giovedì, ottobre 29, 2015

THE WALK

The Walk
di Robert Zemekis
con Joseph Gordon Lewitt,
Usa, 2015
genere, biografico,  avventura
durata, 123'


Diventato adulto, il cinema di Robert Zemeckis non ha rinunciato alla propria voglia di stupire continuando a lavorare sull’immaginario cinematografico attraverso un’alternanza di generi e formati che nell’ultimo scorcio di carriera ha visto fiorire uno dietro l’altro giocattoli iper tecnologici  del calibro di “Polar Express” e “Christmas Carol”, realizzati mediante l’utilizzo della cosiddetta Performance Capture, e avventure esistenziali al limite dell’umano che hanno messo a dura prova l’innato ottimismo dell’autore americano; pensiamo a “The Cast Away” e soprattutto al drammatico “The Flight” che specialmente dal punto di vista visivo – e qui pensiamo al realismo della sequenza iniziale con il nudo di donna inserito in un’equivocabile contesto – segna uno spartiacque con ciò che è venuto prima.   

In tale contesto “The Walk” si inserisce come meglio non si potrebbe perché, al di là  della discontinuità drammaturgia con il precedente lungometraggio interpretato da Denzel Washington, che in questo caso viene assicurata dal temperamento rilassato e sognante del suo timbro narrativo, la storia del funambolo francese Philippe Petit, che nell’agosto del 1975 fu capace di coprire la distanza che separava le due torri gemelle camminando su un filo d’acciaio sospeso nel vuoto della città newyorkese, ripropone alcuni dei punti fermi della filmografia del regista primo tra i quali la scelta di raccontare un percorso umano apparentemente impossibile che si realizza grazie a una fiducia talmente grande da rasentare la follia. A cui si aggiunge, in ordine d’importanza, un senso dello spettacolo che utilizza gli effetti speciali – ampiamente sfruttati quando si tratta di entrare nel dettaglio dell’impresa di Petit – senza uscirne disumanizzato ma anzi rilanciandone le possibilità espressive nell’equilibrio tra la necessità di rendere al meglio l’eccezionalità del progetto da realizzarsi (non solo della passeggiata sul filo ma anche dei suoi preparativi, altrettanto rischioso per le violazioni alla legge commesse da Petit e la sua squadra per accedere all’interno delle Torri) e la volontà di non perdere di vista l’estemporaneità del fattore umano rappresentata dall’indiavolata voglia di fare di Petit e dagli inconvenienti minuti che essa comporta (valgano per tutti quelli illustrati nei siparietti che ci mostrano l’apprendistato del maldestro protagonista). 


Così facendo, nella sua acclamata perfezione “The Walk” trattiene al suo interno quella visione ideale e un po’ utopica del mondo che lo collega al mentore Steven Spielberg e che oggi gli permette di cimentarsi in una delle più belle dichiarazioni d’amore che siano state fatte alla città di New York, celebrata attraverso il ricordo delle Torri gemelle che Zemeckis fa riemergere come arabe fenicie dalle ceneri a cui le avevano ridotte la tragedia del recente passato. Ed è proprio nella capacità di curare le ferite e di restituire le mancanze che esse comportano (la figura paterna sostituita da papà Rudy, come l’immagine delle due torri a cancellare il vuoto lasciato nel World Trade Center) a fare di “The Walk” un film che assomiglia a una poesia.

martedì, ottobre 27, 2015

CRIMSON PEAK

Crimson Peak
di Guillermo Del Toro
con Mia Wasikowska, Tom Hiddleston, Jessica Chastain
Usa, 2015
genere, fantasy, horror
durata, 118'



A Hollywood  la convivenza tra arte e commercio non è mai scontata anche quando si tratta di un regista esperto e affermato come Guillermo Del Toro, il quale, dopo  “Hellboy” e “Pacific Rim” era chiamato con “Crimson Peak” a confermare il trend di un cinema che nella sua esperienza americana era riuscito a mantenere intatta la propria autarchia adattandola senza troppi compromessi alle richieste di un mercato più incline a premiare la sfarzosità dell’apparato produttivo che la sua originalità. In questo senso il film in questione non si risparmia in termini di scenografie e costumi, ricercatezza visiva e qualità degli attori impiegati; ma, a differenza di altre occasioni, l’amalgama predisposta da Del toro risulta più efficace nell’esaltare la forma del suo spettacolo di quanto invece non faccia con quegli  aspetti del coinvolgimento e della suspence che sono il requisito principale del genere haunted movie con cui la componente fantasy di “Crimson Peak” si deve confrontare.


Pur sapendo che, nel caso di autori totali come in effetti può essere considerato il regista messicano, appare riduttivo restringere il campo dell’analisi e del giudizio a confini predeterminati, appare altrettanto chiaro che il problema del film stia a monte, e precisamente nella debolezza di una sceneggiatura che non riesce a trasformare il triangolo amoroso a cui danno vita i tre protagonisti in qualcosa per cui valga la pena trepidare. Troppo scoperto è infatti il mistero che ne alimenta il tormento, cosi come appare altrettanto chiaro, con il passare dei minuti, il responsabile – del padre della giovane Edith (Mia Wasikowska), contrario all’interessamento della figlia nei confronti del fascinoso Thomas Sharpe, a sua volta morbosamente legato alla sorella Lucille – dell’omicidio che funziona da chiave di volta di una faccenda che da quel momento in poi si trasforma in un melò in costume che assomiglia a quelli delle ultima produzione di Tim Burton, in cui l’urgenza dei sentimenti e la loro capacità di far breccia nel cuore dello spettatore viene  frenata dal manierismo dell’allestimento. Difetti di fabbrica a cui neanche il talento e la dedizione di Mia Wasikowska Tom Hiddleston e Jessica Chastain riescono a rimediare. In questo senso “Crimson Peak” e’ davvero un’occasione mancata.

10 FESTIVAL DE CINEMA DI ROMA - THE CONFESSIONS OF THOMAS QUICK

The confessions of Thomas Quick
di B.Hill.
GB 2015
genere, documentario 
durata, 95'



Rictus incontrollati di un Sistema agonizzante. Al volgere degli '80, Sture Bergwall, individuo-massa svedese autoproclamatosi John Quick, in relazione alla prontezza della sua presunta condotta, viene prima internato in un centro psichiatrico (per le conseguenze dell'irruzione a scopo di rapina in un appartamento e al termine di una giovinezza burrascosa, culminata, diciamo così, in un accoltellamento fortunatamente non letale), indi accusato - in relazione a rivelazioni offerte di propria volontà - di otto efferati omicidi riconducibili a persone scomparse e a casi mai risolti. Il gruppo delle potenziali vittime raggiungerà in breve, mano mano che Bergwall/Quick intensifica la sua collaborazione con le autorità, lo straziante numero di 39 possibili crimini. Ribadiamo il termine "possibili" poiché, via via che Hill ci conduce nei meandri di una mente di certo disturbata, la trama che dovrebbe unire in un solo vincolo inattaccabile le affermazioni di Bergwall ai suoi gesti, mostra più di una sfilacciatura. Colui che la stampa, al solito famelica quanto malata d'improntitudine, s'affretta a proclamare "omicida seriale" e "più feroce assassino nella storia svedese", nell'istante in cui ritratta le affermazioni rese anche durante penosi sopralluoghi nei boschi e nelle radure teatro degli eventuali eccidi, costringerà l'intero suddetto Sistema (giudiziario, sanitario, mediatico) ad ammettere, al prezzo di non poche reticenze e veri e propri dinieghi (buona parte dei protagonisti del caso ha declinato l'invito del regista a fornire un'altra versione dei fatti o criticato l'immagine complessiva vistasi attribuire), la sostanziale inconsistenza dell'impianto accusatorio fondato più sull'aderenza di Bergwall/Quick al suo personaggio di massacratore indefesso ma all'occorrenza in grado di ricostruire il personale comportamento secondo la sedicente efficacia di una terapia riabilitativa centrata sul disseppellimento di memorie rimosse in relazione ad un ipotetico terribile trauma infantile, che sulla scrupolosa verifica delle circostanze e delle evidenze.


