorgere. (Nota: per "gustare" la sinistra coerenza dell'opera di Marshall, occorre confidare nella messa in onda della versione circolata fuori dal mercato USA, in parte rimaneggiata e "addolcita" nel finale).

["The descent". Sabato 19/10, RAI 4, ore 23 ca.]

TFK

venerdì, ottobre 18, 2013

Killing Your Darlings

Killing Your Darlings
di John Krokidas
Usa, 2013
genere, drammatico
durata, 143'
E' passato più di un decennio dall'uscita di "L'ultima  volta che mi sono sucidato" di Stephen Kay, eppure se rapportiamo il numero di giorni trascorsi da quel momento al grado di consapevolezza del cinema americano rispetto ad uno dei suoi movimenti artistici e letterari più importanti sembra quasi impossibile poterlo affermare. Il film di Kay raccontando seppur lateralmente la beat generation attraverso il dialogo confessione tra Neal Cassidy e Jack Kerouac provava a dire la sua a proposito dei cosiddetti "artisti maledetti". Alla complessità della trasposizione dovuta alle caratteristiche di una vita artistica e personale troppo scandalosa per un paese puritano come l'America si sommava la difficoltà di finanziare riduzioni cinematografiche di dubbia commercialità. Basti pensare al lungometraggio tratto da "The Naked Lunch"  del mitico William Burroughs, più volte sul punto di essere filmato (Mick Jagger tento invano di portarlo sullo schermo) ed infine realizzato dopo lungo travaglio da David Cronemberg in quella che resta ad oggi la testimonianza più valida sul significato di quel periodo, unico film capace di andare oltre l'etichetta della diversità per scandagliare i territori sensoriali di quella ribellione.
Ma chi erano in realtà questi scrittori così temuti dall'establishment americano, e quali erano i motivi della rottura culturale di cui si fecero portatori. "Killing Your Darlings" di John Krokidas cerca di rispondere alla domanda nel modo più ovvio, e cioè tornando alle origini del loro incontro in quella Columbia University che fu in qualche modo artefice di una presa di coscienza che si tradusse nell'affermazione di uno stile di vita ed una concezione artistica che trasgrediva le regole ed il sentire comune. Collocato nella New York dei primi anni 40, proprio a ridosso degli ultimi scampoli del secondo conflitto mondiale, il film ha come protagonista principale il giovane Allen Ginsberg in fuga dalla famiglia ed ansioso di affermare se stesso ed il proprio talento artistico. L'occasione gli viene offerta da Lucien Carr e dal sodalizio di cui è a capo: Jack Kerouak, William Burroughs ma anche  David Kammerer amante di Lucien, e con loro varie altre figure che in un modo o nell'altro consentono  alla storia di mettere in moto la dialettica e le istanze di cui il gruppo si fece promotore. Una rivoluzione che si decise sul piano della scrittura innanzitutto, rimodellata nella sua struttura interna e poi nella funzione della parola, svincolata dalle logiche grammaticali e sintattiche più convenzionali, e reinventata secondo una libertà di assonanze e d'ispirazione mai viste prima di allora. Soffocati da un sistema restrittivo e conformista Ginsberg e compagni se ne sottraggono prima di tutto con la forma della loro opera artistica. Il film ne dà qualche accenno, ed alla stessa maniera (edulcorata) da conto della tensione sessuale che si sviluppa tra i vari personaggi, poi confluita nel drammatico episodio che scompagina le file di quel consesso.
Se è vero che per gli scrittori della beat generation arte e vita furono inscindibili e che quest'ultima si colorava delle lacerazioni della prima, "Killing Your Darlings" esagera con questa certezza evitando di affondare il dito nella piaga e facendo del film una cronaca d'avventure giovanili di ambientazione studentesca, in cui tra un mood da "Attimo Fuggente"(Lucien Carr che accoglie Ginsberg declamando versi sopra il tavolo della bibblioteca tra l'imbarazzo dei presenti) ed una dialettica da teen movie, con i personaggi che mettono in scena una palestra della vita che verrà, sembra quasi di trovarsi in un episodio di un serial per ragazzi.

