martedì, giugno 30, 2015

CONTAGIOUS - EPIDEMIA MORTALE

Contagious- epidemia mortale
di Heny Hobson.
con Arnold Schwarzenegger, Abigail Breslin, JRichardso
Usa, 2015
genere, horror, drammatico
durata, 95'


Facendo ancora orecchie da mercante (mai l'abitudine) al mistero - glorioso ? Ignominioso ? - inerente la resa in Italiano delle opere provenienti dal vasto mondo (nel caso, l'originale "Maggie" diventa "Contagious", ed e' forse igienico piantarla subito qui), "Contagious - epidemia mortale", appunto, esordio alla regia di Hobson dopo l'apprendistato in pubblicità, posticipato più volte per traversie produttive, ci introduce, secondo itinerari immaginifici relativi ad un generico post-qualcosa che abbiamo imparato negli anni recenti a riconoscere come uno dei sentieri letterari privilegiati di quello spirito del tempo che, per comodità, potremmo chiamare sentimento-della-fine, nel cuore delle traversie di una famiglia qualunque dell'entroterra americano, una volta rassegnatasi a dover fronteggiare quello che le autorità hanno battezzato col nome di necrovirus, agente misterioso il quale, in un intervallo variabile a seconda delle peculiarità metaboliche del singolo, trasforma il suddetto in una specie di non-morto. Proprio il gruppo dei Vogel, protagonista della vicenda - padre, Wade/Schwarzenegger; madre, Caroline/Richardson e tre figli - affronterà l'incubo allorquando la primogenita Margaret/Maggie (A.Breslin, già bimba in "Signs" e ragazzina petulante in "Little Miss Sunshine") mostrerà chiari i segni della patologia.

 
Nella paradossale claustrofobia di un'America ritratta attraverso istantanee infette di desolazione hopperiana - cieli sbiaditi e inerti, campi silenziosi perlopiù riarsi, macerie industriali e urbane, fumi sparsi d'incendi in lontananza - da subito l'attesa per l'inevitabile progressione del morbo, oltre a prolungare lo strazio interiore, certifica una conclamata irredimibilita' nella forma di un pegno riparatore che il mondo (inteso come ordo rerum violato) intende riscuotere, alludendo, altresì, in filigrana, al sostanziale fallimento dei rapporti in ragione della loro falsità; al lasciare che questi raggiungano, nel perpetuarsi della cosiddetta normalità, una putrescente stagnazione, nei confronti della quale "la metamorfosi" finisce per apparire quasi come una variante logica, se non, addirittura, una via d'uscita.

Dramma familiare prima ancora che declinazione spossata con richiami metafisici di un genere, "Contagious", come sovente accade per quei lavori che cercano un proprio equilibrio nella oscillazione delle atmosfere all'interno di un paesaggio emotivo costante, assiste all'inesausto rimescolarsi di pregi e manchevolezze, senza che nessuno di questi prevalga. Se da un lato, infatti, risulta interessante (benché affatto inedita) la contemplazione mesta quanto stranita di un disfacimento in atto la cui origine pare allignare più nelle persone che nelle cose - per cui le cause scatenanti esterne possono benissimo essere eventi accessori di una epifania oramai non derogabile in via ulteriore - e che, cinematograficamente parlando, si nutre di una qual cura nella ricerca del dettaglio, della sfinita monotonia dei primi piani, dei livori quasi macabri di taluni particolari banali insidiati da una sgranatura, da una falsa messa a fuoco o dall'insistenza di un'angolazione irrituale; dall'altro e' pur vero che molto si sacrifica del portato simbolico e metaforico di una inquadratura, di una sequenza al momento di piegarsi/adeguarsi alla convenzionalità di certe sospensioni narrative - negl'intenti, magari, evocative: non di rado in odore di cui de sac - Stesso dicasi per, alla lunga, la compiaciuta tenacia con cui si aderisce al proprio rigore formale curato, per ciò che attiene alle luci, ai colori, da Lukas Ettlin ("The Lincoln lawyer", "World invasion", et.), o per l'irruzione qua e la' - come dovuta - dell'elemento orrorifico fino ad un attimo prima scientemente calibrato o finanche rimosso.

 
Sorprende, d'altro canto, ed entro limiti talmente ovvi da tralasciare il ribadirli, la non così scontata compostezza palesata dal vecchio Schwarzenegger, ondivago relapso della celluloide muscolare, nei panni di un padre stanco, avaro di parole, costretto a difendere moglie e prole (soprattutto Maggie) contro ogni evidenza, facendo moderato e mortificato uso di quella brutalità che altrove gli abbiamo visto distribuire persino con accenti sarcastici e/o caricaturali. Qui - restando dalle parti di un simulacro fantastico costruito pezzo per pezzo sul corpo e su una mimica impostata ad un'essenzialità tanto scarna nelle variazioni quanto d'immediato impatto (al punto da confidare alla figlia segnata, in un frangente riflessivo che e' al tempo cortocircuito impossibile dire quanto volontariamente autoironico: "Ancora mi chiedo cosa tua madre abbia trovato in me") - non e' azzardato scorgere, per dire, le fattezze del suo celebre cyborg (tra l'altro, in imminente ricaduta tra noi) stavolta debitamente abilitato al possesso di una coscienza inquieta da sottoporre al vaglio del contraddittorio agire umano e delle conseguenze da esso innescato.

Inscrivibile in un contesto a spanne piuttosto nutrito - il clima generale del film di Hobson riporta, bene o male e con le dovute precauzioni e sfumature, sia al solco scavato con lucido pessimismo da Romero, sia a quello critico-apocalittico di Carpenter - che via via ha generato prove diverse per originalità e spessore (pensiamo, per restare al passato recente e limitandoci ad una elencazione meramente cronologica, a "28 days later..."; "I am legend"; "The road"; "The book of Eli"; "Take shelter"; "World War Z"; et.), "Contagious" mutua dalle intuizioni seminali dei primi e dalle mutazioni sperimentate dai secondi il perimetro del proprio campo di applicazione, riservandosi i modi espressivi scabri e assorti di un Cinema più intimista e travagliato. Il connubio non sempre armonico di tali approcci ed esiti, pero', lo slancio partecipe sebbene non del tutto coerente, ne fanno un tentativo più curioso che riuscito.

TFK

domenica, giugno 28, 2015

GOING CLEAR: SCIENTOLOGY E LA PRIGIONE DELLA FEDE

Going Clear: Scientology e la prigione della fede
di Alex Gibney
con Paul Haggis, Mike Binder, Marthy Rathbum
Usa, 2015
genere, documentario
durata, 120'


Quando, nel maggio del 2013 presentò al festival di Cannes il suo "Armstrong Lie", Alex Gibney era già un documentarista di fama mondiale, grazie a un paio di lungometraggi come "Taxi to the Dark Side" e "Enron: The Smartest Guy in the Room" che avevano avuto l'ardire di interrogarsi su alcune delle questioni più scabrose del nostro tempo. Pur occupandosi di fatti accaduti in ambito sportivo, la storia del campione di ciclismo più acclamato dei nostri tempi, incastrato dalla giustizia federale e costretto a confessare di aver vinto sette Tour de France grazie all'utilizzo di sostanze dopanti, era qualcosa che andava oltre il semplice ritratto di una star caduta in disgrazia; "Armstrong Lie" svelava infatti la menzogna di un uomo che era stata la speranza per milioni di persone che, sulla scia del suo esempio - ricordiamo che il ciclista all'inizio della sua carriera era stato colpito da un cancro dal quale era poi guarito - avevano creduto nella possibilità di sconfiggere dolore e malattia.