Il motivo d'interesse in un'opera/documento abbastanza convenzionale, basata com'è sulla collaudata struttura che prevede una rapida introduzione della vicenda e il tipico sgranarsi dei punti di vista su una falsa riga tesa a corroborare/interpretare/contraddire l'assunto di partenza, risiede nel graduale ma inequivocabile cambio di prospettiva che investe la figura di Bergwall, mitomane compulsivo attanagliato dalla solitudine e da un inestricabile groviglio fatto di pulsioni irrisolte, sensi di colpa, radicati convincimenti d'inadeguatezza, instabilità caratteriale, sessualità frustrata, capace, lentamente ma irresistibilmente, d'imbastire un perverso gioco tipo gatto-col-topo (esplicitando: ad ogni rivelazione corrispondeva un cambiamento delle condizioni ospedaliere e un prolungamento del trattamento farmacologico, nonché un regime poco restrittivo, tale da consentirgli una certa libertà di manovra - sebbene in regime di cattività - secondo gli standard di reinserimento spinto peculiari della cultura scandinava), condotto ad un punto tale di tensione da originare, in seguito, sul piano meramente processuale, il proscioglimento dagli addebiti e, in generale, su quello socio-antropologico, la constatazione dell'avvitarsi grottesco - se non fosse inquietante - di due dei più importanti apparati dello Stato, deputati entrambi, anche se su piani e con modalità diverse, al controllo sociale: quello investigativo-procedurale e quello medico-scientifico.


Risulta evidente, in altre parole, a partire dal tono e dal ritmo - più cupo e incalzante, di classica matrice giornalistica arricchita, laddove le ovvie lacune lo richiedevano, da inserti di finzione, nella prima parte; più dilatato e meditativo, a comporre un singolare, a tratti surreale, ritratto in chiaroscuro di un sociopatico che tenta con una sua contorta coerenza di restare attaccato ad una società che nel migliore dei casi lo ha ignorato e di quella stessa società che manipolandone intenzioni e atteggiamenti, di fatto solo presupponendoli, finisce par farsi da lui manipolare, nella seconda - la scommessa di Hill, volta ad evidenziare il grumo contraddittorio che da dentro erode, per il tramite sempre eversivo di una condotta imprevedibile, i presupposti razionali (ossia la presunzione della loro prevedibilità) di un mondo sempre più maldestramente incline all'applicazione pedissequa dei parametri e delle procedure al di la' di ogni evidenza, in una sorta di circolo vizioso - fatto perlopiù' di giustificazioni a posteriori e di confessioni falsamente riparatrici - tenuto in piedi allo scopo, più o meno auto-assolutorio, di ribadire comunque il proprio primato civile e morale, dimenticando sempre coloro che di sicuro hanno pagato - le vittime - per i quali, sottolinea l'autore, questa storia e' ben lungi dal dirsi conclusa.
TFK

domenica, ottobre 25, 2015

DARK PLACES - NEI LUOGHI OSCURI

Dark Places
di Gilles Pasquet-Brenner 
con Charlize Theron,  Chloe Grace Moretz, Nicholas Hoult
Francia, 2015
genere, thriller
durata, 113'

I luoghi oscuri a cui si riferisce il titolo sono i ricordi della notte in cui la famiglia di Libby Day venne sterminata dal fratello della ragazza che proprio la ragazza, con la sua testimonianza, ha inchiodato alle proprie responsabilità.   Charlize Theron nella parte di Libby e' invece la ragione principale per occuparsi di un film altrimenti destinato all'anonimato dei palinsesti di un qualunque canale televisivo. Succede infatti che a fronte dell'impegno della star, calata anima e corpo nel dolore della protagonista, "Dark Places" si arrovelli nel nella speranza di costruire un dispositivo in grado di supportarne l'impegno in termini di verosimiglianza e di coerenza narrativa.


Il fallimento di questo tentativo, affossato da presupposti poco credibili e mal sviluppati (ci riferiamo per esempio al club di appassionati di omicidi irrisolti che all'inizio del film entra in contatto con Libby e alle ragioni  che spingono la donna a ritornare suoi luoghi del delitto) condiziona il resto del film, che  non solo non riesce a dotarsi di un minimo di mistero e di tensione a causa di una serie di sorprese e di personaggi inseriti in maniera troppo programmatica per risultare attendibili ma finisce anche per svilire l'interpretazione della Theron la cui performance alimenta il sospetto di una seconda parte di carriera - quella post Oscar - impegnata ad annichilirne in qualsiasi modo la propria bellezza con ruoli che ne penalizzano le qualità estetiche. Almeno da questo punto di vista "Dark Places" raggiunge il risultato. 

10 FESTIVAL DEL CINEMA DI ROMA - RIFLETTENDO SULLA VALIDITA' DEL VOTO DEL PUBBLICO

A margine della premiazione del pubblico che ha ufficialmente concluso la decima edizione del Festival del cinema di Roma, la nostra riflessione sul criterio di assegnazione del premio che registra l'inaspettata vittoria di "Angry Indian Goddesses" dell'indiano Pan Nalin.



L’annuncio del film vincitore di quest’edizione della festa del cinema di Roma appena conclusa – “Angry Indian Goddesses” – ci conduce a  nutrire dubbi sempre più copiosi circa l’efficacia del “premio del pubblico”. A prescindere dalla bellezza o bruttezza del film in questione – “bello” o “brutto” sono entrambe sentenze non opinabili essendo a discrezione del gusto personale di ognuno – è apparso evidente come il sistema di votazione democratica non sia in grado di supportare il motivo stesso dell’esistenza dei festival cinematografici. A partire dal fatto che ogni manifestazione del genere dovrebbe nascere dalla necessità di creare un punto di rottura con il cinema delle sale (il cui andamento è appunto deciso ad armi pari tra leggi di mercato e gusti del pubblico), questo predominio che la mediocrità esercita sul commercio è una motivazione valida per ragionare attorno all’esigenza, in un contesto che dovrebbe essere anti-commerciale, di avere una giuria di esperti del settore che giudichi realmente, andando al di là del gusto estetico, la validità delle proposte. Qualsiasi occhio più accorto, difatti, ha notato l’aria nuova provenire da film come “Lo chiamavano Jeeg robot” o “Solo per il week-end” – e qui il voto popolare compromette la già di per sé carente lungimiranza che le manifestazioni italiane possiedono nel rilanciare il proprio cinema – mentre tra le file dell’auditorium banalità ed approssimazioni uscivano a frotte dalle bocche di coloro i quali avrebbero deciso le sorti della decisione finale.

