sabato, aprile 26, 2014

THE AMAZING SPIDER-MAN- IL POTERE DI ELECTRO

The Amazing Spiderman-Il potere di Electro
di Marc Webb
con Andrew Garfield, Emma Stone, Jamie Foxx
Usa, 2014
genere, fantasy, avventura, action
durata, 152'

Doveva essere un passaggio di consegne o almeno così era stato annunciato dai tabloid impartiti a dovere per dare fiato alle trombe del nuovo marketing cinematografico. Spiderman della Marvel è il figlio prediletto, per cui non sorprende il tentativo continuo di rivitalizzare il personaggio con cambi di forma e di registro che hanno portato dapprima ad azzerare la cinematografia del personaggio,mettendo in soffitta il pop Movie di Sam Raimi e Tobey Maguire, sostituiti rispettivamente da Marc Webb e Andrew Garfield: successivamente ad operare un cambio di registro del nuovo format (Amazing Spider-Man 1)  con l’intenzione di presentare una versione più scanzonata e leggera del tessiragnatele, in parte offuscata nella prima versione da un eccesso di pensieri e responsabilita’.

La dichiarazione d’intenti di “The Amazing Spider-Man- Il potere di Electro” è dimostrata dalla successione delle due sequenze che aprono il film, con il ritorno al passato tragico dei genitori di Peter, subito doppiato da una scena interlocutoria, in cui l’entrata in azione dell’eroe da modo al film di presentare l’assunto del suo modus operandi, che secondo le parole dello stesso Peter Parker, avviene all’insegna del piacere e del divertimento.

Ma come sappiamo la strada della virtù e’ lastricata di buone intenzioni, ed il duo di scrittori incaricati di rendere plausibile il nuovo manifesto (Roberto Orci e Alex Kurtzman, sodali di JJ Abrams  in “Mission Impossible III” e  “Star Treck”) deve fare i conti con il DNA del personaggio e con la sua storia fumettistica. Invece di sfoltire le varie implicazioni Kurtzman ed Orci decidono di tenere conto di tutto. Così se da una parte ci restituisco un personaggio in armonia con il proprio universo, e lontano dalla marginalità nerd con cui Stan Lee lo aveva immaginato, dall’altra non riescono a liberarsi di quelle origini, riproponendole addirittura sul palcoscenico principale. In questo modo il protagonismo del cattivo di turno annunciato dal titolo - Electro in versione afro, interpretato da Jamie Foxx – così come la compartecipazione della nuova versione del folletto verde, alias Goblin, non riescono mai a salire in primo piano, affondati definitivamente dal dramma che incombe sulla storia; anche quello riproposto come omaggio ad una pietra miliare della storia del fumetto, destinata a cambiare per prima di Alan Moore e Franck Miller la percezione dell’universo supereroistico, consegnandolo al realismo del mondo reale. A farne le spese è  l’equilibrio dell’impianto drammaturgico, penalizzato dalla troppa carne al fuoco, ed incerto nella gestione dei saliscendi emotivi, ma anche la componente action, convenzionale sia dal punto visivo che dinamico. Intrattenimento da Teen Movie, “Amazing Spider-Man 2 – il potere di Electro” diverte senza entusiasmare.

TRANSCENDENCE


Transcendence
di Wally Pfister
con J Deep, Rebecca Hall, Morgan Freeman
Usa, 2014
genere, fantascienza
durata, 120' 
Le aspettative sono quasi sempre fuorvianti. Nel caso di "Transcendence" diventano addirittura nefaste se consideriamo che la ragione dell'attesa era motivata non solo dall'attualità di un argomento come quello dell'intelligenza artificiale, da sempre comburente per pro e contro ricchi di stimoli e suggestioni, ma più che altro per la presenza in cabina di regia di un esordiente come Wally Pfister, sodale di lunga data di quel Christoper Nolan dei cui più recenti successi il nostro ha curato il comparto fotografico.

La storia del film riprendeva il tema faustiano dell'uomo che si fa Dio, analizzandone contraddizioni e manie d'onnipotenza. Un incipit classico che Pfister attualizza con un'ambientazione da scenario apocalittico. Dopo un breve prologo, in cui facciamo appena in tempo a vedere Johnny Deep in carne ed ossa alle prese con le discussioni intorno all'eticità della scienza e delle sue scoperte, la storia si sposta nel deserto americano di una cittadina che assomiglia alla Alamogordo delle sperimentazioni nucleari di Oppenheimer. Resuscitato dai morti grazie ai servigi della propria innamorata che lo trasforma in un ologramma cibernetico, l'ex pirata dei caraibi si cala nello spirito e nei pixel di una divinità analogica, capace di compiere qualsiasi tipo di "miracolo" in virtù del suo essere parte integrante dei circuiti informatici. Ovviamente ogni potere ha il suo contraltare e quello del protagonista sfocia in una controllo totale ed invasivo che assomiglia al grande fratello Orwelliano.

Se la mancanza di una sceneggiatura almeno plausibile non consente a Pfister di uscire al di fuori dello stereotipo, "Transcendence" risulta addirittura innoffensivo sul piano dello spettacolo per la mancanza di empatia dei personaggi (su tutti lo spento Deep ma anche la brava Rebecca Hall, condizionata da un personaggio troppo ingenuo per essere verosimile) e per ultimo, ma nel caso del regista sarebbe in cima alla lista, da un impianto visivo piatto e confuso, che neanche per un momento riesce ad essere visionario ed immaginifico. Il livello potrebbe essere quello di un qualunque telefilm, ma ora che la serialità televisiva è diventata arte, "Transcendence" rischia una catalogazione talmente poco dignitosa che preferiamo evitare altri aggettivi.

giovedì, aprile 24, 2014

IL CENTENARIO CHE SALTO' DALLA FINESTRA E SCOMPARVE

Il centenario che saltò dalla finestra e scomparve
di Felix Herngren
con Robert Gustafsson, Alan Ford, Mia Skäringer, Iwar Wiklander
Svezia, 2013
genere, commedia, drammatico, avventura
  

Tratto dal romanzo di Jonas Jonasson, il film narra di Allan Karlsson, che il giorno del suo centesimo compleanno decide di scappare dalla casa di riposo, per intraprendere uno stravagante viaggio dove verranno ripercorsi e ridiscussi i più importanti eventi storici del ‘900, del quale Allan è stato inconsapevolmente principale artefice.

La fuga ricorda quasi il Bilbo Baggins di Tolkien, ed i flashback storici riprendono palesemente Forrest Gump. Ed il grande elemento di forza del film è proprio l’intreccio tra la storia presente (ovvero quella che si sviluppa dalla fuga) e la storia passata, passando velocemente dagli involontari torti alla mafia ad i festini alcolici con Stalin, impregnando il tutto con un ritmo incalzante e pochi momenti morti. Herngren mette a punto dunque una commedia grandiosa, dove le gag comiche, che vanno a ripescare vecchi generi, vengono protratte con grande sicurezza da un dinamismo efficacissimo, dove le folli risate ogni tanto si abbandonano alla smorfia di perpetuo sorriso che è compito della commedia stampare sul volto dello spettatore.

Nell’epoca il cui la grande commedia d’autore sembra monopolizzata dalla Francia e, bisogna dirlo, con qualche spunto qua e là nella cosiddetta “nuova commedia all’italiana”, all’improvviso dalla Svezia arriva questo capolavoro “sui generis”, dove il risultato sfiora la perfezione.
(pubblicato su dreamingcinema.it)
Antonio Romagnoli

NYMPHOMANIAC VOL.2

Nymphomaniac vol.2
di Lars Von Trier
con Charlotte Gainsbourg, Stellan Skarsgard, Shia Lebouf
Danimarca, Francia, Germania, Belgio 2013
genere, drammatico, erotico
durata, 


Riassunto della puntata precedente. Joe ninfomane irrequieta e raminga viene raccolta ferita e sanguinante da Selingam, adulto solitario e taciturno che dopo avergli offerto riparo decide di farsi raccontare dalla ragazza la storia della sua vita e le ragioni della sua condizione. Essendo il sesso la causa di ogni disgrazia il reconto assume ben presto la forma di un kamasutra visivo e filosofico dove la morale (Selingman è chiamato da Joe a considerare i suoi comportamenti ) è sempre dietro l'angolo. Rispetto alla prima sezione il volume II aveva dei nodi da sciogliere. Il primo, quello secondo noi più importante, era di verificare la consistenza di un opera che sulle prime era apparsa monocorde e transitoria, arroccata più che altro sui tentativi di LVT di nobilitare il tema in questione con discorsi sui massimi sistemi. La seconda, non meno urgente, consisteva nel verificare la natura del rapporto tra i due personaggi, entrando nello specifico di una relazione simile a quella tra medico e paziente (il segno del film ricalcava situazioni e posture da seduta psicanalitca) e come tale in grado di creare il doppiofondo di una storia piena di ripetizioni.