Seppur occupandosi di tutt'altro argomento, "Going Clear: Scientology e la prigione della fede" dimostra l'intenzione di Gibney di proseguire nella direzione tracciata dal penultimo lavoro, scegliendo di raccontare le vicende di un'altro falso profeta, accusato, secondo le testimonianze raccolte da Gibney, di aver carpito la buona fede di una sterminata moltitudine di credenti. In questo caso, trattandosi di Ron Hubbard, il fondatore di Scientology, saremo di fronte (è bene usare il condizionale perchè allo stato dei fatti nessun reato è stato imputato ai presunti colpevoli) ad un caso ben più grave, perchè la scopo del film è quello di dimostrare non solo l'infondatezza dei dogmi professati da Hubbard ma soprattutto le nefandezze commesse dal successore David Miscavige, l'uomo della svolta, se è vero che sotto la sua guida, Scientology è diventata al tempo stesso una religione ufficiale e un potentato economico, distribuito in varie parti del globo, seppur con  un numero di affiliati in leggera decrescitai. Più che sulla biografia di Ron Hubbard, restituito attraverso una sintesi che prende in considerazione i passaggi più controversi della sua ascesa, quelli in cui le contraddizioni tra pensiero e azione diventano maggiormente evidenti - e qui non si può non citare l'ipotesi che la cosmogonia su cui si basa il credo di Hubbard non sarebbe altro che la riformulazione dei racconti di fantascienza da lui scritti negli anni 30 -, "Going Clear" concentra la sua attenzione sulle pratiche di coercizione e di violenza psicologica imposte agli adepti della chiesa, obbligati a versare ingenti cifre di denaro per raggiungere gli stadi più avanzati di consapevolezza (l'espressione Going Clear fa riferimento al processo di purificazione spirituale operato sui fedeli) e tenuti in riga dalla minaccia di rivelare al mondo i dettagli più scabrosi delle loro vite private, registrati durante le sedute terapeutiche e conservati per il momento opportuno.


Dal regista Paul Haggis, fuoriuscito da Scientology dopo più di trent'anni di frequentazione ai vari vari Marty Rathbum e Mike Binder, membri eminenti della congrega fino al giorno in cui hanno deciso di abbandonarla, a farla da padrone sono da una parte le testimonianze delle persone a conoscenza dei fatti; dall'altra, l'assoluta assenza di un contraddittorio che, seppur giustificato dal rifiuto di intervenire da parte degli esponenti di Scientology, risulta tanto più determinante nell'economia di un'opera come "Going Clear" che, per il fatto di essere un film a "tesi" avrebbe bisogno di una dialettica che invece è completamente assente. Specializzato nel documentario d'inchiesta, Gibney conferma un senso dello spettacolo capace di trasformare il resoconto del film in una sorta di investigazione privata, il cui rigore è spesso contaminato da artifici che appartengono al puro intrattenimento: presenti, sia nell'uso di inserti recitati ad hoc, che, alla maniera di un episodio della serie di "X- Files", ( visto il tema in questione, il riferimento non è poi così azzardato) traducono in immagini il racconto dei protagonisti; sia, nell'effetto deformante operato su alcuni dei personaggi più noti tirati in ballo dal film e in particolare di Tom Cruise che, privato del suo cotè cinematografico, e restituito attraverso inserti d'archivio che lo ritraggono nel ruolo di gran cerimoniere nei raduni organizzati da Scientology, appare stranamente sinistro e lontano dalla sua immagine hollywoodiana.
 
E qui torniamo al punto di partenza e al paragone con "Armstrong Lie": perché se è vero che "Going Clear" è altrettanto dirompente nell'esposizione delle mistificazioni connesse con l'operato di Scientology, è pur vero che rispetto al lavoro precedente il nuovo film di Gibney si "limita" a mettere in scena una verità - reale o presunta che sia - già acclarata e conosciuta, per il fatto di essere tratta dall'omonimo libro di Lawrence Wright, giornalista e scrittore premio Pulitzer che ha iniziato a interessarsi a Scientology con un articolo apparso sul New Yorker. Più che a un  working progress (com'era stato il film su Armstrong) o un' inchiesta sul campo, "Going Clear" ci mette di fronte alla messinscena di una sceneggiatura già pronta e alla necessità di presentare sotto altra forma le parole di un libro già letto. Insomma, più cinema che documentario, o se vogliamo, un documentario, costruito con la metodologia dei film di finzione. Ed è forse questa la ragione di un'operazione che colpisce fino a un certo punto, e di un titolo, che in qualche modo non riesce ad aggiungere molto a ciò che conoscevamo.
(pubblicato su ondacinema.it)

sabato, giugno 27, 2015

NESSUNO SIAMO PERFETTI

Nessuno siamo perfetti
di Giancarlo Soldi
con Tiziano Sclavi, Dario Argento, Mauro Marcheselli, Thony
Italia, 2014
genere, documentario
durata,  71'


Dopo essere stato presentato alla 32 edizione del Torino Film Festival, anche gli schermi della cineteca di Milano si sono accesi con Nessuno Siamo Perfetti, documentario che Giancarlo Soldi ha dedicato alla figura, artistica e umana, di Tiziano Sclavi, sceneggiatore del suo precedente Nero (1992), nonché padre e ideatore del celebre fumetto che ha riempito l’immaginario di molti italiani, Dylan Dog.
Nessuno siamo perfetti adotta un linguaggio e una struttura narrativa perfettamente conformi all’immagine che del suo protagonista possiamo trarre dalle abbondanti interviste che egli rilasciò al regista. Come la fotografia del sempre eccellente Bigazzi alterna momenti di pura visionarietà in cui galeoni e balene si librano leggere fra i grattacieli milanesi, così, i viaggi interiori di Sclavi cadono spesso nell’onirico e nel fantastico, in un turbinio incessante di fantasia e immaginazione. Il pudore dell’autore di Dylan Dog, schivo e misterioso, viene reso con delicatezza e rispetto dalle domande delicate che Soldi gli pose per ben dodici anni, in una sorta di lungo diario intimo. Quasi si stesso confrontando con un confidente, Sclavi affronta vari momenti importanti della sua vita, dal rapporto tormentato con la madre – che pare fosse solita bruciargli i fumetti che egli da ragazzo collezionava -, ai problemi di alcolismo, dall’esordio nel mondo del fumetto fino al successo e al riconoscimento della maturità.

L’opera fornisce un ritratto complesso e variegato dell’autore anche grazie alle preziose parole che molti ammiratori o conoscenti spesero su di lui: da Dario Argento a Bianca Pitzorno, da Grazia Nidasio a Sergio Castellitto, solo per citarne alcuni. 


La narrazione segue con delicatezza le inquietudini e le ossessioni di quel ragazzino smilzo che, dalla piccola Pavia giunse pieno di angoscia nella grande inospitale Milano, in cerca di una tranquillità che nemmeno il successo fu in grado di regalargli. Attraverso una fotografia satura e colori innaturali, quasi disturbanti, Nessuno siamo perfetti insegue con eleganza quel flirtare con la morte che più volte è stato attribuito a Sclavi, quel rapporto di amore e odio con l’altro da sé che l’autore esorcizzò nella creazione di un alter-ego, Dylan Dog, forte di tutte quelle caratteristiche di cui egli invece mancava.


L’eterogeneità delle fonti e degli stili narrativi –interviste, animazioni di fumetti, immagini oniriche-, è impreziosita anche da qualche inserto – non sempre giustificato- di Nero, pellicola cui Sclavi e Soldi collaborarono, l’uno alla sceneggiatura, l’altro alla regia.