Derubati della loro carica eversiva e psicologicamente alla stregua di un esistenzialismo di stampo televisivo, Ginsberg, Burroughs e Kerouac si vestono di un'ordinarietà che non gli è mai appartenuta. Krokidas fa il resto con un immaginario visivo patinato ed artificiale, in cui l'imitazione prevale sul verosimile. Naturalmente irriducibile la beat generation è consegnata ad un prodotto confezionato per un pubblico generalista. Una contraddizione in termini che pesa sul film e sui suoi risultati. Daniel Radcliffe nella parte di Ginsberg sembra ancora non riuscire a liberarsi dalla dolcezza adolescenziale di Harry Potter, diventando in questo caso la misura dell'inadeguatezza dell'intera operazione.

mercoledì, ottobre 16, 2013

Film in sala da giovedì 17 ottobre 2013


Giovani Ribelli
KILL YOUR DARLINGS
di John Krokidas
con Daniel Radcliffe, Dane DeHaan, Michael C. Hall,
Elizabeth Olsen, Jennifer Jason Leigh
2013 USA - 104 min - Thriller

Two Mothers
ADORE
di Anne Fontaine
con Naomi Watts, Robin Wright, Xavier Samuel,
Ben Mendelsohn, Sophie Lowe, James Frecheville
2013 AUS/BEL/FRA - 100 min - Drammatico

ESCAPE PLAN - Fuga dall'inferno
di Mikael Håfström
con Arnold Schwarzenegger, Sylvester Stallone, James Caviezel,
Vincent D'Onofrio, Sam Neill, Vinnie Jones, 50 Cent 2013 USA - 116 min - Azione/Thriller

Cose nostre - Malavita
THE FAMILY
di Luc Besson
con Robert De Niro, Michelle Pfeiffer, Tommy Lee Jones,
2013 FRA/USA - 112 min - Drammatico/Thriller

UNA PICCOLA IMPRESA MERIDIONALE
di Rocco Papaleo
con Riccardo Scamarcio, Rocco Papaleo, Barbora Bobulova, Sarah Felberbaum
2013 ITA - 103 min - Commedia

LA PRIMA NEVE
di Andrea Segre
con Giuseppe Battiston, Anita Caprioli, Roberto Citran, Jean Christophe Folly
2013 ITA - 104 min - Drammatico