All’evidenza del fatto che l’unica alternativa alla premiazione classica fatta da una giuria sarebbe non assegnare alcun tipo di premio, verrebbe da chiedersi, vedendo i titoli in cima alle classifiche degli incassi, a chi sia venuta in mente la malsana e contraddittoria idea di affidare l’assegnazione di un premio più o meno prestigioso a chi già decide le sorti del botteghino: la democrazia, anche nel micro-contesto della festa del cinema, ha fallito di nuovo.
Antonio Romagnoli

LA FOTO DELLA SETTIMANA























Il caso Thomas Crown di Norman Jewison (Usa, 1968)

sabato, ottobre 24, 2015

10 FESTIVAL DEL CINEMA DI ROMA - THE END OF THE TOUR

The end of the tour
Di James Ponsoldt
Con Jason Segel, Jesse Eisenberg
Usa, 2015
genere, documentario
durata, 106’


“… il grande mondo rotondo in realtà era il sogno vanaglorioso di un bambino”

D.F. Wallace, da “Il re pallido”


La problematica del fare un biopic di finzione, ad oggi, consiste nella forza del punto di vista che il regista decidere di adottare nell’andare ad inquadrare il personaggio in questione. Oltre a registrare, a tal proposito, una pressoché sparsa superiorità della maniera del documentario (sulle nostre pagine, della suddetta questione, se n’era già parlato circa “Freeheld”), riguardo al discorso cui facevamo cenno risulta interessante la comparazione tra un film biografico recente come “Life” di Corbijn – dove il regista, nel tratteggiare la figura di James Dean, aveva fatto proprio lo sguardo del fotografo Dennis Stock – e “The end of the tour”: l’operazione è simile, in quanto qui si assume il punto di vista di David Lipsky, giornalista della rivista "Rolling Stones" che aveva seguito ed intervistato Wallace nel tour promozionale di “Infinite Jest”. Punto di vista che appare però assai debole, essendo la narrazione inscritta nel procedimento che va dalla conoscenza sospettosa tra i due, al litigio ed infine alla reale – o presunta tale – amicizia; ad aggravarne la debolezza s’aggiunge il tentativo d’inserire alcuni estratti decontestualizzati, all’interno del dialogare tra i protagonisti, di un’analisi ampia e complessa che D.F.W. aveva compiuto – e che all’epoca dei fatti narrati stava ancora compiendo – nel proprio lavoro narrativo e saggistico.

A non mancare, invece, oltre alla bellezza di alcune riprese messe in risalto dall’uso della pellicola, è il ritratto di un Wallace sempre in bilico, ciondolante nella camminata, restio al ciò-che-c’è-fuori – splendida la rappresentazione della casetta di legno isolata nell’Illinois e sommersa dalla neve – eppure immortalato nella consapevolezza di essere l’ennesima incarnazione della contraddizione americana, contraddizione che lui stesso aveva così lucidamente descritto.
Antonio Romagnoli

10 FESTIVAL DEL CINEMA DI ROMA - WHISPERING STAR


The whispering star
di Sion Sono
con Mejumi Kagurazaka, Kenji Endo, Yuto Ikeda, Kouko Mori
Giappone, 2015
genere, fantascienza
durata, 100’

Nell’immaginario cinematografico occidentale, normalmente, l’umanità-a-rischio-estinzione  è sempre un punto di arrivo della narrazione. In “The whispering star”, invece, si parte da un’umanità ridotta all’osso e da una popolazione per l’80% composta da robot, tra i quali troviamo la protagonista - androide supportata da intelligenza artificiale - Suzuki Yoko, il cui compito è consegnare pacchi, vagando da una galassia all’altra, ai pochi umani rimasti.

Partendo dal presupposto che il film in sé appare slegato, le varie sequenze, poco coese anche a causa di un ritmo drammaturgico blando, non riescono a dare uniformità alla pellicola pur mettendo in mostra aspetti tutt’altro che scontati. A partire dalla messa in scena, dove la composizione fantascientifica si fonde ad un gusto vintage - il computer di bordo, ad esempio, ha l’aspetto di una radio anni ’20; o ancora l’astronave realizzata a forma di graziosa casetta tradizionale giapponese - amplificando la sensazione data dal trovarsi in una realtà post-umana; ad aggiungersi a questo discorso ci sono la scelta del bianco e nero - incomprensibili i cinque secondi di colore inseriti nel mezzo della narrazione - e la rappresentazione dei pianeti abitati dagli uomini, che fa rifermento alla decadenza industriale - tra queste innumerevoli copie di Detroit, vengono mostrate insegne malmesse di famosi marchi, tra i quali la Sony -.

Al netto di una restituzione poetica dell’essere umano - che rinuncia al teletrasporto perché ancorato al concetto di spazio e tempo, ai negativi di una pellicola fotografica o ad un mozzicone di sigaretta - “The whispering star” proietta ciò che stiamo vivendo in un presente/futuro dove la tecnica ha vinto e dell’umanità è rimasta solo l’ombra.
Antonio Romagnoli

mercoledì, ottobre 21, 2015

10 FESTIVAL DEL CINEMA DI ROMA - AU PLUS PRES DU SOLEIL

Au plus près du soleil
di Yves Angelo
con Silvie Testud, Gregory Gadebois
Francia, 2015
genere, drammatico
durata, 103’

Quando in un film la vera istanza narrante viene rappresentata dall’immagine, la forza espressiva derivante da questo meccanismo appare prorompente già dai primi fotogrammi. È questo il caso di “Au plus près du soleil”, dove la camera a mano segue frenetica i personaggi immersi in una vicenda che vede saltare gli ingranaggi sociali e personali di quest’ultimi.

La trama ruota attorno a due coniugi – rispettivamente magistrato lei ed avvocato lui – con un figlio adottato al quale viene nascosto il fatto che la madre naturale sia l’accusata di un’istruttoria condotta dalla madre adottiva. Tutti i tasselli, in tal caso, vengono aggiunti gradualmente fino a raggiungere un livello di tensione che procede parallelamente al processo di agnizione edipico che riguarda i genitori adottivi e la madre, mentre il ragazzo continuerà ad essere tenuto nella teca di vetro dell’ignorare – interessante da questo punto di vista la scelta di renderlo un personaggio marginale, sempre vittima e mai parte attiva delle azioni mostrate -.


La cosa che più stupisce del film di Angelo, al di là della bellezza delle immagini, è lo stato di angoscia mista ad eccitazione che il pubblico avverte sempre più pesante nel giungere al momento dell’incesto che, inevitabilmente, disintegra la morale comune e fa ardere l’ipocrisia di chi guarda.
Antonio Romagnoli

LO STAGISTA INASPETTATO

Lo stagista inaspettato
di Nancy Meyers
con Robert De Niro, Anne Hathaway, Rene Russo
Usa, 2015
genere, commedia
durata, 121


