domenica, gennaio 31, 2016

THE PILLS - SEMPRE MEGLIO CHE LAVORARE

The Pills - Sempre meglio che lavorare
di Luca Vecchi
con Luca Vecchi, Luigi Di Capua, Matteo Corradini
Ita, 2016
genere, commedia
durata,  90'



Nello strano panorama della commedia italiana, troviamo da un lato le paludi morte dove albergano i vari Zalone, cinepanettoni, etc.; dall’altra eccezioni rappresentate da giovani come Sibilia o Kobayashi – il lavoro di quest’ultimo, “Solo per il week end”, non ha ancora trovato una distribuzione in Italia -. In una sorta di terra-di-mezzo tra due realtà così distanti possiamo collocare, alla pari di “Italiano medio” di Maccio Capatonda”, l’esordio cinematografico dei The Pills.

Dopo essere stati un fenomeno del web, apprezzati da una vasta fetta di pubblico, i ragazzi – e in particolare  Luca Vecchi, il regista - tentano di confezionare un buon prodotto sulle basi della problematica legata all’età (quella prossima ai trent’anni e, quindi, alle spaventose responsabilità della vita adulta) su cui si poggia quasi interamente la loro cifra stilistica. E se sono ottime le premesse dell’individuare la crisi generazionale dei quasi-trentenni senza futuro e renderli dei Peter Pan contemporanei, con molti momenti che fanno ridere e/o sorridere, il film in quanto opera cinematografica soffre di non pochi difetti: a partire dalla drammaturgia, spesso lacunosa, che intacca la ritmica narrativa; passando per il reparto visivo, alle volte non troppo curato – nonostante alcune idee visive non siano da sottovalutare -; ancora, l’eccessivo etnocentrismo che lega gran parte della loro comicità agli ambienti dei ragazzi di Roma est; finendo alla recitazione: Luca Vecchi è infatti l’unico che riesce a rendere il proprio personaggio completo nella propria evoluzione e non impacciato nei momenti tecnicamente più difficoltosi, cosa che non riesce invece a Corradini e Capua.


Da evidenziare e confermare, in ultimo, il rapporto nefasto che intercorre tra il botteghino e il web: come accaduto per i predecessori dei The Pills, ancora una volta si è dimostrato che una visualizzazione su youtube non corrisponde al prezzo del biglietto.
Antonio Romagnoli

LA FOTO DELLA SETTIMANA






















The Birth of a Nation di Nat Turner - Usa 2016 

sabato, gennaio 30, 2016

JOY

Joy
di David O.Russell
con Jennifer Lawrence, Robert De Niro, Bradley Cooper, Edgard Ramirez
Usa, 2015
genere, biopic, drammatico, commedia
durata, 124'


Nascosta dai ricami della macchina da presa e tradita dallo sguardo del regista l'urgenza di un film, nelle conseguenze che provoca sulla riuscita del prodotto, costituisce il più delle volte una variante imponderabile nelle mani dell'autore. Il quale, da par suo, si ritrova a dover gestire una duplice spinta che vede, da una parte, il bisogno di liberarsi - mettendola sullo schermo - dell'ossessione che ne alimenta il desiderio e dall'altra, la necessità di ottimizzarla all'interno di un prodotto quantomeno comprensibile, soprattutto quando in gioco ci sono i soldi e gli incassi delle major hollywoodiane. Una schizofrenia che David O. Russell conosce bene, un po' per le intemperanze caratteriali che a più riprese l'hanno portato sull'orlo del collasso artistico e personale, un po' perché non sempre l'eccentricità delle sue visioni è coincisa con il pragmatismo di chi lo ha finanziato. E questo, al di là delle valutazioni che si possono fare su una produzione non sempre ben considerata dal pubblico e dalla critica, ci porta dritti al punto di una questione che nel cinema del regista americano è pregnante, e che riguarda appunto la difficoltà di riuscire a compensare dal punto di vista narrativo la propensione a lasciare il campo alla stravaganza e all'eccentricità dei propri personaggi e alle performance di chi li interpreta.

Qui per esempio al centro del progetto dovrebbe esserci la voglia di raccontare la vicenda di Joy Mangano e della sua strampalata famiglia, coinvolti nel tentativo di trasformare il talento inventivo della donna in un business miliardario a partire dalla Miracle Mop, il mocio utilizzato per pulire i pavimenti che la Mangano sulla base della sua invenzione riuscì a brevettare e successivamente, grazie alle proprie capacità imprenditoriali, a commercializzare negli Stati Uniti e nel mondo. Trattandosi di un biopic, seppure sui generis per la scelta del regista di raccontare con gli strumenti tipici della commedia, ci si aspetterebbe che "Joy" salvaguardasse in qualche modo gli aspetti più realistici della storia, operando un bilanciamento delle situazioni tragicomiche di cui il film si compone con un stile di regia magari orientato a una messinscena volta a privilegiare la verosimiglianza dell'assunto.

Al contrario e come spesso gli succede, O. Russell preferisce complicarsi la vita con una struttura poliedrica e stratificata. Per cui a partire dall'espediente della voce fuori campo - quella di Mimi, la nonna di Joy - inserita ad arte (vedere per credere) per giustificare la componente onirica e fiabesca di cui il film si avvale, l'autore si diverte ad affastellare toni (comico, drammatico, surreale e persino grottesco) generi (oltre a quelli già citati aggiungiamo il gangster movie utilizzato per rappresentare la resa dei conti finale) e rimandi cinematografici (alla commedia classica degli anni d'oro), a cui fa eco sul piano visivo un immaginario a dir poco variopinto che, specialmente nella prima parte, quella caratterizzata dagli inserti televisivi relativi alla soap opera seguita dalla madre di Joy e dai flashback relativi ai trascorsi della protagonista, mette insieme un potpourri di cultura popolare a volte anche kitch, basti pensare agli orizzonti esistenziali proposti dalle avventure catodiche di Danica e Clorinda a cui la famiglia Mangano fa riferimento e in qualche modo imita, il più delle volte fantasiosa, quando si tratta di scandire i vari snodi dell'intreccio con cambi di sound che dal classico al moderno mettono insieme Frank Sinatra e i Rolling Stones.

