giovedì, dicembre 31, 2015

BUON VIAGGIO...




I consuntivi in generale ci piacciono poco e niente, figurarsi quelli di fine anno che sono pure comandati. Eppure in questo caso non se n’ è potuto fare a meno perché quella che sta per concludersi è stata un’annata importante per I Cinemaniaci, come testimonia il numero delle pubblicazioni che in termini di inserimenti hanno superato la media di un articolo al giorno a riprova di una presenza che nel tempo si è mantenuta sempre costante. Impensabile fino a pochi mesi fa il risultato è stato possibile grazie all’unità di un gruppo di redattori che ha saputo supplire alle complicazioni che per forza di cose ci sono state, raddoppiando sforzi e competenze. Sperando di aver fatto buona cosa a chi ha avuto la pazienza di seguirci, colgo l’occasione per ringraziare le persone che hanno contributo all’impresa, a cominciare da coloro che ancora oggi continuano a esserne parte in causa, senza dimenticarmi che il traguardo non sarebbe stato raggiunto se non ci fosse stato il prezioso contributo di chi, per varie ragioni, ha dovuto lasciare anzitempo le file del sodalizio. Un ringraziamento particolare va poi ai nostri lettori senza i quali tutto questo non sarebbe la stessa cosa.
ai nostri cuori

nickofitme

HOME VIDEO - MISSION: IMPOSSIBLE - ROGUE NATION



Mission: Impossible - Rogue Nation
di Christopher McQuarrie
con Tom Cruise, Jeremy Renner, Simon Pegg, Rebecca Ferguson
Usa, 2015
genere, azione
durata, 130'
 
 
È cosa nota che un prodotto vincente non necessiti di ulteriori cambiamenti. A provarlo non è solamente la ricorrenza del vecchio adagio quanto piuttosto l'esperienza sul campo che il cinema e in particolare le grandi Majors hollywoodiane hanno messo a frutto attraverso produzioni ad alto tasso di serializzazione. In questo ambito è però necessario, almeno a livello di analisi, fare dei distinguo che solo apparentemente rientrano nell'esercizio di retorica a cui talvolta è costretto il recensore nel tentativo di supplire all'inconsistenza della materia prima che è chiamato a giudicare. Il quinto capitolo delle avventure dell'agente Ethan Hunt e dei suoi temerari compagni calza a pennello con la tipologia di prodotto a cui abbiamo appena accennato, essendo non solo un blockbuster di primo livello per marketing e investimenti finanziari ma anche per il fatto di presentare caratteristiche di omologazione rispetto al calco originale ("Mission: Impossible" di Brian De Palma) che rendono gli episodi della saga pressoché identici. Per questo motivo crediamo che nel parlare di "Mission: Impossible - Rogue Nation" risulti poco interessante soffermarsi sugli elementi costitutivi di una vicenda come al solito costruita tutta in salita, con i nostri eroi costretti a dimostrare la propria lealtà, operando in un territorio ai limiti della legalità, e rischiando la vita per salvarla a chi per primo ne mette in dubbio la loro credibilità. 
 
 
 
Meglio piuttosto registrare la varianti che, pur sottili, esistono anche nel film diretto da Christopher McQuarrie, new entry piazzata in cabina di comando per continuare a gestire il restyling operato nelcapitolo precedente, il più significativo nell'economia generale della saga, soprattutto per quanto riguarda la centralità del personaggio principale, costretta a fare posto al protagonismo degli altri membri della squadra e, diciamo noi, alla bravura degli attori - Jeremy Renner e Simon Pegg - chiamati a interpretarli; e, sempre in termini di novità, per la qualità drammaturgica della storia, che la regia di Brad Bird ( "Gli incredibili" ma anche "Il gigante di ferro") aveva vivacizzato con inserti improntati a un tipo di humour che faceva il verso a quello sperimentato dallo stesso regista nei lungometraggi realizzati per conto della Pixar. In questo senso, "Rogue Nation" segna a nostro avviso il ritorno in grande stile dell'agente segreto interpretato da Tom Cruise e quindi, dell'attore stesso, presente in grande spolvero soprattutto sotto il profilo della forma fisica (aspetto da non sottovalutare se ricordiamo che molte delle critiche rispetto a una possibile stanchezza del personaggio erano collegate anche all'appannamento fisico dell'attore registrato in "Mission Impossible III"). 
Con la complicità del fido McQuarrie, già regista di quel "
Jack Reacher" che aveva contribuito a rimetterlo in pista dal punto di vista commerciale, Cruise si esibisce dal primo all'ultimo minuto in una serie di acrobazie fisiche che tolgono ogni dubbio sull'eventuale incompatibilità anagrafica dell'attore rispetto al ruolo da lui interpretato. 
 
 
Una restaurazione che da una parte restringe il raggio d'azione degli altri attori, relegati al ruolo di comprimari, e che dall'altra mette al bando quelle propaggini di ilarità introdotte dal personaggio di Simon Pegg, qui, e non a caso, autore di un'interpretazione ai limiti della seriosità. Ma non solo, perché "Mission impossibile - Rogue Nation", a differenza dei film che lo hanno preceduto, sembra guardare alle origini della saga e, nello specifico, alla forma cinematografica del prototipo realizzato da Brian De Palma, ripreso sia nella scelta dall'ambientazione mitteleuropea (con Vienna al posto di Praga) e più in generale di quella matrice europea che aveva influenzato - anche nell'uso ragionato degli effetti speciali - la produzione del film del 1996, come pure nella similitudine della scena dell'infrazione alla banca dati del nemico, simile per tempistica (ambedue piazzate a metà del racconto) e modalità a quella in cui Tom Cruise, calato all'interno del caveau si ritrovava ad operare in uno stato di sospensione gravitazionale. 
 
 
Arrivando a citare il regista di "Carrie" (qui il riferimento è fornito dalla lunga sequenza dell'omicidio di "Snake Eyes") nell'inserto organizzato all'interno del teatro dell'opera della capitale austriaca e nel dietro le quinte di una rappresentazione operistica che, grazie all'enfasi del commento canoro, diventa co-protagonista di una "caccia al ladro", in cui, a farla da padrone, è il voyeurismo della mdp che attraverso il punto di vista dei personaggi ci presenta diverse facce della medesima realtà. Per il resto "Rogue Nation" è routine di lusso, determinata a confermare il proprio marchio di fabbrica anche a costo di risultare scontato e ripetitivo. Che tutto ciò basti a realizzare il necessario "plusvalore" è tutto da dimostrare; sta di fatto che paradossalmente è proprio l'incertezza del responso finanziario a fornire un minimo di imprevedibilità rispetto alla calcolata scientificità del divertimento che il film di McQuarrie ci regala.
(pubblicata su ondacinema.it)

mercoledì, dicembre 30, 2015

GLI INVISIBILI - SHELTER

Shelter
di Paul Bettany
con Jennifer Connelly, Anthony Mackie
Usa, 2014
genere, drammatico
durata, 105'


Il menage artistico tra Paul Bettany e Jennifer Connelly ha poco da spartire con quello matrimoniale. Se il secondo infatti procede a gonfie vele accompagnato da una prole numerosa e felice, il primo si deve accontentare di circuiti laterali e di apparizioni non proprio memorabili, come ben ricordano i pochi che hanno visto il darwiniano "Creation" a cui entrambi hanno partecipato. Ed è sinceramente un peccato perché qui non si discute tanto dell’indispensabilità di un esordio, quello di Bettany, che almeno per il momento non si distacca dalla media degli autori che affollano lo scenario del cinema indipendente americano, quanto, e questo è invece un’eccezione, alla possibilità di ammirare un’attrice come la Connelly alle prese con un ruolo che ancora una volta rende merito alle sue doti di interprete drammatica. La Connelly infatti, nonostante qualche sparuto tentativo di mitigare la sua filmografia con parti se non leggere almeno accomodanti da sempre da il meglio di se quando si tratta di mettere in campo e sullo schermo le sfumature esistenziale di una femminilità appassionata e dolente. Non a caso è stata la parte della moglie del matematico John Nash nello struggente e melodrammatico “A Beautiful Mind” a farle vincere un meritato Oscar,  e parlando di credibilità professionale, come dimenticare il peso specifico di un ruolo come quello di Marion Jones, tossicodipendente costretta a prostituirsi per pagarsi le dosi di eroina nello psicodramma di Darren Aronofosky “Requiem for a Dream”.