Oltre i confini del male-Insidious 2


Oltre i confini del male-Insidious 2


diretto da James Wan
con Patrick Wilson, Rose Byrne, Barbara Hershey, Lin Shaye
Usa, 2013
genere, horror, thriller
durata, 105
La carriera di James Wan sembra procedere di pari passo con l'odissea della famiglia Lambert, protagonista della saga di "Insidious", haunted house movie arrivato al secondo capitolo per raccontare le conseguenze del viaggio "nell'altrove" compiuto da Josh Lambert (Patrick Wilson, attore feticcio del regista) per liberare il figlio, esiliato in un purgatorio di anime dannate che anelano ad impadronirsi della sua anima. Una progressione quasi simbiotica che ha visto Wan incrementare le sue credenziali proporzionalmente al grado di sventura toccata in sorte agli sfortunati protagonisti di "Oltre i confini del male- Insidious 2", a cui questa volta tocca in sorte una minaccia dal volto umano ma non per questo meno insidiosa. Capitava infatti che durante il trasbordo tra la dimensione metafisica e quella reale necessaria a riportare indietro il bambino, un membro della famiglia veniva agganciato da malefiche presenze pronte a sconfinare nel nostro mondo per metterlo a soqquadro. Una premessa, peraltro proveniente dalla puntata precedente che Wan gestisce nel migliore dei modi: appena il tempo per riorganizzarsi, quel tanto che basta per far sembrare nuova una cosa già vista. Wan ci riesce spostando prospettive e punti di vista, e più importante di tutto, frammentando e distribuendo la leadership del gioco a tutte le parti in causa: non solo ai membri della famiglia Lambert, ma anche ai cosiddetti comprimari, quelli che nel primo episodio si affacciavano timidamente alla ribalta e che ora invece danno l'impressione di poter avere una loro autonomia all'interno della faccenda. Parliamo per esempio della squadra di Ghostbuster composta da un duo di detective dell'incubo più simili a Gianni e Pinotto che a Dylan Dog, impiegati da Wan come collettore di una comicità quasi slapstick, utilizzata per dar manforte al Luna Park - emotivo e visivo - che rappresenta uno dei tratti distintivi del dittico di Insidious. Ma in questo nuovo capitolo c'è spazio un pò per tutti, con approfondimenti - del personaggio di Lorraine la madre di Josh a cui spetta il compito di mettere in piedi l'indagine per scoprire le origine del male - ritorni - di Elise, la sensitiva uccisa al termine del primo episodio- e di new entry importanti come quella di Carl, collega di Elise, destinato a sostituirla anche nel fornire alla storia una coscienza/conoscenza parapsicologica e medianica. Se nel corso della carriera, e parliamo anche di opere come "The Saw" ed il più recente "The Conjuring" la matrice più evidente era stata quella della concetrazione spaziale "Oltre i confini del male" rappresenta invece un'apertura in senso contrario, con la storia che progredisce su più filoni narrativi geograficamente diversificati. Le case maledette si moltiplicano, cosi some i piani spazio temporali, con il passato che interferisce con presente ed il sogno che comunica con l'aldilà. Insomma un poutpourri che Wan è bravo a creare ed a tenere insieme con buona coerenza. Lo aiutano non solo un team di specialisti come quelli della Bloomhouse, che produce insieme ad Ore Peli (Paranormal Activity), altro nume tutelare del settore, ma anche la padronanza dei mezzi tecnici. Basta dare uno sguardo all'uso dei vari formati, con immagini sporche e digitali sullo stile del reportage e dei documentari quando si tratta di trovare il bandolo della matassa e dare forza alla verosimiglianza (la detection di Lorainne e Carl ma anche quella messa in campo dagli stralunati Ghostbusters), ed invece plastiche ed enfaticamente costruite quando la verità la si mette in scena, deformandola secondo una strategia della paura e della tensione 
Ed anche le citazioni - quella di "Psycho" (1960) introdotta fin dalla prima sequenza nella prospettiva della villa dei Lambert, inquadrata dal basso ad esaltare la sua aurea minacciosa ed anomala, oltreche l'assoluta atipicità rispetto al resto del contesto, e poi ripresa nel rapporto di subordinazione e dipendenza che intercorre tra gli emissari del maligno - quandanche presenti, lo sono in modo necessario ad un meccanismo dichiaratamente imitativo, e perciò subalterno senza infigimenti al cinema che saccheggia. James Wan è un giocoliere dello spettacolo riuscito ad entrare chissà come nella stanza dei bottoni. L'impressione è che si stia divertendo un sacco.

martedì, ottobre 15, 2013

Immaginario cinematografico: Joaquin Phoenix, tra genio e follia

Geniale ed insieme folle. Joaquin Phoenix sembra frequentare il cinema quasi per caso, eppure dopo l'annunciato ritiro dalle scene sembra tornato più agguerrito di prima. A Roma lo vedremo in anteprima nel nuovo film di Spike Jonze "Her" in cui si innamora di un voce sintetica di un sistema operativo. Per il momento godetevi la locandina, con lo sguardo di Phoenix in primo piano, più stranulato che mai.

