Così se il risultato complessivo è frammentario e discontinuo, con sequenze da ricordare come quella in cui rivediamo insieme Cooper e la Lawrence, e altre, relative per esempio ai personaggi della serie televisiva, ridondanti e dimenticabili, "Joy" si prende la sua rivincita per la capacità di creare un personaggio come quello di Joy Mangano, davvero memorabile e al quale, dopo tutte le peripezie a cui il destino l'ha sottoposta nel corso della storia non si può non volere bene, e per l'abilità di alimentare la partita con un contorno di ruoli di secondo piano, ognuno dei quali - da Tony, ex marito di Joy interpretato da un Edgard Ramirez (Carlos) canterino e sciupa femmine al malinconico e pragmatico Neil Walker a cui Cooper si presta con naturale immedesimazione - meriterebbe di essere sviluppato a se stante, magari in uno spin off a lui dedicato. Così come di presentarci un ensemble attoriale talmente in palla da far pensare che per Russell i film non siano altro che il mezzo per aggiornare un album personale in cui Joy e la sua banda figurano come autentici campioni d'umanità. Un'impellenza che per Russell conta più d'ogni altra forma di coerenza.

venerdì, gennaio 29, 2016

L'ABBIAMO FATTA GROSSA

L'abbiamo fatta grossa
di Carlo Verdone
con Carlo Verdone, Antonio Albanese, Anna Kasian, Francesca Fiume
Italia, 2016
genere: commedia 
durata: 112'


Arturo è un investigatore privato costretto a inseguire i gatti scappati dalle case altrui e ad abitare presso una vecchia zia con il mito del marito defunto. Yuri è un attore di teatro che, da quando la moglie l'ha lasciato, non ricorda più le battute: dunque si ritrova disoccupato e senza un soldo. Le strade di Arturo e Yuri si incontrano quando l'attore chiede all'investigatore privato di pedinare per lui l'ex moglie e il suo nuovo compagno. Quando i due macapitati, invece di registrare una conversazione fra i due innamorati, intercettano un dialogo ambiguo e fuorviante, le cose si ingarbugliano e si innesca un gioco di equivoci, che costringerà la copia a rocambolesche avventure e improbabili travestimenti.
Un cinema che nasce dall’osservazione comica della realtà e dalla costruzione puntuale, ironica e affettuosa di caratteri, in cui riconoscere il vicino di casa, il salumiere o il coatto che orgogliosamente attraversa epoche e generazioni, non può mai rimanere uguale a se stesso. 
Per questo, da trentasette anni Carlo Verdone si premura di cambiare scenario, inventando personaggi attanagliati da angosce sempre diverse, perseguitati da scocciatori sempre diversi, afflitti da viziacci sempre diversi.
Ora, è una verità universalmente riconosciuta che, rispetto al 1979, la nostra società sia meno interessante, più squallida e anche più cattiva, e quindi è logico che il regista romano abbia abbandonato da tempo i grandiosi Enzo, Ruggero, Mimmo, eccetera di "Bianco, rosso e Verdone" e "Un sacco bello", assestandosi su uomini più normali spesso accomunati da quell’ipocondria e malinconia di fondo che così inconfondibilmente gli appartengono.


Detto questo, bisogna ammettere che, "Posti in piedi in paradiso" a parte, le ultime commedie verdoniane tendevano a fotografare spesso una sola anima della nostra Italia: quella borghese, raccontata attraverso gli occhi di un Candide a volte ancora ingenuo, altre più disilluso, altre ancora reso scaltro da necessità economiche o familiari.
Confrontato con queste commedie, "L’abbiamo fatta grossa" è un film nuovo, di rottura, un'opera che si prende, per esempio, il rischio di abbandonare camere e cucine per inoltrarsi fra le strade di una Roma poco frequentata dal cinema, città pasoliniana e nello stesso tempo un po' francese e un po' alla Woody Allen che la fotografia di Arnaldo Catinari magnificamente esalta.
Laddove, però, il regista osa di più, è nella scelta di avere come coprotagonista del suo venticinquesimo film, Antonio Albanese.


Vedendo insieme i due attori, la prima impressione che si ha è che sia un buon connubio, ma non perfettamente. La comicità realista di Verdone, infatti, non sempre è in sintonia con la recitazione funambolica e fisica di Antonio Albanese. E se entrambi, singolarmente, sono in grado di cogliere e riprodurre il ridicolo di una situazione o di un personaggio, non sempre nei duetti esaltano l’uno il talento dell’altro, con il risultato che il primo rischia di apparire sottotono e il secondo sopra le righe, in particolare nelle scene più quiete: le sequenze in cui semplicemente si parla e ci si muove poco.
Quando invece c’è da scappare o restituire refurtive, il binomio è travolgente, e la comune goffaggine, insieme alla furbizia e alla perizia nel riprodurre i dialetti italiani, produce effetti portentosi. Giustamente, Verdone non vuole guidare troppo Albanese, che è un condensato di pura energia, ma, in questo modo, forse, non fa emergere quel suo lato poetico così mirabilmente sfruttato da Francesca Archibugi in "Questione di Cuore" o da Silvio Soldini in "Giorni e nuvole".
Dei due personaggi, che hanno in comune il fallimento matrimoniale e professionale, quello dominante è lo Yuri Pelagatti di Albanese, che si avvia verso il recupero della propria dignità e che si muove tra faccia tosta e tenerezza.
A metà fra il bravo ragazzo che vive con un’anziana parente e un venditore di fumo che ammicca a Manuel Fantoni, Arturo Merlino, invece, un po’ si perde, prigioniero di una rabbia forse immotivata e di una pietas che con il passare del tempo gli è venuta a mancare. 
Nonostante tutte le differenze che sussistono tra loro, siamo certi che i due cominci hanno cominciato un sodalizio destinato a durare nel tempo: o almeno questa è la nostra speranza.
Riccardo Supino

giovedì, gennaio 28, 2016

GLI INVISIBILI - PAWN SACRIFICE

Pawn Sacrifice
di Edward Zwick
con Tobey Maguire, Liev Schreiber, Lily Rabe, Peter Sarsgaard, Michael Stuhlbarg
Usa, 2015
Genere, drammatico
durata 114’