Con la complicità del marito regista “Shelter” le offre la possibilità di confermarsi grazie alla storia di ordinaria disperazione di due homeless che si incontrano e si innamorano sulle strade di una New York indifferente e rapace, a cui i due protagonisti regalano un segnale di speranza attraverso il percorso di riabilitazione che li vede impegnati a liberarsi dai fantasmi delle rispettive esistenze. Raccontando la realtà attraverso gli occhi di due figure cristologiche come in effetti sono sia Hannah che Tahir, “Shelter” soddisfa, e le necessità dello spettatore di fare proprie le vicissitudini dei personaggi, e il bisogno del film di legittimare la propria urgenza, collegando le sofferenza individuali ad alcune delle guerre più sanguinose e pubblicizzate dei nostri tempi, delle cui conseguenze Hannah e Tahir continuano a pagare il prezzo.

Girato con un impressionismo che strizza l’occhio al cinema del reale, “Shelter” nel corso del suo svolgimento prende strade talvolta difficili da credere (come quella che a un certo punto vede la coppia soggiornare per giorni in uno splendido attico lasciato inopinatamente incustodito) e paga pegno soprattutto quando si tratta di mettere il dito nella piaghe del sociale, spesso edulcorato da uno sguardo troppo pulito per risultare vero e da una sceneggiatura poco efficace nella logica che sottende ai diversi snodi della vicenda. A riequilibrare le sorti del film ci pensano però le interpretazioni della Connelly più anoressica che mai e di Anthony Mackie che, senza ali e calzamaglia se la cava da par suo nel tenere testa alla naturalezza della talentuosa collega.
(icinemaniaci.blogspot.com)

martedì, dicembre 29, 2015

LE ANTEPRIME DE ICINEMANIACI - UN HEROS TRES DISCRET

Un héros très discret
di Jacques Audiard
Mathieu Kassovitz, Anouk Grinberg, Sandrine Kiberlain, Jean-Louis Trintignant
Francia, 1996
genere, drammatico
Durata, 107’


Albert Dehousse (Mathieu Kassovitz) è un impostore. Fin da bambino, orfano di padre e con una madre possessiva, legge libri di avventure e sogna di vivere vite di altri. Il piccolo paese della provincia francese viene lambito dalla Seconda Guerra Mondiale, dall’invasione tedesca e poi dalla liberazione degli americani, ma Dehousse non sembra accorgersene perduto nel suo mondo fantastico. È in quel periodo che inizia a mentire, a costruirsi una vita immaginaria e quindi, facendosi passare per uno scrittore (plagiando interi brani dai romanzi letti), prima affascina la giovane Yvette e poi la sposa. Quando però scopre che la famiglia della moglie era all’interno della Resistenza e lui non ne si era accorto di nulla, per la vergogna fugge a Parigi e lì, partendo dal basso, senza niente, si ricostruisce un’identità fittizia di ufficiale francese e partigiano. Inventandosi una vita vissuta nella sua mente, riesce a ingannare tutti, ottenere il grado di colonnello e andare a Berlino per individuare i traditori francesi che vogliono rientrare in patria.
Questa la trama di “Un héros très discret”, l’opera seconda di Jacques Audiard, recentemente premiato al Festival di Cannes con la Palma d’Oro per il suo ultimo film “Dheepan”. Inedito in Italia, è in programmazione presso lo spazio Oberdan di Milano, all’interno di una rassegna organizzata dalla Fondazione Cineteca Italiana di Milano, dove sono proiettati tutti i film del regista francese compresi i suoi inediti: appunto questo, di cui stiamo parlando, e l’opera prima “Regarde les hommes tomber”.


Audiard è figlio d’arte (il padre è regista e sceneggiatore) ed entra nel mondo del cinema come montatore, dopo aver abbandonato gli studi letterari, per poi passare ben presto a scrivere film di genere “polar”, noir secondo la declinazione francese, basati molto sulle storie di emarginati siano essi ladri o assassini e che si confrontano a volte con poliziotti, “flic”, anch’essi poco ortodossi.
Ma Audiard va oltre il genere e nella sua breve, ma intensa, filmografia (sette film in poco più di dieci anni) ama affrontare piccole storie che in qualche modo lambiscono o la Storia (la Resistenza di “Un héros très discret” o la guerra Tamil in “Dheepan”) oppure mondi di una malavita liminare (come nel suo capolavoro “Il profeta”, oppure “Sulle mie labbra”). In tutte le storie di Audiard assistiamo a un’evoluzione di un personaggio debole, sconfitto, emarginato, che confrontandosi con un altro mondo, a volte lottando anche in modo cruento, cerca non solo di sopravvivere ma una via di fuga a una realtà in cui si sente perso: l’impiegata sorda che aiuta un piccolo delinquente in una rapina, per poi fuggire con lui dalla routine della sua vita grigia in “Sulle mie labbra”; Thomas Syr in “Tutti i battiti del mio cuore” diviso tra l’amore per la musica e una vita di picchiatore e piccolo truffatore in affari immobiliari; o il giovane arabo ne “Il profeta” che entra in prigione sperduto e immaturo e ne esce, dopo una vera e propria educazione criminale, come un boss temuto e rispettato; o ancora Stephanie, giovane addestratrice di orche in un acquario in “Un sapore di ruggine e ossa” che, in un grave incidente, resta gravemente handicappata ma l’incontro con un loser, un uomo violento che vive di espedienti, le mostrerà un nuovo modo di affrontare la vita; e infine “Dheepan” guerriero Tamil stanco degli orrori della guerra, che arriva in Francia con una falsa famiglia, costretto a una cruenta battaglia personale nella banlieue parigina contro un trafficante di droga, per lasciarsi alle spalle il male interiore, sopito ma non sconfitto.

Prima di mettersi dietro la macchina da presa, Audiard è stato un famoso sceneggiatore in Francia e tutti i suoi personaggi hanno una complessità psicologica e affrontano uno o più ostacoli che in qualche modo cambiano la loro vita (non sempre in meglio), in un’educazione pragmatica dettata dagli eventi, all’interno di un fitto ordito narrativo.
Non fa eccezione “Un héros très discret” (che, tra l’altro, vinse il premio per la miglior sceneggiatura al 49mo Festival di Cannes), dove Albert Dehousse è un giovane senza arte né parte, ma che, nel momento in cui prende coscienza di voler essere protagonista, sfrutta la massimo i suoi talenti: da un parte, è un fine osservatore e possiede una memoria prodigiosa per i dettagli e i particolari più insignificanti; dall’altro, la sua capacità di narratore, non riuscendo a incanalarla all’interno della pagina scritta, la esprime inventandosi episodi di vite alternative. Ecco allora che Dehousse, come un vero e proprio Zelig, riesce a prendere possesso di identità completamente inventate per diventare quell’eroe che non è.