"Her" di Spike Jonze

lunedì, ottobre 14, 2013

Two Mothers

Two Mothers
di Anne Fontaine
con Naomi Watts, Robin Wright
Australia, Francia, 2013
genere drammatico
durata, 111'


A volte capita che la presenza di un attore o di un'attrice nel cast di un certo film sia motivo sufficiente a mettere in circolo una curiosità altrimenti destinata ad interessi differenti. Nel caso di "Two Mothers" di Anne Fontaine l'attenzione era ulteriormente stimolata da un cartellone che annunciava addirittura il privilegio di vedere all'opera due eccellenze del cinema contemporaneo come Naomi Watts, in questi giorni sugli schermi con la biografia di Lady Diana, e Robin Wright, finalmente prestata ad un ruolo da protagonista seppur in coabitazione con la più attiva collega australiana. A convincerle aveva concorso certamente la possibilità di recitare in un copione che si annunciava quantomeno scottante - per il tabù che andava a toccare ed anche per il fatto di implicare un uso del corpo emancipato da calcoli di opportunismo e convenienza - e quindi adatto a personalità forti e carismatiche come quelle delle due attrici in grado di sopportare le reticenze e le pressioni legate alla scelta di far parte di una storia che mette in primo piano una vicenda amorosa non comune: Liz (Watts) e Roz (Wright) infatti sono due amiche cresciute in una sorta di laguna blu australiana che ad un certo punto della vita si innamorano contemporaneamente l'una del figlio dell'altra. Un fatto certamente possibile ed ancor più giustificato dalla bellezza genuina e selvaggia del convivio amoroso e dalla sostanziale mancanza di impegni nei confronti di eventuali partners (Roz è agli sgoccioli di un matrimonio ormai finito, Liz è vedova) se non fosse che trattandosi della trasposizione di un libro di Doris Lessing, ed essendo il film un autentico melò, questa tendenza dapprima sensuale e poi giocosa si trasforma con i minuti in una parabola di afflizione e sensi di colpa che coinvolgerà non senza conseguenze persino le giovani fidanzate degli aitanti dongiovanni nel frattempo subentrate nel carnet ufficiale delle amanti sfortunate ed ignare.

 

Approfittando della bellezza di un paesaggio che non si distacca di molto dagli scenari da paradiso perduto utilizzati dal cinema americano come sfondo privilegiato per amori proibiti e travolgenti, Anne Fontaine è brava a far corrispondere l'ossessione amorosa che si impossessa dei protagonisti alla dimensione edenica e sospesa dell'elemento naturale che circonda ed accoglie i loro corpi discinti. Ma a lungo andare la sorpresa di quelle unioni tardive e scandalose si colora di una routine che riguarda una messinscena troppo scolastica per far sentire gli slanci ed i ripensamenti che destabilizzano l'equilibrio dei personaggi. Manca soprattutto un pensiero che rifletta sulla questione morale che il film pone in essere attraverso gli atteggiamenti e le prese di posizione espresse da Liz e Roz sull'opportunità o meno di quella liason. Al suo posto "Two Mothers" preferisce un empatia a buon mercato, stimolata da una buon numero di scene madri, oppure stuzzicata dalle pruderie vojeristiche a cui fanno finta di prestarsi le sequenze, peraltro molto caste, relative ai rendez-vous amorosi tra madri e figli. In questa maniera è inevitabile che il film della Fontaine si consegni interamente alla bravura delle sue "mothers", ma ciò non basta a salvarlo da una superficialità che lo rende sostanzialmente innocuo. Esattamente il contrario di ciò che si era prefissato.