Ed in effetti qualcosa succede, perchè in questa seconda puntata il film cambia marcia, arricchendosi di visioni e accadimenti capaci di dare senso all'intero ambaradan. Si inizia così con il sacro e il profano di una trasfigurazione che rimanda al primo orgasmo di Joe, paragonato per la spontaneità non indotta al fenomeno dell'immacolata concezione, per continuare ancora una volta sulla falsariga di immagini bibliche, con la presa di coscienza di una diversità, quella di Joè, perfettamente naturale, come dimostra l'accostamento della sua figura all'anomalia dell'albero in cima alla montagna, obbliguo ma perfettamente in sintonia con il sublime del paesaggio che gli fa da cornice.Visioni potenti e suggestive di un percorso di liberazione destinato a smentire le premesse della storia, ribaltando condizione e punti di vista.

Maggiormente articolato e meno frammentato del primo segmento, "Nymphomaniac vol II" fa entrare in gioco varianti sorprendenti, a cui volutamente evitiamo di riferirci per lasciare intatta la sorpresa, e che però permettono di contattare un vitalismo a cui il film  aderisce in maniera più consapevole e partecipe. Non passa inosservato il gioco di specchi tra i due protagonisti, definiti su opposti ( la differente partecipazione alla vita) che finisco per coincidere nella medesima apatia emotiva. Così come la barometrica interpretazione della Gainbourg, sindone muta di un cinema che si schermisce per non soffrire. Certo il grottesco triste della sequenza finale, con la dissolvenza in nero che replicando quella che apriva il dittico equipara l'inzio con la fine, così come la gestione dell'opera, confezionata alla stregua di un qualunque prodotto cinematografico, lasciano intatti i sospetti di una programmaticità finemente ingegnata.

LA SEDIA DELLA FELICITA'


di: C.Mazzacurati

con: V.Mastandrea, I.Ragonese, G.Battiston
- ITA 2014 -
Commedia - 97 min


Regalarsi un'illusione innervandola di fiducia, provare a sorridere delle cose senza dimenticare di che pasta sono davvero fatte, oggi come oggi e' un'operazione talmente grama da rendere lo stoicismo un esercizìo praticabile su larga scala. Eppure tale e' l'invito proposto da Carlo Mazzacurati (scomparso pochi mesi or sono) in questo suo film, "La sedia della felicita'" - presentato durante lo scorso Torino Film Festival - "ultimo" solo come elemento di una serie fatalmente interrotta ma in grado di prolungare il proprio interesse, nonché la gentile malia, in virtù del rincorrersi al suo interno delle tracce di una volontà ancora assai curiosa e per nulla rassegnata al cosiddetto "spirito del tempo".

Levita', una qual allegria, felicita', persino (o per l'appunto, visto il titolo), sono espressioni a potenziale alto tasso di retorica: grimaldello spesso maneggiato a sproposito o inserito per fare leva sui cardini delle porte sbagliate. Nell'opera di Mazzacurati tali estremi riescono, invece, non tanto ad imporsi, quanto a non stridere col tessuto di una storia che sebbene ancorata alla linea narrativa, ai ritmi e agli snodi tipici della commedia - a volte con intarsi fiabeschi, talaltre intrisa di uno spirito bizzarro o grottesco - non distoglie mai del tutto lo sguardo dalla amalgama (precaria, in parte incomprensibile, spesso afflitta se non desolata) con cui s'impasta la contemporaneità, quest'eterno presente in forma di una transizione all'apparenza senza fine, dagli esiti sfuggenti, quindi oltremodo inquietanti, calatasi oramai nel profondo delle vite di ognuno e che e' allo stesso tempo antropologica, morale ed economica. Parliamo della ricerca di una stabilita' psicologica prima ancora che materiale; della mutazione radicale del paesaggio, della sua funzione, del suo "utilizzo" (nel caso, il famoso/famigerato Nord- Est, oggi frammento periferico informe di un "impero" senza centro e senza indirizzo) e delle conseguenti modificazioni interiori che essa innesca. Come pure dell'accelerazione dei processi economici sempre più spesso subiti anziché indirizzati o della difficoltà di accordare il proprio passo a quello di un'umanità sovente illusa e ferita allo scopo di riannodare il filo di una possibile convivenza, et. Tutti elementi che ne "La sedia della felicita'" pulsano sempre di quella loro luce insidiosa e un po' tetra (comune ai momenti più malinconici e sospesi di altri lavori) ma che il chiarore diffuso della fotografia di Bigazzi, la scelta di contrasti vivaci nella tonalità dei colori, il buonumore dei paradossi, delle battute e delle trovate - in alcuni casi al limite del mero scherzo, in altri tratteggiato secondo l'estetica dispettosa dei cartoon - attenua nell'affacciarsi di penombre e chiaroscuri forse infidi, mai pero' prevaricatori.

Del resto i personaggi stessi - Dino (Mastandrea che aggiunge una nota di candore al collaudato personaggio la cui scarsa presa sulla realtà si caratterizza a forza di sorrisi accennati e perplessi silenzi), di professione tatuatore, separato, un figlio che non vede quasi mai, arretrati da pagare e scarse prospettive, e Bruna (la Ragonese, simil eroina di Miyazaki, cortesia e occhi vispi, compostezza ancorata ad un vasto fondale di brio), estetista, eternamente a rischio pignoramento, tradita in amore - in picaresca caccia, assieme ad un prete sui generis (il padre Weiner di Battiston, video-poker dipendente, avido e pasticcione) di un tesoro-refurtiva, pur muovendosi sul crinale di una tipizzazione cara ai trascorsi del regista, assecondano una piega scientemente modellata in guisa da far risaltare, grazie anche all'esilità dell'intreccio, i caratteri più amabili, quasi fanciulleschi, di quella sorta di "cinismo bonario" con cui stanno al mondo. Dino e Bruna, infatti, sono persone escluse dai grandi giochi della Storia; le loro esistenze "al 3%" si consumano gomito a gomito con i centri commerciali e i ristoranti cinesi. Ciò che trascinano nei giorni sono occupazioni dirette dirimpettaie di quel narcisismo di massa che in provincia si agghinda di striature surreali o bislacche, alla stessa stregua delle persone che conoscono o frequentano, dirette emanazioni di quei territori o di ciò che ne resta al netto dei rivolgimenti inflitti loro dalla "modernità". Ciononostante - e in questo risiede lo scarto "sovversivo" di Mazzacurati - un tale modo di vivere (o di sopravvivere, non importa) non gl'impedisce di produrre lo sforzo di conoscersi reciprocamente, di trovare man mano addirittura il coraggio d'innamorarsi per cui, a conti fatti, la "caccia al tesoro" risulta essere più il mezzo che il fine della loro avventura e il premio ricevuto qualche grano di autentica comprensione, che alla felicita' somiglia molto, se non le sopperisce per intero. In ogni caso, una ricompensa per una volta svincolata, almeno in parte, dalla poltiglia della necessita' e del denaro a rinnovare l'antico adagio - forse non solo più tale, a questo punto - per cui "bene qui latuit, bene vixit".

TFK

IN NOMINE SATAN

In nomine Satan
di Emanuel Cerman
con Stefano Calvagna, Federico Palmieri, Tiziano Mariani
Italia, 2012
genere, thriller, horror
durata, 96'


Fenomeno sommerso di cui si conoscono solo i numeri (600 mila adepti per 80 mila sette) il satanismo alla pari della Massoneria è un tipo di associativismo che molti citano senza però riuscire a collocare all'interno di uno spazio coerente con il resto del paesaggio. Di conseguenza la riproposizione del tema, peraltro aggangiato ad uno dei fatti di cronaca più inquietanti della storia recente, e qui parliamo dei delitti commessi dalle cosidette Bestie di Satana, gruppo di assassini seriali legati al culto del diavolo, faceva di "In Nomine Satan" un film di per sè interessante ancora prima di incominciarne la visione. Alle aspettative connesse con la scelta del punto di vista assunto dalla storia, si sommava la curiosità di valutare un operazione di genere che il cinema italiano, fatto salve rare eccezioni (I Manetti Bros) fatica a perseguire con la necessaria continuità.
La vicenda ci porta immediatamente sul luogo del delitto, con la polizia che si imbatte quasi per caso in uno dei componenti della banda, per poi risalire, grazie soprattutto alle indagini di due volenterosi inquirenti, all'origine di un'azione delittuosa copertà dall'omertà e dalla paura delle persone che direttamente o meno ne sono rimaste coinvolte. Non solo i componenti del sodalizio, condizionati da fragilità personali, e manipolati da un cattivo maestro con la faccia da angelo caduto, ma anche dei genitori delle vittime, costantemente minacciate, e per questo timorose di uscire allo scoperto. 
Emauele Cerman aveva due opzioni. La prima era quella di realizzare un film inchiesta in cui i fatti veniva considerati sotto un profilo sociale ed antropologico; l'altra invece, più cinematografica, consisteva nell'affidarsi ai codici del genere (thriller ma anche horror) per spingere l'accelleratore sul versante della suspence e dell'intrattenimento. A conti fatti "In Nomine Satan" è invece un ibrido che cerca di tenere conto di entrambi i fattori. Da una parte affidandosi ad una rappresentazione che fa i nomi ed i cognomi delle persone che realmente furono protagonisti degli avvenimenti, dall'altra calvalcando la forma di un detective movie in cui la paura è più evocata che mostrata. In questo senso la scelta di Cerman di non cadere nelle scorciatoie di un voyerismo da grand guignol è apprezzabile, come pure quella di rendere la dimensione dei protagonisti con un immersione sensoriale mirata a far sentire psicologie e stati d'animo, con riprese in soggettiva, fuori fuoco sistematici ed un montaggio atemporale che rende bene il deragliamento emotivo dei singoli personaggi. Non altrettanto efficace è l'apporto in fase di scrittura, con la sceneggiatura che muove le sue pedine su uno sfondo astratto, e privo di riferimenti che non vadano oltre lo sballo da vuoto esistenziale, leggittimato dal mix di sesso droga e rock and roll più volte richiamato dalle scene del film. Così come lascia a desiderare la riflessione sull'origine del male, risolta da una scena dal sapore Lynchiano, che però non riesce a risollevare le sorti di un film volenteroso, a tratti anche angosciante, ma troppo in superficie rispetto al soggetto che porta in scena.
(pubblicata su dreamingcinema.it) 