L’opera procede con discreto rigore alla scoperta dell’uomo Sclavi prima ancora che dell’artista, lasciando celati alcuni aspetti fondamentali della sua persona, come quella fede nuziale all’anulare destro su cui la telecamera si pone insistentemente. Nel complesso Nessuno siamo perfetti è un esempio ben riuscito di documentario all’italiana, perfettamente fruibile anche da un pubblico che non abbia dimestichezza con l’intricato mondo di Dylan Dog. 
Erica Belluzzi

venerdì, giugno 26, 2015

VULCANO - IXACANUL

Ixacanul
di Jayro Bustamante
con María Mercedes Croy, María Telón, Marvin Coroy, Justo Lorenzo
Francia, Guatemala, 2015
genere, drammatico
durata, 100'
Mai come in questo periodo le periferie del mondo sono state così vicine all'appassionato di cinema che in un sol colpo si è visto recapitare due cartoline dall'inferno firmate rispettivamente dal nostro Roberto Minervini, di cui abbiamo ampiamente parlato nella recensione dedicata al suo "Louisiana", e poi dal regista guatemalteco Jayro Bustamante, regista che esordisce alla regia con una film "Ixacanul - vulcano" che, alla pari di quello del collega italiano nasce dalla volontà di raccontare la realtà, spogliandola il più possible degli artifici di cui il cinema si serve quando la deve mostrare sullo schermo di una sala.


Nel caso di "Ixacanul" la sospensione di incredulità esiste comunque, perchè la storia, nel suo perfetto svolgimento e nell'assenza di tempi morti, presuppone appunto l'esistenza di un copione già scritto e di una direzione artistica che sa come utilizzare gli attori sociali chiamati a "interpretarlo". Ma è altrettanto vero che la vicenda di una famiglia di poveri contadini di origine Maya e di Maria, costretta a sposarsi per ragioni di denaro, è di quelle che si sottraggono agli standard drammaturgici comuni. In "Ixacanul" infatti il coinvolgimento nasce non tanto dalla nobiltà del tema che, partendo dalla denuncia delle condizioni di sfruttamento della classi indigenti arriva a dimostrare la collusione del Sistema nell'esercizio del misfatto; quanto piuttosto dall’assoluta adesione del regista al paesaggio, naturale e antropologico, in cui si svolge la vicenda. 


La semplicità che Bustamante impone alla materia cinematografica diventa quindi il modo per liberarla da ogni retorica e per favorire la percezione di un'afflizione trasmessa attraverso la somma dei singoli frammenti narrativi. In questo modo, mentre seguiamo le varie fasi del calvario esistenziale di Maria, che ad un certo punto rimane incinta dell’uomo “sbagliato” e deve affrontare le conseguenze di un parto destinato a sconvolgere ogni progetto,  “Ixacanul” ci informa sull’iniquità delle condizioni lavorative, sull’assenza di mutuo soccorso tra chi dovrebbe averne e sui problemi di alcolismo delle generazioni più giovani.

Senza dimenticare la presenza di uno sguardo sul sostrato di costumi e di credenze che, se da una parte costituiscono il motivo d’identità di un popolo altrimenti destinato a scomparire, dall’altra contribuiscono, con il loro carico di pregiudizi – sintetizzati nelle ragioni che spingono Maria a camminare  in un campo pieno di serpenti  –, alla mancanza d' emancipazione di quella parte della popolazione. Vincitore dell'Orso d'argento all’ultima edizione del festival di Berlino “Ixacanul” commuove e fa riflettere.

giovedì, giugno 25, 2015

TED 2

Ted 2
di Seth McFarlane
con Mark Whalberg, Amanda Seyfred, Lian Neeson
Usa, 2015
genere, commedia
durata, 108'


Bisognerebbe sempre specificare, quando l'argomento in questione è la commedia, che ne esistono due tipi: una universale, nel caso in cui il film in questione sia somministrabile, nella propria interezza, ad un fruitore di ogni provenienza culturale; un'altra, invece, che nutrendosi del proprio impianto culturale non risulta accessibile alla totalità del pubblico che col suddetto impianto ha poco a che fare. Sotto questo punto di vista, e non solo, il primo  "Ted" aveva tentato di trovare un compromesso per rendersi vendibile su scala internazionale, rendendo il risultato finale non così entusiasmante come ci si attendeva.

Vedendo "Ted 2" - nella quale l'orsacchiotto, una volta sposatosi, dovrà lottare per vedere riconosciuti i propri diritti civili -  sembra che Seth MacFarlane abbia preso coscienza di queste considerazioni, regalando al secondo capitolo tutti gli elementi che mancavano al primo. Se molto è dovuto all'attingere continuamente dai modi - e dai toni - della fortunata serie tv animata "I Griffin" - ovvero la verve dei dialoghi, i flashback surreali e le sequenze no sense - il rendere "Ted 2" definitivamente convincente è la scelta di renderla una commedia prettamente americana, dall'estetica pop e pregna di critiche velenose alla stessa cultura dalla quale attinge - vivendo dunque della meravigliosa e sempiterna contraddizione dell'american dream -. Tutto questo amalgamato da una sceneggiatura che vive di  una ritmica tanto riuscita quanto esasperata - quest'ultima sì accorta alle esigenze di un pubblico internazionale - e da un cast in forma e ben diretto.


Preso atto di questi elementi, si possono tranquillamente affermare, dunque, due cose: la prima è che "Ted 2" è uno di quei rari casi nella storia del cinema in cui il sequel diventa un prodotto nettamente migliore rispetto al proprio predecessore; la seconda, non di certo per importanza, è che una commedia così ben fatta raramente si vede sugli schermi.
(Antonio Romagnoli)

mercoledì, giugno 24, 2015

BIG GAME

Big Game
di Jalmari Helander
con Samuel L. Jackson, Ray Stevenson,  Onni Tomilla, Jim Broadbent
Usa, 2014
genere, azione 
durata, 90'



Al cinema destinato ad andare in scena nel periodo più caldo dell’anno non si può chiedere più di tanto e anche lo spettatore più distratto conosce in anticipo ciò che lo aspetta al momento di entrare in sala. Pur con qualche eccezione, i titoli a disposizione del pubblico sono esuberi di magazzino, programmati nel circuito allo scopo di legittimare la successiva distribuzione home video. Strategie di mercato di cui la Eagle ha sicuramente tenuto conto quando ha deciso di distribuire un film d’azione come “Big Game – caccia al presidente”, che appare fin da subito un’ imitazione delle grandi pellicole blockbuster. Nel caso del lungometraggio diretto dal finlandese Jalmari Helander, il modello è quello derivato da “Air force One” di Wolfgang Petersen, action movie che vedeva il presidente americano trasformarsi in una sorta di Rambo per sbarazzarsi dei dirottatori che lo tenevano in ostaggio. In questo caso però la variante di "Big Game" è quella di presentarci un inquilino della Casa Bianca (Samuel Lee Jackson in versione Barak Obama) distante anni luce da quello intraprendente e pugnace interpretato da Harrison Ford e di affidarne le sorti - queste si altrettanto funeste - al piccolo Oskari, il tredicenne che lo aiuterà a salvarsi da chi lo vuole morto.


