sabato, novembre 30, 2013

La mafia uccide solo d'estate

La mafia uccide solo d'estate
di Pierfrancesco Diliberto
con Pif, Cristiana Capotondi, Claudio Gioè
Italia, 2013
genere, commedia
durata, 90'


La storia è narrata dal punto di vista di Arturo, un bambino nato e cresciuto a Palermo, inevitabilmente, sotto il segno di cosa nostra. Una successione di eventi difficile, che prosegue sotto l'omertà, o peggio sotto il non vedere oneroso degli abitanti. L'unico che ne prende atto è proprio il protagonista, e lo fa abbastanza precocemente.

Pierfrancesco Diliberto, meglio conosciuto con lo pseudonimo di Pif, costruisce una linea contenutamente comica su una delle parentesi più gravi e dolorose della prima repubblica, e lo fa attraverso uno sguardo disincantato sia dell'Arturo bambino che dell'Arturo cresciuto, legato ancora all'amore con Flora, sua compagna di scuola; un amore che non a caso si sviluppa pari passo con la presa di coscienza della cittadinanza intera, che avrà il suo culmine nei purtroppo celebri attentati Falcone - Borsellino.

Nonostante il film perda un po' della dinamicità iniziale nella seconda parte, le trovate e i riferimenti non sono mai fuori luogo; divertente l'iniziale passione del giovane per la figura di Andreotti, ombra oscura che ancora aleggia sulla storia italiana, ed esilarante quanto cinicamente spaventosa la caratterizzazione di Totò Riina, come divertenti ed opportuni sono i personaggi grotteschi, testimoni sordo-muti dell'omicidio civile che si stava consumando, e che ancora oggi si consuma.
 
Non era facile trasformare in commedia uno dei più grandi tumori della nazione ma Pif nel complesso ci riesce bene. Le lapidi dei caduti nella guerra infinita alla mafia, testimoniate dalla vita che ritorna metaforicamente nel figlio di Arturo, sono ferite dolorose e ancora sanguinanti a Palermo, ma allo stesso tempo sono memoria ed energica presa di coscienza, è davvero una strana esperienza, con un argomento del genere, poter ridere per subito dopo commuoversi (facendo i dovuti paragoni, la miscela di sensazioni ricorda La vita è bella). Mi si perdoni in anticipo, ma vorrei concludere con una riflessione alquanto amara: era il primo giorno di uscita di questo film, una commedia veramente ben fatta e che ha tutti gli elementi per appartenere di diritto al buon cinema italiano, in sala eravamo 5; c'era la fila per fare i biglietti di Sole a catinelle. Il buon cinema italiano è come la mafia di Pif: c'è, ma la gente fa finta di niente.
di Antonio Romagnoli


venerdì, novembre 29, 2013

FUGA DI CERVELLI


Fuga di cervelli
di Paolo Ruffini

con Guglielmo Scilla, Frank Matano, Olga Kent
Italia, 2013
commedia - durata 100'



Il metodo Valsecchi fa proseliti. Succede infatti che l'esempio del produttore cremasco passato con successo dal cinema impegnato e d'autore - ricordiamo tra gli altri "Un eroe borghese" di Michele Placido, dedicato alla figura dell'avvocato Giorgio Ambrosoli - a quello ridanciano e commerciale dei vari Checco Zalone e Vittorio Mandelli diventi il modello di un cinema popolare e vincente sul piano degli incassi e delle risate. Il primo emulo della nuova tendenza potrebbe essere "Fuga di cervelli" prodotto dalla Colorado film di Maurizio Totti, un mogul che alla pari di Valsecchi si è progressivamente dedicato alla realizzazione di lungometraggi più leggeri dopo un curriculum di film (Mediterraneo) ed attori (Paolo Rossi, Diego Abatantuono, Fabrizio Bentivoglio), che hanno segnato la storia recente della commedia italiana. Diretto dall'esordiente e televisivo Paolo Ruffini il film in questione è interessante più come reperto fenomenologico che sul piano delle qualità intrinseche.

Remake di un blockbuster spagnolo (Fuga de cerebros) "Fuga di cervelli" fa segnare un ulteriore spostamento verso un tipo di cinema ibridato con forme di intrattenimento nate e cresciute su piattaforme vecchie e nuove: non solo la televisione dei canali generalisti e satellitari, ma soprattutto il web di un sito come YouTube dove alcuni degli attori del film si sono imposti a furore di clic. Parliamo di Guglielmo Scilla e Frank Matano rispettivamente Lebowski e Franco, punte di diamante della sgangherata banda di nerds decisa a supportare Emilio, innamorato di Nadia e per questo intenzionato a seguirla a Londra dove la ragazza è impegnata in una vacanza studio presso l'università di Oxford. Un sodalizio all'insegna del disadattamento e della menomazione fisica (Alfredo, l'amico del cuore di Emilio è cieco mentre Alonso è paraplegico) destinato ad entrare in conflitto con gli ideali di esclusività ed efficienza racchiusi nella tradizione del prestigioso istituto.

Un confronto impari da cui il gruppo d’amici uscirà immancabilmente vincitore. Se l'estetica utilizzata da Paolo Ruffini nell'accumulazione di caratteri definiti per eccesso fisiognomico - basterebbe lo strabuzzamento anomalo di Alfonso o l'insistita rigidità espressiva di Emilio ma lo stesso vale anche per i personaggi secondari - e le ingenuità dei raccordi narrativi strizza l'occhio ai b movie degli anni a cavallo tra i 70 e gli 80 "Fuga di cervelli" è un contenitore più ampio in cui si incrociano influenze eterogenee: dal cinema americano esplicitato nella versione del drugo coheniano aggiornato allo sciallo giovanilista di Scilla, a quelle più sotterrane ma altrettanto palpabili derivate dall'universo strafumato e maschilista di registi come Judd Appatow e Greg Mottola.
Ma non solo perchè nella sarabanda schizzofrenica messa a punto da Ruffini c'è spazio per comicità lapstick e rimembranze boccaccesche, queste ultime legate al feticismo di un corpo femminile utilizzato esclusivamente in funzione delle nevrosi dei protagonisti. Va in questa direzione la scena dell'obitorio, con i cadaveri delle donne, prima esibite nella loro defunta beltà e poi sostituite dagli improvvisati malfattori, in una staffetta tra femminile e maschile contingente ai motivi della storia (rimasti chiusi all'interno del locale i ragazzi aspettano il mattino addormentandosi nei lettini dei defunti) ma anche significativa del punto di vista unilaterale del film, simboleggiato dall'analogia posturale dei ragazzi, distesi ed addormentati, e quindi privi di vita, come le spoglie di cui hanno preso il posto. Ruffini ragiona secondo un autoreferenzialita' fatta di esperienze artistiche e gusti personali che sovvertono qualsiasi gerarchia, riducendo il film ad una sequela di finestre narrative che hanno il respiro e la precarietà delle boutade che hanno reso famosi i loro interpreti. In questo modo il senso di identificazione assicurato da una performance attoriale omologata ai rispettivi modelli di riferimento spinge il film ad un inconsistenza che solo i fan della prima ora riusciranno a sopportare. Più che un divertimento "Fuga di cervelli" vuole essere la parola d'ordine di una generazione che non riesce a prendersi sul serio. Per chi non vi appartiene e' impossibile non sentirsi fuori posto.

NickOfTime

PARKLAND


"Parkland"/id.
di: P.Landesman.
con: B.B.Thornton, P.Giamatti, R.Livingston, M.G.Harden, T.Welling, Z.Efron. J.B.Dale
- USA 2013 -
Drammatico - 93 min

In concorso all'ultimo festival lagunare, "Parkland" - dal nome dell'ospedale, il "Parkland memorial" di Dallas, dove venne ricoverato in tutta fretta uno degli uomini simbolo degli anni '60, l'ideatore della "Nuova Frontiera", uno dei più giovani presidenti di sempre, John Fitzgerald Kennedy, dopo l'attentato subito nella città texana il 22 novembre 1963 - descrive, con una certa minuzia di dettagli e la comprovata attenzione del cinema USA verso la ricostruzione "mimetica" dei luoghi e delle scenografie (il film e' stato girato ad Austin), nonché l'accurata selezione dei volti - principali e comprimari - (puntuale e diligente Paul Giamatti nel ruolo dell'"operatore del destino" Abraham Zapruder; arcigno e tormentato, come portasse sulle spalle tutto il peso del senso di perdita di una nazione intera, B.B.Thornton, nei panni di Forrest Sorrels, capo del Servizio Segreto che ha fallito per la prima volta la sua missione: "Non avevo mai perso il mio uomo"), le ore immediatamente successive all'omicidio del trentacinquesimo presidente della prima democrazia del mondo, John Kennedy appunto, noto anche col celebre acronimo JFK.

Evitando di avventurarsi sul sentiero sdrucciolevole - peraltro assai battuto - delle ricostruzioni investigative con annessi corollari complottistici - pur sposando, di fatto, la tesi ufficiale dell'"uomo solo" - per concentrarsi, invece, sulle reazioni emotive e comportamentali di tutta quella varia umanità che con motivazioni diverse orbito' attorno ad un evento di siffatte proporzioni, il film, con buona diligenza, si fa strumento di testimonianza per le vicende concitate, il disagio febbrile e il sostanziale disorientamento di uomini e donne coinvolti loro malgrado entro una linea di frattura della Storia: quindi, con asciutta enfasi, annotiamo squarci isolati del dolore senza parole di Jacqueline Bouvier Kennedy, per tutti "Jackie", novella vedova, nel suo tristemente famoso tailleur rosa imbrattato di sangue. Assistiamo all'andirivieni del personale delle varie Agenzie e dell'FBI e ai loro contrastati rapporti con la polizia locale. Osserviamo i tormenti interiori e l'irresolutezza di un uomo all'apparenza mite e sinceramente fiducioso nell'operato del già ex presidente, quanto cosciente di avere per le mani col suo film amatoriale un reperto di vitale importanza destinato a rimanere nei libri di scuola, come Zapruder. Seguiamo tra le corsie e i reparti lo stupore ben presto reincanalato dal tipico pragmatismo a stelle e strisce del personale medico (all'interno del quale spicca la sempre sublime "antipatia" di un'attrice come Marcia Gay Harden): silenzioso, efficiente, in doloroso equilibrio tra senso del dovere e frustrazione. Siamo messi al corrente dell'atteggiamento scostante quanto ambiguo, volta per volta incline al sospetto e all'agitazione di stampo provocatorio/propagandistico, come, molto più prosaicamente, solleticato all'idea di facili guadagni di natura scandalistica, da parte della madre di Lee H. Oswald (il fratello di costui oscillando perlopiu' ai margini dell'incredulità e di un contegno più perplesso che angosciato).