Film in sala da Giovedì 24 Aprile 2014


THE AMAZING SPIDERMAN 2: IL POTERE DI ELECTRO
di Marc Webb
con Andrew Garfield, Emma Stone, Paul Giamatti
2014 USA - Fantasy - 152 min

LA SEDIA DELLA FELICITA'
di Carlo Mazzacurati
con Valerio Mastandrea, Isabella Aragonese, Giuseppe Battiston
2014 ITA - Commedia - 94 min

NYMPHOMANIAC VOL.2
di Lars Von Trier
con Charlotte Gainsboug, Stellan Skarsgard, Stacy Martin
2014 DAN - 122 min - Drammatico/Erotico

IN NOMINE SATAN
di Emanuele cerman
con Stefano Calvagna, Emanuele Cerman, Federico Palmieri
2014 ITA - Drammatico/Thriller - 114 min

IL CENTENARIO CHE SALTO' DALLA FINESTRA E SCOMPARVE
di Felix Herngren
con Robert Gustafsson, Alan Ford, Mia Skaringer
2014 SVE - Commedia - 114 min

venerdì, aprile 18, 2014

GIGOLO' PER CASO

Gigolò per caso (Fading Gigolo)
di John Turturro
con John Turturro, Woody Allen, Sofia Vergara
Usa, 2013
genere, commedia
durata, 98'

Fioravante (Turturro), Murray (Allen), sono due amici che si ritrovano, in seguito a delle considerazioni sulla figura maschile, a diventare una coppia in affari molto stravagante, dove il primo diventa un gigolò e il secondo fa da manager.

C’è da dire che l’opera convince su molti fronti; una sceneggiatura piena e che funziona in tutti i suoi meccanismi (a parte qualche sequenza che si rivela troppo languida e che toglie ritmo e fluidità alla pellicola), seguite da interpretazioni iconografiche, come quella della Stone; addirittura Woody Allen si rivela simpatico quando non è diretto da sé stesso (si vede il suo zampino “improvvisativo” a modellare la sua parte di sceneggiatura). Detto ciò la regia accompagna il tutto in maniera mai banale confezionando un buon prodotto, anche dal punto di vista fotografico. La colonna sonora inoltre si aggiunge come commento impeccabilmente romantico a tutta la vicenda.

Affiora anche molta italianità a rendere il tutto piacevole, almeno per il pubblico italiano e quello americano che, si sa, apprezza un certo tipo di stereotipi tutti nostrani (ricordiamo le origini di Turturro e il fatto che il film sarà presentato a conclusione del festival di Bari).

Commedia sicuramente (forse anche inaspettatamente) sopra la media, sorrisi e qualche grossa risate sono assicurate, fino al finale aperto, oppure incerto?
Antonio Romagnoli

giovedì, aprile 17, 2014

Film in sala da Giovedì 17 Aprile 2014


GIGOLO PER CASO
Fading Gigolo
di John Turturro
con Woody Allen, John Turturro, Sharone Stone, Vanessa Paradis
2013 USA - Commedia- 98 min

ONIRICA
FIELDS OF DOGS di Lech Majewski
con Michal Tatarek, Elzbieta Okupska, Jacenty Jedrusik
2014 ITA/POL/SVE - Drammatico- 102 min

TRASCENDENCE
di Wally Pfister
con Johnny Depp, Paul Bettany, Rebecca Hall,
Morgan Freeman, Cillian Murphy
2014 USA - 119 min - Fantascienza

TI SPOSO MA NON TROPPO
di Gabriele Pignotta
con Vanessa Incontrada, Gabriele Pignotta
2014 ITA - Commedia- 95 min

SONG'E NAPULE
di Marco Manetti, Antonio Manetti
con Alessandro Roja, Giampaolo Morelli,
Serena Rossi, Paolo Sassanelli, Carlo Buccirosso
2013 ITA - Commedia/Poliziesco - 114 min

RIO 2 - MISSIONE AMAZZONIA
di Carlos Saldanha
2014 BRA - Animazione - 101 min

mercoledì, aprile 16, 2014

ONIRICA


di: L.Majewski

con: M.Tatarek, E.Okupska, J.Wartak, S.Budzyk, J.Jedrusik
- Pol, Ita, Sve 2014 -
Drammatico - 102 min


Il moto perpetuo del Cinema prevede ancora la possibilità di rivolgersi all'immagine - allo studio delle sue declinazioni, al suo potenziale simbolico, alla sua capacita' di mettere in moto l'immaginazione - come strumento primo dell'espressività. Almeno a giudicare da un autore, per dire, come Greenaway, da tempo tra i sostenitori di una siffatta posizione, oppure da un cineasta come Lech Majewski tra gli "sperimentatori visivi" più assidui e poliedrici (dare del regista a Majewski e' alquanto riduttivo, essendo egli pittore, poeta, video-artista, curatore di allestimenti teatrali, compositore e librettista), e se e' vero che i suoi "I colori della passione"/"The mill and the cross" (2011) e "Il giardino delle delizie"/"The garden of earthly delights" (2004) nascono alla luce di un preciso intento finalizzato a riportare - a meta' fra riproposizione in linea con la tradizione e curiosità per l'utilizzo delle nuove tecnologie - l'immagine al centro del discorso cinematografico. Tale desiderio di ricerca si protrae - e trova il suo compimento - proprio in quest'ultima opera, "Onirica", parte conclusiva di un trittico inaugurato e sviluppato attraverso i lavori in precedenza citati.

Richiamandosi all'universo lirico e visionario della Divina Commedia di Dante - lunghi brani della quale, in una selezione che spazia tra vari canti dell'Inferno e del Paradiso, sono riproposti dalla mirabile prosodia fuori campo di Massimiliano Cutrera - la vicenda si dipana intorno al corpo magro e all'espressione dolente e attonita di Adam, giovane poeta e studioso, miracolosamente scampato ad un incidente automobilistico (in cui perdono la vita l'amata - Basia - e l'amico del cuore - Kamil -) che oltre ad imprimergli una lunga cicatrice verticale sul lato sinistro del volto - al di sopra e al di sotto dell'occhio - lo "segna" a tal punto nell'animo da portarlo ad abbandonare la vita universitaria, impiegarsi svogliatamente in un supermercato e cercare sempre più spesso nel sonno - e nel sogno - la chiave d'accesso al mondo degli affetti perduti, nonché la via giusta per sottrarsi ad una realtà angosciosa e insensata.

Se la matrice pittorica delle immagini create da Majewski e' svelata dalla grande maestria con cui vengono costruite le inquadrature e vivificata da morbidi movimenti della mdp - di rara compostezza formale - capaci di "rallentare" il passo degli eventi forzando persino il quotidiano senza storia e minato dal dolore di Adam ad una tregua utile, non certo a redimerlo, quanto, forse, a renderlo tollerabile, e produce, di fatto, una felice alchimia tra il piano simbolico e i riflessi realistici della narrazione (valga da esempio la splendida sequenza - tra l'altro, di complessa ricostruzione, come ricordato con dovizia di dettagli dal regista in conferenza stampa - che ritrae, durante uno dei tanti squarci onirici a dilatare su altre direttrici il vissuto del protagonista, una coppia di buoi aggiogata dal di lui padre e guidata nel solco tracciato per arare letteralmente il pavimento del supermercato in cui Adam passa i suoi "giorni perduti": intuizione, questa, che isola, in un rigore senza fronzoli, da un lato, l'inerzia priva di variazioni di un sistema - quello del capitale, delle merci e del consumo - efficiente e pacificato solo come giustapposizione di superfici smaglianti e, dall'altro, l'istanza, possente perché irriducibile nella sua aderenza diretta alle cose - per quanto, con ogni probabilità, oramai tardiva - di recuperare un rapporto più stretto ed autentico con le radici naturali dell'esistenza), viceversa, il radicalizzarsi della cripticita' di alcune raffigurazioni allegoriche, come pure e per contrasto, l'imporsi a tratti di uno schema retorico basato sull'esplicitazione plateale degli assunti "teorici" che aleggiano intorno al film (da riflessioni sulla Morte, all'indifferenza/impotenza di Dio; da stranite frasi sentenziose a citazioni dirette di Seneca, Epitteto, Heidegger), stenta a fare amalgama, se non nei modi di una macchinosa coerenza, con la dimensione "sospesa" - assai suggestiva, invece -  della vita di un uomo alla deriva in un mondo incomprensibile e attraversato da "segni" sempre più inquietanti (il 2010, "annus horribilis" polacco, e' raccontato da Majewski con l'occhio del cronachista medievale, ovvero quello tarato su una lettura prospettica che intravede in una concatenazione di eventi luttuosi consumatasi nel presente il preludio di catastrofi su scala più ampia, tali da pregiudicare il futuro: in tal senso possono essere inquadrati e collegati fra loro, un inverno gelido e piovoso segnato da straripamenti, inondazioni, distruzione d'interi villaggi, in particolare nel Sud del paese; il non ancora del tutto chiarito disastro aereo che spazzo' via assieme al presidente Kaczynski, un'intera classe dirigente; come pure l'innalzarsi della gigantesca nube di polveri vulcaniche dall'Islanda che paralizzando gran parte del traffico sull'Europa, impedì la partecipazione alle esequie di Stato ad un gran numero di Presidenti e Capi di governo), spesso in modo tale da comprimere il fluire dell'indubbia fascinazione visiva dell'insieme entro un contesto raffinato dal punto di vista delle sollecitazioni culturali ma non per questo meno intellettualistico.