Detto che il film, nella linearità della storia e nel totale disimpegno dei contenuti, rispecchia in pieno le caratteristiche del cosiddetto “cinema balneare”, "Big Game" è un racconto di formazione a doppio binario, perchè le conseguenze delle vicende a cui assistiamo saranno motivo di crescita sia per il coraggioso bambino, sia per il simpatico presidente, la cui figura, affabile e carismatica, è del tutto allineata alla correttezza politica con cui il cinema mainstream si rivolge al più importante cittadino americano. Così, volendo, i motivi d’interesse non vanno ricercati nella vorticosa successione degli avvenimenti ne tantomeno nell’esibita consistenza del nemico, depauperata da una serie di motivazioni che la frettolosa sceneggiatura non riesce mai a spiegare. A farsi preferire sono piuttosto l’originalità dello “strano” sodalizio, reso credibile dall’alchimia tra i due interpreti e la scelta di un punto di vista che, nel privilegiare lo stupore fanciullesco di Oskari, giustifica, almeno in parte, l’ingenuità della messinscena allestita dal regista.

martedì, giugno 23, 2015

RUTH E ALEX

Ruth e Alex
di Richard Loncrane
con Diane Keaton, Morgan Freeman
Usa, 2014
genere, commedia
durata, 92'


Parlando della superficialità e del vuoto narrativo che affliggono gran parte dell’odierna cinematografia, non si potrà fare a meno di citare Ruth e Alex, ultima “fatica” di Richard Loncraine.
Presentato alla trentanovesima edizione del Toronto Film Festival, l’opera annovera quale sua – unica – ragion d’essere la prima collaborazione tra due grandissimi attori del panorama americano, Morgan Freeman e Diane Keaton, la cui presenza è sfruttata e abusata fin dal titolo – traduzione dell’originale Five Flights Up.

Reduce da un percorso registico estremamente ecclettico e a tratti schizofrenico – in cui al Riccardo III si alterna l’interpretazione di Harrison Ford in Firewall –, Loncraine è incapace di creare un’opera dal respiro unitario e olistico.
La sceneggiatura di Charlie Peters, basata sulla novella di Jill Ciment, Heroic Measurs, vede susseguirsi senza linea di continuità o filo logico un’accozzaglia di subplots e vicende totalmente aliene l’una dall’altra. Pur contribuendo a rendere la pellicola sconnessa e frammentaria, le varie storie-nella-storia fanno da sottofondo ai due veri centri propulsivi dell’azione, posti sotto forma di domande: riusciranno i nostri eroi a ottenere 950.000 $ dalla vendita del loro bell’appartamento a Brooklyn per potersi spostare in un altrettanto costoso nido d’amore a Manhattan? E ancora, riuscirà Dorothy, l’anziana cagnetta dei due, a camminare dopo un intervento chirurgico da 10.000 $?
Sebbene a questi due interrogativi si sarebbe potuto esaurientemente rispondere in un paio di scene, Loncraine ha scelto di far muovere ogni singolo attimo dei novanta minuti della sua pellicola attorno alle due inessenziali questioni.


Così l’anziana coppia, che per quarant’anni di matrimonio ha vissuto sempre nel medesimo enorme appartamento, dovrà far fronte con il perfido mercato dell’immobiliare e con le sue ansiogene dinamiche. Ad aiutarli sarà la nipote di Ruth, Lily (Cynthia Nixon), forse l’unico personaggio ben riuscito e adeguatamente caratterizzato.
Dei vari  plot secondari nessuno è immune da una certa gratuita superficialità. Dal contesto sociale e politico che circonda i due e influenza i moti del mercato immobiliare – un pericoloso terrorista si aggira per la città –, alle ragioni che li spingono a voler cambiare casa, ogni sfaccettatura della vicenda viene fugacemente mostrata, senza alcuna credibilità o coerenza narrativa. A temi grandi e importanti – uno su tutti: l’infertilità della donna – viene relegata una battuta o due, scelta che contribuisce a fomentare il senso di spaesamento e l’irritazione dello spettatore.


Sebbene l’uso di vari flashback tenti di dare tridimensionalità ai due e al loro trascorso, le interazioni della coppia appaiono fredde e distaccate, certo non consone a un rapporto coniugale lungo quasi mezzo secolo.
Oltre all’utilizzo di prevedibili e banali immagini della primavera delle loro vite, un'altra goffaggine narrativa che contribuisce a peggiorare un quadro di per sé già problematico, è l’utilizzo del voice-over di Morgan Freeman – clichè sulla cui banalità non c’è bisogno di spendersi oltre.
Ruth e Alex è nel complesso una pellicola lenta, noiosa, fruibile solo quale perfetto esempio della decadenza del cinema d’oggi.
Erica Belluzzi

domenica, giugno 21, 2015

WOLF CREEK 2

Wolf Creek 2
di Greg Mc Lean
con Mick Taylor, Paul Hammersmith, Katarina Schmidt
Australia, 2015
genere, horror
durata, 106'


Lungometraggio ispirato a fatti realmente accaduti, "Wolf Creek 2" narra di due turisti tedeschi che sul proprio cammino incontrano un cacciatore di maiali - Mick Taylor -, che in realtà si rivela essere uno spietato omicida seriale nella cui espressione violenta s'evincono ripensamenti storici/culturali, riflessioni non proprio positiviste sulla natura umana e una certa predisposizione al macabro.

Al netto di una trama e di uno sviluppo assai abusati nella storia del cinema - la presentazione dell'antagonista inserita nella sequenza d'apertura, a sua volta scollegata dal successivo impianto narrativo; la coppia di giovani che s'avventura in luoghi remoti imbattendosi poi nel serial killer -, il regista riesce a divincolarsi tra i numerosi tranelli che tutto ciò comporta in due modi: in primis evitando gli scontati tempi drammatici e sviluppi narrativi, eludendo costantemente il rischio del "cliché"; secondariamente, il fondere la natura con i personaggi non solo ha un impatto visivo notevole - la sequenza d'apertura cui prima si faceva cenno è grande cinema -, ma il paesaggio mistico del cratere e del circostante deserto  - "secco come la fica di una suora", asserisce Mick Tayler - danno un contributo consistente alla seduzione prima ed alla violenza poi della quale restano vittime i protagonisti come i fruitori.

Grazie anche alla splendida caratterizzazione del "villain" di turno, "Wolf Creek 2" diventa ancor più affascinante attraverso la solerzia con la quale l'elemento della speranza viene costantemente escluso da ogni possibile dinamica.
Antonio Romagnol

venerdì, giugno 19, 2015

TENERAMENTE FOLLE

Teneramente folle
di Maya Forbes
con Mark Ruffalo, Zoë Saldana, Imogene Wolodarsky, Ashley Aufderheide
Usa, 2014
genere,  commedia
durata, 90'
 
"Negli anni '60 era normale". Così viene giustificato, da parte della moglie, l'iniziale non prendere sul serio la bipolarita'maniaco/depressiva di Cameron, personaggio eccentrico protagonista della storia. E la smitizzazione dei favolosi anni '60 è solo uno dei tanti tratti che colora una commedia intelligente e scritta come più spesso dovrebbero essere scritti film di questo genere.
Accompagnata da una regia accorta a non dissacrarne i ritmi, "Infinitely polar bear" - titolo dato da uno svarione lessicale di una delle due figlie sul disturbo del padre - è un'opera di raro fascino che, senza far avvertire bruschi cambi, a tratti fa ridere di gusto, a volte assume toni semi-drammatici, a volte quasi commuove. Ma la peculiarità fondamentale - quindi vera riuscita del film - è che lascia in volto, ogni secondo, un sorriso che ne riassume ogni sfumatura.
Antonio Romagnoli

giovedì, giugno 18, 2015

FUGA IN TACCHI A SPILLO

Fuga in tacchi a spillo
di Anne Fletcher
con Reese Witherspoon, Sofia Vergara
Usa, 2015
genere, commedia
durata, 87'

 
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Dotata di una versatilità che poche attrici possono vantare, Reese Witherspoon continua a frequentare ruoli e generi tra i più disparati. Così, dopo essere stata  in fuga da un doloroso passato nello struggente “Wild”, non stupisce di rivederla più vivace che mai in una commedia come “Fuga in tacchi a spillo” dove l’attrice americana si diverte - è il caso di dirlo per il tono farsesco della sua rappresentazione - a interpretare l’agente Roose Cooper, poliziotta tanto diligente quanto imbranata nell’applicazione dei regolamenti che, dopo un drammatico agguato che è costata la vita al suo collega, si ritrova in fuga con la testimone di un processo contro un pericoloso boss del narcotraffico. Una situazione a dir poco turbolenta, che però, nella mani della regista Anne Fletcher diventa l’occasione per imbastire un buddy movie al femminile, caratterizzato, come vuole il genere, dall’ incontro scontro tra due personalità agli antipodi; con la femminilità prorompente del personaggio interpretato dalla vistosa Sofia Vergara accostata a quella del tutto inesistente della meticolosa compagna di viaggio. Ovviamente ne succederanno di tutti i colori e la convivenza tra le due donne diventerà presto il motivo principale del film, con gli inseguimenti e le sparatorie a far da corollario alle schermaglie e ai sotterfugi messi in campo dalle due donne per volgere la situazione a proprio vantaggio. 