La prima cosa che salta in mente guardando "Lo stagista inaspettato" il nuovo film diretto da Nancy Meyers, è quella di ripensare a un classico della commedia americana come "Il diavolo veste Prada", diretto da David Frankel e interpretato da Meryl Streep e Anne Hathaway. La sceneggiatura scritta dalla Meyers infatti non si risparmia in fatto di rimandi e suggestioni al film di Frankel, potendo contare non solo sulla presenza della Hathaway che del lungometraggio del 2006 fu parte in causa, ma anche su un personaggio, Jules, interpretata dalla stessa attrice, che per caratteristiche e atteggiamenti potrebbe assomigliare alla Miranda Priestly portata sullo schermo dalla Streep. Della prepotente e tirannica giornalista la Jules di "La stagista inaspettato" mantiene non solo le competenze lavorative e una personalità a dir poco indisponente ma soprattutto la possibilità di infierire, come a suo tempo aveva fatto Miranda con la sua assistente, sull'inadeguatezza anagrafica e professionale di Ben (Robert De Niro), lo stagista settantenne che le viene temporaneamente assegnato per aiutarla a tenere testa ai molti impegni della sua agenda. In realtà il film della Meyers mantiene solo in minima parte le premesse di perfidia e d'antipatia legate al personaggio della giovane imprenditrice; perché, più che essere il motivo conduttore della storia questi aspetti si rivelano come il modo scelto dal film per consentire a Ben, che de "Lo stagista inaspettato" è l'assoluto mattatore, di sfoderare un po' alla volta le capacità organizzative e di comando che gli permetteranno di guadagnarsi la stima dei colleghi , conquistati fin da subito dalle buone maniere e dalla saggia determinazione del simpatico matusalemme e successivamente la fiducia della datrice di lavoro, di cui l'uomo finirà per diventare addirittura mentore, aiutandola a risolvere una serie di vicissitudini lavorative e soprattutto familiari; queste ultime legate alla difficoltà di Jules di conciliare le mansione lavorative con le responsabilità derivategli dal ruolo di madre e di moglie assegnategli dalla storia.


Considerato che il lungometraggio della Meyers rientra in quella categoria di prodotti cinematografici che non sono chiamati a guadagnarsi i favori del pubblico per l'originalità dell'intreccio - che anche qui ha come priorità quella di assicurarsi la dialettica tra caratteri di segno opposto - ne per l'imprevedibilità della storia, che in questo caso, attraverso la scelta di un'attrice acqua e sapone come la Hathaway - istintivamente portata per i ruoli da damigella in pericolo - svela fin dal principio quali siano la natura e le intenzioni della storia, "Lo stagista inaspettato" riesce a gestire il confronto tra i due protagonisti con una sensibilità in grado di adeguarsi senza troppi sconquassi alla svolta buonista che ad un certo punto trasformerà le dinamiche tra Ben e Jules in quello che potrebbe essere un rapporto tra padre e figlia. Detto che il film in questione ci restituisce il miglior De Niro degli ultimi anni, finalmente alle prese con un ruolo che fa coincidere il carisma dell'attore con quello del suo personaggio, evitandogli al contempo di sconfessare anni di onorata carriera, "Lo stagista inaspettato" è il film di una regista cresciuta nel mito della new hollywood (e lo testimoniano la predilezione per la generazioni d'attori che l'hanno resa unica) ma con un occhio costantemente rivolta agli anni d'oro del cinema americano e in particolare alla commedia di quel periodo come dimostra la scrittura del remake de "Il padre della sposa" e come testimonia ancora oggi il galateo sentimentale che il film porta in dote. In questo senso è un peccato che un film così favoleggiante e leggiadro si prenda la briga di ritornare sulla terra, rammentandoci - attraverso il sermone che Ben rivolge a Jules nei momenti finali - di quanto negli Stati Uniti il lavoro sia inteso in senso calvinista e quindi di come l'esistenza delle persone sia per forza di cose votata al successo, ai soldi e alla promozione sociale che da questo ne deriva. Certamente nulla di nuovo ma per quello che ci riguarda avremo preferito continuare a sognare. Almeno qui, almeno dentro questo film.
(pubblicato su ondacinema.it)

martedì, ottobre 20, 2015

10 FESTIVAL DEL CINEMA DI ROMA - THESE DAUGHTERS OF MINE

These Daughters of Mine
di Kinga Debska
con Agata Kulesza, Gabriela Muskala, Marcin Dorocinski
Polonia, 2015
genere, drammatico
durata, 



Il nucleo familiare è quel luogo dove l’emotività dei propri componenti è per forza di cose estremamente compressa e complessa, diventando quindi, come nel caso di “These daughters of mine”, un’ambientazione psicologica perfetta per il meccanismo cinematografico, offrendo un versante intimo/drammatico che ultimamente aveva giovato non poco al cinema di Moretti con “Mia Madre”.

 Le due sorelle protagoniste della vicenda – attrice zitella e tendente alla depressione la prima, madre-di-famiglia e  psicotica l’altra – si troveranno a far fronte alla malattia della madre che si sovrapporrà a sua volta con la scoperta di un tumore al cervello ai danni del  padre, rendendo partecipe lo spettatore di una complessa elaborazione del lutto-prima-del-lutto.


Oltre ad un incedere narrativo sempre ben dosato della m.d.p. mai dimentica di soffermarsi su volti e micro-espressioni degli attori - da segnalare la bravura di quest’ultimi nel dosare la recitazione e nell’evitare di cadere in quella che sarebbe una facile banalizzazione del dolore - per l’intera durata del film si percepisce una sincerità che scavalca la finzione; sensazione confermata dalla dedica finale che la regista rivolge ai genitori al principio dei titoli di coda.
Antonio Romagnoli


10 FESTIVAL DEL CINEMA DI ROMA - JUNUN

Junun
di Paul Thomas Anderson
con Johnny Greenwood
Usa, 2015
genere, musicale, documentario
durata, 54'




Quando si parla di uno come P.T Anderson è necessario, innanzitutto, essere cauti nel dare giudizi a caldo, secondariamente bisogna in ogni modo evitare la tentazione di inserire una sua opera in una categoria precisa. Questo discorso vale, a maggior ragione, per “Junun”, che dopo una visione oculata difficilmente potrebbe essere catalogato ed archiviato come documentario. Se della forma documentaria ha infatti l’istintività del vedere cosa succede, il regista americano rompe completamente con la tradizione evitando quasi sempre il parlato, sì ridotto all’osso ma proprio per questo che va a sublimare una cultura millenaria come quella indiana – “Io non credo in un solo Dio, credo in tutti gli dei di tutte le religioni”: particolarmente interessante che un’operazione del genere venga fatta da uno che ha sempre gettato sguardi tra i più lucidi sulla contemporaneità occidentale -.


La macchina da presa amatoriale quindi segue in maniera sporca – eppure anche qui, a sprazzi, compaiono alcune peculiarità del manierismo di Anderson, come la luce esterna che permea gli spazi interni e l’onnipresenza dei volti – la collaborazione tra il chitarrista dei Radiohead Jonny Greenwood  e Shye Ben Tzur per la composizione dell’album appunto intitolato “Junun”.


L’intento/esperimento di Anderson sembra essere stato  di mettere da parte il cinema per lasciare che la musica - all’interno della quale si trovano commistioni di sonorità contemporanee e ritmi atavici - sia l’assoluta protagonista: nell’epoca della riproposizione del concerto di “The Wall” in 4k, un film come “Junun” rappresenta un rischio che pochi hanno il lusso (e il coraggio) di prendersi.
Antonio Romagnoli

lunedì, ottobre 19, 2015

10 FESTIVAL DEL CINEMA DI ROMA - THE WOLFPACK

The wolfpack
di C.Moselle
Usa, 2015
genere, documentario 
USA 2015 
durata, 87'



La famiglia Angulo - padre sudamericano di ceppo incaico, madre inurbata dal Midwest e sette figli, ognuno intestatario di un nome in sanscrito (ad esempio: Jagadisa, Mukunda, Narayama) - vive da sempre in un appartamento del Lower East Side di NY, nel senso che da li', praticamente, non s'è mai mossa, se non per gli approvvigionamenti e solo nelle persone dei genitori. I ragazzi, sei maschi e una femmina di nome Krsna, passano le loro giornate guardando la Tv e ricostruendo alla perfezione dialoghi di interi film - da "Pulp fiction" alle "Iene", passando per uno dei tanti "Batman", di cui poi, spesso e volentieri, reinterpretano più scene con tanto di costumi e improvvisati oggetti di scena.