La storia di Bobby Fischer (Tobey Maguire), uno dei più grandi scacchisti di ogni tempo, viene colta durante la sfida per il titolo mondiale svoltosi nell’epocale scontro con il campione sovietico Boris Spassky (Liev Schreiber) tenutosi a Reykjavík in Islanda nel luglio e agosto del 1972 su 24 partite.
Dirigere un film sul mondo degli scacchi non è un’impresa facile: un ambiente chiuso ed elitario, crudele psicologicamente, dove per giocare ad alti livelli bisogna rinunciare a tutto. Uno scacchista ha una vita dettata dalle 64 caselle della scacchiera che diventa campo di battaglia continua, sfida contro se stesso e l’avversario. La nascita del gioco degli scacchi si perde nella notte dei tempi (originatisi in India intorno al VI secolo e arrivato in Europa intorno all’anno Mille), un gioco che rappresenta lo scontro cruento dei terreni di battaglia riproducendolo sulla scacchiera. Un modo di continuare la guerra tra popoli senza spargimenti di sangue, dove si sfidano intelligenze in strategie e tattiche complessissime: dopo l’apertura, le prime quattro/cinque mosse, le varianti del gioco possono essere miliardi, quanto le stelle nella galassia, esemplificativo di quello che una partita di scacchi possa essere. Un tema ostico per uno spettatore che non sia un appassionato o conosca un minimo le regole e le dinamiche.



Per questo il regista Edward Zwick sceglie un taglio psicologico e storico, trasformando lo scontro di Fischer e Spassky come la continuazione della Guerra Fredda tra Usa e Urss che imperversava in quel determinato periodo storico. In tutto lo sviluppo diegetico si ripetono richiami allo scontro politico tra le due superpotenze dell’epoca e Bobby Fischer era l’araldo solitario contro lo strapotere sovietico nel gioco. Del resto, le varie guerre che si combattevano nel mondo (a cominciare da quella del Vietnam), la competizione dell’esplorazione dello Spazio, il confronto sociale tra capitalismo liberale e socialismo sovietico sono continuate negli scacchi e Fischer diventa ben presto il campione americano che doveva difendere l’american way of life contro la minaccia del comunismo. Un mondo chiuso, dicevamo, e infatti, Zwick interpola la narrazione privata con brevi sequenze, in un montaggio veloce, con gli accadimenti dell’epoca, scegliendo il formato televisivo, che era esterno alla vita di Fischer completamente dedito al gioco fin da bambino. Ma è anche la messa in scena della forza mediatica della televisione che riusciva a rilanciare e fagocitare qualsiasi notizia ingigantendola. E Fischer, oltre a esser un geniale scacchista, fu anche il primo che comprese la potenza della televisione e la popolarità che da essa ne derivava, esigendo e ottenendo maggiori compensi economici.
Ma oltre a questo, il regista americano, punta molto sulla rappresentazione del personaggio Fischer, uomo che era affetto da paranoia e da manie ossessive, che dopo la conquista del titolo mondiale esplosero, portandolo a una vita da barbone, persino cacciato da quel paese che prima lo osannava e poi lo costrinse a vivere i suoi ultimi anni in esilio proprio in Islanda (dove muore il 17 gennaio del 2008), dopo che nel 1992 andò a giocare un torneo in Jugoslavia sottoposta a embargo e si scontrò con il Dipartimento di Stato Usa gli aveva proibito di giocare nei paesi Balcanici.
Ma al di là del tema scacchistico, “Pawn Sacrifice” lo si può leggere come un ritratto sul labile confine tra genialità e follia. Fischer probabilmente era affetto da una forma di autismo e la sua monomania per gli scacchi era l’elemento principale dove la sua follia si tramutava in genio. Tobey Maguire (interprete degli “Spiderman” di Sam Raimi) riesce mirabilmente a disegnare la complessa personalità del personaggio con un’interpretazione che rasenta il mimetismo, lavorando non solo sui gesti, ma soprattutto sullo sguardo, sia verso il mondo esterno sia verso l’universo della scacchiera, trasformando il corpo attoriale in un’icona dell’uomo solo, dove genialità e follia convivono.


Edward Zwick (autore di film come “L’ultimo samurai”, “Glory”, “Vento di passioni”, “Blood Diamond”) si circonda di un cast di eccellenti caratteristi, una fotografia desaturata di Bradford Young che riesce a ricostruire l’atmosfera degli anni 60. E partendo da un incipit che mette in scena un Fischer immerso nella paranoia di essere spiato dai russi, mentre smonta la camera della casa a Reykjavík, compie un lungo flash back composto da brevi sequenze che raccontano il cammino del campione americano fin da bambino, quando compie i primi passi nel mondo degli scacchi, il suo difficile rapporto con la madre e la sorella maggiore e la sua ascesa al successo, in un montaggio sincopato. Anche la messa in quadro è funzionale utilizzando primi piani distorsivi o dettagli del volto e del corpo del protagonista per comunicare allo spettatore la follia che il giocatore viveva.

Un film, insomma, che può interessare un pubblico generalista, non necessariamente esperto (anche perché alla fine il gioco degli scacchi diviene un pretesto per raccontare altro) e la sequenza finale, dove sono montate delle immagini del vero Bobby Fischer invecchiato, si può collegare idealmente al bellissimo documentario “Bobby Fischer Against The World” di Liz Garbus, per chi volesse approfondire la vita di uno dei più grandi e geniali giocatori della storia millenaria dell’affascinante e immortale gioco degli scacchi.
Antonio Pettierre

mercoledì, gennaio 27, 2016

IL PICCOLO PRINCIPE

Il piccolo principe
di Mark Osborn
Usa, 2015
genere, animazione
durata, 110'

Proprio su queste pagine, qualche tempo fa, si rifletteva su come il cinema d'animazione si stesse rapidamente evolvendo, anche sul mercato occidentale, andandosi a consolidare come linguaggio destinato anche ad un pubblico adulto. Questa premessa introduceva positivamente il discorso riguardante "Inside out", film d'animazione che definitivamente incarna questa direzione, mentre per "Il piccolo principe" è valida più come critica negativa che come aspetto positivo. Se infatti già la base letteraria - ovvero il romanzo omonimo di Antoine de Saint-Exupéry -  è sì solida ma comunque provvista di un solo livello di lettura, priva dunque di stratificazioni che potrebbero essere fondamentali per intraprendere diversi spunti drammaturgici. 