Com’era prevedibile il film lavora sia sul piano filmico, accentuando le differenze caratteriali dei due personaggi, sia sul piano dell’immaginario collettivo, legato al corpo delle due attrici – longilineo e asessuato quello della Witherspoon, prorompente ed erotico quello della Vergara – chiamate a confermare tutti gli stereotipi legati ai rispettivi modelli femminili. Quindi abbiamo da una parte la goffaggine di Roose, imbranata con gli uomini e iper attiva dal punto di vista lavorativo, al contrario della signora Riva, impegnata esclusivamente a portare a spasso il suo corpo statuario. Il connubio funzionerebbe anche, se non fosse che il copione è davvero povero di idee e costringe le attrici a situazioni forzate e a gag di una demenzialità poco divertente. Un paradosso per la regista Anne Fletcher, già sceneggiatrice di un classico come “Il diavolo veste Prada”, e qui invece artefice di un plot che non riesce a valorizzare il patrimonio messogli a disposizione da Reese Witherspoon, coinvolta anche in qualità di produttrice.

KILL THE MESSENGER

Kill the Messanger
di Michel Cuesta
con Jeremy Renner, Rosemarie DeWitt, Ray Liotta
genere, drammatico, thriller
Usa, 2014
durata, 114'


I paradossi del cinema. "Kill the Messenger" di Michael Questa inizia con le immagini d'archivio di alcuni presidenti della casa bianca impegnati a testimoniare l'impegno del governo nella lotta contro la droga. A seguire invece, i fotogrammi di finzione che raccontano la vicenda del giornalista Gary Weeb e degli articoli che rivelarono il coinvolgimento della Cia nel traffico di stupefacenti necessario a finanziare i Contras nicaragueni. Michael Cuesta gioca con le convenzioni cinematografiche, utilizzando il surplus di verità insita negli inserti di repertorio per enfatizzare la bugia di quelle dichiarazioni e assegnando a cio che è normalmente un simulacro, il compito di raccontare la verità. L'alternanza di vero e falso non è solo una questione formale ma costituisce il nocciolo stesso dell'incredibile vicenda, con il reporter chiamato a difendersi dalla macchina del fango messa in moto dai servizi segreti per screditare la credibilità della sua indagine. Per raccontarlo al pubblico Michael Cuesta mette a frutto l'esperienza accumulata nel lungo apprendistato televisivo (ricordiamo la direzione di episodi tratti dalle serie di "Six Feet Under", "True Blood" e "Homeland") realizzando un prodotto che riesce ad essere popolare senza perdere la complessità di una parabola umana che ad un certo punto si trasforma in una sorta di assedio del forte apache, con il protagonista solo contro tutti, disposto a tutto pur di affermare i principi di indipendenza e verità del proprio mestiere. 


Interpretato da un grande Jeremy Renner nel ruolo del protagonista "Kill the Messenger" è un thriller low budget che si mantiene sempre in tensione e riesce pure ad appassionare per la presenza di un afflato civile che almeno negli intenti avvicina il film a nobili predecessori  come "Tutti gli uomini del presidente" e" I tre giorni del condor". Ancora in attesa di una distribuzione italiana "Kill the Messanger" è stato pressochè ignorato in patria. Forse perchè la storia di Gary Webb, con la sua vis polemica nei confronti del sistema americano, paga il fatto di rappresentare sul piano filmico il contraltare ideologico a un blockbuster di successo come "American Sniper". Una posizione, quella del film di Cuesta, in totale controtendenza e quindi commercialmente inaccettabile. 

mercoledì, giugno 17, 2015

UNFRIENDED

Unfriended
di Levan Gabriadze
con Shelley Hennig, Renee Olstead, Will Peltz, Courtney Halverson.
Usa, 2014
genere, horror
durata, 84'


L'idea di ambientare un film intero davanti allo schermo del pc di un'adolescente – sorta di ipermoderno mockumentary (e sua naturale evoluzione?) – ben si sposa con le tematiche che vanno sviscerandosi nel corso della narrazione, che avviene tutta su skype.
Protagonisti sono cinque ragazzi che si videochiamano insieme a un ospite sconosciuto. La forza del film è tutta nei dialoghi, che vanno a costituire un impietoso ritratto della moderna società americana.
L'antefatto è il tragico – e tristemente verosimile – suicidio di una studentessa, Laura Barns, oppressa dai pettegolezzi, vittima della distruzione della propria integrità pubblica in quel meccanismo che ricrea nel microcosmo liceale una sorta di degenerata “cultura della vergogna”, sistema di valori che emula quello del mondo adulto da cui proviene, e dunque vede al proprio vertice i capisaldi della cultura americana liberista: la realizzazione personale individuale – in tutte le sue declinazioni – e la difesa della propria reputazione pubblica, incastonata in un claustrofobico conformismo dei costumi che per le donne rivela un sostrato di matrice religiosa, imponendo una non-ben-definita “morigeratezza sessuale”.

Durante l'anniversario della morte della loro amica, i protagonisti si trovano a dover fare i conti con un misterioso ospite, che pretende di essere lo spirito della ragazza ed è intenzionato a operare un sadico contrappasso verso i cinque, colpevoli di aver ceduto alla logica del branco e di essere stati quindi complici degli aguzzini, in quella “dittatura della maggioranza” che evidentemente non si applica solo al contesto politico.


Alla graduale escalation di tensione si unisce il progressivo disfacimento della cortina di ipocrisia che avvolge i ragazzi in quel contesto sociale intessuto di contraddizioni che è la scuola, dimensione collettiva che si perpetua attraverso la piazza virtuale, dove la privacy non esiste e l'ineluttabilità del raffronto con la propria immagine pubblica porta a conseguenze tremende.

Un film interessante che unisce una narrazione coinvolgente a un sapiente utilizzo degli strumenti multimediali in chiave horror, trattando tematiche che, forse, sarebbe stato meglio avessero la preminenza rispetto all'ingombrante elemento soprannaturale.
Michelangelo Franchini

sabato, giugno 13, 2015

SUITE FRANCESE

Suite Francese 
di Saul Dibb
con Khristin Scott Thomas, Matthias Shoenaerts, Michelle Williams
Gran Bretagna, Francia, Canada, 2015
genere, drammatico
durata, 107'

Considerando che Suite Francese è solo il terzo lungometraggio per il grande schermo, possiamo ben credere che Saul Dibb abbia molto da dare al panorama cinematografico internazionale.
Il regista di Bullett Boy e The Duchess ha infatti accettato una sfida non facile: portare sul grande schermo il romanzo pentapartito di Irene Nemirovisky, incompiuto a causa della morte prematura della scrittrice ebrea, avvenuta a soli trentanove anni ad Auschwitz.
La fortuna letteraria dell’opera è in gran parte riconducile alle rocambolesche vicende cui andò incontro: dimenticata dalle figlie –che credevano si trattasse di diari intimi della madre–, venne riscoperta nella sua grandezza letteraria e storica più di sessantacinque anni dopo la scomparsa dell’autrice.