Se l'occhio della mdp di Landesman - giornalista qui al debutto nel Cinema - si dimostra sicuro nello scegliere il proprio campo d'azione (una scena per tutte: il tentativo spasmodico e "furente" di rianimare il corpo oramai esanime di JFK da parte dell'equipe di giovani medici che contro ogni evidenza si accanisce terapeuticamente sulle spoglie quasi infierendovi), più incerto appare il registro espressivo che oltre a cadenzare lo sviluppo degli attimi fatali dopo la tragedia alternando i punti di vista in un prevedibile mosaico a più voci - i Servizi da un lato; Zapruder e la Stampa dall'altro: l'attivismo della struttura ospedaliera per buona parte, al centro. Lo sconcerto e la titubanza della polizia di Dallas e dell'opinione pubblica tutta, intorno - adatta ritmo e snodi al passo sobrio ma anodino di un dignitoso manufatto televisivo. Nel tentativo comprensibile di non arenarsi nelle solite secche del film a tesi (cospirazioni, mandanti multipli quanto indecifrabili, dietrologie, rimpianti assortiti), il neo-regista sceglie la via della "storia laterale", degli "eventi fuori fuoco": il risultato e' un'opera dal piglio nobile, discreto nerbo ma che lascia la sensazione di - per così dire - essersela "giocata in difesa" e, alla fin fine, per un esito neutro. Soprattutto se si considera il "materiale" a disposizione: diversi attori di rango; fotografia "nostalgica"; repertazione pignola (si vedano, ad esempio, gli strumenti diagnostici dell'ospedale, le fogge degli abiti, le acconciature, gl'interni degi uffici, il fumo compulsivo e ubiquo et.).



Trasmesso in prima TV da RAI 3 in occasione del cinquantenario dei tragici avvenimenti: 22/11/1963 -22/11/2013.

TFK

giovedì, novembre 28, 2013

Film in sala da Giovedì 28 Novembre 2013


COME IL VENTO
di Marco Simon Puccioni
con Valeria Golino, Filippo Timi, Francesco Scianna, Chiara Caselli
2013 ITA - 110 min - Drammatico

C'ERA UNA VOLTA UN'ESTATE
THE WAY, WAY BACK
di Nat Faxon, Jim Rash
con Steve Carell, Sam Rockwell, Toni Collette, Liam James
2013 USA - 103 min - Commedia

LA MAFIA UCCIDE SOLO D'ESTATE
di Pif
con Pif, Cristiana Capotondi, Ninni Bruschetta, Claudio Gioè
2013 ITA - 90 min - Commedia

DON JON
di Joseph Gordon-Levitt
con Joseph Gordon-Levitt, Scarlett Johansson, Julianne Moore
2013 USA - 90 min - Commedia

LA MOGLIE DEL POLIZIOTTO
Die Frau des Polizisten
di Philip Gröning
con Alexandra Finder, David Zimmerschied, Pia Kleemann, Chiara Kleemann
2013 GER - 175 min - Drammatico

THE LUNCHBOX
di Ritesh Batra
con Irrfan Khan, Nimrat Kaur, Nawazuddin Siddiqui, Denzil Smith
2013 GER/FRA/IND - 105 min - Drammatico

HUNGER GAMES: LA RAGAZZA DI FUOCO
HUNGER GAMES: CATCHING FIRE
di Francis Lawrence
con Jennifer Lawrence, Josh Hutcherson, Liam Hemsworth, Philip Seymour Hoffman
Woody Harrelson, Elizabeth Banks, Lenny Kravitz, Jeffrey Wright
Stanley Tucci, Donald Sutherland
2013 USA - 146 min - Azione

POMPEI
di Neil MacGregor
2013 GB - 89 min - Documentario

martedì, novembre 26, 2013

New Hollywood (10): APOCALYPSE NOW (3)


"Apocalypse now" III

di: F.F.Coppola.



- "Lost in a Roman... wilderness of pain/And all the children are insane/All the children are insane/Waiting for the summer rain, yeah..." -



"Molti radiosi mattini ho visto/l'occhio sovrano le vette lusingare/baciare con l'aureo volto i verdi prati,/dorare pallidi rivi con alchimia divina;/poi presto permettere a orridi nembi/di cavalcare sul suo celeste sembiante/e celarlo al derelitto mondo, fuggendo/furtivo a occidente con la sua vergogna" - W. Shakespeare, "Sonetti" - Volendo riflettere un po' riguardo uno dei temi portanti non solo del film ma del nostro stesso stare al mondo, ovvero il rapporto che intercorre fra l'uomo, in particolare quello appartenente alla cultura occidentale e la cosiddetta "wilderness" o "Natura Selvaggia"' e' utile avvalersi a mo' d'introduzione - e per rimanere il più possibile agganciati all'opera coppoliana - proprio di una scena di "Apocalypse Now", quella che descrive la "ricognizione" nella foresta operata da Willard e da "Chef" finalizzata a "cogliere dei manghi". Ufficiale e soldato abbandonano la PBR armati e con l'aria circospetta di chi intende assentarsi il meno possibile. Del resto intorno a loro si srotola, coloratissimo e intricato, percorso da sussurri, strani suoni e silenzi improvvisi quanto profondi, un altro mondo. Un mondo fatto di acqua, di piante, di alberi colossali (Conrad: "Alberi, alberi, milioni di alberi, altissimi, massicci, immensi" e "I boschi erano immoti come una maschera, massicci come la porta sbarrata di una prigione: e guardavano con la loro aria di segreta sapienza, di paziente aspettazione, d'inaccessibile silenzio").

Alberi che occultano il cielo e al suo posto stendono la volta di una inedita cattedrale verde. Un mondo colmo di presenze discrete ma vigili, pronte - a seconda dei casi - a mostrarsi senza avviso o a radicalizzare la propria imponderabilità. Un mondo ancestrale e arcano che Storaro restituisce giocando sulla gamma stavolta dei blu che, delicatamente, trascolora e si precisa nel cobalto e poi nel pervinca, fin quasi al violetto, e viceversa, ed in mezzo a cui l'uomo deambula attonito e cauto, incerto se affidarsi alla meraviglia o rimaner in guardia, conscio, sottopelle, della propria sostanziale estraneità al momento di realizzare come quel mondo, nella sua impassibile irriducibilita', resiste all'unico grimaldello di cui egli e' in possesso ma pure a cui, col tempo, si e' limitato, ossia quello ordinatore/trasformatore della Ragione ("Il discorso sul senso delle civilizzazioni si può rappresentare cinematograficamente per mezzo di un discorso sul senso della purezza della Luce.

L'abuso esistente del colore tecnologico su quello naturale sarà, in termini cinematografici, il conflitto centrale del film: il Colore di un Tramonto e il Colore delle Uniformi...; il Colore della Giungla e il Colore del Napalm; il Colore della Luce di un Fuoco e il Colore della Luce delle Esplosioni: il Colore della Natura e il Colore della Civiltà. Un denuncia del tipo di violazione che il Colore Artificiale opera sul Colore Naturale" - V.Storaro, "Scrivere con la luce" -. Willard e "Chef" per tentare di vincere la serafica ma interrelata indifferenza che li sovrasta parlano d'altro - della pregressa carriera militare di "Chef", ad esempio; degli sprechi insensati di cui e' stato testimone - fin quando qualcosa si muove nell'ombra e i loro sguardi cedono al terrore: una tigre. Figura che assomma in se' le forze più elementari e incomprimibili della Natura; quella che ricorda all'uomo (qui il soldato americano con tutto l'apparato tecnico/propagandistico di cui si fa latore/vessillo) la tragica idiozia della sua tracotanza a cui lei non ha la minima intenzione di sottomettersi. Quella che gli rinfaccia lo smarrimento interessato del limite: l'essersi posto al di fuori/al di sopra di un ordine oltre il tempo senza il quale semplicemente egli non esisterebbe ("Anche quel piccolo frammento che tu rappresenti, o uomo meschino, ha sempre il suo intimo rapporto con il cosmo e un orientamento ad esso, anche se non sembra che tu ti accorgi che ogni vita sorge per il Tutto e per la felice condizione dell'universa Armonia. Non per te, infatti, questa vita si svolge, ma tu, piuttosto, vieni generato per la Vita cosmica" - Platone, "Leggi" -). Inutile memento: l'uomo fugge, portandosi dietro la tenebra che stolidamente/furbescamente attribuisce all'"ordo rerum". Fugge, in modo scomposto ma e' l'uomo di sempre, pronto a blaterare - non appena si sente di nuovo al sicuro - l'illusorio ritornello della separazione/superiorità: "Mai abbandonare la barca del cazzo... ('Chef')... Mai abbandonare la barca del cazzo... mai..."/["never get outta boat... never get outta boat... never..."].

Cos'è, allora, la "wilderness" ? Di cosa stiamo parlando esattamente - Conrad, Coppola, noi (e, magari, Herzog, la cui visione tralasciamo per ovvi motivi di spazio ma che Coppola non ha omesso d'indicare, in specie per ciò che riguarda un film come "Aguirre, furore di dio", tra le fonti d'ispirazione per "Apocalypse now") - quando ripetiamo questo termine così risonante eppure elusivo ? (Ad esempio, in Conrad: "E noi che ci eravamo avventurati la' dentro, cosa eravamo mai ? Avremmo saputo padroneggiare quella cosa muta, o non essa ci aveva in sua signoria ? Sentivo quanto immane, quanto tremendamente immane fosse quella cosa che non parlava, e che presumibilmente era anche sorda. Che c'era la' dentro ?"). Nell'immaginazione comune - e non parliamo di quella ammaestrata da decenni di "dittatura" dello Sviluppo - il termine indica perlopiù' un coacervo indistinto di flora e fauna residuale che interagisce e si riproduce lontano (un altro mondo, appunto) dalle consuetudini del "mondo vero", del "mondo reale", a dire quello delle nostre occupazioni a carattere eminentemente "tecnico" [Nota: stimolante paradosso: oggi come oggi il cosiddetto "mondo vero" e' considerato quello a più alto tasso di "artificialità"]. Non esiste, cioè, quasi più (e la tendenza attuale marcia spedita in questa direzione) rapporto che non sia quello di stretta dipendenza manipolatoria o romanticamente ancorato ad una sorta di languore a bagno tra sentimentalismo naïf/snob e meccanismo di rimozione all'ultimo stadio.


Il mondo vivente come immenso campo di applicazione della "civilizzazione", quindi. Ossia, in ultima istanza, dell'"occidentalizzazione", nella forma di un progressivo, inesausto, febbrile slancio di metamorfosi Tecnica - assurto, oramai, a rango di obbligo morale, a vera e propria religione - corredato da un vastissimo prontuario di principi, legislazioni, "valori", creato e gestito a scopo, a conti fatti, edificante, per rendere cioè sopportabile in primis a chi lo ha messo a punto, a dire noi moderni uomini occidentali, l'implacabilità assoluta di tanta mobilitazione ("Prima della meta' del XIX secolo gli europei erano stati capaci di imporre la propria volontà su società ben organizzate e altamente urbanizzate: gli Inca del Perù, gli Aztechi e altri popoli messicani, i moghul e i loro successori in India, e infine la Cina stessa. Popoli meno urbanizzati e organizzati, in particolare i cacciatori e allevatori a cavallo e gli abitanti di zone desertiche e montagnose, furono assai più efficaci nel tenere a bada gli Europei. In parte ciò fu dovuto a fattori ambientali come le malattie dell'Africa tropicale o la difficoltà di trasportare e rifornire eserciti nelle aeree desertiche e montagnose dell'Afghanistan, dell'Algeria o del Caucaso. Ma fu anche dovuto al fatto che gli eserciti e le armi degli europei della rivoluzione militare della prima età moderna non erano in grado di sconfiggere la resistenza dei popoli non occidentali in contesti ambientali difficili... Tuttavia la tecnologia e' in continuo mutamento e in campo industriale il mutamento e' particolarmente rapido.