La messa in scena di Audiard è prosaica, ordinata, senza particolari guizzi, ma assolutamente funzionale alla storia: il regista francese è soprattutto un narratore innamorato dei suoi personaggi e vuole portare lo spettatore dalla loro parte. Del resto come non si fa a non perdonare Albert Dehousse? Chi non ha mai sognato di essere protagonista di qualcosa di importante? E in qualche modo lui ci riesce: anche quando compie la sua missione a Berlino come colonnello dell’esercito francese è bravo a individuare i petainisti che si spacciano per prigionieri di guerra (chi meglio di un impostore riesce a identificarne un altro?) e si costruisce una fama di ufficiale efficiente e capace. Come dire comunque che Dehousse non è “finto”, ma è un camaleonte con talenti che si esprimono in modo diverso.


Le parti migliori del film sono le sequenze della costruzione di un passato di partigiano a Parigi e poi quella di ufficiale in Germania, ma lo scarto che eleva “Un héros très discret” a un film degno di nota è l’interpolazione di sequenze contemporanee come se stessimo assistendo a un docu-film. Ecco che allora scopriamo che Dehousse anziano (Jean-Louis Trintignant) racconta la sua vita, ma soprattutto ci sono sequenze di un ricercatore che va nei luoghi dove ha vissuto il fantomatico personaggio per ricostruirne la storia, come se fosse un’inchiesta storico-giornalistica. Alla fine, poi, una serie di interventi di vari personaggi rivelano allo spettatore che Dehousse ha vissuto mille vite in diverse parti del mondo, senza mai mentire sul proprio nome, e ricevendo solo testimonianze positive e lodi. E quindi questo piccolo e simpatico impostore è stato un uomo che ha compiuto grandi azioni (così come i personaggi dei romanzi che leggeva da ragazzino), lasciando comunque un segno nella vita di molte persone: insomma “un eroe molto discreto”.
Antonio Pettierre

“Rassegna Jaques Audiard”, Fondazione Cineteca Italiana, Spazio Oberdan, Sala Alda Merini a Milano fino al 6 gennaio 2016  http://oberdan.cinetecamilano.it/eventi/jacques-audiard/

lunedì, dicembre 28, 2015

IL PONTE DELLE SPIE

Il ponte delle spie
di Steven Spielberg
con Tom Hanks, Mark Ryalance, Amy Ryan, Alan Alda
Usa, 2015
genere, drammatico
durata, 


Della sua capacità di fare cinema già sapevamo così come della particolare predisposizione a ragionare in termini di immagini e di macchina da presa che, nelle sue mani, diventano una specie di estensione della persona. La scommessa invece, quella di cui molti dubitavano, era legata alle capacità di Steven Spielberg di adattare il proprio cinema al trascorrere del tempo e, di conseguenza, alla necessità di confrontarsi con temi e argomenti per così dire più maturi di quelli  proposti nella prima parte di carriera. “Il ponte delle spie” ancora più di “Munich” e “Lincoln” è la conferma di una crescita artistica e personale che ha portato il regista americano ad occuparsi della contemporaneità del suo paese in un modo che, ancora una volta, dimostra l’intelligenza dell’uomo prima ancora che del regista. A prima vista infatti il suo nuovo lavoro è figlio di diverse influenze che trovano visibilità in un cinema di genere fortemente caratterizzato in termini di ricostruzione storica – siamo negli anni della guerra fredda e alla vigilia della costruzione del muro di Berlino che avrebbe  acuito le ostilità tra Russia e Stati Uniti – e di immaginario cinematografico, laddove il personaggio di James Donovan (un grande Tom Hanks),  - avvocato di grido incaricato dal governo del suo paese di occuparsi in prima persona di trattare lo scambio tra Rudolf Abel (Mark Ryalance che con questa interpretazione si candida per l’Oscar), una sedicente spia russa e il tenente Powers, pilota dell’aviazione statunitense abbattuto e catturato nel corso di un’operazione di intelligence per conto della Cia – pur essendo quanto di più diverso per interessi e cultura dalla figura di agente segreto così come abbiamo imparato a conoscerlo sullo schermo, finisce per esserne comunque una variante della stessa matrice. 


In questo caso però il modello di riferimento non è quello desunto da figure istituzionali come quelli a suo tempo interpretate da Michael Caine (Ipcress) o venendo ai nostri giorni dal Gary Oldman de “La talpa” perché Spielberg memore della lezione della New Hollywood e così come succedeva all’Harry Caul de “La conversazione” al Joseph Turner de “I tre giorni del condor”, sceglie di mettere al centro della vicenda la storia di un uomo qualunque che per caso si trova a confrontarsi con una realtà più grande di lui.



E proprio al concetto di cinema che caratterizzò il nuovo cinema americano agli inizi degli anni 70 si rifà “Il ponte delle spie”, che oltre a essere attivo sul piano commerciale con una confezione che fa riflettere senza penalizzare l’intrattenimento e lo spettacolo (valga per tutti la sequenza ambientata a Berlino Est in cui ci viene mostrato il percorso a ostacoli che separa Donovan dal luogo dell’appuntamento con l’interlocutore sovietico si mantiene costantemente a misura d’uomo, rinunciando persino alla grandeur della ricostruzione d’epoca, che pure esiste seppure più in senso evocativo più che paesaggistico, pur di rimanere attaccato ai corpi e alle facce dei protagonisti, a ribadire la preminenza di quel fattore umano che non a caso uno dei cavalli di battaglia dell’epoca che precedette il fenomeno dei blockbuster e che oggi Spielberg tiene alto con il suo umanesimo cinematografico. Sceneggiato nientemeno che dai fratelli Coen, “Il ponte delle spie” si avvale di un perfetto bilanciamento della sua struttura narrativa che pur divisa in due sezioni di diversa ambientazione (la prima a New York, la seconda a Berlino) e fenomenologia cinematografica (con la prima parte che potrebbe essere un legal movie e la seconda una spy story) trova la sua continuità proprio nella progressione psicologica compiuta dal protagonista che forte dei suoi principi morali (“Un uomo tutto d’un pezzo” come lo definiscel Abel),  riesce ad essere credibile sia nelle aule dei tribunali che nelle stanze del potere. Quanto poi a rispolverare i fatti della Storia per riflettere su quelli dei nostri giorni “Il ponte delle spie” è la dimostrazione dell’intelligenza del regista che lascia da parte la parte più fanciullesca ma non rinuncia alla sua fervida fantasia pronta a trovare sfogo (ed è questa la svolta del cinema di Spielberg che non a caso dirige sempre film in costume) nell’immaginazione di mondi che non esistono più e che il nostro riesce a resuscitare con l’abilità di uno sciamano. Anche solo per questo il film merita un posto tra i migliori titoli della stagione.  


domenica, dicembre 27, 2015

LA FOTO DELLA SETTIMANA






















Travolti da un insolito destino nell'azzurro mare d'agosto di Lina Wertmuller (Italia, 1974)

sabato, dicembre 26, 2015

FRANNY

Franny
di Andrew Renzi
con Richard Gere, Dakota Fanning, Theo James
Usa, 2015
genere, drammatico
durata, 90'


Come spesso capita a quegli attori molto belli ma poco dannati anche Richard Gere ha dovuto pagare nel corso della carriera le conseguenze di un pregiudizio che ancora oggi, arrivato alla soglia dei settant'anni, influenza in negativo il giudizio sulle sue prove cinematografiche. Considerato dai più alla stregua dei tanti sex symbol che Hollywood sistematicamente produce per alimentare i desiderio del pubblico femminile, ci si dimentica spesso che Gere prima di assurgere a massima espressione di erotismo maschile ha incarnato una mascolinità tutt'altro che plastificata e invece ribelle e selvaggia così come la concepivano alcuni dei migliori autori del cinema americano degli anni 70. Dall'antesignano e scandaloso "In cerca di Mr Goodbar" diretto da Richard Brooks a "I giorni del cielo" del divino Malick e senza dimenticare le collaborazioni con Paul Schrader, Francis Ford Coppola e John Schlesinger,  la filmografia di Gere continua ad essere attraversata dalle stimmate del cinema d'autore che al momento e per quello che lo riguarda sembra essere in sintonia con la nuova generazione di cineasti che si sta affacciando sulla scena americana e che dopo Nicholas Jarecki (La Prova) e Oren Moverman (Time Out of Mind) lo vede protagonista del primo film di Andrew Renzi che prima del suo esordio - e questo è di per se un indizio indicativo su quello di cui andiamo a parlare  - si era messo in evidenza al Sundance Film Festival con un paio d corti che avevano vinto premi e attirato l'attenzione degli addetti ai lavori.