La separazione forzosa dal mondo teorizzata in via prioritaria dal padre ("pressoché certo di essere Dio e di sapere tutto", come osserva uno dei figli), costruisce negli anni un microcosmo a tenuta stagna entro cui, da un lato, si lascia di proposito serpeggiare quella sottile angoscia riconducibile ad una sorta di stato d'assedio permanente in base al quale l'immagine della realtà viene con metodo tratteggiata secondo uno schema ripetitivo che privilegia la paura: paura delle droghe; paura di insegnamenti fuorvianti (i ragazzi non frequentano la scuola ma vengono educati dalla madre, circostanza che implica, tra l'altro, la corresponsione di un assegno mensile erogato dai Servizi Sociali e che rappresenta, di fatto, l'unica vera fonte di sostentamento del nucleo familiare, avendo il padre decretato - a mo' di rifiuto delle convenzioni condivise e contro il governo federale considerato di per se' coercitivo e quindi non riconoscibile come autorità - il rifiuto del lavoro); paura di germi e contaminazioni: in particolare, paura di un benché minimo contatto con gli altri esseri umani. Dall'altro, invece, si lascia, quasi senza discernimento, corso libero all'immaginazione della prole per l'edificazione di una realtà parallela quasi per intero cementata da modelli cinematografici e televisivi, peraltro dal padre stesso messi a disposizione per il tramite di un nutrito catalogo di DVD. 


Il perverso equilibrio instaurato a partire da tali premesse, com'e' prevedibile, prende a mostrare delle crepe allorquando - tra patemi, comprensibili ripensamenti e sensi di colpa - quel prototipo di mondo (e non secondariamente in ragione dell'età crescente dei giovani), si rivela troppo angusto per menti in formazione e perciò stesso curiose. Un colpo di mano singolo, poi, messo a segno nel gennaio 2010 da uno dei sei ormai diventato adolescente, sebbene risoltosi in un estemporaneo soggiorno in un reparto psichiatrico e nel ritorno coatto a casa dopo il fermo di Polizia di prammatica (il ragazzo, pur deciso nel gesto, era sceso in strada per la sua ricognizione tra passanti e negozi con una grossa maschera posticcia ad occultargli la testa), innesca un effetto cascata su tutti gli altri, che condurrà il gruppo/branco (il "wolfpack" del titolo) alla progressiva scoperta di ciò-che-sta-fuori, con tutte le conseguenze del caso (la prima volta che insieme raggiungono la spiaggia di Coney Island, per dire, devono superare una sorta di acclimatazione alla luce diretta del sole e una qual ripulsa nei confronti dell'oceano).


Il documento dell'esordiente Moselle - presentato e premiato al Sundance - ha il merito di proporre, scandendo le tappe di un faticoso affrancamento e per mezzo di sequenze spesso sgranate, assai ravvicinate - in specie sui volti - come anche assemblate dal repertorio amatoriale degli stessi Angulo, un ennesimo referto circa una delle tante possibili contro-derive dell'american way of life, in cui si mescolano, mai amalgamandosi del tutto, scetticismo, prevaricazione, sincera volontà di auto-emarginazione, rifiuto - con la socialità - dell'idea stessa di homo sapiens come essere comunitario. E se il passo della narrazione e' vigile nell'evidenziare le contraddizioni del comportamento spesso ambivalente  dei ragazzi - giovani lupi, appunto, divisi tra la sottomissione ai rigidi doveri del (capo)branco, in fondo mai del tutto e non da tutti superata, e la smania di cimentarsi con le cose al fine di comprendere se la competizione su scala allargata non solo sia possibile ma sia sul serio da rigettare in toto - e' pur vero che la sua linearità lambisce sovente il rischio di una mera riproposizione dell'assunto di partenza, stemperandosi a volte nella circolarità dipendenza-agnizione-reazione, cosa che, comunque, non intacca la possibilità di una sincera immedesimazione.
TFK

sabato, ottobre 17, 2015

10 FESTIVAL DEL CINEMA DI ROMA - INCONTRO CON JOEL COEN E FRANCES MCDORMAND



I sodalizi umano-artistici, in specie nel mondo dello spettacolo, attirano sempre su di loro un'attenzione particolare poiché - al di la' della ovvia esposizione che una società centrata sulla comunicazione concede o, per altri versi, impone ai contraenti del rapporto - offrono, sovradimensionata (vale a dire, dilatata nelle possibilità; appetibile nell'indeterminatezza delle gratificazioni; maliarda nel fascino sfuggente), l'illusione che un legame non meramente materiale possa davvero durare nel tempo. Al netto di, con ogni probabilità, inevitabili generalizzazioni e del valore marginale da attribuire ad una prossimità fugace, e' indubbio che, nell'ambito della serie d'incontri con il pubblico organizzata dalla presente edizione del Film Festival romano e nell'occasione moderata dal direttore artistico Monda, il caso rappresentato dal duo Joel Coen e Frances McDormand brighi a favore del consolidamento della predetta illusione.


Conosciutisi ai tempi della selezione del cast del film d'esordio di Joel (e del fratello Ethan), "Blood simple" (1984) e riunitisi in coppia e quindi in un nuovo nucleo familiare, più o meno, all'indomani dell'apparizione di "Fargo", (1996), Frances e Joel sembrano, al tempo, completarsi ed elidersi a vicenda, e non necessariamente solo per l'aspetto. Alto con occhiali, riccioli bruni e un calibrato abbigliamento casual, per Joel; minuta, una gestualità più evidente, corti capelli chiari e una morbida mise scura per Frances - detta Fran - Apparenze che convivono, di fatto, con un Joel palesemente introverso e un po' a disagio; dal fraseggio staccato e un tanto mugugnante di chi magari vorrebbe trovarsi altrove e una Fran sorridente, briosa, più loquace e disposta a dilungarsi. L'aplomb intellettuale dell'uno e il vitalismo un po' impulsivo dell'altra, detto altrimenti, si sfiorano e si distanziano spesso durante la conversazione inframmezzata da scene tratte, diciamo così, dall'archivio di famiglia (i già ricordati "Blood simple" e "Fargo", come pure brevi sequenze da "Miller's crossing", 1990; "The man who wasn't there", 2001 e "Burn after reading", 2008). Joel, in particolare, pur dicendosi, ad esempio, disposto ad ammettere l'importanza della figura di Fran (e di almeno altri quattro attori di peso utilizzati nel prodursi della filmografia sua e del fratello) al momento d'immaginare e tratteggiare un certo tipo di personaggio, ribadisce d'altro canto l'unicità del rapporto - sempre dialettico, peraltro - con Ethan per ciò che attiene l'ideazione delle storie. 