Resta comunque impressa la disperazione composta sul volto di Adam, novello "primo uomo": ribadendo, infatti, la necessita' di non abdicare alla purezza e allo slancio del sentimento come elemento distintivo dell'esperienza umana - in un mondo che appare tanto più desolato quanto più resta sordo a richiami che non siano vincolati alla prepotenza materialista - essa si pone, allo stesso tempo, da esempio di "religione" dell'esistenza e da asciutto monito valido per ognuno di noi, essere umano immerso/abbandonato nella "modernità". Perché l'"etterno dolore" e' qui, ora e siamo noi "la perduta gente".


TFK

lunedì, aprile 14, 2014

UN MATRIMONIO DA FAVOLA

Un matrimonio da favola
di Carlo Vanzina
con Giorgio Pasotti, Ricky Memphis, Stefania Rocca
Italia, 2014
genere, commedia
durata, 91' 



 
 Una filmografia sterminata, e la capacità di gestire al meglio i mezzi di produzione. I fratelli Vanzina più che un nome sono il marchio di fabbrica di un cinema capace di attraversare un quarto di secolo rimanendo indenne all'usura del tempo e all'ostilità di chi puntualmente evidenzia l'opportunismo e la scaltrezza dei loro lavori. Da una parte il pregio di aver fidelizzato lo spettatore, proiettandolo sullo schermo con i vizi e le virtù che gli appartengono, dall'altra il contraltare di lungometraggi seriali e uguali a se stessi, nonostante l'eterogeneità delle forme utilizzate.

 





In questo caso "Matrimonio da favola" non fa eccezione, confermando una delle regole della casa, e cioè quella di assecondare gli umori del momento, sintonizzandosi con la voglia di dimenticare, almeno in sala, qualsiasi riferimento alle cronache di un quotidiano avaro di soddisfazioni. La bolla d'aria esistenziale è offerta manco a farlo apposta dal concentrato di buonismo italico (comprensivo quindi di simpatici difetti) rappresentato dal gruppo d'amici che dopo lunga lontananza si ritrova per celebrare il matrimonio di uno di loro. Il "grande freddo" più volte utilizzato lascia presto spazio alle beghe del momento, che, per ognuno di loro, ha a che fare con prospettive sentimentali agitate da malcelate insoddisfazioni. Gelosie, incomprensioni e la tendenza maschile al tradimento diventano presto il motore di una commedia tradizionale, con gli opposti schieramenti, formati da uomini e donne, a darsi battaglia senza esclusione di colpi. A fare la parte del leone sono i primi, rappresentati secondo una virilità declinata in tutte le sue manifestazioni - a un personaggio come Luca, implacabile womanizer i Vanzina antepongono Alessandro, omosessuale e convivente con un compagno gelosissimo - ma comunque condizionata da una sessualità che fa capolino nelle occasioni più svariate: da quella classica, con marito fedifrago e amante gabbata da sublimi menzogne, subito doppiata dall'addio al celibato consumato in una dimensione boccaccesca e un poco equivoca, ad altre che strizzano l'occhio a un cinema sofisticato e misterioso, con rendez-vous avvolti nella suspense, come quello che a metà della storia rischia di far "saltare" il banco, mettendo a rischio il matrimonio

 

Con la volontà di staccare la spina a ogni tipo preoccupazione, i Vanzina organizzano uno spettacolo a metà strada tra la favola e la farsa, con il sogno d'amore tra Andrea (Ricky Memphis) e Barbara, proposto in una versione a parti invertite di "Pretty Woman" (lui è il novello cenerentolo di cui si innamora l'affascinante figlia di un banchiere svizzero), continuamente interrotto dalle contraddizioni delle coppie che li circondano, sempre pronte a far cagnara pur di far tornare i conti. Per riuscirci regista e sceneggiatore immergono i personaggi in un paesaggio fuori dal tempo - la vicenda si svolge a Zurigo ma le locations sono prese in prestito dall'Austria, con breve escursione in una Venezia romantica e notturna - e con un avvicendamento di non-luoghi che vanno dall'hotel a 5 stelle dove i nostri sono alloggiati, a quelli della vacanza e del divertimento individuati negli spazi del castello in cui si svolgono i preparativi che precedono la festa.

Un quadro che farebbe pensare al format natalizio di cui i Vanzina sono stati i precursori ("Vacanze di Natale", 1983), e che, a dire il vero, la coralità della vicenda, con il ricorso a volti prelevati sull'onda della notorietà televisiva (Paola Minaccioni, Max Tortora), in parte ricorda. Ma questa volta a fare la differenza in positivo sono due aspetti: il primo è la messa a punto di una sceneggiatura che pur cavalcando il luogo comune si presenta meno frammentaria del solito, con sequenze realizzate in un'ottica che tiene conto dello sviluppo narrativo della storia, e per questo non finalizzate all'urgenza di sfoderare la battuta folgorante. E poi, da una messa in scena che, assecondando il talento degli interpreti, tra cui ricordiamo Emilio Solfrizzi e l'attivissimo Giorgio Pasotti, appare meno sciatta, e diremo quasi elegante, pur all'interno della cornice di sicurezza rappresentata da sequenze costruite nell'alveo di una riconoscibilità didascalica e televisiva, alla maniera di certi telefilm americani degli anni 80 ("Love Boat") in cui ogni cambio d'ambiente era preceduto da un establishing shot comprensivo di refrain musicale. Alla fine dei conti si riesce a ridere senza sentirsi in colpa e questo, per gli standard dei Vanzina, non è cosa da poco.


(pubblicata su ondacinema.it)

domenica, aprile 13, 2014

Cult Movies: THE THING - La Cosa


”The Thing/La Cosa"

di: J.Carpenter
con: K.Russell, K.David, A.W.Brimley, T.K.Carter, D.Clennon, R.Dysart,
C.Hallahan, R.Masur, P.Maloney, D.Moffat, J.Polis, T.Waites
Horror - USA 1982 - 108 min



Se, come fu a suo tempo con perspicacia notato (e già riportato - per i 'moviemaniacs' più amanti dei ricorsi e delle ricerche d'archivio - negli articoli riguardanti, ad esempio, Winona Ryder), "gli anni '80" non "sono stati" solo il naturale compimento di un processo antropologico e sociale inauguratosi decenni prima, quanto, piuttosto, "l'inizio di qualcosa", "qualcosa" di sfuggente e pervicacemente mutevole le cui propaggini - molti dicono derive (intraviste, come che sia, tra gli altri, già al volgere degli anni Cinquanta con impressionante lungimiranza da Celine: "Questo mondo, il mondo occidentale, il nostro... ebbe' tutto 'sto mondo, e l'America, vive nella pubblicità, e' marcio di pubblicità, si', abbrutito, completamente abbrutito dalla pubblicità..." o: "Giornali, solo giornali... pubblicità e necrologi". E ancora: "La razza che cresce e' quella gialla, la bianca e' finita", come pure: "... tutta la cagheria filosofica, tutto l'orrore fotografico, tutto l'obitorio di natiche impalate, zinne operate, nasi accorciati, e chili di ciglia... si' ! chili ! pesanti !... unte !... rosse !... verdi !") - sono ancora ben salde in taluni risvolti del nostro vivere, mentre addirittura di altre connotazioni (stili, mode, genericamente "costumi": si pensi, per dire, ad un personaggio importante dell'immaginario recente come Kurt Cobain che quegli anni - quell'anno, il 1982 - li ha attraversati da adolescente - quindicenne -, ossia nel bel mezzo dell'"età inquieta", assorbendone tra entusiasmo e ripulsa l'impatto, per secernerne a breve gli echi nei lampi intensi e fugaci di una espressività sofferta, delicata, rabbiosa) si celebrano assidue riproposizioni e adeguamenti - tra parodia e nostalgia, calcolo e indifesa smemoratezza - il proporsi all'attenzione di massa di un film come "La Cosa" di John Carpenter agli inizi di quella decade spartiacque - opera a sua volta meticcia ed elusiva, a meta' fra recupero cinefilo in equilibrio su generi diversi (fantascienza, avventura, horror, western) e integrazione coerente all'interno dei canoni di una poetica - annuncia, e proprio in ragione del saldo ancoraggio ai generi suddetti, nonché della centralità di un'idea narrativa modernissima (un "organismo" senza volto che vive e prolifera imitando la realtà per assumerne tutti i tratti "biologici" fino a sostituirsi ad essa), lo svolgersi di un periodo storico una delle principali caratteristiche del quale sarà per l'appunto l'inesausta manipolazione/trasformazione delle superfici (i corpi, gli oggetti, i paesaggi, lasciando le ricadute sugli universi interiori alle parole di Bret Easton Ellis, uno che dentro a quei momenti ci ha rovistato spesso: "Le cose cambiano, vanno a pezzi, svaniscono. Un altro anno, qualche altro spostamento, un tipo duro al quale non gliene frega un cazzo, una noia talmente abissale che mi paralizza, progetti così vaghi fatti da chissà chi. E mi rendo conto che da ognuno di noi SI ESIGE la perdita di ogni senso della realtà per delle aspettative talmente irragionevoli che si diviene fatalisti, anche se, in realtà, ce la si potrebbe fare"); la superfetazione degli accessori, degli orpelli: "cose", 'ca va sans dire', che l'hydra capitalistica a tre teste, produzione-consumo-distruzione, impone in via definitiva proprio in quei giorni come sistema di misura standard d'interpretazione e valutazione del mondo. Allo stesso modo dell'ossessione, tutt'altro che marginale - e in pericoloso bilico tra esortazione all'eleganza, alla "levigatezza" e un'insopprimibile curiosità/appetito - per il vistoso, l'eccentrico, in un delirio proteiforme e "deforme" che la "creatura" di Carpenter incarna e ingloba in se' allo stesso tempo - rappresentazione millimetrica dell'istante e fosco monito per il futuro - con una plasticità ed una imponenza tali da fornire concretezza tridimensionale alle tante suggestioni che pulsano dentro di lei: dalle allusive stranezze afflitte di Bosch, alle scarnificazioni e inserzioni intransigenti della Body Art; dagli strazi delle membra e delle bocche protese-verso-altre-forme di Bacon, alle angosce millenaristiche di una Fine sempre data per imminente, di un'Apocalisse talmente definitiva perché incistata negli anfratti più riposti dell'esistenza, da risultare, forse, più ottundente che spaventosa.