Due fattori determinarono le relazioni tra europei e americani di origine europea da un lato e gli africani, i nativi americani e gli altri popoli non occidentali dall'altro. Uno fu il controllo crescente dell'Occidente sulla natura attraverso i progressi tecnologici; l'altro fu l'accesso dei popoli non occidentali ai prodotti della moderna tecnologia industriale" - D.R.Headrick, "Il predominio dell'Occidente" -). Per Conrad, pero', non era così, o non lo era in via così definitiva: "La muraglia vegetale, esuberante e intricata massa di tronchi, di rami, di foglie, di frasche, di tralci, immobile nella luce lunare, faceva pensare a una tumultuosa invasione di vita muta, a una enorme ondata di piante, turgida, increspata, pronta a rovesciarsi sulla cala, spazzando via tutti quanti noi minuscoli uomini della nostra minuscola esistenza. E non si muoveva". O anche: "... quel prodigioso mondo di piante, di acque e di silenzio. Ma quell'immobile vita non aveva proprio nulla di pacifico. Era l'immobilità di una forza implacabile che stava covando un qualche imperscrutabile disegno. Vi guardava con un aspetto vendicatore". Come non lo era, per dire, per uno come Celine: "Si vogava verso l'Africa, la vera, la grande; quella delle insondabili foreste, dei miasmi deleteri, delle solitudini inviolate, verso i grandi tiranni negri immelmati all'affluenza dei fiumi che non finiscono più". E: "Tutto vi passava, era schifoso, per pezzi, frasi, membra, rimpianti, globuli, si perdeva nel sole, fondeva nel torrente della luce e dei colori, e anche il gusto e il tempo insieme, tutto passava. Non c'era nell'aria che angoscia scintillante" - L-F Celine, "Viaggio al termine della notte" - Osserviamo cioè qui, al netto del filtro letterario, un punto di vista che, tra seduzione e insofferenza, tra incanto e precauzione, esprime ancora la capacita' di riconoscere uno scarto, la presenza di un'identità, forse affine, forse ostile alla propria ma indiscutibilmente reale e partecipativa delle cose.


Più teoriche ma non meno interessanti le argomentazioni addotte da Alain de Benoist quando si sofferma sul "passaggio dal paganesimo politeista al monoteismo ebraico-islamico-cristiano che segna una svolta epocale. Nell'ottica pagana gli dei abitano la terra: essa stessa e' divina e sacra. Con lo sviluppo del pensiero monoteistico avviene un vero e proprio ribaltamento della 'Weltanschaauung' pagana. Il dio del monoteismo crea la Terra e l'uomo. Si inaugura una separatezza radicale tra deità e mondo, tra 'Theos' e 'Phisis' (mentre nel paganesimo la Terra e' sacro luogo abitato dagli dei: il dio del mare, del vino, della foresta et...). Tale separatezza della divinità dalla Terra desacralizza totalmente quest'ultima che diviene un semplice "oggetto" della creazione divina. Il monoteismo innesca da un lato un processo di 'Entgotterung', di desacralizzazione: Dio e' altro dal mondo, lo trascende essendo il suo creatore. Dall'altro si avvia il processo diagnosticato dall'ultimo Weber di "disincantamento" del mondo agli occhi dell'uomo" - A. de Benoist, "La destra degli dei" - Per riflettere quindi su come "il mondo e' trasformato in oggetto... Tutte le cose sono oggettivate, tutte le cose possono essere requisite, obbligate a produrre... Non essendo più sacro, il Mondo, l'uomo e' 'libero' nei suoi confronti: la desacralizzazione del Mondo per lui significa 'diritto di sfruttamento'. Questa e' l'origine prima dell''economicismo', se si accetta di definirlo come applicazione generale di un rapporto possessivo e calcolatore al regime generale delle cose" - A. de Benoist/T. Molnar, "L'eclisse del sacro" - Deriva della "volontà di potenza" che Conrad svela in Kurtz: "Il mio avorio... Eh, si', io l'ho udito. 'La mia fidanzata, il mio avorio, la mia stazione, il mio fiume, il mio...'. Ogni cosa gli apparteneva... Ogni cosa gli apparteneva, ma ciò non significava granché.


Quel che era importante, era di sapere a che cosa egli appartenesse, quali tenebrosi poteri lo rivendicassero per proprio". Riducendo il mondo ad un unico grande oggetto da spezzettare in tante unita produttive, ad una terra davvero desolata ("Noi che eravamo vivi ora stiamo morendo/Con un po' di pazienza/Qui non c'è acqua ma soltanto roccia/.../Vi fosse almeno acqua tra la roccia.../Non si può stare in piedi qui, non ci si può sdraiare ne' sedere/Non c'è neppure silenzio fra i monti/Ma secco sterile tuono senza pioggia/Non c'è neppure solitudine tra i monti/Ma volti rossi arcigni che ringhiano e sogghignano/Da porte di case di fango screpolato" - T.S. Eliot, "La terra desolata" - e "Questa e' la terra morta/Questa e' la terra dei cactus/Qui le immagini di pietra/Sorgono e qui ricevono/La supplica della mano di un morto/Sotto lo scintillio di una stella che si va spegnendo" - T.S. Eliot, "Gli uomini vuoti"), cessato quel rapporto diretto e intimo che ad esso legava, s'è instaurata una mediazione culturale di natura perlopiù tecnica che da un lato limita l'agire umano in un ambito sempre più automatico di riproduzione di gesti (e di oggetti) e, dall'altro, spinge - reprimendole ma non eliminandole - in una dimensione, volta per volta, di negazione, d'interdetto, di tabù, quelle pulsioni che anticamente regolate anche da un nesso spontaneo e immediato con la realtà naturale, disperdevano da se' buona parte della loro carica negativa e distruttrice in tutta una serie di sublimazioni virtuali, rituali, simboliche. In altre parole: la coscienza di un valore, di una "sacralità" viva e operante nel mondo rafforzava il vincolo che metteva in comunicazione Natura e Uomo; riconduceva il dissidio tra finitezza umana e imperturbabilità dell'ambiente entro un contesto di continuità che smussava rendendola più tollerabile la suddetta caducità, dal momento che la condizione era di certo immodificabile ma condivisa da tutti gli esseri, in una visione per cui la "crudeltà innocente" della Natura privilegia la conservazione della Vita al di sopra del singolo individuo, senza parzialità. Al momento della morte, cioè, si restituisce alla Natura ciò che ha dato, affinché la Vita continui. In tal senso la vita diviene "sacra". Ma se gli dei non abitano più la Terra e Dio e' un'entità lontana e indecifrabile, allora l'uomo può immaginare di farsi dio lui stesso, piegando la Terra ai suoi capricci, inaugurando il dilagare della tenebra e la tetra rima "wilderness"/"darkness": "'Merda, le ultime tre volte che sono stato di pattuglia, avevamo quest'ordime del cazzo di non rispondere al fuoco perlustrando i villaggi, ecco perché 'sta guerra e' un casino totale. Nell'ultima missione ci siamo entrati e buonanotte. E giù a sfondare le siepi, a bruciare le capanne e far saltare i pozzi e ammazzare tutte le galline, i maiali e le mucche e l'intero villaggio del cazzo. Cioè, insomma, se non possiamo sparare a questa gente, che cazzo ci stiamo a fare qui ?'" - M.Herr, op. cit - Il tormento di Kurtz, del Kurtz di celluloide, e' quello di forzare al proprio arbitrio la tenebra/orrore attribuita alla "wilderness" (la prima delle sue comunicazioni intercettate - 'Trasmissione 11 ricevuta il 30/12/1968 alle ore 05,00, settore King-Zulu-King', come suggella piatto il linguaggio della burocrazia militare - recita: "Ho osservato una lumaca strisciare lungo il filo... di un rasoio. Questo e' il mio sogno, il mio incubo... Strisciare... scivolare... lungo il filo... di un rasoio... e sopravvivere"), finendo per esserne risucchiato, in una deriva di amarezza e frustrazione senza fine condannata a contemplare la dispersione di un mondo ostaggio dei demoni materializzati dal proprio stesso scrupolo di razionalizzazione: "To make Cosmos.../To achieve possible.../- Have made a mass of laws -/A tangle of works unfinished"/("Plasmare il Cosmo.../Compiere il possibile.../- Non abbiamo fatto che un mucchio di leggi-/Un guazzabuglio di opere incompiute" - E.Pound, "Cantos, CXVI" -). Non dissimile la sorte del Kurtz letterario. Film e romanzo quasi si sovrappongono pure nell'atteggiamento tenuto dall'altro protagonista nei confronti della realtà naturale: entrambi, Marlow e Willard (almeno quello della versione, diciamo così, "classica") si ritraggono. La sola presa di coscienza non fa che "irrigidire" l'"oscurità" e perpetuarla. Non a caso Marlow si rifiuta di conoscere quelli che definisce "unspeakable rites"/le "indicibili pratiche" con cui Kurtz alimenta le sue estasi orribili nella Stazione Interna. In simile maniera Willard apprende quelle del Colonnello dai "metodi malsani" grazie ai resoconti ufficiali e constatandone le conseguenze all'avamposto sul fiume (cadaveri appesi ciondoloni; teste mozze a "fregiare" le gradinate della casa-tempio, et. Conrad: "... era li', quella testa nera, rinsecchita, incavata, con le palpebre basse; essa pareva dormisse in cima a quel palo, e, con le labbra secche e raggrinzite che mostrano una sottile striscia bianca di denti, sorridesse anche, sorridesse continuamente a chissà quale interminabile e faceta visone di quel suo eterno sonno"). Entrambi - anche in ragione del fatto che Coppola ha più volte sottolineato l'intenzione di voler restare in scia con l'impostazione di fondo data dallo scrittore inglese - riflettono l'orizzonte mentale di un uomo come Conrad: un uomo in tutto e per tutto figlio del suo tempo, pure se assai inquieto per il fatto di vivere un momento di transizione che, come ogni momento di transizione, si caratterizza per contraddizioni e lacerazioni spesso amare e tormentose. Un uomo che aveva prestato servizio per oltre un decennio nella Marina Mercantile di Sua Maestà Britannica e che seppure apertamente diffidente verso la propaganda colonizzatrice/civilizzatrice rimane il prodotto di una società alle cui coordinate di sostanziale conservazione egli aderisce. Per tale motivo, di fronte alla prospettiva della dissoluzione, Conrad non può che accreditare, accanto ad una chiara presa di coscienza dell'abisso in cui si dibatte l'uomo occidentale, la sottile ipocrisia di un compassato - ineccepibile nella forma - gesto rinunciatario che, in sostanza, lascia tutto in sospeso e tacitamente rilancia la questione circa il rapporto Natura/Uomo - tra presentimento di sconfitta e radicarsi del pessimismo - alle generazioni future. A noi, perché intatto e' rimasto attraverso le epoche l'ammonimento eschileo: "Ciò che attende alle soglie del buio, col tempo fiorisce. Gli altri li tiene in una notte impotente. Tornerà a prenderli più tardi".