Fran ricorda, altresì, con trasporto, le proprie trascorse esperienze teatrali e conferma il ruolo decisivo giocato da un film come "Fargo" (nonostante il trascurabile cruccio di vedersi sovente identificata con la poliziotta pasticciona Marge, centro motore delle vicende narrate), piccolo spartiacque tanto professionale quanto personale. Illustra, quindi, la sua passione per Anna Magnani, mentre Joel non esita a scegliere tra le proprie interpretazioni preferite della compagna quella costruita per la serie televisiva "Olive Kitteridge", unica, a suo dire, per la perfetta commistione di senso dell'umorismo e intensità passionale. Di rimando, Fran afferma che il suo film speciale diretto da Joel e' "Inside Llewyn Davis", 2013, sorta, a suo parere, di distillato di un intero Cinema (inteso come quello della ditta Coen), nel caso, ritratto amarissimo ma onesto di un uomo di talento che il mondo sembra rifiutare senza darsi troppa pena. Entrambi, infine, apprezzano "La storia di Qiu Ju", 1992, di Zhang Yimou, visto insieme e ricordato per il lavoro sul colore e il rigore espressivo dell'insieme.

Chiusura degna, si potrebbe pensare, per una coppia non ascrivibile al cosiddetto star system. A riprova, proprio il riservato Joel offre, in uno dei suoi non numerosi interventi, un aneddoto al tempo divertente e illuminante: alle perplessità avanzate dal divo Brad Pitt riguardo il suo ruolo da idiota sorridente in "Burn after reading", Joel (ed Ethan) avrebbero risposto senza batter ciglio: "Non preoccuparti. Puoi farcela".
TFK

10 FESTIVAL DEL CINEMA DI ROMA - FOUR KINGS

Four Kings
di Tereza Von Eltz
con Paula Beer, Jella Haase
Germania, 2015
genere, drammatico
durata, 98'


Se trattare una tematica come quella dell'adolescenza non è mai facile, lo è ancor meno se all'imprevedibilità di base che caratterizza i ragazzi di quell'età si aggiungono personalità, ognuna a proprio modo, psicologicamente disturbate.

I quattro ragazzi in questione (i quattro "re" cui fa cenno il titolo) sono infatti caratterialmente molto diversi tra loro ma tutti accomunati da un disagio di fondo che sembra avere la stessa causa ma conseguenze diverse. Causa scatenante che sembrerebbe rintracciabile all'interno degli squilibri familiari/affettivi, nello specifico presentati - si veda la ragazza a fuoco in mezzo ai due genitori sfocati a formare una tagliola emotiva - e ribaditi - si noti l'ambientazione natalizia all'interno dell'apatica clinica illuminata a led: scelta, questa della fatiscenza del Natale, che sembra avere tratti in comune, concettualmente più che formalmente, con "Eyes wide shut" - visivamente.

La regia, nonostante si tratti di un'opera d'esordio, è priva di sbavature  e riesce nel restituire un senso d'angoscia - ancora una volta rappresentato da un tentativo destinato a rimanere tale -  che può facilmente trovare terreno fertile in ognuno di noi
Antonio Romagnoli

giovedì, ottobre 15, 2015

LE ANTEPRIME DE ICINEMANIACI: BANGLAND

Bangland
di Lorenzo Berghella
Italia, 2015-
genere, animazione
durata, 61'


"Most things decay in a matter of days/
The product is sold the memory fades".
- Porcupine Tree -



Per una volta in linea col proprio retro sapore amaro di lecca-lecca dozzinale avvoltolato in stagnola costosissima, la-società-dello-spettacolo (e, sul serio, sembra trascorso un milione di anni da quando il termine e' stato coniato) porta a compimento la somministrazione omeopatica del suo sinistro caramello e assume senza colpo ferire - ossia, nella rassegnazione delle coscienze, nello stagno immoto di un fatalismo depositatosi in strati infiniti di retorica e opportunismo - il controllo della scena: le masse illuse/anestetizzate tacciono e non comprendono o, che e' quasi lo stesso, tacciono perché non comprendono, accumulando un rancore indistinto che prima o poi troverà campo d'applicazione; i maggiorenti, al solito, temporeggiano, riservandosi la carta (chissà, tuttavia, ancora quanto vincente) di un'eventuale colpo di mano. Tutti gli altri, più o meno diligentemente, più o meno volontariamente, affondano nell'indifferenza e nell'esclusione, come non fosse già abbastanza miserabile il nostro gotterdammerung.


Orbitando - da un lato, in linea con una precisa coerenza d'intenti; dall'altro, esponendosi, per l'insistenza del suo slancio anti-consolatorio alle incognite di una qual programmaticita' sottesa ad un taglio cinico che non ammette repliche, seppur qua e la' innervata da tocchi di una beffarda ironia - attorno ad un nucleo filosofico e morale assemblato a partire da simili componenti, "Bangland", lavoro d'animazione di Lorenzo Berghella, presentato una manciata di settimane or sono all'ultimo festival lagunare, organizza un sapido, coloratissimo e iper-citazionista carnevale di mostri sul crinale oramai quasi intangibile che separa il racconto distopico circa scenari a vario titolo avvilenti relativi al futuro dei nostri giorni come società/comunità, dalla constatazione - allibita ? Disperata ? Inerte ? - che taluni di quegli esercizi prospettici stanno sempre più velocemente erodendo l'intervallo che li distanzia da una loro anticipata (quanto, invero, temuta ? E quanto - perché no - agognata ?) materializzazione, amplificando, di concerto e oltremisura, la quantomeno sconcertante sensazione di vivere/subire/contribuire a quella Fine-che-non-finisce-mai-di-finire (qui, fine della speranza nel futuro; fine dell'idea di collettività; fine della fiducia nella Scienza/Tecnica; fine dell'empatia di specie) che forse e', davvero, a questo punto, l'unico vero filo di sutura che tiene insieme le parti di quel corpo misterioso che in un soprassalto di pigrizia abbiamo battezzato modernità.


"Bangland", toponimo che riassume in una crasi felice l'attitudine divenuta coazione a ripetere irriflessa all'uso delle armi e i disfatti orizzonti di un mondo in avanzato stato di putrefazione secreti dai rimasugli della waste land eliotiana ("Città irreale/sotto la nebbia bruna di un'alba invernale/Una folla fluiva sul London Bridge, tanti/Ch'io non avrei creduto che morte tanti n'avesse disfatti"), allude ad un (non così) immaginario agglomerato a stelle e strisce - ridanciano e spietato, morigerato e laido, dove tutto sembra lecito e ogni cosa e' imperdonabile - esemplare tipico di un paese sempre più persuaso della propria iattanza di united states of unconsciuosness del pianeta, nel caso governato da un Presidente che si chiama Steven Spielberg ed e' Steven Spielberg, in quell'ottusa fissità alla lunga maligna che avevamo imparato a riconoscere come maschera preferita di un potere immodificabile quanto crudele perché, di fondo, idiota, dai tempi del super-sorridente Jimmy Carter serigrafato con spietata aderenza da Bill Sienkiewicz a cavallo degli anni '80. Sullo sfondo di locali che ammiccano da scritte come Natural born stripper; un corpo di Polizia che usa l'acronimo BADP; insegne pubblicitarie che lavorano subliminalmente a colpi di In gold we trust; sit-com che ripetono lazzi del tipo "Chi salverà il mondo dall'America ?" o "Papa', perché siamo cristiani ?", "Non c'ho mai pensato. Deve essere una tradizione di famiglia", si muove una fauna umana giunta al punto di non ritorno di un suo speciale processo di eutrofizzazione. Nello spazio comune dominato dalla comunicazione permanente, si agitano, senza mai incontrarsi bensì alla merce' di una non così remota possibilità di elidersi a vicenda, scaltri autori televisivi, predicatori subdoli col volto perplesso di Bill Murray: un Bugs Bunny tossico insolvente. E attivisti politici, poliziotti alla deriva e sbirri da strada razzisti; giornalisti corrotti, mafiosi scorsesiani, preti furenti incoraggiati nel loro fervore oracolare da un ghigno artefatto a meta' strada fra il Joker batmaniano e il Rorschach di "Watchmen". E ancora: cloni da karaoke di Elvis, candidati democratici alla presidenza dalle iniziali affini a quelle di JFK (JRK) ma dal medesimo destino, schegge impazzite in odor di strage per disturbo post-traumatico da stress, ragazzini inebetiti da Tv e pornografia ostaggi perenni d'insani appetiti e, su tutto, l'angoscia terroristica (qui estremizzata nell'abbattimento della Statua della Libertà) usata come randello propagandistico sull'opinione pubblica interna allo scopo d'incistare ancora più a fondo l'eterna angustia del complotto e come casus belli per muovere in armi contro un remoto paese africano...