Il titolo fornisce una proficua chiave di lettura tematica e strutturale con l’omonima composizione bachiana: come in questo caso infatti, l’opera è composta da più pezzi autonomi, in una gradevole altalena di toni e umori.
Se per quanto concerne i celebri componimenti musicali, la specificazione di “francese” è totalmente aleatoria –dal momento che le suite bachiane non rispettano i canoni della produzione clavicembalistica del diciottesimo secolo francese–, allo stesso modo lo spettatore farà fatica a rinvenire nell’opera di Dibb un qualche retaggio della filmografia francofona.

Dell’originale e complessa trama di storie progettata dalla Nemirovsky, è stato elaborato un fine mosaico compositivo, costituito interponendo l’inizio della prima novella - Tempête en juin (Tempesta in giugno) -  al centro narrativo della seconda, Dolce.
L’abbandono di Parigi all’inizio del giugno 1940 da parte della popolazione sconvolta dai bombardamenti, fa da cornice alla storia d’amore tra Lucile (Michelle Williams), una giovane nobile francese che vive a Bussy insieme alla suocera (Kristin Scott Thomas), e il giovane ufficiale tedesco Bruno Von Falk (Matthias Schoenaerts).
Interpretata con la tipica verve altezzosa della Thomas, Madame Angellier è una ricca proprietaria terriera che passa le giornate a tiranneggiare i suoi inquilini e la mite nuora.
Come la caratterizzazione dell’anziana possidente andrà incontro a piacevoli evoluzioni –evitando così che a un personaggio sia irrimediabilmente associato un vizio o una virtù–, anche la psicologia dei militari tedeschi che occupano Bussy, non cade nel clichè o nell’allettante luogo comune.

Ecco dunque che personaggi che inizialmente sono una cosa sola emergono nelle loro sfumature, e ciascuno pare essere altro da ciò che desidera: così come il giovane ufficiale si diletta in componimenti pianistici e mal digerisce i ritmi della guerra, la giovane eroina si sente a disagio nei panni della ricca senza-cuore.

Vari temi attraversano l’opera –la compassione, la collaborazione, la corsa ai tradimenti–, ma la guerra, seppure sia il motore scatenante dell’azione, resta un lontano rumore di sottofondo.
Centro nevralgico della vicenda è infatti l’amore proibito tra Lucile e il giovane tedesco.
L’affaire amoroso segue un corso prevedibile, inutilmente sottolineato dal voice-over della protagonista.
Oltre alla voce narrante un altro problema da cui l’opera non può dirsi esente, è una certa superficialità nel ritratto delle varie figure che popolano Bussy: alla qualità della caratterizzazione viene spesso privilegiata la quantità dei personaggi che una vicenda corale consente di immettere.
L’opera ritrova tuttavia una sua armonia, specie grazie all’ottima recitazione degli interpreti, e all’ironia con cui viene descritto l’atteggiamento degli occupati nei confronti dei nuovi padroni.
Erica Belluzzi 

venerdì, giugno 12, 2015

ACRID

Acrid
di Kiarash Asadizadeh
con Saber Abar, Ehsan Amani, Pantea Panahiha, Nawal Sharifi
genere, drammatico
durata, 94'

Soheila e Jalal sono una coppia di mezza età in crisi, molte poche cose in comune e nessuna comunicazione, un matrimonio ormai usurato dalla stanchezza e anche dalla profonda indifferenza che dimostra Jalal per la moglie. Azar è la nuova segretaria di Jalal, sposata con Khosro, istruttore di scuola guida, due figli piccoli e tutto il peso della famiglia sulle spalle. Khosro è infedele, infatti ha una relazione con una sua allieva di guida, una donna colta insegnante all’università di chimica Mahsa per la quale vuole lasciare la famiglia per farsi una nuova vita. Misha, giovane universitaria figlia di Jalal, è disperata per il tradimento del fidanzato.

La ragazza di fronte a un fatto così doloroso decide di ritornare a casa per farsi consolare dal padre, il ginecologo Jalal, anche lui un incallito infedele che assume solo donne single nel suo studio per motivi poco professionali. Il regista Klarash Asadizadeh mostra una realtà femminile molto sola e disperata, donne che vengono tradite e ignorate dagli uomini. Un intreccio di relazioni complesse dove l’amore è finito e la donna in qualche modo è sottomessa, non si è ancora liberata. La società iraniana viene vista come ipocrita, dove si vivono situazioni sentimentali nell’ambiguità rendendo infelici le persone vicine. Forse il titolo del film sta a dimostrare come certi comportamenti pregiudichino la vita degli individui non lasciando spazio alla felicità. Il registra mostra un mondo fatto solo di ipocrisia, dove la tradizione vince su tutto, i pregiudizi non vengono combattuti. La pellicola ci mostra solo donne che soffrono e non hanno la forza di ribellarsi anche di fronte al tradimento, tanto dolore, nessuna gioia se non l’asprezza della vita.

giovedì, giugno 11, 2015

IO, ARLECCHINO

Io, Arlecchino
di Giorgio Pasotti, Matteo Bini
con Giorgio Pasotti, Roberto Herlitzka
Italia, 2015
genere, drammatico
durata, 90'


Presentato in concorso alla IX edizione del Festival Internazionale del Film di Roma nella sezione Wired Next Cinema, Io, Arlecchino, pellicola grazie a cui Giorgio Pasotti – coadiuvato da Matteo Bini –  esordisce alla regia dopo una consolidata carriera attoriale, uscirà nelle sale italiane il prossimo 11 giugno.
Come suggerito fin dal prestigioso sito scelto per la sua presentazione nazionale, il MAXXI – attorno a cui l’opinione pubblica si divide in un incessante quanto disturbante chiacchiericcio –  l’opera narra di un’Italia decadente e decaduta, incapace di valorizzare le proprie bellezze, siano esse appartenenti a quella specifica tradizione artistico-culturale che le fa onore; o semplicemente conseguenti alle dinamiche tra padre e figlio.
Paolo (Giorgio Pasotti) fascinoso conduttore di uno di quegli squallidi talk show pomeridiani che non faremo certo fatica a immaginare, viene interrotto da una scomoda telefonata che gli comunica che l’anziano genitore (Roberto Herlitzka) è stato ricoverato all’ospedale.
Il giovane, totalmente ignaro di tale situazione medica, si dirige immediatamente nel piccolo paesino del bergamasco alla ricerca del padre Giovanni. Da semplice viaggio di formalità, quello di Paolo si trasformerà presto in un vero e proprio viaggio alla scoperta delle proprie origini famigliari e culturali –non sarà un caso che l’attore-regista Pasotti abbia scelto di ambientare la vicenda nel piccolo villaggio medievale di Cornello del Tasso, nella zona che gli diede i natali.
La delicata e preziosa presenza di Herlitzka, punta di diamante del teatro italiano, viene deturpata e resa dozzinale da una regia scialba, incapace di dare una piega originale al film che, dopo un inizio potenzialmente stimolante, si arena in una scontata “conversione sulla via di Damasco” del protagonista.