Non a caso, nonostante l'idea di diversificare visivamente i due piani narrativi - il primo, che narra della bambina nel mondo reale, reso con una classica animazione in stile Pixar, il secondo, nel quale la storia principale s'intreccia con quella del piccolo principe, realizzato in stop motion - il film si trova ad essere interessante per la prima metà ma i risvolti della seconda parte precludono al lavoro di Osborne di essere considerato come una di quelle pellicole animate - non a caso citavamo "Inside out" - da porre sullo stesso piano del cinema-dal-vero.
Antonio Romagnoli

lunedì, gennaio 25, 2016

IL FIGLIO DI SAUL

Il figlio di Saul
di Laszlo Nemes
con Geza Rohrig, Urs Rechn, Levente Mornar
Ungheria, 2015
genere, drammatico
durata, 107' 


Possiamo affermare senza torto alcuno che tra i film dedicati alla Shoah, alcuni dei quali  sono già arrivati nelle nostre sale o stanno per farlo nel giro delle prossime settimane, quello di Laszlo Nemes - giustamente premiato dalla giuria dell’ultimo festival di Cannes -  appartenga di diritto alla categoria delle opere memorabili. A farcelo dire non è tanto il tema tratto, così importate da costituire di per sé il valore aggiunto di qualsivoglia forma d’arte, quanto piuttosto le caratteristiche intrinseche del lungometraggio del regista ungherese. Che, a partire dalla forma cinematografica imposta al suo film, riesce a scavare un solco con quello che è venuto prima. Con un rigore pari a quello del  protagonista – un membro del sonderkommando ossessionato dall’idea di dare sepoltura al cadavere del bambino che crede essere suo figlio -  Nemes sceglie infatti di aderire alla dimensione fisica del personaggio, perseguendo il suo scopo anche a costo di sacrificare i vantaggi offertegli dalla moderna tecnologia.


Perché, adeguando gli aspetti tecnico realizzativi allo sguardo del protagonista, Il figlio di Saul si presenta con delle limitazioni – dal formato della cornice filmica, ridotto a 4.3, alla profondità di campo della mdp, equiparata a quello dell’occhio umano – che rendono come meglio non si potrebbe la sensazione di vivere in prima persona, in una sorta di semi soggettiva, l’esperienza all’interno del campo di concentramento. Per capire cosa intendiamo e dare l’idea di quello che significa, basterebbe limitarsi a una delle sequenze iniziali, quelle che precede il ritrovamento del corpo del ragazzino a cui Saul decide ostinatamente di dare sepoltura. La scena, drammatica quanto consueta in un film del genere, nelle mani del regista ungherese si trasforma in un’esperienza a cui non avevamo mai assistito perché, messi sullo stesso piano di Saul che al nostro pari può solo ascoltare e non vedere ciò che sta accadendo all’interno delle camere a gas,  si rischia di ritrovarsi impreparati alla potenza di un transfert che ci cala all’interno della tragedia nel momento in cui essa si sta compiendo.



Ma il linguaggio, da solo, non basterebbe a giustificare l’eccezionalità dell’opera se non fosse che il film, partendo dal pragmatismo di una trama occupata per la maggior parte dalle procedure mediante le quali Saul e i suoi compagni portano a compimento il proprio lavoro, riesce a trascendere il dato fenomenologico, facendo della ritualità  del gesto il mantra di un’invocazione che oggi come allora fa appello alla pietas di tutti gli esseri umani, ivi compresi quelli crudeli e spietati che conosciamo attraverso il film, ai quali Saul e la sua storia oppongono un atto di fede che diventa poesia nella scena conclusiva, in cui è proprio la morte a consegnarci le chiavi di un nuovo inizio. Candidato all’Oscar per il miglior film straniero Il figlio di Saul è destinato a doppiare la vittoria del Golden Globe ottenuta nella medesima categoria.

domenica, gennaio 24, 2016

MACBETH

Macbeth
di Justin Kurzel
con Michael Fassbender, Marion Cotillard, Elizabeth Debicki, David Thewlis 
UK, 2015
genere: drammatico
durata: 113'


Macbeth, valoroso condottiero - istigato dalla moglie, la cui ambizione è assai più intensa e frustrata della sua - cede alla sete di potere per seguire la profezia che lo ha indicato come futuro re di Scozia. L'ascesa al trono prevede l'eliminazione fisica del reggente in carica e sarà seguita da una serie di delitti sempre più efferati, poichè l'uomo, divorato da dubbi e paure, vede ostacoli in chiunque. Lady Macbeth si renderà conto di aver creato un mostro che non può più controllare.

La quantità di livelli di lettura e di significati presenti nel testo è quasi illimitata, nonostante la brevità della narrazione: l'omonima tragedia shakespeariana è la più corta di tutta la produzione del grande autore inglese, fatto, questo, che consente al regista di riportare fedelmente sul grande schermo l'intera storia, conservando nella loro interezza e complessità linguistica i dialoghi del celeberrimo drammaturgo.
La messiscena, invece, costituisce un contributo originale di Kurzel, che ambienta l'opera in una Scozia selvaggia e brulla. Per il resto, l'adattamento è totalmente fedele al testo. Ne risulta, quindi, un'opera in parte convenzionale ma profondamente introspettiva. L'interpretazione di Michael Fassbender - che comunica con la sola forza dello sguardo le mille sfumature della metamorfosi del protagonista - è ottima; da eroico combattente ad arrampicatore assetato di potere, egli, poco alla volta, si trasforma in tiranno senza umanità, giungendo ad incarnare proprio quell'essere fragile che la moglie manipola poi con facilità. 