Del film di Renzi l'attore americano è l'assoluto protagonista non solo perché la storia del benefattore disposto a tutto pur di risarcire in qualche modo la figlia dei suoi amici fraterni della cui morte si sente responsabile amplifica l'alone di spiritualità e di predisposizione verso il prossimo che appartiene alla sfera pubblica dell'attore, impegnato su più fronti per dare voce alle cause di perseguitati e oppressi. Succede infatti che, oltre a prodigarsi per migliorare il ménage matrimoniale dell'amata Olivia, facendo assumere il marito nell'ospedale di cui è proprietario e provvedendo alla sistemazione della coppia nella casa che un tempo apparteneva ai genitori di lei, il munifico filantropo faccia uso di alcol e della morfina, assunti in dose massiccia per cercare di placare il senso di colpa che lo perseguita dal giorno dell'incidente in cui sono morti i genitori della ragazza. Così facendo il personaggio interpretato da Gere si riveste di una personalità nel contempo vitale e autodistruttiva che permette all'attore di esplorare l'intero spettro emozionale, passando da stati d' incontenibile euforia a momenti di assoluta depressione.  

Ad occhio e croce siamo dalle parti di una tipologia umana che potrebbe essere quella disturbata e bipolare già messa in scena da Gere in "Mrs Jones" e quindi  di un One Man Show che soprattutto nella prima parte - quella in cui Franny ritorna alla vita dopo l'esilio punitivo a cui si era costretto - assume proporzioni a dir poco debordanti, con il protagonista talmente euforico da esibirsi in assolo canterini con tanto di orchestra ad accompagnarne l'esibizioni. A differenza del film di Mike Figgis che faceva leva su una star al massimo del suo splendore quello di Renzi lavora in senso opposto, utilizzando la decadente fisicità dell'attore americano (non a caso inquadrato di spalle nelle scene in cui compare a torso nudo)  per amplificare il senso di sconfitta e la sofferenza del protagonista, destinato a un percorso salvifico che la sceneggiatura rende prevedibile e finanche programmatico ma che non di meno risulta credibile per la combinazione tra la prova d'attore di Gere, davvero ottima, e le qualità delle riprese, che nell'approccio impressionista dellamdp trovano la maniera di attenuare gli eccessi melodrammatici conseguenti all'attaccamento di Franny al passato della propria esistenza. In un simile scenario, dominato in lungo e in largo dall'egotismo del canuto divo, è quasi naturale che tutto il resto passi in sottordine a cominciare dalle prove degli altri attori - Dakota Fanning  e il Theo James di "Divergent" - calibrate all'asciuttezza  dei rispettivi ruoli  e continuando con l'efficacia dell'impianto drammaturgico, capace di modulare gli sbalzi emotivi in cui si produce il magnifico istrione. Senza considerare che in tempi di lacerante insensatezza l'umanità di un film come "Franny", pur con i limiti di cui abbiamo appena detto, potrebbe risultare addirittura terapeutico per chi tra gli spettatori, ha ancora paura di confrontarsi con la fragilità dei propri sentimenti.
(pubblicato su ondacinema.it)

venerdì, dicembre 25, 2015

VACANZE AI CARAIBI

Vacanze ai Caraibi
di Neri Parenti
con Christian de Sica, Massimo Ghini, Angela Finocchiaro, Luca Argentero
Italia, 2015
genere, commedia
durata,  


Dopo quattro anni, De Sica torna a interpretare il genere cinematografico più contestato, attaccato e discusso, forse il meno amato dalla critica, ma sicuramente quello accolto sempre con entusiasmo dal pubblico: il cinepanettone riprende la sua strada con "Natale ai Caraibi", per la regia di Neri Parenti e un cast di vecchi amici e nuove leve.


Mario Grossi Tubi ha una moglie ricchissima ma un conto in banca pari a zero: l’unica soluzione per guadagnare senza mettere al corrente l’ignara consorte è vendere la lussuosissima casa ai Caraibi in cui abita la loro figlia Anna Pia. Quando, però, risulterà che il nuovo fidanzato della figlia, Ottavio Vianale, oltre a essere molto più grande di lei è anche decisamente abbiente, Mario cercherà di evitare i piani della moglie, che vuole a tutti i costi separarli, e cercherà di trarre da un futuro matrimonio tutti i possibili benefici. Ma Ottavio non è veramente ciò che sembra.
Fausto è un preciso filologo, amante del silenzio e della tranquillità. Claudia è la frizzante proprietaria di un nails shop e ama ballare e fare scherzi. Quando i due si scontrano sul ponte della nave da crociera sulla quale si trovavano con i rispettivi partner, scatta tra loro un’intensa ed irrefrenabile passione, che li farà scendere a terra per vivere un’esperienza focosa e imprevista. Né lui né lei però hanno valutato bene le enormi differenze che li dividono.
Telefono in mano e tablet in spalla, la vita di Adriano Fiore gira intorno a varie chat e nuove app che di giorno in giorno vengono rilasciate. Per questo motivo, nel momento in cui si troverà su un’isola deserta, solo e abbandonato a sé stesso, l’unica preoccupazione che lo affligge è che “Non c’è campo.”.



Tre storie divise in tre episodi; le maschere della farsa si muovono su un palco sabbioso ed uno sfondo marino in queste vacanze di Natale; scurrili, naturali, De Sica e Ghini sono le colonne portanti di un circo che va avanti da molti anni, inglobando affermate figure della comicità, come Dario Bandiera, ma anche scoprendone di nuove, come nel caso della bella e spiritosa Ilaria Spada. Ad affiancare l’istrionico e truffaldino Mario Grossi Tubi c'è la moglie, interpretata da Angela Finocchiaro, non estranea alle esperienza farsesche del cinema e scelta, parole del regista, per la capacità di tenere testa alle performance degli uomini che con lei dividono la scena. Infine, Luca Argentero, che con facilità passa da atmosfere noir a commedie romantiche, fino a grottesche sperimentazioni natalizie, immedesimandosi nell’intellettuale borghese che nasconde desideri animaleschi.


Partendo da un canovaccio, tra improvvisazioni e scherzi ponderati, le vicende dei protagonisti vanno avanti per pura voglia di divertire e per sorridere della contemporaneità dei nostri giorni, in cui anche svendere la propria figlia diventa lecito, se la crisi nella quale si è caduti non sembra avere altra via d’uscita. Intelligente e moderno risulta il naufragio in mare dello sventurato Adriano Fiore, rappresentazione di un mondo a cui interessa quanto tempo manca prima che la batteria del telefono si scarichi, più che intessere rapporti umani degni di essere vissuti.