- "Interludio del 'reduce'" -

E' forse la nebbia del tempo, un tempo che non si rassegna a considerarsi trascorso ("Bisognava dare l'idea di essere tornati negli anni '50", osservo' Coppola; Conrad: "Pare che i francesi avessero in piedi una delle loro guerre da quelle parti"), un tempo che mormora storie coloniali di grandezze svanite, di desideri ridotti a piaceri lugubri, di solitudini inconsolabili e astiose spacciate per riottose determinazioni a resistere, ad accogliere Willard alla piantagione "montagnard" appartenente al clan familiare dei De Marais, Hubert in testa. In questa lunga parentesi - oltre una cinquantina di minuti - coadiuvato dalle tonalità rembrantiane della luce di Storaro che permea gran parte delle inquadrature di un languore sfinito, di una "pienezza" degli oggetti che non ne possono più di se stessi, di morbidezze e trasparenze protratte dal vino e dall'oppio, Coppola riprende a fare i conti con ciò che resta dell'apparentemente "naturale" sovrapposizione/sostituzione della mentalità, del gusto, delle inclinazioni occidentali all'Altro-da-se' (il generico Oriente; la "wilderness"); approfondisce le meditazioni azzardate da Willard e specchiando se stesso - la "giovane" storia americana come emanazione diretta di quella della "vecchia" Europa - trova, attraverso gli occhi perplessi e smarriti dell'ufficiale ora di nuovo disorientato, conferma ai suoi più atroci sospetti: della magnificenza, dell'umanità, della vastità, della profondità della Storia e della Cultura "madre" arranca nient'altro che una genia di uomini minuscoli (parenti strettissimi degli "uomini vuoti" declamati da Kurtz nella lettura di Eliot) che rimestano senza vergogna dentro la pretesa di un possesso e di una supremazia fuori da ogni evidenza di rivendicazione; nel formalismo di rituali meccanici e mortiferi; nella disperata messinscena di una "innegabile" superiorità che rasenta l'incubo ad occhi aperti dentro un sabba di fantasmi ("S'aveva l'impressione che [i "bianchi"] fossero preda di un qualche maleficio", Conrad): esattamente ciò (e questo Coppola lo fissa una volta per tutte nel banchetto offerto all'"amico americano", sorta di macabra ultima cena durante la quale, tra le righe, si ribadiscono ingerenze, si accampano stizziti lignaggi, si rilanciano propositi di "revanche", in un riflesso condizionato a ribadire l'"orrore", a secernerlo, quasi) che il caravanserraglio della Politica e dell'Esercito più "disneyano" del mondo - marines che si mostrano il culo vicendevolmente sfrecciando sulle imbarcazioni da battaglia; che si buttano in acqua a brache calate per raggiungere irraggiungibili "bunnies"; che fanno surf tra le esplosioni dell'artiglieria e i proiettili vaganti; che "festeggiano" (Willard: "Kilgore si era organizzato una giornata coi fiocchi. Si era fatto portare bistecche e birra dagli elicotteri e aveva trasformato la zona d'atterraggio in una festa all'aperto. Ma più tentavano di sentirsi tutti a casa propria, più tutti ne sentivano la nostalgia") in una continua regressione dei simboli e delle consuetudini della Cultura di cui sono, volenti o nolenti, emblemi, a scatole vuote, a simulacri d'intrattenimento (pic-nic all'aperto, canzoni country, giovialità assortite), a poster, ad "accessori". Come, del resto, Conrad, in relazione ai futili tentativi francesi di riaffermare la propria autorità: "C'era un tocco d'insania in tutta la faccenda, e alcunché di lugubremente buffo nello spettacolo: che non venne dissipato allorquando non so più chi a bordo mi assicuro' con gran serietà che c'era un campo d'indigeni, - nemici, li chiamava lui - nascosto da qualche parte fuori vista" - sta replicando senza batter ciglio, come se davvero (ed e' vero) la Storia non insegnasse nulla, in un cocktail letale e altamente sanguinolento di dabbenaggine, ferocia e perversione: "Forse era già finita per noi in Indocina quando il corpo di Alden Pyle affioro' sotto il ponte a Dakao, con i polmoni pieni di fango; forse era già chiusa a Dien Bien Phu. Ma la prima vicenda si e' svolta in un romanzo, e benché la seconda sia successa sulla terra, e' successa ai francesi, e Washington non le attribuì più consistenza che se l'avesse inventata Graham Greene" - M.Herr, op. cit. -. La stessa "tregua" - vissuta ? immaginata ? bramata con disperazione ? (Conrad: "Di la' dallo steccato la foresta s'ergeva spettrale nel chiaro di luna, e attraverso al rimescolio confuso, alle fievoli voci di quel deplorevole cortile, il silenzio di quella terra penetrava dritto in fondo al cuore, col suo mistero, la sua vastità, la realtà stupefacente della sua vita recondita") - da Willard con Roxanne de Marais (un Aurore Clement diafana e allusiva, fiore raro e malato, le carni tenere ma impalpabili, qualcosa a consumarle da dentro, tipo levigatezze canoviane insidiate da lividure arcigne note a certe eroine di Maeterlinck come ai corpi stremati e indifesi della De Bruyckere) racconta più una spossatezza, un oblio disturbato da residui di una materia chiamata "missione", che lo slancio ricco e pieno di un sentimento. E questo semplicemente perché Willard - a modo suo, esempio di "culmine della civilizzazione" - quel sentimento non e' più in grado di provarlo.

Alla medesima maniera, allora, di come quel "recesso"/specchio di noi stessi si era palesato con tutti i suoi più o meno rassegnati ectoplasmi - ossia in una bruma grigiastra pregna di rancore e voluttà di disastro - così dispare, avvolto da altrettanto vapore stagnante, senza lasciare alcuna traccia nel ventre della foresta, nessuna carezza tiepida nel cuore. Nulla... (Conrad: "Vedevo i bianchi apparire languidamente tra i fabbricati, appoggiandosi a certe lunghe doghe, avvicinarsi passo passo per darmi una sbirciatina, poi scomparire di nuovo chi sa dove"). Espunto, in primis, per una delle molteplici perplessità/insoddisfazioni di Coppola, con ogni probabilità non estranea ad un ragionamento legato alla sua potenziale anti-spettacolarità e ricaduta negativa sulla cadenza della narrazione, l'"interludio del reduce", chiamiamolo così per comodità, collocato più o meno alla meta' dell'opera, ad una visione comparativa ne distanzia gli estremi armonizzandoli nella scansione temporale in una sorta di "rallentamento preparatorio" (le ragioni della missione, l'epifania bellica - in questa versione si precisa e si circostanzia meglio la figura di Kilgore - il "carnevale" delle conigliette con i suoi addentellati, da un lato; le "stazioni" rivelatrici sul fiume e la parabola di Kurtz - personaggio anch'esso arricchito di scene e dialoghi ulteriori - dall'altro), ampliando la curva del ritmo, avvicinandolo al flusso che spinge l'imbarcazione di Willard sull'acqua verso il "soldato che si e' fatto dio".

TFK

- terza parte -

lunedì, novembre 25, 2013

Immaginario cinematografico: Woody Harrelson

Nero e violento. 
Woody Harrelson rilegge James Elroy in Rampart di Oren Moverman

sabato, novembre 23, 2013

Il passato

Il passato
di Asgar Farhadi
con Bérénice Bejo, Tahar Rahim, Ali Mosaffa, Babak Karimi
genere, drammatico
Francia, Italia, 2013
durata, 130'

Ahmad torna in Francia, dopo quattro anni, per formalizzare il divorzio con la sua ex-moglie Marie. Questa vive con un nuovo compagno, Samir, insieme a suo figlio e alle due figlie nate da una relazione di Marie precedente a quella con Ahmad; inoltre Samir è sposato, ma la moglie è in stato vegetativo in seguto ad un tentato suicidio. 

La trama, di per sè complicatissima, va ad arricchire una sceneggiatura minuziosa e particolare. Farhadi si allontana dalla terra natia approdando in Francia, proprio come  Ahmad, e firma un'opera delicata, con una regia impeccabile (che fa dimenticare qualche trascurabile sbalzo ritmico della seconda metà) ed una grandiosa direzione degli attori, in particolare dei bambini. Un thriller emozionale che lascia stupiti per la caratterizzazione poetica ed autoriale, messa ancor di più in risalto da tre splendidi attori, la cui interpretazione è deturpata da un pessimo doppiaggio italiano. 

L'impossibilità di eliminare legami tangibili col proprio passato prende forma nel complesso seppur fluido districarsi della narrazione, come l'impossibilità di far apparire chiaro proprio quel passato da cui è inpensabile separarsi; l'inalienabile sfociare nel presente di questa contraddizione è posto con cosapevolezza ma senza accenni pretenziosi.  Gli unici esenti dalle ombre del passato sono proprio quei bambini magistralmente diretti, spiriti limpidi ancorati  ad un presente destinato inevitabilmente a diventare memoria.
di Antonio Romagnoli

Thor: The Dark World

Thor: The Dark World
di Alan Taylor
con Chris Hemsworth, Tom Hiddleston, Natalie Portman
genere, fantastico
Usa, 2013
durata, 120'
 
A forza di frequentare gli studios hollywoodiani gli eroi della Marvel si sono imborghesiti. Da quando ha smesso di delegare ad altri l'allestimento dei suoi comics preferendo fabbricarsi in proprio l'universo che l'ha resa famosa, la casa delle idee ha dato il via ad un effetto kryptonite che annichilisce e toglie carisma alle sue rappresentazioni. Ingolosita da un affare di proporzioni colossali la corazzata di Stan Lee ha dimostrato lungimiranza dal punto di vista imprenditoriale, sfruttando al massimo le possibilità offerte dalla tecnologia in materia di effetti speciali e di computer grafica, ma al contrario si e' indebolita per quanto riguarda la creatività, il punto di forza della sua clamorosa affermazione. "Thor: The Dark World" nella trasposizione della saga del principe asgardiano appare addirittura paradigmatico rispetto alla questione. Confortato dal trionfo commerciale del primo episodio, il regista Alan Taylor o chi per lui confezionano una storia che nella volontà di sfruttare il successo di un villan come quello di Loki - e di Tom Hiddleston diventato famoso per averlo interpretato  - consacrato da qusi ripiega su se stessa, immaginando un alleanza tra bene e male necessaria a scongiurare la minaccia di Malekith, metà uomo e metà diavolo, intenzionato a conquistare l'universo incominciando dall'annessione del regno di Odino. Sorvolando sulla risibilità dei motivi che danno vita al sodalizio ( perché alla fine Thor si sobbarcherà da solo la fatica dell'impresa) "The Dark World" si trasforma nell'appendice di un fantasy qualunque per organizzare una versione in tono minore del Signore degli anelli. Ma siccome la mdp di Taylor non è quella di Peter Jackson mentre gli sceneggiatori Christopher Yost e Stephen McFeely non sono Tolkien, la scontro tra Titani diventa un surrogato poco fantasioso di situazioni già viste, appena variate dal glamour di Jane Foster (peraltro totalmente stravolta rispetto al ritratto della versione a fumetti del grande Jack Kirby), impegnata a complicarsi la vita innamorandosi del Dio del tuono, e per questo omaggiata da una sottotrama che inventandosi un cortocircuito spazio temporale le regala la possibilità di rientrare in partita.  