La tristezza implicita nell'affermare che ogni giorno qualcosa si allontana per cui noi dimentichiamo (con annessa sensazione di sconforto e di perdita) e' in parte stemperata dalla sua inesorabilità (e - a ben vedere - da un grano di ovvio) e dalla consapevolezza che, a volte, l'esercizio paziente della curiosità e della memoria abbinato al piacere della sfida intellettuale - resa ancor più stimolante se lanciata a colui/coloro che abbiamo eletto a riferimento speciale per la nostra formazione - può, nel peggiore dei casi, prolungare il brivido dell'illusione e, nelle combinazioni baciate dalla grazia, ampliare un'intuizione (nel caso, una visione) offrendole alternative impreviste e suggestive, in modo tale da poter sostenere, senza enfasi ma pure senza tentennamenti, che non tutto va per forza perduto: che, si', qualcosa rimane. Potrebbe essere stata una giravolta mentale simile a questa - perché no ? - ad avere instradato una volta per tutte Carpenter sulla scia di "La 'Cosa' da un altro mondo"/"The 'Thing' from another world", progetto seguito assai da vicino un trentennio prima da uno dei suoi autori prediletti, Howard Hawks, e su cui John rimuginava dai tempi del college, stimolato anche dagli inviti rivoltigli dal vecchio amico Dan O'Bannon (quello, per intendersi, degli script di "Dark star" (1974) - l'esordio di Carpenter -; di "Alien" (1979); di "Atto di forza" (1990); di "Screamers" (1995)) a leggere il racconto originale di John Wood Campbell jr., "Who goes there ?", che aveva ispirato il lavoro di Nyby/Hawks. Fuor di congettura: il regista di Carthage (NY), appassionato sin da ragazzino del "fantastico", negli anni che precedettero il suo cimento (non a caso i titoli di testa del film c'introducono ad una "John Carpenter's 'The Thing'") si era sul serio già imbattuto sia nel racconto di Campbell jr., sia nell'opera-prototipo di Nyby/Hawks, oltreché per ragioni, diciamo così, professionali ed "estetiche", anche, se non in via elettiva, per il rapporto personale diretto che legava il suo apprendistato pre e post adolescenziale a quel piccolo ma imaginifico mondo della fantascienza in b/n, sovente a basso costo (un riferimento per tutti: fra le schegge d'antan preferite di Carpenter troviamo "L'assalto dei granchi giganti" - 1957 - produzione rapida e in economia di quel geniaccio di Corman), percorso da inquietudini catastrofiste per la presenza - spettro/feticcio - dell'Atomica; intriso di ambasce e diffidenze che riflettevano la spossante altalena ideologica dei "blocchi" impegnati sullo scacchiere della Guerra Fredda nelle mosse obbligate della reciproca deterrenza. Ma più di ogni altra cosa, intessuto e vivificato da una pratica artigianale - non di rado talentuosa e innovativa (metabolizzata dal giovane Carpenter, nel suo quotidiano, anche a colpi di fanzine e comics) - che, se l'occhio smaliziato ed un tanto impigrito di oggi dalla prepotenza del digitale può arrivare a considerare naïf, se non a volte involontariamente comica, allo stesso modo, una valutazione un minimo più ragionevole che tenga conto di alcune variabili, contestualizzandole - possibilità tecniche, risorse, velocità di realizzazione e conseguenti tempi di fruibilità del prodotto et. - non potrà al contrario, non riconoscerne la notevole vivacità inventiva e una generosità d'approccio le quali, tornando ai giorni nostri in cui "tutto e' possibile", "tutto si può (anzi, si deve) fare/(vedere)", stanno diventando merce sempre più rara.

Coestensiva ad una simile impronta metodologica, si dispiega una pratica cinematografica che, da un lato, con tenacia si sforza di produrre, opera dopo opera, un discorso riconoscibile, ragionato e passibile di evoluzione (il famigerato e un po' roboante "sguardo d'autore"); dall'altro, tiene sempre fermo il punto in merito alla necessita' di costruire un lavoro il più possibile interessante e coinvolgente (proposito, tra l'altro, più facile da ipotizzare che da mettere in atto, viste le non poche insidie sparse all'interno dei 'generi'). Dice Carpenter: "I film sono emozioni. Un pubblico dovrebbe piangere, ridere o spaventarsi. Penso che il pubblico dovrebbe proiettarsi nel film, in un personaggio, in una situazione e 'reagire'". Come pure: "Il cinema e' un mezzo per trasmettere sensazioni. Un film invita il pubblico a dare consistenza alle idee, in senso psicologico, ad investire sullo schermo le proprie emozioni". Forma mentis e dichiarazioni di principio, queste, che si offrono a noi sin dalle sequenze di apertura de "La Cosa", durante le quali un'astronave proveniente dallo spazio profondo penetra oscillando nell'atmosfera per sparire sotto i ghiacci del continente antartico dove stazionerà in latenza fin quando il caso impersonato dall'elemento "umano" darà modo e ragione al suo equipaggio di rianimarsi. La stessa collocazione della vicenda, del resto - un presidio genericamente scientifico, tal 'United States National Science Institute - Station 4 -' (per l'esattezza un 'compound' denominato 'outpost 31' ove si raccolgono dati sull'ambiente naturale antartico), perso nel profondo Sud del mondo - richiama da subito alla mente uno degli accorgimenti tematici ricorrenti in Carpenter: la delimitazione chiara di un luogo entro cui un singolo o una comunità d'individui e' portato- a/costretto-a ad interagire con forze (spesso maligne) che ne svelano, sotto l'apparenza di ordine e coesione (o, come, nel caso, d'innocua inerzia: il corpo di spedizione sembra più indaffarato nell'escogitare sistemi per far passare il tempo che oberato dalle rispettive incombenze) le contraddizioni, le ipocrisie, i veri e propri odii, in un gioco di specchi per cui l'ampiezza e la profondità dell'incidenza del Male perde uno dei suoi tratti distintivi (e consolatori), ossia quello dell'individuazione, contribuendo, in filigrana, a render manifesta la riflessione del regista circa il significato e le sorti dell'agire umano destinati entrambi spesso ad un approdo che mescola pessimismo e irredimibilita'. Se a ciò aggiungiamo anche l'impossibilita' di avvalersi di un punto di vista alternativo - quello femminile, ad esempio - qui icasticamente/ironicamente limitato ad una carezzevole voce computerizzata che anima una scacchiera virtuale, per di più senza remore messa fuori uso dal protagonista, l'elicotterista Jim MacReady/Kurt Russell, con un gesto tutt'altro che cavalleresco - diventa ancora più chiaro il taglio prospettico con cui Carpenter guarda (più in generale) il mondo per poi restituircelo.