Non mancano, come sempre in questi casi, volgarità ed espliciti riferimenti sessuali, "Vacanze ai Caraibi" non è un film impegnato, ma se si vuole godere di un po' di spensieratezza per qualche momento, potrebbe essere la scelta giusta. Guardandolo con attenzione, senza fermarsi alla veste formale, ci si rende conto di quanto il messaggio celato in alcune scene sia profondo.
Riccardo Supino

giovedì, dicembre 24, 2015

THE VISIT

The Visit
di M Night Shyamalan
con Kathryn Hahn, Olivia Dejonge
Usa, 2015
genere, horror
durata, 94'


Negli anni 70 la New Hollywood inaugurò l’abitudine di mettere in testa ai titoli della locandine dei film il nome del regista per sottolineare la rottura con un passato in cui il cineasta non era visto come il deus ex machina  indispensabile alla realizzazione di una determinata pellicola ma piuttosto come semplice parte dell’ingranaggio produttivo. Con motivazioni ben più pragmatiche, che nella quasi totalità dei casi riguardano la commercializzazione del prodotto, questa consuetudine è ancora invalsa per un ristretto numero di cineasti il cui nome alla stregua di un qualsiasi altro logo viene messo in bella vista come garanzia del prodotto che si vuole vendere. Prendete “The Visit” e guardate il poster del film. Il nome del regista insieme un paio dei suoi titoli più famosi campeggia in testa al poster subito sopra quello della Blumhouse Production, che pure negli anni è diventata la maggiore referente del genere horror e che qui invece segue quello del cineasta di origine indiana. Oltre alle evidenti strategie di marketing quello che qui interessa sottolineare è come “The Visit”,  prima ancora che un film di genere sia soprattutto il lavoro di un’artista tra i più importanti degli ultimi decenni e che, in quanto tale,  abbia necessità di una lettura critica che tenga conto di quelle che sono le caratteristiche cinematografiche di questo regista. Il quale, dopo i ripetuti flop commerciali (“The Last Airbender” e “After Heart”) che gli sono costati l’appoggio delle Major approfitta dell’occasione fornitagli dai nuovi mecenati per riprendere le fila di un discorso che si era interrotto con “Lady in the Water e “The Happening” e per rilanciare i temi forti di una poetica che lavorando all’interno del mainstream contemporaneo è nella sua classicità quanto di più lontano ci possa essere dalle produzioni low budget di Jason Blum, che al contrario tendono a fare della propria diversità contenutistica e formale  il proprio cavallo di battaglia. 


Non è un caso quindi che la rilettura in chiave moderna della favola di Hansel e Gretel, con la visita ai nonni da parte dei due nipotini a fare da apripista al campionario di spaventi e nefandezze previste dalla storia,  si faccia promotrice di una paura estranea a quella a cui sono abituati i fan degli horror movie. Perché qui  a essere differenti  non sono tanto le situazioni che la generano, peraltro simili per contesto e ambiente a quelle dei vari “Sinister” e “Paranormal Activities” quanto piuttosto la fantasia che le ha immaginate. Che è quella fanciullesca e casta di Shyamalan (non a caso i protagonisti sono due bambini) alla quale da manforte una trama che in analogia con quella di “Jurassic World” (con il parco degli orrori sostituito da una casa allestita per il medesimo divertimento) è destinata a riaffermare  - dopo averla  vituperata -  l'importanza dell'istituzione famigliare. Certo anche in "The Visit" il marchio di fabbrica della Blumhouse è quantomai visibile ma da un lato il mokumentary derivato dal fatto che la maggior parte di quello che vediamo è il risultato del documentario girato dai due ragazzini è destinato a perdere qualsiasi istanza di realismo per diventare un puro espediente estetico narrativo, messo al servizio di quel tono scanzonato che il film comunque ricerca anche nelle situazioni più drammatiche; dall'altro, la critica indiretta al surplus di immagini che finisce per punire chi le vede, già presente nel dittico dedicato a "Sinister",  è tale solo in superficie e non incide sull'anima del film; come daltronde ribadisce la sequenza finale, in cui il lieto fine viene filmato dalla stessa telecamera che era stata testimone dei terribili fatti appena raccontati. La parziale delusione di "The Visit" dunque non è la mancata purezza dell' horror realizzato da Shyamalan quanto piuttosto il venir meno di quella creatività di cui si erano giovata la prima parte di carriera del nostro regista.

mercoledì, dicembre 23, 2015

CLORO

Cloro 
di Lamberto Sanfelice
con Sara Serraiocco, Ivan Franek, Giorgio Colangeli, Anatol Sassi, Andrea Vergoni
Italia, 2015
genere: drammatico
durata: 94'

Jenny ha 17 anni, vive a Ostia, si allena forsennatamente in piscina con l’amica Flavia in vista dei campionati italiani di nuoto sincronizzato, il suo obiettivo, il sogno, anche la sola chance di riscatto da una vita soffocata e miserabile. Dopo la morte della madre, il padre è sprofondato in una catatonia, che ormai slitta pericolosamente verso la follia, sicchè Jenny deve arrangiarsi e badare al fratellino Fabrizio. 

Con il peggioramento delle condizioni del padre, la famiglia lascia Ostia per trasferirsi in una baita sulla Maiella, messa loro a disposizione dallo zio, l’unico su cui Jenny potrebbe contare, se non fosse che lui tende a sottrarsi vilmente agli impegni, influenzato anche dalla sua convivente rumena, che non vede di buon occhio l’arrivo degli indesiderati parentiQuesto film è un desolato ritratto di esistenze precarie, periferiche, marginali. Con uno sguardo compassionevole ma fermo, che potrebbe sembrare impassibilità e apatia e invece è solo pudore. È una pellicola imperfetta, irrisolta, con evidenti limiti, soprattutto nella costruzione drammaturgica e nella messa a punto dei caratteri, ma con una buona regia. Lo stile è fortemente visuale e attento alla composizione figurativa. Sanfelice centra bene le derive esistenziali, che sono poi anche sociali e antropologiche, di una certa Italia contemporanea, colpita duramente dalla crisi economica e dalla dissoluzione di un tessuto di relazioni parentali che, tradizionalmente, dalle nostre parti, ha sempre fatto da collante e da argine alle peggiori tempeste. Ma "Cloro" non cade nella tentazione di far parte di un urlato quanto vetusto cinema di denuncia e di impegno: semmai osserva, registra, pedina i suoi personaggi, costruendo intorno a loro anche una partitura visiva di somma efficacia.


Cloro decostruisce e frantuma ogni linearità narrativa, ogni successione cronologica, mescolando i piani temporali e spaziali, alternando Ostia e Maiella in una voluta confusione. La sua debolezza sta in questa precarietà narrativa, nel dare per scontati troppi passaggi che, invece, sarebbero necessari, nel richiederci troppa concentrazione e nella mancanza di sviluppi davvero avvincenti.
A reggere tutto c’è un'attrice promettente: Sara Serraiocco, la quale è in tutte le scene, vero centro e motore del film, in una performance che del personaggio di Jenny sa restituire debolezze e durezze, abbandoni e feroce determinazione, nella lotta della sua disgraziata esistenza.

Il regista, alla sua prima esperienza, ha il coraggio di un finale per niente buonista, in cui l’indispensabile egoismo di Jenny, senza il quale lei soccomberebbe, sembra prevalere. Anche questo fa di Cloro un film non comune nel panorama cinematografico italiano.
Riccardo Supino

martedì, dicembre 22, 2015

LE ANTEPRIME DE ICINEMANIACI - I SMILE BACK

I Smile Back
di Adam Salky
con Sarah Silverman, Josh Charles, Tomas Sadiski
Usa, 2015
genere, drammatico
durata, 85'


“A Woman Under Influence” (Una moglie, 1974), è il titolo originale di uno dei lungometraggi più belli di John Cassavetes. In quel film il regista americano con il supporto della moglie Gena Rowlands ingaggiata per interpretare il personaggio di Mabel, la protagonista della storia, raccontava le vicende di una donna emotivamente infelice che dopo un crollo nervoso e il successivo ricovero in una casa di cura si ritrova  a combattere contro il senso di alienazione che rischia di emarginarla dalla propria famiglia. Rispetto a quel modello “I Smile Back” di Adam Salky presenta con qualche variante la medesima situazione perché anche in questo caso la vicenda è occupata dal difficile percorso di riabilitazione di una moglie che deve lottare per non farsi risucchiare dalla spirale autodistruttiva che la porta ad assumere sostanze stupefacenti e a fare sesso con persone sconosciute. Se in un primo momento sembra che l’obiettivo del film sia quello di mettere in discussione l’America Style of Life rappresentato dall’apatia di Laney nei confronti dei riti sociali imposti dalle consuetudini dello status borghese, in realtà “I Smile Back” indaga un malessere più profondo e radicato, che trova spiegazione nell’infanzia della protagonista, traumatizzata dal divorzio dei genitori e da un padre che dopo essere andato via da casa non si è mai più fatto vivo.