Come si vede, una mole consistente di materiali e suggestioni che, inevitabilmente, si potrebbe dire, corre il rischio di porre ogni cosa su un medesimo piano di condanna, stemperandosi, via via, di fatto, in una sorta di onnicomprensivo negativismo auto-disinnescantesi per saturazione. E' pur vero, altresì, che Berghella limita la predetta deriva organizzando la costruzione delle scene - spesso e volentieri essenziali, ritmate e brutali - come un crescendo entro cui il cortocircuito stabilitosi tra una realtà devastata dall'avidità e dall'invadenza della Tecnologia sotto la peculiare forma del mezzi di comunicazione (tutto sembra la rimasticatura caotica di un unico gigantesco film a cui, al tempo, si partecipa e si fa da spettatori) e la prevalenza di un nuovo ordine addirittura allegorico nel suo sistematico rimando alle icone/spettri dell'immaginario di massa, si fonda su una logica tanto inesorabile quanto sinistra: il Presidente Spielberg che osserva soddisfatto le fasi terminali dell'addestramento dell'ennesimo super soldato o l'esecutore che sovrappone i suoi incubi di redenzione a stralci di film d'azione in rotazione indefessa su schermi orwellianamente sempre accesi, parlano, infatti, di un inconscio brutalizzato e in potenza pericoloso (oltreché, per certi versi, irrecuperabile) che ormai e', senza alcun dubbio e da tempo, in circolo dentro le fibre nervose del generico uomo-della-strada, ossia dentro di noi e si assuefà, un giorno via l'altro, ad ipotesi sempre più contorte e truci (attentati gratuiti e oltremodo efferati; guerre più di sterminio che di conquista, colpi di Stato terapeutici: impensabili agenti biologici magari già all'opera chissà dove) in teoria utilizzabili dal Potere come ovvio strumento di coercizione ma dalle quali questo stesso Potere, allo stato attuale, non e' affatto immune. Se a ciò si aggiunge la scelta stilistica di privilegiare in contrasto con volti umani di preferenza grigi o d'incarnato terreo, cromie semi-fluorescenti od elettriche, sempre impercettibilmente in movimento, a sfalsare di un niente, rendendola pero' vieppiù grottesca, l'apparenza del quotidiano, ecco che diventa più chiara - sebbene non meno disperante (e a nulla servono, nel finale, le note dell'"Ave Maria" schubertiana, anzi) - questa che e', alla fin fine, una fotografia disegnata (e degradata) di noi stessi, talmente, forse, inevitabile, da non avere più margini nemmeno per invecchiare. Sic transit...
TFK

mercoledì, ottobre 14, 2015

LE ANTEPRIME DE ICINEMANIACI: SUBURRA

Suburra
di Stefano Sollima
con Pierfrancesco Favino, Elio Germano, Claudio Amendola
Italia, 2015
genere, noir
durata, 130'


Una dietro l’altra le sequenze iniziali che ci introducono negli inferni di “Suburra” non servono unicamente a stabilire - nella loro voluta successione - la gerarchia di poteri e di dipendenze vigenti all’interno della storia ma anche a definire dal punto di vista visivo e quindi cinematografico, la contiguità tra i mondi diversi eppure complementari, che si appartengono come pezzi di un tutto del quale costituiscono parte integrante. Dal silenzio delle stanze papali al clamore di quelle parlamentari fino ad arrivare alle vertigini scoscese delle paludi delinquenziali, “Suburra” si immerge anima e corpo nel ventre molle della città capitolina, raccontandola come si faceva ai tempi degli antichi imperatori. Al di là dei simboli e delle allegorie, il film di Stefano Sollima conserva la medesima vocazione universale, aspirando non solo a incarnare le viscere della città contemporanea ma addirittura a diventare metafora di qualcosa di più grande; senza esagerare, o forse si, “Suburra” aspira infatti ad essere una sorta di Genesi criminale, con il peccato originale rappresentato dall’avidità degli uomini (Il politico, il ras del quartiere, il capo dei capi, e così via), utilizzato per innescare le manifestazioni del male.


Esplorando le conseguenze della violenza e del delitto, Sollima conferma un percorso da cineasta che fluttuando dal grande (A.C.A.B.) alla piccolo schermo (“Romanzo Criminale” e “Gomorra”) accetta la sfida proposta dalle contaminazioni dei nuovi formati (il film sarà distribuito sul mercato americano sulla piattaforma di Netflix) attraverso un cinema di genere e nella fattispecie di quello legato alle crime story che mette insieme il b-moviei taliano e il mainstream hollywoodiano, cercando un compromesso tra costi di produzione (sette milioni di euro è il costo di “Suburra”) e grandiosità dell’affresco. Per quanto ci riguarda è proprio la valutazione del dispositivo messo a punto da Sollima, capace di comprendere arte e mercato, a stimolarci maggiormente; poichè non c’è dubbio che il buon esito di un prodotto come “Suburra”, programmato per aggredire i mercati internazionali, potrebbe aprire scenari inediti e altamente remunerativi per tutto il cinema italiano. In questo senso, la parziale riuscita del film, dotato di pregi (la messa a punto dei caratteri e degli ambienti) ma non privo di difetti (il processo d’astrazione operato su figure e avvenimenti delle cronache romane riesce solo in parte così come l’ibridazione tra cinema e televisione) assume un peso meno negativo in termini di giudizio. Perché pensiamo che l’efficacia di  “Suburra” non abbia a che fare con l’armonia della sue caratteristiche, ma risieda piuttosto nella consapevolezza del fascino creato dalla sua affabulazione. 

martedì, ottobre 13, 2015

POINTS OF VIEW: PECORE IN ERBA - INTERVISTA AD ALBERTO CAVIGLIA



Quanto c’è di te  in “Pecore in erba”.

A parte gli aspetti produttivi che mi rispecchiano nella scelta di ambientare la storia a Trastevere, dove sono nato e cresciuto, e per il fatto che parte della troupe era composta da persone che conosco da sempre, direi che “Pecore in erba” è la storia di un personaggio, Leonardo, in cui mi rispecchio soprattutto per  quel sentimento di incomprensione che lui si porta dietro. C’è poi uno sguardo ironico e il gusto per la satira che fa parte del mio modo di guardare alla realtà. Al contrario, la presenza del contesto ebraico è venuta da sola, così come l’umorismo tipico di questa cultura che ho utilizzato come arma da usare contro il senso di minaccia che attraversa la storia. A questo proposito mi sento di poter dire che la cosa più ebraica del film consista nella possibilità di osservare le cose con occhi diversi, proprio in ragione del mio essere allo stesso tempo italiano ed ebreo.


Com’è nato il film e perché la scelta del mokumentary.