Attraversato in lungo ed in largo dall'esibizione del culturista Chris Hemsworth " The Dark World" non riesce ad andare oltre un intrattenimento privo di meraviglia, venendo meno sia all'andamento da soap opera che a partire dalla fine dei settanta - grazie al John Romita del primo Spiderman, un autore che ha insegnato molto ai grandi del fumetto contemporaneo - aveva dotato i super eroi di un cotè esistenziale degno di Pleyton Place, sia alla dimensione psicoanalitica e nevrotica innestata nelle decadi successive dal lavoro di revisione operato sul genere da artisti come Alan Moore, Alan Miller e Bill Sienkevich solo per citarne alcuni. Disponendo di una letteratura sterminata la Marvel si limita ad un pout pourri che prende a destra a manca con un rigore che si preoccupa soprattutto di mantenere inalterata la continuity con gli altri personaggi dei suoi film. Così nell'impossibilita' di un inversione di tendenza per il momento congelata da un ritorno economico che per la Marvel non è' stato mai così favorevole aspettiamo il prossimo lavoro di Brian Singer (X Men: Days of Future Past) per capire se esiste una terza via, oppure ci dobbiamo rassegnare allo standard delle ultime produzioni targati Marvel.


venerdì, novembre 22, 2013

IL TOCCO DEL PECCATO


"Il tocco del peccato"/"Tian zhu ding"/"
di: Jia Zhang-ke
con: Wu Jiang, Vivien Li, Lanshan Luo, Zhao Tao
- Cin/Gia 2013 -
Drammatico - 135 min

Se cupidigia, indifferenza, crudeltà sono afflizioni tipiche di una patologia che va cronicizzandosi in specie nelle società cosiddette "affluenti", allora la Cina contemporanea rappresenta - con i contrasti e le lacerazioni derivanti da un rigoglio economico in grado di condensare in un paio di decenni percorsi di sviluppo altrove miseramente abortiti o richiedenti generazioni intere - il laboratorio privilegiato per tenere sotto osservazione tali epifanie e cominciare ad interrogarsi sulle prospettive e i limiti di un modello che, paradossalmente, moltiplicando le possibilità materiali dei singoli comincia ad eroderne, nei termini di un angosciante e beffardo contrappasso, i presupposti stessi - comunità, convivenza, identità, benessere interiore - del loro stare al mondo.

Questo e' in gran parte ciò che emerge da un film teso e dolente quanto spietato nella sua concretezza, come "Il tocco del peccato" del poco più che quarantenne Jia Zhang-ke - miglior sceneggiatura a Cannes quest'anno, ancora co-prodotto dalla Office Kitano - affacciatosi in Occidente qualche stagione fa con il disadorno "Still life" (Leone d'oro a Venezia). La narrazione si sviluppa lungo i binari di quattro vicende - tratte dalla cronaca - che si sfiorano ma non s'incrociano mai ma che, allo stesso tempo, sono indissolubilmente legate dal clima esistenziale che le permea: un disagio interiore che si aggruma fino ad esplodere a contatto con l'inerzia silenziosa e impassibile dell'onnipresente "mercato" e delle sue "necessita'". La mediazione di ogni relazione umana - cosa che in Occidente e' da considerarsi oramai un dato metabolizzato anche nella sfera della psiche - attraverso il "gioco" neutro e impietoso del denaro, conduce senza possibilità di errore e con molto aleatori margini di redenzione, nel vicolo cieco e oscuro della violenza. Violenza senza mediazione, quasi senza coinvolgimento: quindi irriflessa, repentina, efferata.

Le considerazioni mosse da Zhang-ke nascono dalla consapevolezza di una contraddizione di base che nel paese asiatico emerge sin dal paesaggio: grattacieli filiformi di un colore grigio smorto si rincorrono su direttrici multiple e casuali a fagocitare un territorio rurale millenario - ridisegnato, per un verso, dai fianchi delle montagne sventrate per fare posto a sinuose arterie stradali; dall'altro, dall'irregimentazione forzosa del corso dei grandi fiumi - con l'ovvia conseguenza di una discrepanza di forme, di spazi, di prospettive, talmente contundente da rasentare un astrattismo strampalato ed ostile. Identica logica replicata su scala esponenziale si acconcia alle strutture urbane, cresciute su se stesse, senza posa, come superfetazioni soffocanti e importune. All'interno di tali percorsi "guidati", tentacolari, spersonalizzanti, con una loro nascosta, indefinibile (viste le proporzioni), quanto pervasiva violenza, l'animale umano si aggira ansioso e come braccato da una cieca ineluttabilità al Male, vaga eppure persistente. Tali elementi, associati a plumbei cieli invernali, a coltri di brume stagnanti miste alle particelle velenose delle attività industriali, al lucore freddo che avvolge le stamberghe dei villaggi accalcati sulle rive dei corsi d'acqua, e spinti a forza nella centrifuga del denaro, decuplicano il loro attrito fino a disintegrarsi. Ed e' proprio così che le vite di uomini e donne si sbriciolano cedendo, tra caso e inevitabilità, all'odore del sangue: antichi rapporti di forza nella dialettica di una "lotta di classe" ridotta a stanca aneddotica post-prandiale, s'azzerano nella semplice e sterile eliminazione fisica dei simboli (più occidentali dell'Occidente) dell'arroganza, della corruzione e della prevaricazione consumistica; una "nausea" indistinta ma tenace ("Solo quando sparo non mi annoio") si alimenta e temporaneamente si placa ripiombando nell'atonia, in una rapina e in un duplice omicidio gratuito; il desiderio di un rapporto autentico affonda nel disinganno e innesca fra gli equivoci un parossismo brutale e stupefatto; l'ingenuità frustrata e l'assedio del denaro come via di fuga spezzano da dentro le resistenze della giovinezza e dell'ingenuità e rendono impraticabile ogni alternativa che non sia quella estrema che conduce ad uno schianto.

La Cina - dice Jia Zhang-ke - e' oggi un tormento muto che scava dentro un più generale immenso lavorio, sempre più frenetico, sempre più avido, sempre meno umano. La rigidità sociale, la compartimentazione dei ceti, perno del suo "Celeste" Impero, declinate nei giorni del denaro e del profitto purchessia, ratificano una sorta di perversa "legge naturale", un altro "peccato" originale, nelle forme della rinascita della condizione semi-schiavile e soprattutto dell'emarginazione individuale (fisica, psicologica, emotiva), fenomeni che nella compostezza e nel fatalismo al limite della rassegnazione icasticamente cinese, assumono contorni perversi, raggelanti, che chissà se la coscienza moderna ha ancora la capacita' e la voglia di riconoscere e affrontare.

TFK

Film in sala da Giovedì 21 Novembre 2013


IL PASSATO
Le Passé
di Asghar Farhadi
con Bérénice Bejo, Tahar Rahim, Ali Mosaffa, Sabrina Ouazani
2013 FRA - 130 min - Drammatico

IL TERZO TEMPO
di Enrico Maria Artale
con Lorenzo Richelmy, Stefano Cassetti, Stefania Rocca,
Margherita Laterza, Edoardo Pesce
2013 ITA - 94 min - Drammatico

ALLA RICERCA DI JANE
AUSTENLAND
di Jerusha Hess
con Keri Russell, JJ Feild, Bret McKenzie, Jennifer Coolidge
2013 GB/USA - 97 min - Commedia

FUGA DI CERVELLI
di Luc Besson
con Robert De Niro, Michelle Pfeiffer, Tommy Lee Jones,
2013 FRA/USA - 112 min - Drammatico/Thriller

IL TOCCO DEL PECCATO
Tian zhu ding
di Zhangke Jia
con Wu Jiang, Meng Li, Lanshan Luo, Baoqiang Wang
2013 CIN/GIAP - 133 min - Drammatico

IN SOLITARIO
En Solitaire
di Christophe Offenstein
con François Cluzet, Guillaume Canet, Karine Vanasse,
2013 FRA - 97 min - Drammatico

LA MOGLIE DEL SARTO
di Massimo Scaglione
con Maria Grazia Cucinotta, Marta Gastini, Alessio Vassallo, Ernesto Mahieux
2013 ITA - 100 min - Drammatico

L'ARTE DELLA FELICITA'
di Alessandro Rak
2013 ITA - 76 min - Animazione

giovedì, novembre 21, 2013

Questione di tempo

Questione di tempo
di Richard Curtis
con Rachel McAdams, Domhnall Gleeson, Bill Nighy, Tom Hollander
genere, commedia, drammatico
Gran Bretagna 2013
durata, 123'



Nella vita certe scelte non avvengono per caso. Richard Curtis per esempio aveva scritto il copione di due delle commedie di maggior successo degli ultimi anni. Parliamo di "4 matrimoni ed un funerale" e "Nothing Hill", lungometraggi in grado di riportare il genere ad una purezza antica, con l'understatement tipicamente british utilizzato per tenere a guinzaglio le conseguenze dell'amore di cui le storie di Curtis sono piene. Un successo che ha finito per condizionare l'artista, ingabbiandolo in un manierismo di intrattenimento routinario, tra script girati in proprio (Love Actually e I Love Radio Rock) oppure delegati ad altri colleghi (Bridget Jones). Il discorso si riapre con " Questione di tempo" una love story che continua sulla strada intrapresa dai suoi capolavori, aggiornandoli con una contaminazione di elementi appartenenti al fantastico, derivati dalla scelta di dotare il protagonista della possibilità di viaggiare nel tempo. Succede infatti che Tim, ragazzo timido ed un po' imbranato, venga a conoscenza del fatto che tutti i maschi della sua famiglia possono rivivere le proprie esperienze, tornandole a visitare a proprio piacimento. Una rivelazione sconvolgente di cui Tim si avvantaggia per conquistare la donna della sua vita ed aggiustare le contraddizioni dell'esistenza.


Curtis utilizza il sovrannaturale depauperandolo delle sua spettacolarità ( basterebbe vedere con quale essenzialità riesce a serializzare il leit motiv legato ai salti temporali di Tim) e poi se ne serve per destabilizzare l'esistenza del protagonista, costringendolo a fare i conti con le responsabilità derivate da quel potere. Pur partendo dal solito schema- il disagio maschile e la ricerca dell'anima gemella - Curtis alza l'asticella della suo poetica, raccontando non solo l'innamoramento ma ciò che viene dopo. Così se nei due capolavori interpretati da Hugh Grant a farla da padrone era il percorso ad ostacoli che gli amanti dovevano superare per coronare i loro sogni, in "Questioni di tempo" tutto si sposta in avanti, con Tim e di sua moglie Mary, impegnati a crescere i figli ed a occuparsi delle vicissitudini dei loro cari, ed in particolare di Kit Kat la sorella di Tim, logorata dalla relazione con un impenitente donnaiolo. Un ambizione complessa, per la difficoltà di amalgamare codici appartenenenti a generi diversi, e per un clima generale  tra il divertente e l'ironico quando illustra le avventure temporali di Tim, ma anche malinconico e persino drammatico, quando ad un certo punto affiora la consapevolezza che neanche un dono straordinario come quello di Tim può metterlo al riparo dalla finitezza della natura umana. 