Marion Cotillard è una Lady Macbeth dal viso angelico e dall'animo corrotto, la cui maternità abortita si trasforma in brama di potere in grado di fare leva sulla sensualità per manovrare il coniuge. Fra le prese di posizione autoriali di Kurzel, c'è l'interpretazione molto originale del carattere della co-protagonista, la quale cede ai sensi di colpa per le proprie mani sporche di sangue, come si evince dall'inquadratura in cui Macbeth punta un coltello contro il ventre della moglie, riconoscendovi la fonte primaria dei suoi guai.
Le auctoritates con cui si confronta Kurzel - oltreché, ovviamente, con lo stesso Shakespeare - sono Orson Welles, Akira Kurosawa e Roman Polanski, autori prima di lui di adattamenti assai coraggiosi. Come che sia, una prosa così evocativa come quella del bardo inglese può riuscire ad ispirare ogni artista nella creazione di un adattamento personale. Il Macbeth di Kurzel è, infatti, rigoroso, canonico, esteticamente ammirevole, storicamente corretto.
Riccardo Supino

LA FOTO DELLA SETTIMANA

    Una giornata particolare, di Ettore Scola (Italia, 1977)

sabato, gennaio 23, 2016

SE MI LASCI NON VALE

Se mi lasci non vale
di Vincenzo Salemme
con Vincenzo Salemme, Carlo Buccirosso, Paolo Calabresi, Serena Autieri
Italia, 2016
genere: commedia
durata: 96'



Funzionano bene soprattutto i siparietti fra Salemme e Buccirosso, che ha il ruolo di Alberto, memori della lezione di Eduardo; il trittico finale, che vede protagonista anche Tosca D'Aquino (Federica), è una piccola lezione di teatralità partenopea. È molto buona la performance della coppia Calabresi-Autieri (Paolo e Sara), che viaggia sul filo della tenerezza e incorpora senza sforzo la romanità di lui, avvolta nella napoletanità accogliente e luminosa di lei. Il cammeo di Carlo Giuffré nei panni del padre di Paolo chiude il cerchio, aggiungendo un tocco di classe all'intera messinscena.
La storia scorre rapidamente facendo dimenticare alcuni dettagli poco realistici, le battute sono ben scritte, gli attori gradevoli e credibili quanto basta perché questa commedia salga al di sopra dello standard italiano contemporaneo.
Salemme porta al cinema un soggetto scritto da se stesso insieme a Paolo Genovese e Martino Coli e lo trasforma in una commedia degli equivoci dal sapore teatrale. Nelle mani di Salemme, "Se mi lasci non vale diventa" una metafora sul teatro e una riflessione divertita sul mestiere dell'attore, dai tempi della recitazione come chiave di volta della buona riuscita di una pièce all'ego di certi interpreti che trasformano ogni dialogo in un monologo.


Vi si trovano parecchie battute dissacranti contro gli attori che si prendono troppo sul serio e sulla necessità morbosa di privarsi della propria cadenza regionale da parte di alcuni grandi all'eterna ricerca di riconoscimenti. Vincenzo e Paolo sono stati lasciati dalle rispettive compagne, Sara e Federica, e sono a pezzi. Si incontrano per caso, riconoscendo l'uno nell'altro lo stesso scoramento, e decidono di farla pagare alle due ex: Vincenzo farà innamorare di sé Federica, e Paolo farà lo stesso con Sara, dopodiché i due procederanno in sincrono ad abbandonare le rispettive conquiste, spezzando loro il cuore. Ma non tutto fila come dovrebbe, anche perché si mette di mezzo Alberto, un attore squattrinato che accetta di interpretare il ruolo dell'autista di Vincenzo e poi non si accontenta della parte da subalterno.
Riccardo Supino

venerdì, gennaio 22, 2016

APPUNTI DI REGIA - A MARGINE DI STEVE JOBS DI DANNY BOYLE


Se è vero che l'approccio documentaristico, nel cinema contemporaneo, è ormai quello vincente quando si tratta di "biopic", è altrettanto vero che in questo contesto Danny Boyle è riuscito a rappresentare un'eccezione.

Se il vero punto di forza è la sceneggiatura scritta da Sorkin, la parte visiva ne è l'esatto riflesso drammaturgico. Non a caso i dialoghi statici e più emozionali vengono ripresi con inquadrature di quinta - fisse o caratterizzati da leggerissimi "zoom" o "dolly" - ed alternati poi ai dialoghi in movimento seguiti per lo più da steadycam frontale (a uno o a due, spesso inquadrando dal mezzobusto in sù) e da ampie carrellate. Tutto viene amalgamato in maniera perfetta dalla fase di montaggio, questo dinamico e preciso, e che si presta all'evoluzione narrative dei tre grandi blocchi che costituiscono il film. Da non sottovalutare, infine, la fotografia, funzionale al discorso che facevamo e a mettere ancora più in risalto i volti e quindi la bravura degli attori, di Fassbender in particolare. 

"Steve Jobs" è, dunque, l'opera più matura di Boyle - tra le altre cose, abilissimo e  nella scelta della colonna sonora - che dimostra di sapere come e quando far tacere la propria regia senza lasciare che essa diventi anonima ma mettendola al servizio dell'opera.
Antonio Romagnoli

mercoledì, gennaio 20, 2016

LE ANTEPRIME DE ICINEMANIACI - PICCOLI BRIVIDI

Piccoli brividi
di Rob Letterman
con Jack Black, Dylab Minette, Odeya Rush
Usa, 2015
genere, fantastico, horror
durata, 103'


Che il genio dell’artista sia spesso il frutto di un’esistenza precocemente ferita è qualcosa di più di modo di dire. Gli esempi in questo senso non si contano e d’altro canto la normalità è, di per se, una condizione che poco si addice all’ispirazione creativa; come testimonia l’assunto che sta alla base di “Piccoli brividi”, il film che Rob Letterman ha tratto dalla serie televisiva ispirata ai racconti per ragazzi firmati da Robert Lawrence Stine.  Il lungometraggio infatti, prendendo a prestito il principio caro agli stilemi del cinema horror secondo cui l’inconscio genera mostri – “Babadock” insegna – narra l’avventura di due adolescenti impegnati a salvarsi dalla minaccia di un’orda di creature malvagie, create dall’immaginazione dello stesso Stine (interpretato da Jack Black) che, in un cortocircuito tra fantasia e realtà  ritroviamo all’intero della storia nei panni del padre di Hannah, la ragazzina di cui Zach si innamora e per la quale si ritrova coinvolto nell’escalation di avvenimenti che rischia di distruggere la cittadina in cui lui  e la madre si sono da poco trasferiti.