In verità, e' proprio la storia a dipanarsi su linee guida narrative che ben poco lasciano all'ottimismo: i dodici uomini che compongono l'avanguardia tecnico-scientifica in Antartide ("replicato" per gli esterni relativi alla base nella British Columbia e, per un certo numero di altre riprese, in Alaska) mostrano fin da subito di avere poco da spartire l'uno con l'altro che non sia la similarità delle mansioni o la più banale promiscuità coatta. Da minime rigidità o insofferenze dissimulate in qualche gesto, da rapide occhiate o da una certa laconicità dei dialoghi (ecco un interessante contraltare al film del 1951, caratterizzato, invece, come si sa e come era nelle corde di Hawks, da battute serrate spesso intrecciate fra loro, utili a tenere alto ritmo e tensione. Leggendario il "Fogarty a Hendrix" scandito senza tregua alla radio per tentare di aprirsi, con la comunicazione, un'ipotetica via d'uscita) - dettagli con nettezza isolati da Carpenter - si "sente" che ciò che cementa il gruppo non e' l'armonia, tanto meno l'amicizia reciproca. L'inserirsi di una "Cosa" all'interno di dinamiche umane minate dall'indifferenza, dal sospetto, se non dalla vera e propria ostilità, ha così l'effetto di un meccanismo che, al momento della verità, disinnesca la leva del contrasto riducendola ad una scomposta lotta per la sopravvivenza la cui malconcia presa, infine, solo MacReady (un tizio "ready"/"pronto" per l'appunto, reattivo, tipico "in-joke" del regista) proverà a qualunque costo a far funzionare. Di più: Carpenter non nasconde, anzi sottolinea, nei primi piani perplessi/circospetti indi stravolti/inermi degli uomini l'antitesi fra la loro razionalità - e di conseguenza capacita' di risposta - a conti fatti solo presunta o, quanto meno, incapace di organizzarsi con efficacia e la silenziosa, insidiosa "coerenza" della "Cosa", la quale, fino alla fine, secondo un disegno semplice ma "lucido", ossia prendere possesso dei corpi dei dodici per poi volgere i propri appetiti all'intero pianeta (da notare che la "forma prima" dell'"intruso" non la conosceremo mai), non fa che eluderne, sviarne, confonderne le contromosse. E buon ultima, anche la Scienza - di li a poco nuova "ossessione" per Carpenter - si dimostrerà fallace, contrariamente allo sforzo per un "contatto inter- specie" inseguito seppur invano nel film di Nyby/Hawks: Blair/Brimley dopo aver dedotto lo schema di comportamento della "Cosa" e prima di venirne "fagocitato", da in escandescenze finendo confinato e preda di una cupa abulia. Seguendo il filo di queste osservazioni risulta forse più agevole comprendere come un campo di applicazione ben noto al Cinema fantastico e non, a dire quello del mostro-dentro-di-noi, si arricchisca nell'esperimento carpenteriano (che, a guardar bene, e' esso stesso una "creatura" in divenire, "qualcosa" che assimila e riproduce sollecitazioni disparate: letterarie, fumettistiche, cinematografiche et.) di una connotazione, se possibile, ancor più sinistra, ovverosia quella inerente il fallimento, se non persino l'impossibilita' pratica della costruzione, nell'incipiente società delle merci, del denaro e dell'apparenza, di relazioni feconde e durature, di sforzi comuni in vista di un futuro condiviso che non siano il simulacro di patetiche finzioni o autentiche, stavolta, quanto mostruose aberrazioni (di nuovo Ellis: "Non vuoi mica restare incinta, no ? Sai, partoriresti qualcosa di spaventoso. Un mostro ? Qualche bestia ? Vuoi che succeda una cosa del genere ?"). In altre parole, la posizione appena illustrata andava senza possibilità di equivoci a mettersi di traverso sui binari di una certa retorica che proprio a cavallo degli anni '80 (una delle didascalie iniziali del film pone gli eventi raccontati nella contemporaneità del momento: "winter 1982") aveva preso a diffondersi insistendo su un rinnovato senso di fiducia e di ottimismo da declinarsi in via prioritaria nella logica di una prosperità materiale centrata sul benessere e sul consumo riassunta - magari un tanto di fretta ma con schietta aderenza allo stato delle circostanze - nel termine "edonismo", al punto che, alla fin fine, potrà - la predetta retorica - tranquillamente annoverarsi anche tra i non secondari motivi del sostanziale fallimento del film al botteghino. A dire, autostima, intraprendenza, generica "positività" e affermazione di se' purchessia, egoismo come valore, sono concetti che a cavallo degli anni in questione vengono riscoperti - leggi adattati e rivenduti nella più appetibile confezione ludico/consumistica - e riversati instancabilmente sull'immaginario di massa come una sorta di mantra salvifico i cui effetti sono divenuti, retrospettivamente parlando, molto più che un'anomalia del passato: alla lunga, in altri termini, essi hanno preso le sembianze di un vero e proprio modo di vivere, arrivando a contraddistinguere tuttora il nostro presente, un po' alla stregua di quei "cieli color lecca-lecca" via via trascolorati, agli albori di un nuovo millennio, in altrettanto impalpabili per quanto persistenti "vanilla skies" (ancora Ellis, come modello di uno degli esiti più macroscopici: "Guardando Tim, non si può fare a meno di avvertire un'assenza di meta, di scopo, come se fosse una persona alla quale semplicemente non importa niente"). Non stupisce, allora, a paragone, che la scontrosa risolutezza di Carpenter, intrisa di scetticismo (MacReady come lo Snake Plissken di "Fuga da New York" o, per taluni aspetti, come il Napoleone Wilson di "Distretto 13", e' un leader riluttante, di poche parole, risoluto per necessita' e autoconservazione e non certo per aderenza ad una causa: "La fiducia e' una cosa molto rara oggigiorno", dice MacReady, dettando un mesto messaggio/testamento ad un registratore, "Nessuno si fida più di nessuno, ormai. Siamo tutti molto provati. Io non posso fare altro che aspettare") e resa per certi versi ancora più amara dallo scandito tappeto sonoro di Morricone che imperturbabile batte le stazioni di una lugubre disfatta, si sia infranta contro il muro di un "sentimento diffuso" che adagio ma senza incertezze si stava tramutando in "sentimento dominante", abbracciando con presa sicura ampi ambiti dell'esperianza umana, Cinema incluso. Difficile parimenti non leggere, in quest'ottica, il successo planetario di una pellicola come "E.T." di Spielberg (trionfo dell'immaginazione come innocenza e scommessa sulla composizione dei dissidi, sulla tolleranza che alimenta la speranza e guarda al domani. Sugli schermi in concomitanza con "La Cosa" - 1982 -, collettore, ed e' solo un semplice raffronto quantitativo, di una montagna di dollari, il piccolo extra- terrestre si protese rapido verso il mezzo miliardo solo sul mercato USA a fronte di un investimento di circa dieci milioni, a cui il misterioso "organismo" di Carpenter rispose - si fa per dire - nelle medesime categorie, con una raccolta di una ventina di milioni per una spesa intorno ai quindici) anche come l'evidente squilibrio dei piatti di una bilancia i cui contrappesi inquieti, discordi, dubbiosi sono in larga minoranza rispetto a spinte capaci di produrre e assecondare un impatto psicologico e comportamentale planetario.

Eppure il film di Carpenter  - e Carpenter stesso, tutto sommato - poteva contare su un certo numero di frecce per il proprio arco. Il regista, nello specifico, era già l'autore di opere apprezzate dagli addetti ai lavori e dal pubblico, come "Distretto 13: le brigate della morte" (1976); "Halloween: la notte delle streghe" (1978); "Fog" (1979); "1997: fuga da New York" (1981). E dal canto suo "La Cosa" - oltre alla conferma di Russell nei panni dell'eroe/antieroe, alla cornice avventurosa (la base eremo/fortino tra i ghiacci), il fascino infido ma seducente della fantascienza-sulla-Terra - si rifaceva ad un piccolo classico della letteratura fantastica; flirtava in maniera non prona coi 'generi' (sci-fi, horror, il western col suo collaudato assedio); utilizzava in maniera discreta lo strumento della citazione (le immagini in cui i membri della base USA compulsano il materiale video recuperato relativo all'equipe norvegese intenta a delimitare in cerchio lo spazio d'atterraggio dell'astronave aliena, rimanda all'analoga scena presente nel film di Nyby/Hawks); imbastiva sequenze in cui la mdp scivola negli angusti corridoi dell'avamposto, cambia punto di vista per altezza ed angolazione, "scruta" discreta ma attenta ambienti e scampoli di attività, lasciando crescere in modo "morbido" ma inesorabile la suspense e il senso di minaccia incombente legato a filo doppio a quello d'impotenza; osava un finale di rara disperazione, ma, soprattutto, si avvaleva d'ingegni tecnici di eccezionale estro: il terzetto formato da Rob Bottin (ai tempi, ventitreenne), Stan Winston e Roy Arbogast, infatti - tra ricerca, ideazione, messa a punto e supervisione - era riuscito ad escogitare per la raffigurazione della "creatura" una varietà di prototipi meccanici ad "alto tasso di carnalità" che, ancora oggi, si fatica a considerare meno che strepitosa, tale com'era da spaziare tra ibridi animali (mammiferi, insetti, pseudo-vertebrati), umanoidi (arti e teste fuse o "disciolte" le une nelle altre, così come separate dal corpo a promettere un'ennesima gemmazione), esseri metamorfici intermedi (organi interni a volte incompleti per scheletri abbozzati di organismi colti ancora nello stadio di caos polimorfo), per una re-definizione dell'orrore fisico che da quella epifania non poté fare altro che disporsi all'imitazione o perlomeno tenere sempre ben presente l'exploit di Carpenter e soci. Tutti aspetti questi, inoltre, che spingevano la narrazione fantascientifica, da una parte, verso territori propriamente "horror" che gli anni a venire, grazie alle individualità mano a mano emerse, avrebbero con sagacia colonizzato, modificato e alla fine circoscritto, formalizzando nuovi paradigmi; dall'altra, su sentieri più laterali, tipo quelli riconducibili all'"abrasione" progressiva della figura dell'eroe come individuo che diffida/e' indifferente/e' ostile ai valori della società che e' chiamato/costretto a difendere, o quelli attinenti uno sguardo, potremmo dire, "politico", teso cioè ad intravedere nelle trasformazioni del corpo solo la metafora più plateale di manipolazioni ben più profonde e sottili - della psiche, dei comportamenti, del modo stesso di percepire la realtà e gestire il complicato cosmo delle relazioni interpersonali (su cui proprio Carpenter tornerà una manciata di anni più tardi con "They live"/"Essi vivono") - le cui risultanze a tutt'oggi fanno parte del brodo di coltura di speculazioni in perenne aggiornamento nei più diversi campi dello scibile, parte dei quali ancora tutti da costruire.