venerdì, ottobre 11, 2013

GRAVITY


di: Alfonso Cuaron
con: Sandra Bullock, George Clooney

- USA/GB 2013 -
90 min

Che differenza passa tra la meraviglia e la suggestione? Si potrebbe dire, tirando il guinzaglio al cinismo, quella che sbircia da due lontananze - che potrebbero essere benissimo quelle che legano/separano due astronauti a spasso nello spazio - Kubrick e Cuaron. Se, infatti, in "2001: odissea nello spazio" (1968), capostipite della cosiddetta "nuova fantascienza" ma, realisticamente, spartiacque per il Cinema tutto, tirato spesso per le code di rondine del frac di questi tempi e lasciando da parte le complesse implicazioni linguistiche e filosofiche, si veniva comunque chiamati a condividere un'esperienza percettivo/sensoriale mai data prima, prolessi di qualunque "meraviglia"; nell'opera di Cuaron (regista di formazione umanistica, vedi, ad esempio, "Paradiso perduto" (1998); persona curiosa e disposta a cimentarsi in campi diversi, "Y tu mama tambien" (2001), passando per "Harry Potter e il prigioniero di Azbakan" (2003), fino al cupo "I figli degli uomini" (2006)) ci troviamo più nella condizione di colui che avendo sentito parlare della meraviglia - presunta o reale che sia (ma il film di Kubrick e' meraviglia) - cerca appigli sicuri per evocarla giocando appunto di suggestioni, cioè confidando che la meraviglia possa scaturire dalla loro semplice sommatoria. Fermo restando che qualunque paragone con lo "shining"/sguardo-che-vede-oltre del grande americano sarebbe di per se' punitivo e forse anche un po' ingeneroso, e' innegabile che "Gravity" "orbiti" intorno a coordinate immaginifiche, mnemoniche, oniriche, che il tempo - anche i tempi abissali della fantascienza - hanno finito per standardizzare, inducendo tutta una serie di reazioni automatiche nell'occhio di chi (ri)guarda, di rimandi e associazioni (possiamo, volendo, viaggiare in lungo e in largo nello "spazio" del Cinema, partendo dall'era gloriosa della conquista delle stelle di "Uomini veri" di Kaufman (1983); notare di sfuggita l'ovvia scia derivativa da "Apollo 13" di Howard (1995); "Fly me to the moon" con gli spavaldi vecchietti eastwoodiani di "Space cowboys" (2000); vorticare pericolosamente nel vuoto su uno sfondo color argilla con "Missione su Marte" di De Palma (2000) e verificare la possibilità di qualche spasmo residuale da "La moglie dell'astronauta" di Ravich (1999), e così via) che l'"esperimento" kubrickiano aveva forse non annullato del tutto ma di certo fatto invecchiare di colpo, obbligando il modo stesso di fruire il prodotto - nel caso "fantastico" - ad un lavoro impervio ma avvincente di ridefinizione e quindi di scoperta. Allo stesso modo - ma per converso - non si può negare al regista messicano lo sforzo messo in atto - tutt'altro che scontato, se diamo una semplice occhiata in giro e non limitandoci solo alla fantascienza - per armeggiare sull'equilibrio sempre instabile tra schietto slancio ad esprimere un tot di riflessione personale e le necessita' più corrive (il che non vuol dire necessariamente stupide) del cosiddetto "mainstream". "Gravity", in questo senso, e' il naturale ibrido di una proposta che solletica le aspirazioni artistiche di un autore dovendo in ogni caso fare i conti col tanto amato/odiato "gusto medio". E come tutte le opere che nascono alla luce di un siffatto compromesso, il film di Cuaron gioisce/patisce per i pregi/difetti scatenati dalla frizione continua delle sopraddette spinte: le istanze "metaforiche" da un lato, ipotetico quanto impegnativo sentiero verso la "meraviglia"; quelle spettacolari e relative all'intrattenimento dall'altro, scorciatoia aperta al transito della "suggestione".