Ora, considerando che il film si premunisce di soddisfare la richiesta d’intrattenimento allestendo un luna park del terrore, in cui i protagonisti, in qualità di vittime predestinate, sono chiamati a ribaltare il pronostico con la fortuna e il buon senso che è appannaggio dei più virtuosi, Piccoli brividi ha dalla sua il fatto di assomigliare per ingenuità ed esasperazioni al cinema di un tempo, quello che veniva proiettato negli schermi dei drive americani. Di quelle pellicole il film di Letterman mantiene lo stupore e anche l’iconografia. Si pensi alle fattezze dei cattivi, ispirate ai villain di b movie come The Blob, ripreso nella presenza della sostanza gelatinosa capace di inghiottire chi vi rimane invischiato, oppure alla locusta gigante che si rifà per proporzioni e morfologia agli spaventosi insetti dei film di fantascienza degli anni 50 e 60.  Di quei prototipi Piccoli brividi offre un punto di vista citazionista e nostalgico che la sceneggiatura lega al sottotesto relativo al rapporto tra cinema e scrittura, decostruito attraverso riferimenti letterari e cinematografici riassunti dalla figura di Stephen King, più volte citato nel corso della vicenda e non a caso autore di un libro - In the Mouth of Madness tradotto in immagini da John Carpenter - che anticipa la trama del lungometraggio diretto da Letterman. Una formula che privilegia il divertimento alla paura e che riesce ad accontentare sia grandi che piccini. 

martedì, gennaio 19, 2016

CAUSE I ONLY WANT TO BELIEVE - IL RITORNO DI X-FILES



Seguissimo gl'insegnamenti di un vero maestro - intendendo con tale appellativo la rara persona in grado di trasmettere per via erotica (come ricorda Platone), ossia emotiva, una suggestione culturale - apprezzeremmo di più e meglio parole del tipo "Nel tempo della semina impara, in quello del raccolto insegna e goditi l'inverno", scoprendo in esse, grazie a quell'insperato tramite, la non così scontata capacita' di attagliarsi ad ambiti personali in apparenza remoti per consuetudini, mentalità, inclinazioni interiori. Con tutta evidenza, il lavorio di qualche ignoto - e mai abbastanza benemerito - educatore, ha lasciato tracce significative in un personaggio come Chris Carter, autore della (ora) leggendaria serie televisiva "X-files" in procinto - le riprese di sei nuovi episodi concordati con la Fox e non necessariamente limitati ad un impegno una tantum sono iniziate da poco - di tornare di fronte agli occhi di una platea planetaria che non si era mai del tutto rassegnata alla sua dipartita, pur avendo stentato - e non poco - agli inizi a mostrare medesima affezione.


Carter - per meglio dire - appassionato di fumetti e narrativa fantastica, surfista, collezionista di scampoli di quella sterminata pubblicistica della stranezza, dell'anomalia e dell'ambiguo (di cui farà schernito epigono il suo antieroe, Fox Mulder/D.Duchovny, chissà quanto predestinato dal suo stesso nome, così evocativamente prossimo, nella progressione fonetica, a "to moulder", più o meno "ridurre in polvere", "sgretolarsi", "decomporsi", a rafforzare l'idea, poi non così peregrina, di segugio-votato-alla-sconfitta) ha, nel tempo e nei fatti, in primis "seminato" imparando, ossia convogliato nel confortevole grembo dell'immaginazione/narrazione fantascientifica contributi disparati e non necessariamente concordi - dalle invasioni e colonizzazioni aliene, alle mutazioni genetiche estreme; dai messaggi subliminali, ai viaggi nel tempo; dalle strategie di controllo psichico, ai fenomeni extra-sensoriali; dalle leggende metropolitane e dalle arcane tradizioni di stampo lovecraftiano, agli intrighi e collusioni delle super burocrazie segrete; dagli orrori sfuggenti quanto indicibili di cui sono intrise le pieghe della cosiddetta normalità, a vere e proprie esperienze extra-corporee; dagli stati sospesi di coscienza, alle visioni più o meno terrene. E ancora: vampiri, reincarnazioni, stati di morte apparente, serial killer mossi sempre da qualcosa di più e di diverso dal semplice istinto omicida, strani ibridi (non ancora del tutto extraterrestri ma sempre meno umani), corpi che non si rassegnano a perire e restano incastrati in bislacchi intra-mondi, armi biologiche fuori controllo, teorie millenaristiche, elementi di cripto-zoologia, spionaggi, sofisticate manipolazioni propagandistiche... - "raccolto", in seguito, l'inerzia di un'onda di popolarità che avrebbe prodotto a bilancio una mareggiata costituita da duecento e passa episodi distribuiti in nove stagioni a partire dal 1993; di conseguenza, "insegnato", lasciando la propria impronta su decine di contenitori stipati di mistero e inquietudine; finendo per "godersi l'inverno" (che, come si vede, può non essere sempre e solo quello del-nostro-scontento) assiso in un silenzio e in una distanza l'uno e l'altra in grado di sedimentare un desiderio crescente, la voglia anterograda di continuare, proprio per fare in modo di non apporre ancora la parola "fine", in quel gioco per certi versi struggente di credere alla malia della finzione-vera delle storie, alle possibilità e alle promesse che pulsano al fondo di ogni racconto, voglia esemplarmente riaffermata - seppur in senso antifrastico (e questo la dice davvero lunga circa il potere intrinseco delle suddette storie) - da uno dei tanti refrain presente nella serie: "Il modo migliore di prevedere il futuro e' inventarlo".