E' giusto dire che nel tentativo di assemblare materiali così eterogenei, "Questione di tempo" perde qualcosa per strada, perchè il ritratto di Mary (Rachel MacAdams) fatica ad interiorizzare il trascorre del tempo, rimanendo sclerotizzato sul modello iniziale di ragazza della porta accanto, e poi perchè il rapporto tra Tim e suo padre riesce solo in parte a tramutarsi in uno sguardo sul mondo, restando per lo più legato ad un lirismo delle piccole cose. Ma è nella misura in cui è commisurato alla maturità di chi l'ha realizzato, ed il modo con cui partecipa alle vicende umane che racconta, a fare di "Questione di  tempo" un' opera profondamente sincera. Curtis gli costruisce un impianto formale adeguato ed allo stesso tempo anomalo, che privilegia il contesto realistico e l'informalita' delle riprese, con la prevalenza di colori sfumati a segnalare il carattere transitorio delle situazioni, e la mobilità della mdp a restituire l'alternanza dei piani temporali. Qualità sufficenti per recuperarlo, se non l'avete ancora fatto.


mercoledì, novembre 20, 2013

La luna su Torino

La luna su Torino
di Davide Ferrario
con Walter Leonardi, Manuela Parodi, Eugenio Franceschini
genere, commedia
Italia 2013
durata, 90'


A dispetto di un curriculum che lo ha visto non solo regista ma anche talent scout, con rassegne che hanno fatto conoscere in Italia le prime opere di un regista del calibro di Krzysztof Kieślowski, Davide Ferrario nel corso della carriera ha mostrato un approccio diretto e mai mediato rispetto alla materia dei suoi film, sperimentando generi e formati sempre concentrati sul fattore umano e sull'ambiente che lo influenza. Ed è proprio questo determinismo energetico e geografico ad ispirare il suo nuovo lavoro intitolato "La luna su Torino". Già il titolo è indicativo del connubio che sta alla base del film: la capitale sabauda, ancora una volta protagonista dopo le incursioni di "Tutti giù per terra" e "Dopo Mezzanotte", e poi la Luna, influenza celeste che sintonizza il mood del racconto, conferendogli quel misto di romanticismo e levità di cui sono intrise le esperienze dei tre protagonisti, due ragazzi e una ragazza che si dividono una villa immersa nello splendido scenario della collina torinese. Giulio quarantenne perdigiorno passa le sue giornate tra una lettura di Leopardi ed escursioni in bicicletta per le vie della città, Maria aspirante attrice è impiegata in un'agenzia di viaggi che assomiglia a un club per cuori solitari e, inMettendo a frutto esperienza artistica - il documentario innanzitutto - e motivi personali, Davide Ferrario riscrive a suo modo la mappa urbanistica della città operando in una direzione di vera e propria rivalutazione degli spazi abitativi. In questo modo i luoghi della mondanità classicamente intesi, pur presenti, rimangono laterali per fare largo a strutture di una Torino alternativa e post-olimpica che, nel mix di prospettive sfuggenti e di geometrie avveniristiche, si trasforma in puzzle surreale e cubista, in cui le divagazioni dei tre personaggi diventano il mezzo per raccontare lo spirito di una città proiettata verso il futuro - la metafora del 45° parallelo in cui Torino si colloca e che la collega al resto dell'ecumene - ma saldamente ancorata alla sua identità, presente nei ricordi e nelle abitudini dei vecchietti che Giulio va a trovare durante i suoi raid quotidiani.fine, Mario, studente di lettere che lavora in un bioparco dove animali e persone convivono in piena armonia. Tutti e tre sono alla ricerca di qualcosa che gratifichi le loro aspirazioni, l'amore probabilmente, il senso della vita sicuramente.


In tale sipario la realtà si frantuma in un'esplosione di fantasie pirotecniche in cui entrano in gioco suggestioni letterarie - non solo quelle derivate dalle parole del sommo poeta mai come oggi così in voga, ma anche di Giulio intento a scrivere il romanzo di una gioventù percepita nella sua indeterminatezza - e passione cinefila, inserita attraverso il personaggio di Maria, appassionata di cinema muto, consumato con un'immedesimazione che prende forma nei trasfert ad occhi aperti in cui la ragazza si sostituisce alle dive dello schermo per sublimare i tormenti della sua irrequietezza.  


Alle prese con un soggetto di sublime inconsistenza per l'esilità di una trama che procede per assonanze sentimentali e slanci emotivi, "La luna di Torino" dà vita a una piacevole anomalia, diventando poesia con una profondità che si nutre di divertimento (basterebbe il filone dedicato al rapporto tragicomico tra Giulio e le donne) e di una libertà di cui è manifesto la sequenza d'apertura, quella che trasforma la ricognizione notturna effettuata in assenza di gravità in una danza di traiettorie che sembrano definire l'essenza stessa del film. Insieme a questo il merito di aver proposto la novità dei volti di Walter Leonardi, Manuela Parodi ed Eugenio Franceschini, perfetti nel convertire la freschezza delle prime volte nella contagiosa ingenuità dei personaggi. 

Passato al festival fuori concorso, il film è stato molto applaudito al termine della proiezione. Un buon auspicio per l'uscita nelle sale, annunciata per il marzo del prossimo anno.  
(pubblicato su ondacinema.it)

martedì, novembre 19, 2013

VIII Festival del cinema di Roma

Ci sono due modi per giudicare la riuscita di un manifestazione cinematografica: il primo e' il frutto di un conteggio numerico, e dai dati che emergono nel resoconto di Marco Müller non c'è dubbio che questa ottava edizione del festival di Roma  sia stata un successo tanto in termini di biglietti venduti che di affluenza di pubblico. Il secondo invece, relativo alla bonta' delle opere selezionate, si muove su un terreno reso più incerto dalle personalità chiamate ad esprimersi, e di conseguenza suscettibile di opposizioni anche forti come quelle che sono piovute sul verdetto della giuria capitanata dal regista James Gray. E' fuor di dubbio che il palmares di questa edizione sia stato a dir poco sorprendente, con la vittoria assegnata a "Tir", film italiano escluso da qualsiasi pronostico, e per la scelta di premiare Scarlett Johansson prestata ad un ruolo che prevedendo l'impiego della voce ed escludendo il corpo ne amplifica paradossalmente  la componente iconica. Ma a lasciare interdetti è stato la lista dei film rimasti fuori dalla contesa, mai come quest'anno meritevoli di considerazione. Stiamo parlando di "Her" di Spike Jonze, per molti il miglior film della rassegna, degli ottimi "Dallas Buyers Club" e "Out of Furnace", oppure tornando in Europa, al beniamino della critica, il romeno   "Quod Erat Demostrandum" film in bianco ambientato ai tempi di Ceausescu. 

Al di la dei meriti degli uni e degli altri appare più utile soffermarsi su alcune linee di tendenza emerse nella rassegna. Nel concorso il segno più evidente è stata la dialettica tra cinematografie di segno opposto, con il divismo e lo strapotere economico di quella hollywoodiana messa a confronto con un resto del mondo fatto di produzioni low budget ed attori sconosciuti. Da una parte la capacità del cinema americano di saper raccontare con forme di una classicità sempre nuova (vedere "Her" per credere), dall'altra quella di un movimento globale in grado di accorciare le distanze con idee ed immaginazione. Un confronto impari a giudicare dalla ressa scatenata dalle proiezione dei film di Joaquim Phoenix e Matthew McConaughey, solo in parte equilibrata dalla cinefilia e dal culto  prodotto da autori come Takashi Mike e Ayoshi Kurosawa.

Il festival è stata anche l'occasione per ammirare  interpretazioni  di altissimo livello non solo da parte di un tris d'assi - oltre a quelle già citati merita una menzione il Christian Bale di "Out the Furnace, semplicemente straordinario in un personaggio che sembra uscito fuori dalle canzoni di Bruce Springsteen- di cui sentiremo parlare ai prossimi Oscar, ma anche delll'ensemble femminile riunito nell'iraniano "Acrid". Il cinema italiano salvo qualche  eccezioni conferma una predilezione per il reale, espressa dalla mole di documentari sparsi nelle varie sezioni, ma anche declinata con ibridazioni che "Tir" nel bene e nel male esprime in maniera esemplare. 

Luci ( "Il venditore di medicine" di Antonio Morabito puo essere annoverato tra queste) ed ombre che appartengono al film di Alberto Fasulo ma non solo, perchè la seconda versione del Festival targato Marco Muller pur potendo avvalersi di una possibilità di scelta superiore all'anno scorso per la decadenza del regolamento che prevedeva una competizione di sole anteprime, ha mostrato un miglioramento della qualità complessiva ma non è riuscito sciogliere le contraddizioni di un'identità' a dir poco schizofrenica, divisa su posizioni che strizzano l'occhio al glamour ed allo spettacolo, e nel contempo  flirtano con un cinema radicale ed elitario, come dimostra il premio postumo assegnato al capolavoro russo "Hard to Be God", coupe de foudre che ci dicono di un Muller tutt'altro che appannato. Al cinema del festival invece auguriamo uno sbocco nelle sale. Sarebbe una vittoria per tutti, con buona pace dei contestatori di professione. 

Film consigliati:

Her di Spike Jonze
Out of Furnace di Scoot Cooper
Dallas Buyers Club di Jean Marc Vallee
Seventh Code di Ayoshi Kurosawa
The Male Song di Mike Takeshi
Quod Erat Demostrandum di Andrei Gruzsnick
Acrid di Kiarash Asadizadeh
Manto Acuifero di Michael Rowen
Il venditore di medicine di Antonio Morabito

 

Il paradiso degli orchi

Il paradiso degli orchi 
di Nicolas Bary
con Raphael Personnaz, Berenice Bejo, Emir Kusturica
genere, commedia
Francia, 2013
durata, 92'
 
L' importanza dell'evento si capisce dai titoli di testa che ad un certo punto sono occupati dai nomi nomi dei più importanti media francesi coinvolti nella produzione del film. D'altronde c'era da immaginarselo essendo "Il paradiso degli orchi" la trasposizione cinematografica dell saga letteraria di Daniel Pennac dedicata alla famiglia Malaussene. Pensato con l'imprenditorialità di un intrattenimento da cinema blockbuster "Il paradiso degli orchi" doveva vincere due sfide: la prima era quella di sapersi agganciare al testo letterario evitando di rimanerne invischiato; la seconda, più prettamente cinematografica era collegata alla riuscita di una forma che tentava di conciliare lo spirito del libro personaggi con la grandeur della confezione. Perché in effetti la trasposizione realizzata da Nicolas Bary non si fa mancare nulla in termini di effetti visivi, costruendo un universo surreale e magico capace di tenere testa alla fantasia da sognatore di Benjamin Malaussene, impiegato nel grandi magazzini di Parigi e responsabile di una famiglia di ragazzini che la madre innamorata e girovaga gli ha lasciato in affidamento. Costretto a sbarcare il lunario per mantenere i virgulti, Benjamin ha accettato di fare da parafulmine per conto dell'azienda, fungendo da capro espiatorio nei confronti delle proteste dei clienti. Senonché tra una vicissitudine familiare ed la liaison con una giornalista d'assalto di cui si è innamorato (Berenice Bejo tra poco sugli schermi con "Le Passè") lo stralunato protagonista rimane invischiato in una serie di attentati che lo vedono sempre sul luogo del delitto. Sospettato dalla polizia Maloussene e la sua bella scopriranno che le vittime delle esplosioni non sono casuali, ma piuttosto collegate ad un vecchio caso di sparizione di bambini avvenuta anni prima all'interno del magazzino.