Il film quindi, pur delineando con buona sintesi l’ambiente sociale in cui si muove la protagonista, si interessa principalmente alle psicologie dei personaggi e in particolare a quella di Laney che la sceneggiatura scandaglia e porta alla luce in maniera più pragmatica che impressionista (al contrario del modello Cassavetiano), comunicandola al pubblico attraverso le parole dello psicoterapeuta che si prende cura della donna e di quelle del marito, premuroso ma al tempo stesso spaventato dal comportamento della moglie. E’ quindi naturale che Salky affidi la riuscita del suo film alla performance degli attori e in particolare alla tenuta drammatica di Sarah Silverman che alle prese con un personaggio la cui tragicità è quanto di più distante dall’umorismo corrosivo e provocatorio della comicità da stand-up comedian   messo in mostra dall’attrice nei suoi show televisivi.


Da questo punto di vista il film vince la sua scommessa perché la Silverman è straordinaria nel mettere la sua fisicità  sensuale e ferina (e in qualche caso senza veli) a disposizione di una figura femminile che non fa nulla per accattivarsi le simpatie dello spettatore anche quando le situazioni contingenti alla storia – per esempio quelle dedicate alla degenza e alla cura della patologia - lo permetterebbero. Pur non essendo in presenza - e per fortuna diciamo noi - del solito one man show che fa da preludio alle nomination degli Oscar dobbiamo dire che con le dovute differenze “I Smile Back” è il classico film fatto apposta per valorizzare chi vi recita. E come è già successo con il Jeff Bridges di “Crazy Heart” e la Julian Moore di “Still Life” non ci stupiremo che per la Silverman il lungometraggio in questione non rappresentasse il viatico per soddisfazioni  di minor prestigio ma di ugual tenore. Come quella della nomination come migliore attrice dell’anno ricevuta dalla 22° edizione dello Screen Actors Guild Awards.
(icinemaniaci.blogspot.com)

lunedì, dicembre 21, 2015

I RACCONTI DELL'ORSO - INTERVISTA A SAMUELE SESTIERI E OLMO AMATO

Il nostro Antonio Romagnoli ha incontrato ed intervistato Samuele Sestieri e Olmo Amato, registi de "I racconti dell'orso", film tra i più interessanti presentato all'ultima edizione del Festival di Torino.



Com'è nata l'idea de "I racconti dell'orso".
Tutto è nato dell’idea di un viaggio. Avevamo una gran voglia di prendere un po’ di ossigeno, di allontanarci dal solito caos romano. Ci piace pensare che in realtà tutto il film sia nato un po’ per gioco, durante la preparazione di questo viaggio tra due amici. Abbiamo scelto la Finlandia, perché sapevamo che c’erano parchi nazionali incredibili, dove si può camminare per ore senza incontrare persone. Volevamo vedere cose diverse e, contemporaneamente, girare qualcosa che somigliasse più a una sorta di diario di viaggio che a un film narrativo vero e proprio. C’era l’idea per questo corto, che corrisponde più o meno ai primi dieci, quindici minuti del film. Di scritto, alla base, esisteva un soggetto di mezza pagina, poi non abbiamo mai scritto più una parola. L’omino rosso e il monaco meccanico nascono a dire il vero da un nostro limite: dovendo girare tutto in due sole persone, il vero problema era la recitazione. Prima di tutto siamo entrambi dei pessimi attori e quindi ci è venuto in mente l’espediente del camuffamento. Abbiamo contattato Matteo De Gregori che ha costruito la maschera del monaco e poi, piano piano, è nato il progetto.
La libertà di realizzazione sembra essere l'elemento chiave che ha portato al compimento del film, quanta importanza ha avuto in questo senso il processo produttivo.
Quando siamo arrivati in Finlandia e abbiamo iniziato a girare, ci siamo resi conto che sarebbe stato  sbagliato rinchiudere tutto il nostro film all’interno di quel soggetto esile che avevamo. Abbiamo deciso di liberare il film, di alterarne la struttura, di trasformarlo in un progetto in progress che cambiava, si ampliava a seconda dei posti che vedevamo, delle persone che incontravamo, delle suggestioni che ricevevamo. Il film si è aperto al caso e all’eventualità. Mentre viaggiavamo per la Finlandia a bordo di un van, erano i paesaggi stessi a chiamarci e a guidarci verso il film che avremmo fatto. Ci piaceva l’idea di qualcosa che avesse la stessa libertà di certi documentari (ma non solo) lo stesso modo di catturare le piccole cose che ti capitano davanti agli occhi: nessuna scrittura a tavolino, ma filmare sempre e comunque, accumulando centinaia di giga di materiale. Si può anche dire che abbiamo conosciuto la Finlandia direttamente con l’occhio della camera. Del resto il digitale consente questo tipo di sperimentazione. Da questo punto di vista l’unica scrittura è stata il montaggio: la struttura del film è arrivata tutta lì. Un magma di immagini che non aspettava altro che essere montato.

Un'altra componente fondamentale è la fattura estetica dell'opera, in che modo avete ragionato sulla resa fotografica, che sembra nutrirsi peraltro di un citazionismo visivo più o meno evidente - a più riprese sembra d'intravedere "lo sguardo di Dio" malickiano -.
Le terre nordiche in cui abbiamo girato hanno una luce incredibile. D’estate in Finlandia, in Norvegia, ci sono le ventiquattro ore di luce, qualcosa di davvero pazzesco. Assisti al sole di mezzanotte, a questi crepuscoli che durano una vita, ad albe e tramonti che bruciano letteralmente il cielo. Questo per dire che avevamo le condizioni perfette per girare come ci piace: una luce naturale che ti commuove, permettendoci di sfruttare soprattutto la luce crepuscolare. C’era tutto ciò che un cineasta può sognare: incredibili distese di nebbia, laghi piattissimi dove si rifletteva la luce del sole, i colori verdi, accesissimi di una natura viva come non l’abbiamo mai vista. La fantasia cromatica del rosso, per esempio, stagliava in maniera meravigliosa sul verde circostante. Poi certo in post abbiamo lavorato per rendere il film sempre più vicino all’estetica dell’animazione, ma non è stato nulla di davvero stravolgente. Ci piaceva l’idea che il nostro film somigliasse a un haiku animato di circa un’ora; per quanto riguarda “lo sguardo di Dio” malickiano, ci lusinga molto quello che dite. Ma, ancora più che a livello fotografico, Terrence Malick è stato un modello soprattutto a montaggio. Del resto il suo gesto filmico è qualcosa che ci interessa davvero molto. E’ un regista che ormai ha abbandonato definitivamente la sceneggiatura, scrive direttamente con la macchina da presa, impegnato com’è a far volteggiare i suoi modelli, come se fosse ossessionato dall’idea di poter catturare l’aria.

La scoperta del mondo da parte di un bambino è stato sempre oggetto di riflessioni filosofiche nell'indagine circa l'essere umano - si pensi alle riflessioni di Proust o di Gaarder - e sembra essere uno dei temi principali del film. Questo è in qualche modo riconducibile alla scelta di far esprimere i personaggi con onomatopee quasi neonatali.