Come spesso accade, in ogni caso, il tempo si e' poi incaricato di comporre questa piccola vicenda di Cinema in un ordine più prossimo allo stato dei fatti, guadagnando al film un numero di estimatori sempre più vasto e a Carpenter persino la fama di uno tra i padri nobili del "fanta-horror". Medaglia, quest'ultima - come tutte le attestazioni "postume" dal sapore eccessivamente dolciastro, tipico degli zuccherini a titolo risarcitorio - che il regista di Cathage si e' ben guardato dall'appuntarsi, continuando a mettere insieme lavori baciati da varia fortuna e, come e' ovvio, da alterna ispirazione ma sempre riconoscibili per un inconfondibile tocco personale.
TFK

sabato, aprile 12, 2014

NOAH: PRO E CONTRO

Noah
di Darren Aronofsky
con Russell Crowe, Jennifer Connelly, Emma Watson, Logan Lerman, Douglas Booth
Usa, 2014
genere, drammatico
durata, 138'











Ci sono luoghi che sarebbe meglio evitare e stati d’animo estranei ad ogni tipo di certezza. Territori oscuri e poco illuminati da cui il cinema di Darren Arofosky è inevitabilmente attratto, ed ai quali finisce per ritornare con la nevrosi delle ossessioni rimaste insoddisfatte.

Non è un caso che dopo un prologo piuttosto dilatato e solo in parte giustificato dalla necessità di introdurre la storia secondo i dettami del cinema mainstream, visibile soprattutto nella ricerca della grandeur scenica e paesaggistica (dolly e carrellate abbondano in questo caso) "Noah"cambi passò proprio quando decide di abbandonare lo spazio esterno rifugiandosi nella stiva dell'arca che sta portando in salvo il protagonista e i suo equipaggio. Coinvolto in un’operazione a grosso budget e preparato a cimentarsi con le forme di un cinema apparentemente lontano dalle sue corde, Darren Aronofsky imita il collega Steve McQueen lavorando sul format di genere con un'autorialita'' riconoscibile non tanto nella qualità delle immagini, convenzionali quel tanto che basta per assicurare la riconoscibilità del prodotto, quanto nella struttura drammaturgica imperniata come sempre accade nei film di Aronofsky su una coazione a ripetere che diventa follia. In questo caso l'esasperazione esistenziale scaturisce dal rigore di "Noah" intenzionato a servire il suo Dio anche a costo di sacrificare le persone che ama. Una dissoluzione famigliare a cui eravamo abituati (da The Fountain a The Wrestler) e qui assunta con toni da teatro shakespeariano quando il protagonista decide di disfarsi della sua progenie, contaminata a suo dire dalla stoltezza del mondo. Una frantumazione dell'io che Arnofosky costruisce in modo endogeno, meno evidente di precedenti come "P greco- Il teorema del delirio" e "Il cigno nero", ma assolutamente efficace nel ripercorrere il paradigma di un'agiografia dolorosa e cupa. Come Giona che visse nella balena così Noah nel ventre dell'Arca combatte i suoi demoni proiettandoli in un ambiente che diventa proiezione dell'anima, ed in cui ogni figura è il puzzle, positivo o negativo di questa battaglia interiore. Cosi a rimanere non sono tanto i rimandi alla contemporaneità, trasposta nell'istinto di morte dell'essere umano, e nel dettame ecologista presente nella versione salvifica di Aronofsky che spinge soprattutto verso la salvaguardia dell'eco sistema più che dei discendenti che hanno contiribuito a distruggerlo, ma piuttosto la rappresentazione di un'eresia moderna, che diventa tanto più grande quanto maestosa e potente è l'integrità di Noah, alla pari dei profeti nostrani, acceccato dall'assoluto delle verità che professa.

Pur concedendo qualcosa alla convezionalità del prodotto, come accade nella progressione che porterà al quadretto finale contrassegnato da un happy end incorniciato da una messainscena patinata e tronfia (su tutti la messa in piega di Russel Crowe, ritornato improvvisamente capelluto dopo lo scalpo da marine sfoggiato per buona parte della storia), "Noah" fa segnare un passo in avanti in termini di consapevolezza registica, testimoniata dalla sicurezza con cui il regista spinge ai limiti della sopportazione l'oltranzismo del protagonista, e confermata al termine della visione dalla capacità di trasferire sullo spettatore il senso di prostrazione che ne deriva. Dopo il sabotaggio di "The Fountain" e le incomprensioni produttive che ne derivarono, "Noah" nella ritrovata sintonia con i grandi apparati produttivi potrebbe dare nuova linfa ai progetti del regista americano. 
nickoftime

Presupponendo che in tal caso far cenno alla trama sia superfluo, andremo di seguito ad analizzare il “Noah” di Aronofsky, regista dalla filmografia altalenante e controversa. Il tentativo di questo procedimento, forse anche nobile negli intenti, ha come difficoltà prima quella di sviluppare un film mainstream, lungo più di due ore, dagli striminziti cenni biblici e dalla formazione di scuola ebraica del regista e del suo sceneggiatore.

Il primo rischio era quindi proprio quello della fase di scrittura, che si perde in vaneggiamenti e si affida troppo sulle larghe spalle di Russel Crowe, destinate comunque a cedere il passo ad una sceneggiatura che (s)tenta di riprendere le fila del discorso in un finale vago. Ma fin qui, per un’operazione commerciale del genere, non c’è nulla di troppo scandaloso; la cosa che stupisce (negativamente) e che fa rabbia, è che in un film con una produzione ed un cast del genere, ci siano pecche tecniche che vanno a disintegrare ciò che di buono si poteva fare dal punto di vista visivo. In primis il 3D è tra i più inutili nella storia del cinema; la resa dei giganti di pietra è assolutamente mal riuscita, e l’orrore visivo qui va a coincidere con quello dello script, che poteva assolutamente fare a meno della loro presenza; più in generale tutti gli effetti visivi non vanno ad integrarsi per nulla con le riprese, il risultato è un’immagine fastidiosa che accompagna un film noioso (sempre sia lodato Peter Jackson, checché se ne dica rimane il sommo maestro nell’amalgamare gli effetti speciali alle dinamiche filmiche). Tutte le tematiche forti e di molteplici sfaccettature sono banalizzate negli atteggiamenti di un Noè che, oltre ad essere il prescelto per la salvaguardia della vita sulla terra, diventa anche un combattente investito della carica di giustiziere dall’”Altissimo” in persona, trasformando il discorso sul libero arbitrio (di cristiana e kantiana memoria) in una suspense dalla dubbia riuscita.

Il risultato di tutti questi errori di valutazione è un film che esula da ogni genere e non arriva nemmeno lontanamente agli obbiettivi che si prefissa; e nel tentativo di far riaffiorare la maestosità dell’elemento mitologico e simbolico, prerogativa pregnante dell’Antico testamento, si dirada in magie di bassezza “potteriana”, come nel caso dell’incontro tra Anthony Hopkins ed Emma Watson (le cui recitazioni sono le uniche note positive del film). Aronofski si conferma dunque un autore contraddittorio, andando a firmare con quest’ultima pellicola il più grande passo falso di una carriera che, ne siamo certi, è comunque in agguato per tornare a sorprenderci in futuro.
Antonio Romagnoli



giovedì, aprile 10, 2014

ALLO SPETTATORE

Allo spettatore
di Antonio Romagnoli
con Alberto Melone Bruno Loiacono, Giuseppe M. Scaglione
Italia, 2014
durata 9'19''

 

 Una manciata di minuti sembrano bastare al giovane cineasta Antonio Romagnoli per rilanciare scampoli di una poetica acerba ma in movimento. Dialoghi caricati a molla, quindi, sguardi in tralice e antiche indolenze per una bella di cui proprio il Regista è al tempo stesso artefice e vittima. Sullo sfondo, tra Tarantino e Kitano sorridono dandosi di gomito, mentre Lynch occhieggia anelli di fumo scivolare in chissà quale buio.
Qui il link di youtube per vedere il corto
https://www.youtube.com/watch?v=_0RcHFtQKmQ

TFK
 

 








mercoledì, aprile 09, 2014

GRAND BUDAPEST HOTEL


Grand Budapest Hotel
di Wes Anderson
con Ralph Fiennes, Saoirse Ronan, William Defoe, Adrian Brody, Tilda Swinton
Usa, 2014
genere,  commedia
durata, 100' 

Raccontare una storia presuppone qualcuno disposto ad ascoltarla. Per questo motivo il narratore deve tenere in gran cura due cose: la prima centra con l'affabulazione, e consegue dalla necessità di mantenere il pubblico in quello stato di sospensione in cui si inserisce la seconda, che invece appartiene all'immaginazione, e comprende tutto quegli espendienti, naturali ed artificiali, al quale l'oratore si rifà per dare vita al mondo che sta descrivendo. Se così è, non c'è dubbio sul fatto che Wes Anderson, regista e sceneggiatore di film, sia un grande storyteller.
   