Il progressivo modellarsi di un mondo - il mondo di "X-files", per l'appunto - via via autonomo perché sempre più intimamente coerente, ha contribuito a produrre modificazioni sia nell'approccio e nell'assimilazione di taluni canoni tipici della modernità (del suo modo di autorappresentarsi), sia nelle scelte estetiche, latamente formali, utilizzate per esprimerli. Nel primo caso - e limitandoci ad un'enunciazione generica - e' indubbio che con l'avvento della creatura di Carter si sia data legittimazione definitiva ad uno degli argomenti cardine delle denominate subculture, a dire la famosa/famigerata "Teoria del complotto". In "X-files", infatti, essa si pone da subito, oltreché come vettore di numerosi intrecci, di altrettanti interrogativi, come sfondo vero e proprio, come involucro-placenta, tanto impalpabile quanto onnipresente, tanto tacito quanto perennemente-nell'-aria, in prossimità della quale si muovono i protagonisti, in ogni istante tallonati (e noi con loro) dal dubbio di essere retrocessi quasi senza colpo ferire a pedine di uno schema inattingibile e perverso. Se consideriamo l'omicidio di JFK punto di svolta della capacita' di stratificazione nell'immaginario comune recente di quella che potremmo definire - per comodità - "logica cospirativa", notiamo, nello svolgimento degli eventi interni alla serie, oltre a richiami più o meno espliciti proprio alla tragedia di Dallas, disseminati qua e la' come indizi di una volontà-condizionatrice-indefessamente-al-lavoro o come mera interiezione sarcastica di uno spirito dei tempi dato oramai per scontato al punto da risultare passibile di rivisitazione parodica, un intento, calcolato e insistito, di estremizzazione del respiro complottista, al tempo concettuale e narrativo, ossia quasi furtivamente suggerito oltre i confini del suo contesto convenzionale governativo-militare-industriale-finanziario ma grossomodo sempre ribadito di caso inspiegabile in caso inspiegabile, allo scopo di solleticare (cioè nutrire e rimettere ancora e ancora in circolo) quella sorta di eterna paranoia vieppiù strisciante, volendo proprio da quel giorno luttuoso di novembre, nelle società affluenti - iper-razionali e insidiate dall'horror vacui - a cui "La Teoria" offre un'ideale rimozione/placebo e che "X-files" usa con grande scaltrezza per mantenere costante il livello di tensione, insinuando il sospetto (terribile perché definitivo), non tanto che "nulla e' ciò che sembra" ma che forse non sia neppure questo e che, sul serio, la realtà (la sua allucinazione ? La sua ridicola ossessione ? Ciò che resta di entrambe ?) equivalga al sogno astruso e mesto di un pazzo. D'altro canto, per ciò che attiene più nello specifico alla struttura visiva e alla verifica di un'ipotesi di stile, e' difficile non riconoscere all'intuizione di Carter il tentativo di misurarsi - o, almeno, di rivolgere le proprie ambizioni in tale direzione - con alcuni strumenti peculiari del Cinema, concorrendo non poco, tirate le somme, a spingere il prodotto-medio-televisivo verso altezze fino a quel momento a lui ignote. Ricordiamo che il processo di gestazione di una TV più adulta - ovvero maggiormente incline ad una sgrossatura accurata e rigorosa dei caratteri, ad una metodica frammentazione delle trame in modo da svilupparne e approfondirne ogni risvolto, ad una qual dilatazione dei tempi (e del montaggio) nella ricerca di un nuovo equilibrio tra facilita' di fruizione, ritmo interno, azione e descrizione introspettiva finalizzata a far emergere con la persistenza (spesso in foggia di chiaroscuri indefiniti, di particolari incongrui, di silenzi/presagi) gli aspetti simbolici e metaforici - non di rado sinistri - di ciò che sembra offrirsi alla percezione - retrodata a tempi anteriori l'imporsi di "X-files". Senza andare troppo in la' con gli anni, basterà qui mettere in evidenza le eccentricità narrative e di messinscena di un'opera come "(I segreti di) Twin Peaks" di D.Lynch - pressoché coeva (andò in onda poco più di un biennio prima) al lavoro di Carter - in grado di sparigliare al momento della sua apparizione buona parte delle abitudini linguistiche cristallizzatesi dentro il piccolo schermo, per affermare che qualcosa stava cambiando e rapidamente.


Chiaro: "X-files" non sarebbe altresì ciò che e' stato per tanti (e che, chissà, forse sarà ancora) se non avesse, da un lato, confermato l'inesauribile attitudine della macchina dello spettacolo a stelle e strisce a reperire (e ad imporre) innanzitutto volti, visi in grado (sia Duchovny che Anderson erano poco più che volenterosi di belle speranza ai tempi, nemmeno troppo sostenuti dalla produzione), per una strana osmosi, verrebbe da dire, di accompagnare innervandole, le fantasie, i sogni, le illusioni, il piacere dell'evasione, di un così vasto uditorio, variegato al suo interno come depositario di usi e costumi assai diversi tra loro; dall'altro posto di nuovo al centro del mistero il binomio base uomo/donna, spesso e volentieri, pero', secondo una dinamica per cui i singoli comportamenti eterodossi, erodendo pian piano gli stereotipi di riferimento, hanno finito, un azzardo via l'altro, per capovolgerne e rimescolarne in modo davvero intrigante i ruoli. Tanto, cioè, l'agente FBI Dana Scully/G.Anderson e' (almeno nella prima parte della saga e, diciamo così, per statuto) tetragona paladina del primato della Scienza e in generale della Ragione contro le elucubrazioni che da quei campi esulano, spingendo con mascolina fermezza affinché la Logica prevalga su ogni affermazione insofferente al suo rigido determinismo; tanto Mulder affida la guida delle sue investigazioni all'estro femminile dell'intuizione: egli e', a dire, curioso almeno quanto e' asistematico; afferma ma e' pronto a cambiare idea; non disdegna l'arzigogolo affascinante; e' capace d'impuntature, di testardaggini all'apparenza incomprensibili sotto cui alligna forse una latente isteria; si chiude a volte in mutismi; non di rado sparisce per ripresentarsi - magari a chiusura di file - affermando di avere sempre avuto ben chiara la soluzione e lasciando intendere per il tramite di un mezzo sorriso impunito di essersi divertito non poco ad assistere ai passi falsi degli altri. Questa strana coppia (annotiamo di sfuggita che i due, tra l'altro, hanno continuato imperterriti a chiamarsi reciprocamente per cognome anche dopo essersi scambiati il fatidico primo bacio atteso da mezzo mondo televisivo per anni) risolve, in altre parole, rilanciandola su piani inediti, l'archetipica dicotomia maschile/femminile in una mistura al contempo asessuata e seducente, minimalista nella schermaglia ma sotto sotto febbrile, irrequieta, cangiante, quindi capziosamente ambigua, per taluni versi irresistibile perché in teoria aperta quasi a qualunque colpo di scena o torsione di sceneggiatura.