Siamo ossessionati dalle prime volte. La visione virginale di chi scopre il mondo come se non l’avesse mai visto prima, di chi si sorprende per ogni singolo raggio di luce, ci emoziona moltissimo. In fondo il nostro film voleva essere la storia di chi ha un intero mondo per sé e che, forse per noia, decide di riappropriarsene. E’ il solito discorso sulla meraviglia come condizione estatica della visione. Ma questo è arrivato molto prima dell’idea del sogno. Pensate che l’inizio e il prefinale del film, quelli con la bambina e il padre, sono state riprese completamente casuali, mai pensate per rientrare nel materiale de I Racconti dell’Orso. Tant’è che fino a due o tre mesi prima della fine del montaggio finale non c’erano nel film. Questo rende bene l’idea di come il progetto sia sempre stato in fieri. La cornice narrativa del sogno è arrivata alla fine, però ci sembrava coerente con la “scoperta del mondo” di cui parlavamo prima. C’era un’idea d’immaginario infantile già prima della comparsa della bambini, perché i nostri due personaggi li abbiamo sempre considerati un po’ come bimbi che non vogliono fare altro che giocare. Giocare a inseguirsi, giocare a fare una famiglia, e così via. Il linguaggio onomatopeico, pre-verbale dei due protagonisti, inventato da Virginia Quaranta, è assolutamente legato a tutto questo. Come a dire: quello che ci interessava era ciò che veniva prima dei codici sociali, prima della comunicazione verbale. Bisognava tornare indietro. Ai bambini, alle prime volte, alle sorprese….

La durata ambigua - 67' - è una vostra scelta o è legata a dinamiche formali.

Il montaggio, come vi dicevamo, è durato molto a lungo. Abbiamo avuto diverse versioni del film, alcune più lunghe, altre più brevi. Alla fine questa durata era quella che più ci sembrava giusta.

La vostra è una co-regia (e anche una co-fotografia): avete diviso i compiti o avete ragionato insieme su tutte le decisioni da prendere.

Tendenzialmente abbiamo ragionato insieme, poi ovviamente, conoscendoci bene, ci siamo affidati uno all’altro su alcuni aspetti in particolare. Di volta in volta, le lacune di uno erano colmate dalla diversa preparazione dell’altro, e viceversa. Veniamo da due campi, da due storie molto differenti, ma questo non ha fatto che arricchire il film, rendendolo in tutto e per tutto un film a quattro occhi.


Sentite di appartenere alla nuova generazione di registi indipendenti che sta contribuendo alla rinascita del cinema italiano.

Il problema fondamentale del cinema indipendente italiano è che c’è poca comunicazione: ci sono tantissimi registi straordinari che lavorano ai margini, ma sono soli, lontani da tutto e tutti. E’ proprio questa solitudine a essere pericolosa, a rappresentare uno dei problemi maggiori nel nostro cinema indipendente. Per quanto ci riguarda siamo stati molto fortunati: una volta finito il montaggio del film, abbiamo ricevuto l’appoggio, il sostegno, l’aiuto di alcune persone umanamente davvero straordinarie. Mi piacerebbe qui ringraziare Claudio Romano, Elisabetta L’Innocente, gli autori di un film a noi molto vicino, “Ananke”. Sono loro che ci hanno fatto conoscere Mauro Santini che, con la sua offsetcamera, è subentrato come produttore associato de I Racconti dell’Orso, aiutandoci a diffonderlo. Una persona meravigliosa, come lo sono i suoi film…Per quanto riguarda il senso di appartenenza di cui parlate, è una domanda piuttosto difficile. Non ci sentiamo di appartenere a una corrente, anche perché non ne vediamo una chiara, definita. In Italia ci sono tantissimi nomi incredibili, spesso misconosciuti, che fanno un cinema inimitabile e potentissimo. Pensiamo prima di tutto a gente come Giovanni Columbu, Pietro Marcello, Michelangelo Frammartino, Giovanni Cioni, Salvatore Mereu e tanti, tantissimi altri.

Qual è il cinema che più vi piace.

Siamo molto differenti come gusti e sensibilità cinematografiche. Io (Samuele, n.d.a.) ho una formazione più cinematografica rispetto a Olmo, che invece viene da altri mondi. Sono sempre stato un cinefilo terribilmente onnivoro. Il cinema che amo è moltissimo, ma ho sempre adorato mischiare l’alto con il basso, il cinema duro e puro con tante fughe pop che riempiono molte mie serate. La regola rimane sempre una di fronte a ciò che vedo: anteporre sempre il cuore al cervello. Piango ogni volta che vedo “Love Exposure”, ad esempio. Posso dirti che i miei maestri ideali sono sempre stati Rossellini, perché mi ha insegnato che la tenerezza è un codice morale, Tarkovskij e Bresson, perché con loro, in maniera diversa, ho capito l’importanza del tempo al cinema, Herzog, perché lui, più di tutti, è stato e continua a essere un maestro di vita…fermiamoci, sennò potremmo continuare per ore. 

 Il film uscirà nelle sale.

Ce lo auguriamo vivamente. Stiamo prendendo contatti con i distributori, vediamo cosa succederà. Sappiamo già che in Italia sarà molto difficile, ma mai dire mai…ovviamente il sogno più grande per ogni regista è vedere il proprio film su grande schermo. E’ una notizia recente, che ci rende molto felici, che The Open Reel si occuperà delle vendite estere del nostro film.

Avete nuovi progetti in cantiere.
Proprio negli ultimi giorni sono iniziate ad affiorare le prime idee per un prossimo progetto. Si tratterà di qualcosa di completamente diverso rispetto all’esperienza de I Racconti dell’Orso. Qualcosa in cui poterci rimettere completamente in gioco, speriamo con la stessa freschezza, la stessa libertà del nostro primo film.
Antonio Romagnoli

LA LEGGE DEL MERCATO

La legge del mercato
di Stephan Brizè
con Vincent Lindon, Karine de Mirbeck, Matthieu Schaller, Yves Ory
Francia, 2015
genere, drammatico
durata, 97'


Si continua a disquisire ovunque che il sistema economico attuale sia, per usare un eufemismo, “disattento” alle necessità basilari che riguardano l’individuo appartenente alle classi meno agiate, mentre  è costantemente in preda ad un insensato quanto inarrestabile autoalimentarsi. All’inutile chiacchiera da salotto televisivo s’aggiunge anche “Le leggi del mercato”, film presentato all’ultima edizione di Cannes  che la critica non ha potuto far a meno di esaltare vista la delicata tematica sociale.

Mentre questo atteggiamento – per giunta sempre più avallato e promosso dai festival internazionali –  di scostarsi dal cinema per concentrarsi sull’argomento-del-giorno diventa preoccupante nel panorama della critica, ci si trova di fronte ad un lavoro che dal punto di vista drammaturgico presenta una piattezza didascalica imbarazzante mentre sul versante visivo non offre alcuno spunto. A dare un po’ di sostegno ad uno sviluppo che semplicemente non esiste c’è il lavoro di Vincent Lindon, bravissimo nel dare sfumature al suo personaggio ma che, ahinoi, non trovano alcun riscontro nel testo.

“Le leggi del mercato”, dunque, che vorrebbe mettere alla prova la dirittura morale del protagonista – e quindi quella di chi guarda – di fronte all’inumanità del sistema neo-liberale, non fa altro che inanellare una serie infinita di luoghi comuni – il padre di famiglia che non trova lavoro; la figura del figlio disabile usata, più che per necessità narrative, per aumentare l’empatia del pubblico "sensibile"; la gente costretta a rubare beni di prima necessità al supermercato – rappresentando una tendenza tanto involuta quanto preoccupante, su queste pagine già segnalata ai tempi di “Taxi Teheran”, che premia il contenuto e si disinteressa totalmente del mezzo.
Antonio Romagnoli

domenica, dicembre 20, 2015

sabato, dicembre 19, 2015

ICINEMANIACI/Libri - PIXAR STORY

ICINEMANIACI/Libri.