Sinuosamente silenzioso, amniotico, per quasi tutta la sua durata, "Gravity" si apre con un impalpabile piano sequenza che accoglie tre astronauti variamente indaffarati in riparazioni, alle cui spalle si staglia, meraviglioso ed enigmatico, il "pianeta blu", sempre come in magico bilico sul precipizio nero dello spazio profondo (il "wild blue yonder" herzoghiano, dal quale un alieno invece proviene): sono immagini favolose - curate da Emmanuel Lubezki, da qualche tempo collaboratore anche di Malick - che, come si dice, "vincono senza giocare " e alle quali, per una volta, il 3D regala qualcosa o, perlomeno, nulla sottrae. Cuaron segue due uomini - un tecnico e il comandante della missione Matt Kowalsky (George Clooney) all'ultima sortita "extraterrestre", tutto preso dalla sfida di battere il record di permanenza nello spazio - il terzo dell'equipaggio essendo una donna, Sandra Bullock, ingegnere biomedico dal nome maschile, Ryan, perché "mio padre voleva un maschio", assecondando il moto di rotazione terrestre placidamente, a dire con periodica ripetizione di inquadrature e angolazioni, pur lasciando intatta la struttura dell'opera, calibrata e compatta, e insieme quello scarto, la sottile frenesia di corpi immersi in un elemento a loro non congeniale, scevro dagli impacci dovuti al peso, rarefatto, gelido.

L'imprevisto prende forma quando i russi decidono di sbarazzarsi di un vecchio satellite facendolo esplodere mettendo così in circolo masse di detriti che prendono a vorticare nella centrifuga orbitale come pericolosi proiettili... Da qui, "Gravity" avvia la sua articolata "procedura di rientro", smarrendo via via la forza e la fascinazione delle immagini di apertura, primigenie e arcane, sofisticatissime perché essenziali: l'incedere muto di un mondo vivo e colorato nell'oscurità, con una stella incandescente ma destinata a spegnersi a fargli da traino, visto dall'angolatura privilegiata della "prospettiva esterna". A dire: tutto il potenziale simbolico e paradigmatico di quelle forme, di quelle vie di fuga, di quel "nero" - lo spazio infinito come proiezione in scala dell'inconscio - che in Kubrick rimaneva tale, anzi finiva per moltiplicarsi, per risuonare in una sinfonia di allusioni, di richiami che si allargava mano mano che il film lo "inseguiva" e ne interrogava il senso, nell'opera di Cuaron, davvero come se si fosse oggetto di un'imperiosa attrazione verso il suolo, si "precipita", non solo in un contesto esclusivamente "narrativo" ma pure ordinariamente "personale" che, oscillando tra dolori mai del tutto metabolizzati, rimpianti, occasioni perdute, "seconde opportunità" e il fin troppo frequentato corollario - molto caro all'immaginaro propagandistico a stelle e strisce - pasciuto a colpi di "tieni duro", "vuoi tornare a casa o vuoi mollare ?" et., conduce la pellicola su un percorso guidato di prevedibile accumulo il quale per rivitalizzare la suggestione iniziale deve ricorrere più volte ad allegorie elementari ed "opportunistiche", spesso in sospensione sul confine insidioso tra psicoanalisi e new age (la posizione fetale; le sequenze di "rinascita" con tanto di tubazioni a scimmiottare il cordone ombelicale; la fuoriuscita dall'acqua come emersione alla vita; la "riconquista" della posizione eretta) e a scivolare, quasi in gesto di resa, su piccole incongruenze e forzature (la pioggia "statistica" di rottami lambisce sempre e non urta mai l'indomita astronauta; la stazione orbitante cinese viene raggiunta a forza di sbuffi da un estintore; la violenza dell'attrito con l'atmosfera sbriciola tutte le parti vaganti della suddetta, tranne la capsula di salvataggio della nostra eroina che, provata e sfinita, trova anche il modo di dare saggio di non comuni doti di apneista).