Lo spunto è stato quello di rovesciare i termini del discorso, immaginando di inserire il tema dell’antisemitismo all’interno di una società in cui tale sentimento si rivela un boomerang per chi lo usa. Questa opzione mi ha permesso di rompere gli schemi e l’utilizzo del mokumentary è stato solo un modo per rafforzare la veridicità di ciò che volevo raccontare.

Perché hai deciso di non far parlare il protagonista del film.

E’ un espediente che mi consentito di sottolineare la retorica che esiste dietro la persecuzione degli ebrei. Leonardo nasce antisemita e non ha bisogno della parola per esprimere il suo odio; a differenza degli altri che ne hanno necessità per formulare l’ideologia capace di giustificare i propri attacchi.

Come ha reagito la comunità ebraica all’uscita del film.
Non ho fatto il film pensando alla comunità ebraica e al momento non so dirti quali siano state le reazioni. Prima dell’uscita credevo che sarei stato attaccato da tutte le parti e invece, a eccezione di qualche blogger  schierato su posizioni radicali e filo palestinesi, non ho ricevuto critiche in tal senso anche perché “Pecore in erba” non sposa nessun tipo di politica o ideologia.

L’ultimo festival di Venezia a cui anche tu hai partecipato ha visto l’esordio di un gruppo di registi che hanno riscosso successo di critica e di pubblico. A questo proposito ti volevo chiedere cosa ne pensi del momento che sta vivendo il cinema italiano.

Il difetto principale del nostro cinema è quello di investire poco o niente sulle idee e quindi sulla scrittura. Intendo dire che non basta avere un’idea forte per realizzare un film ma ci vogliono tempo e soldi per realizzare un copione che funzioni. Un processo creativo sottovalutato dai produttori, che, non a caso, tendono a risparmiare proprio su questo punto. Poi non ci si può lamentare se il pubblico diserta le sale, perché la ragione sta proprio nell’eccessiva semplicità e nello scarso interesse delle storie che si raccontano.


Visto il successo di pubblico di film come “La vita è bella” e “Train de Vie” non credi che il modo migliore per parlare della questione ebraica sia quello di raccontarla con toni più leggeri e meno drammatici.

Innanzitutto le tue parole mi fanno venire in mente che troppo spesso il confine tra Shoah e antisemitismo è troppo labile e che la tendenza sia quella di utilizzare – sbagliando - i due termini come sinonimi. Detto questo, non penso che esista un modo più giusto per parlare della questione ebraica anche perché non solo i titoli a cui ti riferisci rappresentano un’eccezione in mezzo a una  serie di opere drammatiche, ma anche perché il loro successo dipende dal fatto che in generale la gente preferisce andare al cinema per ridere e divertirsi e quindi privilegia le commedie rispetto al resto dell’offerta.


Tornando al film “Pecore in erba” deve molto alla  fisiognomica degli attori. Come sei arrivato a scegliere gli attori.

Per me era fondamentale mettere insieme volti conosciuti e facce di gente che non era mai stata davanti a una macchina da presa. Per ottenere quello che volevo il lavoro di casting è stato decisivo. Visto che il protagonista della storia non doveva parlare, ho lasciato alla mia assistente il compito di intervistare i possibili candidati. In questo modo ho evitato di farmi condizionare nella scelta dell’attore che per me doveva  dipendere esclusivamente dall’impatto della sua immagine. Con Daniele Giordano che nel film interpreta Leonardo c’eravamo conosciuti sul set di “Qualunquemente” in cui recitava la parte del figlio di Albanese, e quando c’è stato bisogno di fare il casting mi sono ricordato di quell’incontro.


Al film partecipano nella parte di se stessi alcune personalità della società civile e culturale del nostro paese. E’ stato difficile coinvolgerle.

Dipende, per alcuni c’è voluto un attimo, per altri ho dovuto faticare ed essere paziente, iniziando un  corteggiamento che è andato avanti per molto tempo. Mi piaceva l’idea di mettere uno dietro l’altro persone cosi diverse come possono esserlo Corrado Augias e il vichingo, personaggio che gli abitanti di trastevere conoscono molto bene.

Pensando al film non posso non chiederti se ti è capitato di subire discriminazioni di qualche tipo.

Come ebreo non mi sento di vivere discriminazioni diverse da quelle che subisce un qualunque cittadino. La causa di tutto non è l’appartenenza religiosa, ne la provenienza sociale, bensì il pregiudizio e l’ignoranza che nel nostro paese trovano un  terreno molto fertile.

Nella sequenza che precede il finale, con l’abbraccio tra persone appartenenti a opposte fazioni volevi per caso lanciare un messaggio di pacificazione.

No, per niente, il mio non vuole essere un film buonista, anzi. La scena dell’abbraccio tra le fazioni rivali è stata inserita non come segno di speranza quanto piuttosto per sottolineare la follia in cui è immersa la nostra società. Davvero, penso proprio che nella vicenda di Leonardo non ci sia alcun tipo di consolazione.



Discutendo del film abbiamo pensato che se esiste un difetto, questo è legato alla sua durata  che poteva essere un poco più ridotta. Sei d’accordo.

La mancanza di soldi e quindi di tempo ha condizionato la resa finale del mio lavoro. Bisogna tenere conto che rispetto ai normali lungometraggi il mio ha circa 340 scene, più o meno il triplo della media corrente. Se fosse dipeso da me avrei gestito diversamente alcune cose. Mi sono sentito limitato dal punto di vista estetico, non potendo contare sulla possibilità di girare con i carrelli che, come si sa, sono molto costosi. Così è successo anche per la questione legata alla durata del film che certamente avrebbe avuto bisogno di un montaggio migliore. Anche in questo caso la mancanza di tempo  non me l’ha permesso. Fortunatamente accanto a me ho avuto un grande direttore della fotografia come Andrea Locatelli con cui sono entrato subito in empatia. Il suo talento mi ha aiutato in parte a compensare le altre carenze.

Come sei arrivato a girare il tuo primo film.

Ho lavorato otto anni come assistente alla regia di Ferzan Ozpetek e, soprattutto all’inizio, è stato naturale identificare il cinema attraverso il suo lavoro. Poi, con gli anni, ho sviluppato uno sguardo sempre più autonomo che mi ha permesso di trovare la mia strada. “Pecore in erba” è nato per caso e in qualche modo è stata la conseguenza di un avvenimento molto frustrante, perché dopo più di due anni di lavoro alla sceneggiatura del mio primo progetto ho dovuto metterlo da parte perché costava troppo. A quel punto il produttore mi ha chiesto di sviluppare una vecchia idea, che avrei dovuto utilizzare per un corto e che in seguito è diventato invece “Pecore in erba” di cui ho scritto  la sceneggiatura in un mese e che ho girato in sei settimane.

Quali sono gli autori italiani e stranieri che apprezzi maggiormente.

Tra gli italiani apprezzo Salvatores e Bellocchio per la libertà con cui riescono ad esprimersi; e poi Segre, Costanzo e Diritti. Tra gli stranieri direi Inarritu e Cronenberg, ma tieni conto che per entrambe le categorie la lista sarebbe molto più lunga.

Con che attori vorresti lavorare in futuro.

Mi piacerebbe aver la possibilità di lavorare nuovamente con Vinicio Marchioni e Carolina Crescentini, che hanno creduto nel film e mi hanno dato subito fiducia. Non mi dimenticherò mai delle loro generosità.
di Adele De Blasi e Carlo Cerofolini