Girato con grandi possibilità di mezzi, " Il paradiso degli orchi" non manca di sciorinare le sua ricchezza con un'opulenza di colori e linee architettoniche soprattutto che riguarda soprattutto i grandi magazzini trasformati in un sorta di parco di divertimenti dove ogni cosa può accadere, ed a cui il film delega la sua anima iper dinamica, quella dei colpi di scena e dei salvataggi a tempo scaduto, con Monsieur Malaussene impegnato a scansare i colpi di un misterioso nemico. In opposizione con il sobborgo multietnico di Belleville, luogo di sentimenti e di relazioni umane, dove i Malaussene sono di stanza, ed in cui la poetica della "vita come viene" e degli ideali egualitari si concretizzano attraverso la comunità allargata di amici e conoscenti che fanno da contorno alla simpatica famiglia. Nicolas Bary ha il merito di mettere a punto una narrazione fluida ed in grado di equilibrare le istanze che attraversano il film. Se poi entriamo nel dettaglio allora traspare la voglia di piacere un po' a tutti, con una serie di trovate e carinerie - come quella della dichiarazione d'amore di Benjam alla sua compagna filmata sullo sfondo di un esplosione che si trasforma in un lancio di corinadoli di carnevale - che esauriscono la loro forza nell'ambito della singola sequenza. Dovendo confrontarsi con un immaginario forgiato dalle invenzioni di registi come Spike Jonze e Michael Gondry l'impatto dell'universo di Nicolas Bary e' per forza di cose ridimensionato. Ed anche la scelta di puntare ad una perfezione stilistica che si manifesta soprattutto nella patina luccicante e variopinta della resa visuale finisce per togliere vitalità ai ritmi sincopati ed ai sentimenti dei vari personaggi. In questo modo "Il paradiso degli orchi" rischia di rimanere in una medietà di ottima fattura che può accontentare il neofita ma non chi da sempre ha amato l'universo creato dallo scrittore francese.
(pubblicato su ondacinema.it)

lunedì, novembre 18, 2013

New Hollywood (10) APOCALYPSE NOW (2)


"Apocalypse now" II

di: F.F.Coppola.



- "Can you picture what will be/So limitless and free/Desperately in need... of some...stranger's hand/In a... desperate land" -



Avventurarsi nei meandri di noi stessi non e' dissimile dal risalire/ridiscendere un fiume. Soprattutto e' impossibile prevedere cosa si può trovare alla svolta di un'ansa, ai margini di un fondale basso, nell'intrico di una vegetazione particolarmente fitta. Decisivo e' essere pronti a misurarsi con delle sorprese. Qualunque tipo di sorprese. E magari avere intorno qualcuno: soli, potrebbe non bastare. Soli, ad esempio, come spiegare ? Come testimoniare ? Conrad: "Risalire lungo quel fiume era come viaggiare all'indietro nel tempo, verso i più remoti primordi del mondo, quando la vegetazione tumultuava sulla Terra ed alberi immensi stavano come imperatori. Una fiumana deserta, un altissimo silenzio, una foresta impenetrabile. L'aria era calda, spessa, pesante, torpida". Alla foce del fiume Nung (toponimo di comodo a celare l'identità del Mekong), su un vasto delta di acqua fangosa, la luce e' radente, dai pieni riflessi oleosi. La vegetazione non vede l'ora di sottrarre centimetri alla spirale liquida che s'addentra nel continente. Ancora Conrad: "Si fece scalo in qualche altro luogo dal nome farsesco, dove la gioconda danza del commercio e della morte procede in un'atmosfera greve e terrosa come quella di una catacomba infuocata: qua e la' tutta quella costa informe con la sua perigliosa frangia di risacca, quasi la natura medesima avesse cercato di respingere gl'intrusi; fuori e dentro fiumi, correnti di morte in mezzo alla vita, le rive dei quali si stavano corrompendo in mota, e le acque, addensate in melma, invadevano il dominio dei manghi contorti, che parevano divincolarsi verso di noi nel parossismo di una disperazione impotente". Willard torna sugli sviluppi recenti ("Accettai la missione.

Che altro diavolo avrei potuto fare ?"/["I took the mission. What the hell else was I gonna do ?"]), e guardandosi intorno fa il punto, a modo suo: "L'unico problema e' che non sarei stato solo.
L'equipaggio era formato principalmente da ragazzini fanatici del rock'n'roll già con un piede nella fossa. Il motorista, quello che chiamavano "Chef" (Jay "Chef" Hicks/F. Forrest) veniva da New Orleans. Era troppo nervoso per il Vietnam. Forse lo era troppo pure per New Orleans... Lance (Lance N. Johnson/S. Bottoms), addetto alla mitragliera di prua, era un famoso asso del surf delle spiagge di Los Angeles. Non si sarebbe mai detto che avrebbe usato un'arma in vita sua... "Clean" (Tyrone "Clean" Miller/un ancora adolescente L. Fishburne), il signor "Clean" veniva da qualche posto di merda del Bronx e credo che la luce e lo spazio del Vietnam lo avessero scioccato... Poi c'era Phillips (George "Chief" Phillips/A. Hall), il "Capo". La missione poteva essere la mia ma la barca era sicuramente del "Capo"" (una "PBR", Patrol Boat River, vedetta della Marina in plastica, di ridotte dimensioni, nelle intenzioni un mezzo di facile impiego e di scarsa appariscenza per il nemico). Nemmeno il tempo di girarsi che e' già ora di mettersi in posa per un'istantanea-ricordo di un attacco o per staccare il biglietto per un inaspettato carnevale di morte (Willard: "Quei ragazzi [la Cavalleria dell'Aria, I reggimento, IX divisione] non riuscivano proprio a stare fermi"/["Well... Air Mobile. Those boys just couldn't stay put"]).
"Elicotteri e gente che balza fuori dagli elicotteri, gente talmente invasata da correre per poter salire anche quando non c'era nessuna urgenza. Elicotteri che si alzano dritti sbucando da piccoli spazi sgombri nella giungla, che scendono oscillando verso le cime dei tetti della città, casse di razioni e di munizioni buttate giù, morti e feriti caricati su" - M.Herr, op. cit. - "E' possibile spettacolarizzare tutto ?" si/ci domanda Coppola allorché si appresta ad allestire la celebre sequenza relativa al bombardamento del villaggio di Vin Din Drop ("Come si chiama quel maledetto villaggio ? Din Rin... Dan Lap... Questi fottuti nomi sembrano tutti uguali"; "E' un posto cazzuto, quello.

E' una base di 'Charlie'... 'Charlie' non fa il surf !/["'Charlie' don't surf !"] [Kilgore/soldato]. La risposta affermativa alla suddetta questione scaturisce "spontaneamente" dalla piega presa dagli avvenimenti sul "teatro" vietnamita una volta messa in moto l'enorme macchina bellica made in USA e constatato ancora e in parallelo il ruolo del cinema di consumo come veicolo "pesante" della diffusione su scala mondiale dell'"american outlook on life" (ricordiamo - en passant - che la sequenza in oggetto, della durata di circa otto minuti, "costo'" cinquanta giorni di riprese contrassegnate da interruzioni di ogni tipo; requisizione degli elicotteri Bell HU-1, detti "Hueys", da parte dell'allora dittatore filippino Marcos; ripetizioni; cambiamenti in corso d'opera et...). A dire: migliaia di uomini; tonnellate di attrezzature; giganteschi apparati logistici; centri di raccolta, smistamento e analisi delle informazioni; strutture di supporto e rifornimento, rappresentano di per se' (tendenza finita ampiamente fuori controllo negli scenari guerreschi che hanno visto coinvolta nei tempi a venire la prima potenza economico-militare del pianeta) uno smisurato set in perenne allestimento/trasformazione, alle cui primarie (?) ragioni strategico/politiche non e' mai del tutto estranea la componente rutilante, fantasmagorico/auto-celebrativa: cioè proprio la fisionomia di uno spettacolo in piena regola, qualcosa che galleggia costantemente fra Hollywood, Disneyland e - come vedremo - Playboy. In tal senso, i numeri ufficiali del conflitto aiutano a delimitare la configurazione di un meccanismo/apparato davvero colossale: tenendo sempre a mente i non meno di 2 milioni di morti tra militari e civili in campo vietnamita, stiamo parlando di quasi 600.000 soldati USA impiegati nel conflitto al momento del massimo coinvolgimento; oltre 58.000 i morti al termine delle ostilità: circa 170 i miliardi di dollari utilizzati al fine di scongiurare il timore per cui "la vittoria degli indipendentisti (vietnamiti) avrebbe compromesso l'equilibrio politico tra il blocco occidentale e quello sovietico e che, dopo la vittoria di Mao in Cina, il Pacifico Orientale avrebbe finito per diventare un oceano 'rosso'" - Maffi, Scarpino, Schiavini, Zangari, "Americana. Storie e culture degli Stati Uniti -.
"C'erano installazioni grandi come città di trentamila abitanti. Una volta ci capitammo per portare le provviste a un solo uomo. Dio sa che razza di numeri alla Lord Jim redivivo stava facendo laggiù ... C'erano grossi campi eleganti con l'aria condizionata simili a confortevoli ambienti borghesi dove la violenza era inespressa, 'lontana'; campi dedicati alle mogli dei comandanti, l'eliporto Thelma, il Betty Lou..." - M.Herr, op. cit. - Sin dalla prima apparizione, ad esempio, di uno dei protagonisti assoluti di questo supershow - il cui convitato di pietra, ricordiamolo, e' comunque la Morte - il ten.col. William "Bill" Kilgore/R. Duvall (Willard: "Non era un cattivo ufficiale, penso. Voleva un gran bene ai suoi ragazzi. Ti sentivi al sicuro con lui. Era uno che aveva uno strano alone di luce attorno a se'... Era chiaro che non si sarebbe fatto neppure un graffio, qui") - inquadrato molte volte dal basso, a sancire, in una combinazione sarcastica di apologia, compatimento e critica, l'impressione di una statura epica a cui sottendere un'indiscutibile superiorità morale cara alla vulgata americana dell'eroe tutto-d'un-pezzo, alieno alle mezze misure (Kilgore non fa una piega nemmeno quando gli esplodono colpi di mortaio a pochi metri), supporto più che fermo alla visione imperialistico/egemonica che lo ha partorito/cresciuto ("Come ti senti oggi, Jimmy ?"; "Cattivo e figlio di puttana, signore !") - e' già possibile rintracciare una dismisura, un'altra piccola "apocalisse": la distanza - e l'intima violenza implicita in questa distanza - tra la monumentalita' ferale dell'apparato a stelle e strisce (di cui Kilgore e' una delle punte di diamante, una delle incarnazioni più "efficienti") e la silenziosa e modesta vita agreste del popolo vietnamita. Distanza che Coppola sottolinea e accresce frammentando di continuo il montaggio delle immagini che preludono l'incursione con, da un lato, l'adrenalina crescente sui volti e nelle posture "scomode" dei soldati, messa in circolo anche dalla musica di Wagner - la stranota e oramai "inconscia", nel senso che sembra di sentirla solo pronunciando il titolo del film, "Cavalcata delle Valchirie" - sparata a tutto volume (Kilgore: "Io 'uso' Wagner. Fa cacare sotto i vietnamiti.

I miei ragazzi lo adorano"); dall'altro, la composta e ordinata linea difensiva approntata dagli abitanti (e dai Vietcong) presenti nel villaggio, capovolgendo in tal modo, la tipica struttura "western" di questo genere di sequenze che, per tradizione, vedeva spesso la conquista dello "spazio vitale", il "destino manifesto" dell'estensione della "frontiera" anche come eliminazione fisica di una popolazione locale (ritenuta) ostile e/o indomabile, qui, invece, caratterizzata da una nutrita compagine di umanità inerme, in aderenza più o meno stretta alla montante ondata "revisionista" che aveva cominciato a farsi sentire anche nel cinema a ridosso della fine degli anni '60 e all'inizio degli anni '70, promuovendo una rilettura più serrata e pessimista dei parametri d'interpretazione della Storia fin li' accettati o relativamente poco sindacati. Ecco, così, che l'azione militare propriamente detta si concentra - di sicuro - su un obiettivo controllato dal nemico ma - nei fatti - abitato più che altro da civili: donne, vecchi, persino una scolaresca, e sembra svolgersi secondo una prassi (ecco la tentazione spettacolare) che somiglia molto da vicino a quella che potrebbe vedere coinvolta una serie di squadre specializzate le quali, tra disboscamenti, rimozioni forzate e abbattimenti di ostacoli naturali (alberi, colline, avvallamenti et.) si appresta a rendere possibile l'esecuzione di un "numero" particolare, nel caso - dopo la messa in sicurezza delle zone limitrofe ad uno specchio d'acqua prescelto - le evoluzioni di un gruppo di soldati-surfisti (Kilgore: "A me piace finire presto le operazioni.../["I like to finish up operations early (and fly down to Vung Don for evening")] [in modo da dedicare più tempo, il tempo che "conta" davvero, al surf]; "'Barra'/["A good left slide"/anche "peak"] ? Perche' non me ne hai parlato prima ? Una buona 'barra'...Non ce ne sono mica tante in questo paese del cazzo. Solo risacche, in questa merda di posto... Diavolo, una 'barra' di due metri... eeehahaha... !).