Sandra Bullock, nei panni della volenterosa dottoressa Stone, da uno scossone alle sue limitate capacita' espressive aderendo al personaggio con misurato mimetismo, incontestabile abnegazione (e qualche ululato di troppo). Clooney, da par suo, mostra che e' possibile prendere commiato dalla Terra come ci si alza da un tavolo di poker a fine partita in uno dei tanti "Ocean" che ne hanno allineato il personaggio al gusto di massa, ossia modulando il sarcasmo e gigioneggiando in sottrazione su un morbido tappeto di note country. Davvero meticoloso - al punto da acquisire toni struggenti - il repertorio di oggetti che formano il piccolo universo autosufficiente dell'"antiquariato del futuro": le tute spaziali sovietiche color caramello e dalle innumerevoli pieghe; la rilegatura dei protocolli operativi ad anelli di metallo a scatto; le pulsantiere dei comandi a bottoni quadrati/rettangolari scanalati; le chiusure manuali dei boccaporti delle stazioni e delle navicelle; le valvole a rubinetto che regolano i livelli di ossigeno...


TFK

mercoledì, ottobre 09, 2013

Film in sala da giovedí 10 ottobre 2013


PER ALTRI OCCHI
2013 ITA - 95 min - DOC
di Silvio Soldini, Giorgio Garini

GLORIA
2012 SPA - 110 min
di Sebastián Lelio
con Paulina García, Sergio Hernandez

OLTRE I CONFINI DEL MALE
insidious 2
2013 USA -105 min
di James Wan
con Patrick Wilson, Rose Byrne, Barbara Hershey

ASPIRANTE VEDOVO
2013 ITA - 84 min
di Massimo Venier
con Fabio De Luigi, Luciana Littizzetto, Roberto Citran, Bebo Storti

Il Ragioniere della mafia
>2013 ITA
di Federico Rizzo
con Lorenzo Flaherty, Rosalinda Celentano, Nando Irene, Luca Lionello

EMPEROR
2013 USA - 105 min
di Peter Webber
con Tommy Lee Jones, Matthew Fox, Kaori Momoi

CATTIVISSIMO ME
Despicable Me
2013 USA - 98 min
di Pierre Coffin, Chris Renaud
Baggage Claim

L'amore in valigia
2013 USA - 97 min
di David Talbert
con Paula Patton, Adam Brody

martedì, ottobre 08, 2013

Anni Felici

Anni felici
di Daniele Lucchetti
con Kim Rossi Stuart, Michela Ramazzotti
Italia,Francia 2013
genere, commedia
durata,100'



Arriva alla fine di una lunga corsa di storie e di umori questo "Anni felici", il nuovo film di Daniele Lucchetti, autobiografia romanzata di una famiglia - quella del regista - normalmente disfunzionale. Sponsorizzato dalla Sacher di Nanni Moretti produttore del suo primo film (Domani accadrà,1988) Lucchetti ha attraversato in lungo ed in largo la commedia italiana con una personalità che gli ha permesso di realizzare opere magari non sempre riuscite ("I piccoli Maestri", 1998 "Dillo con parole mie",2003) ma nel complesso originali, capaci di alzarsi alle vette surreali di "Il portaborse" (1991) e "Arriva la bufera" (1992), per poi planare con le ultime uscite su un realismo dapprima contaminato dai peccati di gioventù (Mio fratello è figlio unico, 2007) e  poi definitivamente maturato con la selezione del concorso ufficiale al festival di Cannes del 2010, ed il premio ad Elio Germano protagonista de "La nostra vita". Questo per dire di una versatilità autoriale che da sempre si esprime attraverso l'attenzione per le interpretazione attoriali e ruoli da mattatore. Questa volta toccava a Kim Rossi Stuart e Michela Ramazzotti tenere alta la bandiera della categoria per raccontare la parabola di un connubio famigliare sacrificato alle aspirazioni dell'arte ed al desiderio di libertà vissuti nello spirito appassionato ed anticonformista dei '70. A dargli anima e soprattutto corpo le figure di Guido (Stuart), artista in cerca d'affermazione e Serena (Ramazzotti), moglie ed amante sottratta ai doveri famigliari da femminismo e nuove consapevolezze. Ad accompagnare quella parabola lo sguardo dei figli Dario - alterego del regista- e Paolo, testimoni interessati degli alti e bassi di una relazione destinata a diventare il simbolo delle contraddizioni di un'epoca per l'impossibilità dei protagonisti di tenere fede sul piano pratico agli ideali della grande rivoluzione culturale proveniente dal 68. Una dicotomia che il film esprime attraverso il bisogno di appartenenza e di calore umano riflesso nei festosi convivi della famiglia di Serena a cui Guido partecipa per compensare l'affetto negatogli da una madre severa e distante, e contemporaneamente nell'egogentrismo della sua condizione di artista bisognoso d'affrancarsi da un ordinarietà che ne soffoca slanci ed aspirazioni. Stanca di subirne le conseguenze Serena incomincerà a frequentare Helke un'affascinante gallerista che l'aiuterà a considerare la sua esistenza da una prospettiva nuova ed inaspettata.
 