In "Grand Budapest Hotel" queste caratteristiche, che rappresentano allo stesso tempo il pregio ed il limite dell'opera, sono incise nel tessuto stesso delle immagini, suddivise per capitoli che prendono forma dal libro immaginario di cui il film si serve per raccontare la sua storia. Pagine di cinema che vivono inseguendo una dimensione esistenziale votata ad una fanciullezza avventurosa e immaginifica, che trasfigura il reale  nelle forme di un dadaismo cinematografico di cui abbiamo imparato a conoscere luoghi e situazioni. Come accade all'hotel del titolo, protagonista alla pari della nave di "Zizou" e della villa de "I Tennebaum", per il fatto di funzionare come elemento propulsore di un immaginario fatto di uomini e di accessori, accostati gli uni agli altri dalla corrispondenza dei colori e dalla stilizzazione delle figure. 


E dove anche questa volta a sbrogliare una matassa che assomiglia ad un giallo di Agatha Christie sono due protagonisti - Gustave H addetto alla reception di un hotel da mille e una notte, e Zero Moustafa, fattorino nella stessa struttura- che simulando un rapporto tra padre e figlio ripropongono uno dei cardini della poetica Andersoniana, geneticamente rivolta a compensare le disfunzioni provocate da figure paterne, biologiche e putative poco importa, segnate da inevitabile infantilismo.




Una letteratura che Anderson inserisce in un contesto favoloso, rappresentato da una terra di mezzo che fa verso a quella società mitteleuropea attraversata dalle ansie e dalle contraddizioni di un grande cambiamento epocale - siamo alla vigilia del secondo conflitto mondiale e su Zubroska si addensano i fantasmi di eserciti in armi - e messa a rischio da un egoismo umano che è lo specchio di quello dei nostri giorni. In questo modo a farla da padrone in termini di trama sono le schermaglie di un complotto che vede i nostri eroi impegnati a salvare pelle e bottino (un quadro di incalcolabile valore) dalle minacce di una fauna di improbabili lestofanti, da cui dipendono le sorti di un mondo in via di sparizione. I viaggi non si contano così come gli andirivieni di tipi umani, tanti quanti sono gli attori che servono ad Anderson per rendere al meglio la sensazione di famiglia allargata che non distingue tra buoni e cattivi ma si ciba di un divertimento comune e fuori dagli schemi. L’impatto è spettacolare, ma con il passare del tempo il film perde consistenza accontentandosi di un accumulo visivo che stupisce ma non scalda il cuore. Le caratterizzazioni sono strepitose ma senza respiro, destinate a lasciare il passo all’ebrezza del regista bambino, divertito dalle infinite varianti di un meccanismo narrativo che torna prepotente in gioco nell’ultima sequenza quando il dettaglio sul libro che si chiude interrompendo la visione, ci ricorda l’importanza del lettore/spettatore, utilizzatore finale ed anello indispensabile al senso stesso dell'operta d'arte.

martedì, aprile 08, 2014

DIVERGENT

Divergent
di Neil Burger
con Shailene Woodley, Theo James, Kate Winslet
Usa 2014
genere, avventuroso, azione, fantascienza, romantico
durata, 143


Un immagine più di altre ricorre nel nuovo film di Neil Burger, ed è quella in cui i protagonisti, soli oppure in coppia, guardano la città dall'alto di un edificio che sovrasta il panorama circostante. Senza addentrarsi in tediose dissertazioni basterà ricordare che tale situazione appartiene da sempre all'universo dei supereroi, immancabilmente ritratti, tanto nella versione cartacea quanto in quella filmica, in una posa che, al di là della situazione contingente, rimanda inevitabilmente ad altro. La possibilità di filtrare la realtà attraverso uno sguardo privilegiato dalla particolarità dell'ubicazione diventa per forza di cose  la proiezione di una diversità che è matrice di esistenze laterali e raminghe, costrette a sacrificarsi per la salvaguardia del bene collettivo. Nel caso di "Divergent" si tratta di impedire che una delle fazioni in cui è suddivisa l'umanità prenda il sopravvento. La città in cui vivono Beatrice Prior e Tobias Eton è infatti il risultato di un equilibrio poggiato sulla cooperazione tra cinque gruppi umani definiti da una specifico carisma o attitudine. Che si tratti delle capacità intellettive (gli eruditi) e di un coraggio smisurato  (gli intrepidi, a cui i nostri appartengono) ogni pedina è il fondamento di un quieto vivere che ad un certo punto viene messo in discussione dalla sete di potere di chi è disposto a tutto pur di assicurarsi il comando delle operazioni. Da qui la caccia ai non allineati che il film chiama "Divergenti", ed a cui ovviamente appartengono Beatrice e Tobias obbligati ad uscire allo scoperto per guidare la resistenza contro le forze del male.

Girato sulla falsariga di un film come "Hunger Games" di cui condivide la visione sociale ed il clima post apocalittico, "Divergent" utilizza le forme di genere (fantascienza, avventura, romanticismo e persino melò) per mettere in scena l'ennesimo racconto di formazione in cui il percorso di crescità dei due protagonisti si realizza attraverso un confronto con le paure tipiche dell'universo giovanile. In questo modo la ricerca del proprio posto nel mondo si compie attraverso il contraddittorio con figure di riferimento che inviduono i luoghi archetipi del cambiamento.



Dal rifiuto dei genitori al confronto con i coetanei, dall'accettazione della propria diversità alla scoperta dell'amore nulla è lasciato al caso in un alternanza di vita e di morte che consegnerà i nostri alla consapevolezza del compito per il quale sono stati predestinati. Rispetto alla saga prodotta dalla Warner Bros quella diretta da Neil Burger è certamentepiù semplice sia in termini di spettacolarità che di contenuti, ed anche l'eroina femminile appare più rigida e meno dinamica del modello rappresentato dalla Katniss Everdeen di Jennifer Lawrence. Ma in "Divergent" a non tornare sono gli effetti di una drammaturgia che scompare quando invece ce ne sarebbe più bisogno. Stiamo parlando di quegli snodi che dovrebbero  legittimare la progressione psicologica dei personaggi, ed incentivare la catarsi derivata dal superamento dei pericoli al quale Beatrice e Tobias vengono sottoposti. In entrambi i casi  invece tutto accade in maniera meccanica: il riferimento va nello specifico all'innamoramento tra i due protagonisti, preceduto da una tenzone improvvisamente trasformata in tenero idillio, e poi alla qualità dei "poteri" dei due divergenti, resi manifesti in una maniera troppo banale per provocare la necessaria empatia. Accolto con un buon successo dal botteghino americano il film è la prima parte di una trilogia che aspira a diventare un classico del mondo giovanile. Per il momento il risultato si mantiene al di sotto delle aspettative.

PICCOLA PATRIA

Piccola Patria
di Alessandro Rossetto
con Maria Roverar, Roberta De Soller
Italia 2014
genere, drammatico
durata, 11



Sesso, soldi, sognare di andare lontano; sembrerebbe un film sull’american dream, invece è  tutto ambientato nel nord-est italiano. Lucia e Renata sono le protagoniste attorno alle quali ruota tutta la giostra.

Il film, di fatto, si apre su un piano sequenza eseguito dall’elicottero, con la camera quasi perpendicolare al suolo di luoghi alla soglia del degrado, metafora di una storia che poteva consumarsi ovunque. Lo stile documentaristico (il regista proviene da quel mondo) è assolutamente efficace, andando a rafforzare una moda (che ben venga) tutta italiana che sembra dilagare dopo Venezia 2013, moda che su queste pagine avevamo già sottolineato in varie occasioni.  Pecca evidente è che in occasioni isolate le inquadrature richiamano ad uno stile da fiction  anche se, escludendo queste occasioni, la pellicola è esteticamente molto curata. Interessante notare anche un certo parallelismo con l’ultimo Virzì, che pure aveva recentemente portato sugli schermi esseri umani disastrati nel nord Italia, forse con minor efficacia. In tutto questo contesto, di per sé già abbastanza articolato, Rossetto non rinuncia a tirar fuori i problemi (che nemmeno sfuggono alla realtà dei fatti) di integrazione, o sarebbe meglio dire di razzismo,  tra gli immigrati e gli abitanti locali.


Traendo dunque conclusione alcuna, ma mostrando come solo il mezzo cinematografico può fare, la chiusura che richiama l’apertura iniziale va ancor di più ad ornare un’altra piccola perla che si aggiunge al ri-rinascimento del cinema italiano degli ultimi anni.

Antonio Romagnoli
(pubblicato su dreamingcinema.it)