"Spettacolo" o "gioco di finzione" che Coppola spinge al limite, rendendolo esplicito (qualcuno ha detto persino troppo), quando Willard appena posto piede sulla spiaggia, ad attacco ancora in corso, si sente apostrofare da una mini-troupe - Coppola, Storaro e Tavoularis in carne ed ossa - che gli sbraita contro ordini categorici e reiterati: "Andate avanti ! Andate avanti ! [E' Coppola che parla] Non vi fermate ! Andate avanti ! Non guardate in macchina, non guardate in macchina ! Andate avanti ! 'Come se combatteste !' E' la televisione..."/["Don't look at cameras, don't look at cameras. Go on through... go on through. Don't look at cameras. 'Go by just like you're fighting...'"]. Fatto. Lo "spettacolo" della guerra. Il presupposto stesso di "Cavalleria dell'Aria", del resto, accarezza l'immaginazione, facendola viaggiare su sentieri mitici (non poi così lontani da Wagner e dalle sue Valchirie), "naturalmente" inclini ad una rappresentazione - vuoi di potenza, vuoi di magnificenza, di regale se non divina prerogativa di concedere la Vita o d'infliggere la Morte - che esula senza difficoltà l'ambito della narrazione di un "evento storico" e abbraccia connotati emotivo/simbolici profondi che trasfigurano l'episodio in una sorta di "super messinscena".
In effetti, la guerra, se intesa in primis come gigantesca mobilitazione, si presta ad una visione, diciamo così, "scenografica". Le articolate riflessioni operate su questo specifico tema da un "geometrico" purissimo come Kubrick (il "suo" Vietnam, "Full metal jacket" - 1987 - e' integralmente "ricostruito", "e'", di proposito, una scenografia) mettevano spesso in evidenza, tra l'altro (con riferimento puntuale ad una delle ossessioni preferite - e deluse - del genio americano a dire lo "schema totale" - ecco un altro, per restare a noi, che, come Kurtz, aveva "progetti immensi"; un altro dei non molti che avrebbe potuto pronunciare l'inquietante frase vergata da Conrad: "I had immense plans" - di un "Napoleone" che prevedeva lo schieramento autentico, ossia non digitalizzato ed indipendentemente dalla fattibilità tecnica della sua realizzazione, di migliaia e migliaia di comparse per la ricostruzione/reinvenzione di battaglie celebri) proprio l'idea di guerra come "gioco supremo", le cui azioni/variazioni si svolgevano come su di una fantomatica scacchiera, il cui presupposto razionale (i piani, le astuzie, le trappole) era alla fine sistematicamente beffato e ridicolizzato dal Caso: palcoscenico di un desiderio sconfinato per una mente sconfinata, insomma, le cui quinte, per assurdo ma non troppo, potevano essere benissimo quelle del mondo intero. In una prospettiva del genere - la legittimità dei cui paradossi era nota tanto a Kubrick quanto, nei fatti, allo stesso Coppola - diventa persino "logica" un'altra delle tante celebri battute di Kilgore: "O fai il surf o combatti !"/["That's good, son. Cause you either surf or fight !"]. Perché, a ben vedere, non c'è tutta questa differenza, se l'impostazione e' quella del "gioco", dello "spettacolo"; nel nostro caso del gioco come tentativo di differimento/rimozione della "tenebra". L'occupante si porta dietro, assieme a uomini e cannoni, la propria Tradizione, qui (anche) il surf (e annessa componente spettacolare): orizzonti politico/militari e ludico/sportivi, cioè, si spostano su direttrici simboliche/formative, di appartenenza, "eroiche" - non così distanti fra loro. Gioco come sfida, quindi; sfida come spettacolo, spettacolo della Vita e della Morte, con tanto di contrassegno/talismano di riconoscimento - le carte - che sono "carte-da-gioco", appunto, e sulla scena diventano "carte-di-morte"- (Kilgore, mentre ne distribuisce sui cadaveri dei Vietcong appena uccisi: "In tutto il mucchio non ce n'e' nemmeno uno che valga un fante").



O come pure il ricorso a diversivi evanescenti e dai colori contundenti (le immagini stesse assumono da ora cromatismi via via sempre più accesi, in una sotterranea quanto lucidissima sottolineatura ponderata da Storaro al fine di rimarcare l'antitesi tra i colori "naturali" dell'Organismo Vivente della giungla e quelli "artificiali", saturi, violenti, pacchiani, della Civiltà e dei suoi strumenti), l'uso abbondante, a dire, di fumogeni dalle tinte vistose - giallo cromo, arancio, viola - che oltre a diffondere un alone ipnotico-psichedelico (anch'esso, mano mano che il film "affonda" verso Kurtz, cuore della tenebra, sempre più presente) rende avvertibile il malessere fin qui strisciante ("Strisciare verso Kurtz", diceva Conrad) verso un atteggiamento, nello specifico tipico del "modo di essere americano", per cui rischio, sprezzo, pericolo, guasconeria, lambire- la-morte, eccitazione, intrattenimento, sono contenuti nella stessa confezione "formato famiglia" ed hanno l'identico, aspro, odore/sapore dominante che azzera ogni sfumatura, ogni retrogusto, nonostante "prima o poi questa guerra finirà"/("someday this war's gonna end") (Kilgore): l'odore/sapore del napalm [Kilgore: "Lo senti ? Lo senti l'odore ? E' napalm, figliolo. Non c'è nient'altro al mondo che odora così... Mi piace l'odore del napalm, di mattina. Una volta, una collina la bombardammo per dodici ore. Finita l'azione, andai li' sopra. Non ci trovammo nessuno, neppure un lurido cadavere di Viet. Ma quell'odore... Si sentiva quell'odore di... benzina. Tutta la collina... odorava di... di vittoria..."/["You smell that. Do you smell that ? Napalm, son... Nothing else in the world smells like that... I love the smell of napalm in the morning... You know, one time we had a hill bombed for twelve hours. When it was all over, I walked up. We didn't find one of 'em... not one stinking dink body. (They slipped but in the night...) but the smell... that gasoline smell... the whole hill... it smelled like... victory)] ... ... All'eccitazione allucinatoria della "potenza" e della "vittoria" allestita come susseguirsi di effetti scenici e mirabilia di morte (Kilgore) fa eco - ed e' un sussurro languido, come un calore improvviso degno di un "viaggio" fuori programma ("A questo punto il film diventa lisergico; la guerra psichedelica... Sarà il primo film a vincere il Nobel", commento' Milius, il cui primigenio trattamento, dal quale sarebbe scaturito poi "Apocalypse now", s'intitolava non per vezzo "The psychedelic soldier") - il "rallentamento" altrettanto fantasmatico del "sesso", reso percepibile e quasi palpabile dalla presenza delle "Bunnies", le conigliette di Playboy nella località/magazzino a cielo aperto di Hau Phat, reclutate dallo USO, United Service Organization, organismo incaricato dell'allestimento degli intrattenimenti delle truppe. A tutta prima, col palco che si erge mezzo illuminato sullo sfondo del fiume placido nella notte e nell'oscurità ancora più nera della giungla, il giovane "Clean" non riesce a trattenersi: "Certo che questo e' uno spettacolo strano in questo cesso"/("This sure is a bizarre sight in middle of this shit"). Ma invece non lo e'. Perché e' proprio per lui e per tutti gli altri soldati che e' stato messo in piedi, allo scopo di convogliare la mente altrove - "La fica distrae", nozione elementare che i Comandi hanno sempre scaltramente amministrato - e rendere più smussata la possibilità tutt'altro che remota della "fine"/"the end". Le miss, come eiaculate da un elicottero il cui faro squarcia nell'occhio dell'obiettivo della mdp l'oscurità della notte, ridacchiano, ancheggiano, solleticano ciò che sta dietro i genitali delle giovani reclute, volto in apparenza gentile della tenebra che la guerra e il territorio selvaggio hanno risvegliato e che non tarda a palesarsi al momento di riversare all'inizio contumelie (del tipo: "you fucking bitch !"), poi direttamente se stesso contro le tre figure agghindate come comanda una bella fetta dell'immaginario erotico/pubblicitario americano: l'appetitosa ed esotica squaw, a cui risponde la ragazza soldato-dell'unione con la camicetta legata al petto.



E al centro, in alto, la cow-girl bambina, grosse pistole nelle mani sottili e gran voglia di mettersi a cavalcare. Coppola alterna i movimenti rapidi della macchina da presa dal palco agli spalti inghirlandati per offrire campi più lunghi mano mano che la "festa" degenera; spinge sul rock ammiccante ("I like the way you walk, I like the way you talk..."); avvolge il campo visivo di fumi ed esasperazioni sonore cupe e stridule. Poi la mdp indugia sospesa, come stupefatta/atterrita sullo scomporsi della truppa libera di dar sfogo a ciò che gli si agita nel profondo nel mentre l'elemento femminile si ritrae, conscio del deja-vu che lo vuole in caduta libera entro il solito cliché di animale-da-sacrificio, di natura-violata: isola, mentre gli eventi precipitano, in silenziose inquadrature più strette e dal morbido movimento laterale, contadini vietnamiti ed alcuni ragazzini - aggrappati entrambi alle recinzioni dell'improbabile campo/magazzino/palco - testimoni attoniti di un bislacco rituale, ed infine Willard, gli occhi pero' meno increduli, adesso; il contegno non più prostrato, le riflessioni in sintonia con un distaccato disincanto. "'Charlie'", rimugina, "non aveva molti trattenimenti del genere. O s'imbucava nella terra troppo profondamente, o si muoveva troppo in fretta. La sua idea di meraviglioso passatempo era riso freddo e un po' di carne di topo. Aveva solo due strade per tornare a casa: la morte o la vittoria... Sfido io che Kurtz faceva rodere il culo ai suoi superiori. A condurre la guerra era un gruppo di clown a quattro stelle che avrebbe finito per dare via tutto il circo..."/("... No wonder Kurtz put a weed up command's ass. The war was being run by a bunch of four-stars clowns who where going to end up giving the whole circus away"). "I vietcong lavoravano dentro i campi come lustrascarpe e lavandai e raccoglitori di miele, ti inamidavano le tute, bruciavano la tua merda e poi se ne tornavano a casa a bombardare la tua zona... ... Tutto quello che potevi fare era guardarti intorno per vedere se anche gli altri erano spaventati e tramortiti come te. Se ti sembrava che non lo fossero, pensavi che erano matti; se avevano l'aria di esserlo, stavi pure peggio" - M.Herr, op. cit. -

- seconda parte -

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