Tra dramma e commedia "Anni felici" si sviluppa in una dimensione privata e nel ricordo di un esperienza lontana nel tempo. Ne consegue una ricostruzione emotiva, volutamente epurata da quegli eventi forti (l'escalation terroristica, la lotta politica, la vivacità del mondo culturale ed artistico analizzati solo negli aspetti funzionali alla storia) che rischiavano di togliere forza al nucleo centrale del film imperniato sulle vicende sentimentali di Guido e Serena e sulle conseguenze di queste sul resto della famiglia. In questo modo tutto diventa accessorio rispetto al primo piano delle ragioni dell'uno e dell'altra, al loro modo di prendersi e lasciarsi, ma anche alla temperatura emotiva che si sviluppa attorno alle vicende legate ai tentativi di Guido di imporre il suo talento artistico cercando il consenso della critica che conta, ma anche ai continui smacchi subiti da Serena, prima subordinata non senza sofferenza agli estri ondivaghi del compagno e per questo disposta ad assecondarlo passando sopra alle sue infedeltà; successivamente trascinata in un vortice di sensualità inaspettato e fuori dalla norma quando diventa oggetto di un desiderio che si trasforma in qualcos'altro. Ambientato in un paesaggio colorato ed astratto in cui luoghi ed ambienti identificano non tanto uno spazio geografico ma una dimensione dell'anima (la Camargue per esempio, chiamata ad esternare e contenere con la sua natura edenica e selvaggia la rinascita di Serena) "Anni felici" riesce a mantenere inalterata la sua vena autoriale senza aver paura di manifestare una ricerca di empatia, affermata in maniera evidente dalla scelta di due attori tanto bravi quanto fotogenici. Ed è proprio l'interpretazione di Michela Ramazzotti più di quella di un Kim Rossi Stuart un pò troppo sopra le righe a valere da sola il prezzo del biglietto. Chiamata a confrontarsi con un personaggio che rischiava di cristallizzarla nel ruolo di "povera ma bella" più volte recitato, l'attrice si dimostra all'altezza del compito mettendo in mostra, oltre alla consueta fisicità, un caleidoscopio di sentimenti e di sfumature che le permette di diventare il barometro emozionale di un film che coinvolge senza il bisogno di essere ruffiano. Lucchetti mette il suo eclettismo a disposizione della storia costruendo una corrispondenza tra l'eterogeneità dello stile (da quello classico improntato ad una bellezza estetica che coincide spesso con la cura del dettaglio ad un altro più nervoso e sporco, pronto a restituire frenesia e voglia di vivere) la contaminazione di formati (filmini in super 8, pellicola e digitale) e l'eterogeneità del registri narrativi (nella prevalenza del realismo emotivo trovano spazio momenti surreali e quasi onirici) con l'esuberanza caratteriale e la simpatica folia dei personaggi, tutti nessuno escluso, alla continua ricerca di una felicità da vivere e condividere. Ma è nell'equilibrio del ritratto di due genitori complicati ma irrestibilmente veri che Luchetti vince la sua sfida perchè il ricordo del passato, lungi dall'essere un tributo nostalgico ed irreprensibile è il segno di un affetto sincero ed irriducibile che colpisce al cuore.