"Pixar story".
di: P.Grandi.
Edizioni Hoepli.
- pagg. 158, € 9,90 -




"We'll be eternally free, yes, and eternally young/
What a beautiful world this'll be/
What a glorious time to be free...".
- D.Fagen, "I.G.Y" -


Le avventure del pensiero, in particolare quelle che hanno impresso traccia duratura di sè nell'interiorità di un numero vasto di appartenenti alla specie che dovrebbe dirsi sapiens, hanno al loro interno, dissimulato tra le pieghe di un'intuizione originale, di un'argomentazione di ampio respiro, di un dettaglio che, a volte, solo, apporta freschezza e luce nuova alla trattazione di temi universali (dunque quanto meno ricorrenti), il medesimo elemento, intrigante perchè amichevolmente elusivo, promettente perchè, in potenza, inesauribile: la curiosità. Proprio tale inclinazione - con ogni probabilità uno dei rari indizi del munifico tocco di una qual divinità su una genia altrimenti irredimibilmente votata alla disgrazia e all'umiliazione - traspare da subito, riverberandosi di continuo come garbato ed elegante rapporto d'elezione a distanza in quella che caratterizza il suo stesso oggetto d'indagine, dalle pagine di questo "Pixar story", agile libretto redatto con cognizione e cura da Pietro Grandi per i gloriosi tipi della Hoepli. Grandi, studioso d'animazione e autore egli stesso di progetti legati al sempre in divenire connubio tra espressività figurativa, ingegno ed inventiva del singolo e trasformazioni tecnologiche - capaci quest'ultime, via via, di modificare la struttura del linguaggio della prima e supportare la materializzazione dei parti delle seconde - ricostruisce, con dovizia di particolari e un qual fiducioso intrinseco ottimismo della volontà riguardo il rapporto problematico che lega l'Uomo alla Tecnica, il percorso, invero a tratti strabiliante, della casa di produzione Pixar, quella della "lampada Luxo jr.... che con luce propria, illumina il bivio tra tecnologia e arti liberali, portandoci a guardare verso il futuro, curiosi di volare verso l'infinito e oltre", a cui dobbiamo, in ordine sparso, meraviglie del tipo di - e solo per restare ai lunghi  - Toy story (1995); Finding Nemo (2003), The Incredibles (2004); WALL.E (2008); Up (2009); The brave (2012), sino al recente Inside Out (2015).



Suddiviso in snelli capitoli redatti secondo una logica tesa a restituire un impianto cronologico in parallelo (la vicenda Pixar è raccontata all'interno di un più ampio contesto di trasformazioni storiche e sociali), il testo di Grandi ci aiuta a comprendere non tanto e non solo l'itinerario fisico che ha reso possibile una sorta di congiuntura magica tra ideazione (immaginativa) e realizzazione (materiale), quanto, verrebbe da dire, la progressione sentimentale che ha guidato un pugno di persone appassionate e incontentabili - all'interno di un umanissimo (e molto americano, nella scansione/rievocazione epica del suo repertorio affidato alle testimonianze dei protagonisti rese in diverse interviste) andirivieni di folgorazioni e inevitabili ammaccature - a credere con fermezza nella possibilità di qualcosa (l'animazione digitale finalizzata alla creazione di, in linea generale, lungometraggi) che ai prodromi della sua gestazione era considerata poco o punto appetibile se non, persino, controproducente o del tutto inattuabile.  Esemplificative, a supporto di quanto detto, risultano di fatto le parole (profetiche, potremmo aggiungere, come pure tipiche di un certo esprit e di una cultura) pronunciate dall'animatore Glen Keane a proposito dell'atteggiamento standard tenuto da uno dei grandi maghi di quella che sarebbe diventata la Pixar come la conosciamo, John Lasseter: "Non era mai stato fatto prima, ma per John non aveva importanza. Se non è mai stato fatto prima non significa che non si possa fare". Si dipana, così, accanto ad uno sfondo che puntella fissandoli per i principali capisaldi i cambiamenti incorsi nelle traiettorie della moderna tecnologia - spesso integrato da box esplicativi di approfondimento relativi alle metodologie più innovative, tali cioè da incidere sulla struttura e quindi sulle modalità a venire del linguaggio su cui vanno ad insistere - l'intrecciarsi di figure umane nuove e/o singolari (sapidi, a questo riguardo, i profili dedicati a Edwin "Ed" Catmull, uomo di scienza e gran appassionato di animazione, e allo stesso Lasseter), persone, come che sia, scopertesi avvezze a spostarsi con intraprendenza (e curiosità di cui sopra) su quel confine inedito e attualissimo che unisce/divide ma oggi come oggi fa sempre dialogare il tecnico con l'artista.


Crinale creativo, questo, illustra Grandi, utile ad inquadrare lo slancio di fondo della scommessa Pixar, il suo praticare un territorio comune a molti (l'animazione digitale), differenziandosi sempre da essi: dalla Disney, prima mentore ed acquirente, poi collaboratrice/rivale; dalla Dreamworks di Spielberg/Katzenberg/Geffen, concorrente diretta. Per non parlare della Marvel - sebbene in contesti diversi - impegnata più che altro a trasporre in ambito cinematografico un patrimonio di fantasia colossale. Scarto perseguito e mantenuto vivo dalla squadra di Emeryville (Ca) tenendo un occhio ben fisso alla tradizione (s'incontrano nelle opere di Lasseter, Bird, Docter, Unkrich, Stanton e soci, le suggestioni più disparate: dall'intatta fascinazione per le strepitose  trovate cinetiche di pionieri come Chuck Jones e Tex Avery, a reminiscenze alte, mutuate, tra le innumerevoli, dall'Impressionismo, dall'Astrattismo, dal Futurismo, et.), l'altro ad aprirsi una breccia verso il futuro (nell'ambito delle tecniche, innanzitutto: pensiamo solo alle difficoltà/sfide superate, ad esempio, per dare leggerezza ma pure consistenza alla miriade di palloncini che dovevano sostenere l'impertinenza a volare della casetta del Sig.Fredricksen in "Up"; o per trasfondere fluida armonia all'imprevedibilità davvero ribelle della chioma fulva di Merida in "The brave", tenendo presente che "per produrre un'animazione ci vuole circa una settimana per quattro secondi di animazione ad animatore". Ma anche alla gigantesca mole di studi preparatori di carattere geografico, botanico, zoologico, fisico, meccanico, storico, etnologico, et., assemblati, volta per volta, con scrupolo d'altri tempi, allo scopo di delineare con precisione, all'interno di una solida cornice narrativa, le fisionomie psicologiche di ogni personaggio), e mani e piedi ben aggrappati alla convinzione per cui l'inventiva e' un processo che va vissuto come sforzo comune corroborato dalla combinazione/valutazione delle spinte originali apportate da ogni membro coinvolto in un progetto, a mo' di versione riveduta e corretta (oltreché iper-tecnologica) dell'utopia umanista vicina all'ideale dell'homo faber a trecentosessanta gradi. Per l'appunto questo pare, allora, alla fin fine, il vero impegno/intento auto-impostosi dalla Pixar. Qualcosa allo stesso tempo moderno e senza età; qualcosa di titanico e favoloso: non rassegnarsi ad accettare il mondo-com'è ma alimentare - ancora fa capolino la curiosità - l'immaginazione per animarne un altro reinventandolo, dandogli cioè - letteralmente - vita.

(Menzione di merito per la sezione che riassume e schematizza ogni aspetto dell'attività Pixar: dai cortometraggi e lungometraggi, ai documentari; dagli spot e bumper, alle esposizioni museali, et.).
TFK