A suo favore si deve riconoscere come la vicenda sia attraversata da numerosi filoni narrativi e soggetta a diverse chiavi interpretative, sebbene queste siano rese tutte evidenti da una sceneggiatura didascalica che lascia ben poco all’immaginazione.
Come suggerito da quella velata punta di ambiguità riguardante fin dal titolo il ruolo sintattico e narrativo dei due soggetti, Io, Arlecchino è la storia di un malfunzionante ruolo di identità, tanto sul piano delle dinamiche famigliari, quanto per la tutela degli usi e i costumi di un paese.
La mancata continuità tra le radici e gli sviluppi della tradizione teatrale italiana è incarnata dallo iato culturale che separa Giorgio – appartenente al luccicoso mondo delle lacrime a pagamento per aumentare gli ascolti e dei gossip rubati –, e Giovanni, balaustro posto a difesa della maschera più famosa della Commedia dell’Arte Italiana. Se ogni tentativo del primo è teso a ottenere maggiore notorietà e visibilità sul piccolo schermo, in uno sforzo continuo che ai contenuti privilegia l’aspetto dello studio e il trucco, autentica preoccupazione del secondo è di riuscire a trovare una sede, sia essa una chiesetta sconsacrata o una piazza pubblica, che possa ospitare lo spettacolo della sua compagnia di paese.

La contrapposizione tra i due mondi è ulteriormente sottolineata da una caratterizzazione dei personaggi che scivola nel parodico, dando così vita a figure come quella dell’imprenditore televisivo abile nello sfruttare le velleità artistiche di giovani aspiranti soubrette, o della giovane paesana bella e pura di cuore (una Valeria Bilello che dopo interpretazioni più o meno meritevoli in varie sitcom italiane, si ricicla con incredibile maestria a fianco del magnifico Herlitzka).
Il cast, formato da un arcobaleno di attori che da realtà popolari del piccolo schermo (Lunetta Savino con Un medico in famiglia, Lavinia Longhi con Mario, Gianni Ferreri con Distretto di Polizia e Massimo Molea con I Cesaroni) tenta il balzo al grande schermo, incide affannosamente sul risultato complessivo con interpretazioni lente e strascicate, eloqui poco scorrevoli e una gestualità da principiante.
Erica Belluzzi

mercoledì, giugno 10, 2015

JURASSIC WORLD

Jurassic World
di Colin Trevor
con Chris Pratt, Bryce Dallas Howard, Vincent D'Onofrio
Usa, 2014
genere, 124'

Più che a Jurassic World verrebbe da dire "benvenuti in casa Spielberg". E questo perchè non solo il nuovo episodio dedicato alla saga del parco più "mostruoso del pianeta" ricalca con varianti impercettibili gli altri capitoli della serie ma anche per il fatto che è solo qui che gli ammiratori del grande regista americano potranno ritrovare parte di quello spirito ludico e di quella fantasia che a partire dal 1975 avevano reso grandi film come "Lo squalo", "E.T" e "Indiana Jones", capaci di rinnovare il concetto di spettacolo coniugandolo con un robusto merchandising. Diventato "adulto", il buon Steven ha messo da parte la voglia di divertirsi senza perdere la proverbiale lungimiranza che a un certo punto della carriera gli ha permesso di diventare il Tycoon di se stesso  e che ora, a quattordici anni dalla regia di "Jurassic Park", lo spinge a rituffarsi, in veste di produttore, in questo "Jurassic World", presentato dal diretto interessato come la naturale prosecuzione del film del 93.





Rispetto al prototipo, il film di Colin Trevorrow certamente non può contare sulla sorpresa provocata dalle prime immagini dei dinosauri in movimento, ne sullo stupore della sala scaturito dal realismo degli effetti sonori – alla prima uscita il frastuono dei passi del Tyrannosaurus - Rex divenne presto il parametro su cui misurare la bontà dei primi home video – ma offre comunque la possibilità di ritrovare gli stilemi e le situazioni più tipiche del cinema spielberghiano, spalmati ad arte su un sottotesto che ripropone l’eterno scontro tra scienza e natura, con la seconda pronta a ribellarsi ai condizionamenti imposti da chi la vorrebbe sottomettere. 

Da questo punto di vista “Jurassick World” non tradisce le attese, con gli autori pronti a ricreare quella commistione di avventura spaventevole e insieme rassicurante, che deve in egual misura alla conoscenza dei meccanismi dell'intrattenimento e della suspence, quanto alla riconoscibilità di alcuni dei luoghi più tipici del cinema spielberghiano; a cui "Jurassic World" rende omaggio attraverso un percorso di formazione che conferma il primato dei rapporti affettivi su quelli sentimentali, qui, come sempre nei film del regista di "E.T", messi in disparte anche di fronte all’evidenza rappresentata dal rapporto tra i personaggi di Chris Pratt e Bryce Dallas Howard, impegnati a evitare la catastrofe e nel frattempo calati in una schermaglia dialettica che prelude all’amore. Rispetto ai film della sua categoria "Jurassic World" si fa apprezzare per il realismo degli effetti speciali e per la capacità di costruire sequenze di senso compiuto, laddove gli odierni blockbuster  privilegiano sensazionalismo visivo e frenesia ipercinetica. Solo per questo sarebbe da non perdere. 

martedì, giugno 09, 2015

ACCIDENTAL LOVE

Accidental Love
di Stephen Greene
con Jake Gillenhall, Jessica Biel
Usa, 2014
genere, commedia
durata,

Se qualcuno ancora non lo sapesse diciamo subito che "Accidental Love" è uno di quei film salvati dall'oblio per ragioni di denaro, essendo stato dapprima disconosciuto dal regista incaricato di realizzarlo e, successivamente, messo sul mercato in una versione rimontata dalla casa di produzione che a distanza di anni si è addirittura impegnata a girare le scene mancanti pur di presentarlo agli spettatori in una forma approssimata ma compiuta. A girarlo nel 2010 era stato quel David O Russel che qualche tempo dopo sarebbe diventato uno degli autori hollywoodiani più acclamati e che, all’epoca era ancora alle prese con un talento tanto eclettico quanto incostante; talvolta in grado di assecondarlo nella messinscena di opere come "Three Kings", sintesi smagliante di generi e di stili; ogni tanto, colpevole di soggiogarne l’ispirazione, distribuita in maniera disordinata in lungometraggi irrisolti e confusi come era stato, nel 2004, "I Heart Huckabees - Le strane coincidenze della vita", uno dei tonfi più clamorosi del nostro autore.


Ingiudicabile dal punto di vista critico per la natura apocrifa dell’allestimento,"Accidental Love" funziona altresì come reperto utile a rintracciare gli stilemi di un'arte - quella di O Russell - in procinto di trovare la sua via definitiva. Ecco allora che il fool for love rappresentato dal legame tra  due protagonisti emotivamente eccessivi (Alice, cameriera alle prese con un chiodo nel cervello che la rende aggressiva e sessuomane) e caratterialmente complicati (Howard, politicante in bilico tra onestà e ragion di stato) potrebbe costituire l’embrione di una tipologia amorosa che ha attraversato   la filmografia del regista ed è arrivata ai nostri giorni nella versione “guardia e ladro” proposta dal sodalizio sentimentale raccontato in "American Hustle". Oltre al fatto che “Accidental Love”, con due attori del calibro di Jake Gyllenhall e Jessica Biel, disposti a recitare su registri (surreali e grotteschi) diversi da quelli abituali, ribadiscono, in tempi non sospetti, l’assoluto feeling tra il regista e i suoi attori, pronti a tutto pur di entrare a far parte dell’universo creativo dell’autore. Se poi vogliamo restare ai fatti e giudicare il film per quello che è, ovvero una commedia sentimentale con venature satiriche e grottesche, bisogna dire che, pure nell’andamento sgangherato e discontinuo della narrazione “Accidental Love” risulta, nel complesso, non lontano dalla qualità media dei prodotti distribuiti nella nostre sale. A conferma del momento non proprio felice attraversato dalla settima arte.

lunedì, giugno 08, 2015

UNA STORIA SBAGLIATA

Una storia sbagliata
di Gialuca Maria Tavarelli
con Isabella Ragonese, Francesco Scianna
Italia, 2015
genere, drammatico
durata, 109'




Si discute spesso dei mali del cinema italiano e della sua cronica incapacità di raccontare il proprio tempo. Spesso le ragioni del misfatto sono individuate in una genesi produttiva affidata al talento dei singoli anziché a un sistema capace di fare sistema e quindi di stimolare uno sguardo più coraggioso nei confronti della realtà contemporanea. Forse però alcuni dei motivi vanno ricercati a monte e magari trovati in una mentalità che fatica a scrollarsi di dosso i fantasmi di vecchie ideologie e di quei pregiudizi che sono frutto di una mancata conoscenza.

"Una storia sbagliata" di Gianluca Maria Tavarelli, al di là del suo valore intrinseco ci offre l'opportunità di approfondire la questione; perché, accanto alla tormentata storia d'amore tra Stefania e Roberto che costituisce il fulcro della narrazione, si profila il dramma della guerra che diventa protagonista (seppur fuori campo) quando Roberto, che di mestiere fa il soldato di professione, viene chiamato a combatterla e quindi a partire per il fronte, lasciandosi dietro l'amore per una moglie destinata a perderlo per sempre. Detto che la vicenda è raccontata attraverso gli occhi e i ricordi di Stefania, nel frattempo impegnata a ricercare il senso di quella perdita sui luoghi del terribile delitto - con il lavoro di infermiera presso una ONG impegnata sul campo che gli fornisce l'alibi per cercare di contattare i parenti del kamikaze autore dell'attentato - "Una storia sbagliata" ha dalla sua il merito di affrontare un tema "complicato" e "pericoloso" per i rischi di esposizione conseguenti a una materia incandescente e poco praticata come quella riguardante l'impiego dei soldati italiani nelle varie missioni militari attualmente in atto in differenti parti del globo.


Nel farlo Tavarelli, regista che negli anni novanta era stato capace come pochi altri di rappresentare la fragilità al maschile ("Portami via", "Un amore" e "Qui non è il paradiso") ci mette soprattutto una sensibilità, ancora una volta in grado di sondare i moti dell'anima con il pudore di chi vuol bene ai personaggi e alle storie raccontate. A riguardo si potrebbe citare la scelta di far emergere il dolore di Francesca ricavandolo dallo sguardo spento dei suoi occhi piuttosto che dallo strazio urlato di un certo tipo di scene madri; oppure, soffermarsi, nel corso della visione, sui dubbi e sulle paure di Roberto, vittima sacrificale che Tavarelli tratteggia con squarci di profonda umanità e senza - per nostra fortuna - alcuna retorica superomistica.

Meriti che però, devono confrontarsi con una scrittura troppo timida quando si tratta di entrare nel merito "politico" della questione e dare senso a un cambiamento storico e sociale che, nel passaggio dall'esercito di leva, impegnato ad addestrarsi e quello di professione, impegnato a non morire, ha sottratto il militare italiano alle atmosfere goliardiche e boccaccesche dei film degli anni settanta, per consegnarlo ad una dimensione drammatica che il nostro cinema fatica a esplorare. In questo senso "Una storia sbagliata" conferma la tendenza. Forse per timore di schierarsi, rispetto a una questione su cui ancora ci si divide, Tavarelli preferisce girare a largo dal cuore del problema: dapprima raccontandolo in maniera indiretta, con la decisione di affidarsi al resoconto di Stefania, che offre un punto di vista partecipe ma anche esterno rispetto ai fatti raccontati, e  con il tormento di Roberto ridotto a frasi sin troppo esemplari. E poi enfatizzando gli aspetti più facili e ci sentiamo di dire "ecumenici" della vicenda, delegando il messaggio dell'intera operazione all'uguaglianza tra le genti, vittime e carnefici allo stessa maniera delle storture del mondo. Un deja vu tanto scontato quanto paradossale rispetto alle caratteristiche di novità insite nell'argomento del film. Per non parlare della sensazione di incompletezza, legittimata dalla scena finale, quella in cui Stefania, all'apice del suo dolore, tocca con mano e per interposta persona le cause della terribile tragedia. Trovate, ancora una volta, lontano dalle voci che danno vita alla storia. A ribadire quanto sia più facile rivolgersi agli altri piuttosto che imparare a guardarsi dentro.
(pubblicata su ondacinema.it)

domenica, giugno 07, 2015

VIVIANE

Viviane
di  Ronit Elkabetz
con Shlomi Elkabetz con Simon Abkarian, Gabi Amrani, Dalia Beger, Shmil Ben Ari
Israele, Francia, Germania, 2014
genere, drammatico
durata, 115'  



Dopo aver partecipato alla sessantasettesima edizione del Festival di Cannes, GETT: The Trial of Viviane Amsalem, è stato candidato alla settantaduesima edizione del Golden Globe come Miglior Film straniero, dove è però stato battuto da Leviathan di Andrey Zvyaginstev.
Il film narra la triste vicenda della cinquantenne ebrea Viviane (Ronit Elkabetz, co-sceneggiatrice e co-regista dell’opera assieme al fratello Shlomi), che, aiutata dal solo avvocato laico Carmel (Menashe Noy), tenta di ottenere il divorzio dal marito Elisha (Simon Abkarian), difeso dal fratello e rabbino Shimon (Sasson Gabay).
L’opera, profondamente radicata nello specifico ambiente di cui declina temi e problemi, porta in scena con una regia quasi teatrale, un processo – GETT è infatti termine ebraico che designa l’atto del divorzio –, che sconfinerà ampiamente i limiti dell’iter giudiziario necessario per lo scioglimento del vincolo matrimoniale, per sfociare in un vero e proprio giudizio qualitativo sulla persona e sulla condotta della donna.

L’ambientazione, chiusa tanto da divenire claustrofobica per lo stesso spettatore – la vicenda si sviluppa infatti solo tra l’aula di tribunale e la saletta d’attesa contigua –, è registrata dall’occhio fisso della camera, che, incendendo lentamente su volti, gesti ed espressioni in lunghi primi piani che ricordano La Passione di Giovanna d’Arco di Carl Dreyer, rende l’ambiente emblema della stasi e della chiusura della società ebrea ortodossa che ritrae.

La gabbia in cui la donna si trova bloccata per volontà dei suoi padroni – i rabbini del supremo tribunale ebraico e il marito –, ritratta da una fotografia quasi manichea in cui il bianco e il nero accentuano il patetismo della situazione, è solo un elemento di quella folle e insensata burocrazia giudiziaria, di kafkiana memoria, contro cui la protagonista dovrà lottare per ottenere la libertà dal marito.

Se da un lato l’opera ricorda, per le tematiche trattate, l’iraniano Una separazione – vincitore del Premio Oscar come miglior film straniero nel 2012 e dell’Orso d’Oro alla sessantunesima edizione del Festival di Berlino –, i fratelli Elkabetz sono in grado di conferire alla tormentata vicenda di Viviane un senso in nausea e insensatezza, assente nella più composta pellicola di Asghar Farhadi.
Pur denunciando e mostrando senza indulgenza alcune specifiche realtà della cultura ebraico-israeliana – dalla pervasività della religione, a una liturgia anche gestuale che deve essere recitata dalla donna nell’atto di “accogliere” l’istanza di divorzio –, la vicenda è per certi aspetti condivisibile ben oltre i confini dello Stato di Israele, divenendo emblematica della condizione della donna – intesa quale minoranza da tutelare – e del senso di frustrazione che deriva dalla fine di un rapporto, in cui l’amore e la passione cedono il passo a un ingiustificato senso di possesso.
GETT: The Trial of Viviane Amsalem, tradotto in Italia come Viviane, è un’opera lunga e complessa, ma incredibilmente profonda e delicata, capace di far vivere allo spettatore il senso di cecità della ragione contro cui la protagonista si trova a dover combattere.
Erica Belluzzi