Vero e', comunque, a compendio di quanto detto, che all'annuncio delle nuove gesta di Mulder e Scully la febbre dell'attesa ha cominciato presto a salire. Proviamo ad essere pazienti, allora. Con ogni probabilità la verità non e' la' fuori ma l'avventura, di sicuro, si'.
TFK

lunedì, gennaio 18, 2016

CREED - NATO PER COMBATTERE

Creed - Nato per combattere
di Ryan Cooglar
con Michael B. Jordan, Sylvester Stallone
Usa, 2016
genere, drammatico
durata, 132'


Un attimo prima che si concluda la sequenza iniziale, "Creed - Nato per combattere" ha già messo in mostra quelle che saranno le proprie credenziali. La scena, ambientata all'interno di una sorta di riformatorio, ci mostra il protagonista ancora bambino impegnato in una rissa con un gruppo di pari età. Seppure in una condizione di evidente minoranza, il piccolo Adonis riesce a difendersi sbaragliando i suoi avversari. Nel giro di pochi fotogrammi il film diretto di Ryan Coogler è in grado di anticipare le coordinate essenziali dell'eroe, definendone insieme le caratteristiche caratteriali, temprate dal fatto di doversela cavare con le proprie forze, ed esistenziali, messe in mostra nelle capacità fisiche e agonistiche espresse nel corso dell'azione. A distanza di qualche anno e grazie alla macchina del tempo di cui solo il cinema dispone, lo ritroveremo non a caso a lottare per il titolo mondiale accanto al vecchio Rocky Balboa che, dopo aver appeso i guanti al chiodo e avere detto addio al mondo della boxe torna sul ring per fare da coach al figlio del mitico Apollo, con cui aveva condiviso quattro dei sei episodi della saga dedicata al pugile venuto dal Bronx. E qui entra in gioco uno dei motivi principali del film, che è appunto il ritorno sulle scene del pugile inventato da Stallone nel 1976, riesumato dall'oblio (Rocky Balboa, 2006) al quale si era concesso per mano del suo creatore allo scopo di aiutare il figlio dell'amico tragicamente scomparso (Rocky IV, 1985).



A metà strada tra il cinema sportivo e il racconto di formazione "Creed - Nato per combattere" si comporta allo stesso modo del mitico predecessore, fino al punto da sembrarne una specie di reboot sotto mentite spoglie. Sostituendo la faccia dell'attore italo americano a quella del Mickey di Burgess Meredith e aggiornando lo scenario ambientale, adeguato a quell'America post 11 settembre che a livello politico ha cercato di darsi un'immagine conciliante rispetto ai temi dell'integrazione e della giustizia sociale, "Creed - nato per combattere" assomiglia al remake del film di John Avildsen non tanto per gli inserti relativi ai combattimenti pugilistici, che tranne casi rari - per esempio "Cinderella Man" di Ron Howard - si equivalgono nella resa esasperata e poco verosimile degli aspetti legati alla violenza agonistica della tenzone, ma per quella predisposizione a tenersi un passo indietro rispetto al ring, riservandosi il diritto di trasformare il quotidiano in un'autentica palestra di vita, quella si determinante a forgiare le qualità dei futuri campioni.


Sotto questo aspetto, è soprattutto l'empatia messa in scena da Stallone più che la verve del suo pigmalione, a trascinare il film dalla parti di una mitologia cinematografica alla quale la faccia dell'attore, provata dal tempo e forse dai lifting, riesce ancora a incarnare. Così, in un film che procede a velocità di crociera verso la catarsi finale e in direzione del fatidico incontro che oltre alla gloria metterà mette in palio il riscatto del trascorso esistenziale del protagonista, gli unici sussulti sono costituiti dalle scene che coinvolgono il vecchio campione, a cui la sceneggiatura assegna forse la battaglia più difficile della sua lunga carriera, con la malattia che a un certo punto sembra toglierlo di scena in maniera definitiva. Coogler che aveva già diretto Jordan nell'ottimo "Fruitvale Station", qui si accontenta di rispettare la filologia dei contenuti , informando il suo film con una regia (invisibile) che procede nel solco di un intrattenimento in cui nostalgia e spettacolo riescono tutto sommato a convivere. E non ultimo, a far sperare a Stallone, peraltro appena premiato con il Golden Globe come miglior attore non protagonista, in un Oscar che a questo punto appare piuttosto probabile.
(pubblicata su ondacinema.it)

domenica, gennaio 17, 2016

LE ANTEPRIME DEI CINEMANIACI – ELEPHANT SONG


Elephant Song
di Charles Binamé
Xavier Dolan, Bruce Greenwood, Catherine Keener, Carrie-Ann Moss
Canada, 2014
genere, drammatico
durata, 110’


Gennaio 1966, in un ospedale psichiatrico canadese inizia un’inchiesta interna con l’interrogatorio del direttore dottor Toby Greene (Bruce Greenwood) e dell’infermiera Susan Peterson (Catherine Keener) su un tragico evento accaduto qualche settimana prima. In continui flashback, viene narrata la seduta durante il giorno di Natale che il dottor Greene ha con un giovane paziente della struttura, Michael Aleen (uno strepitoso Xavier Dolan), ultimo ad aver visto il dottor Lawrence, misteriosamente scomparso il giorno prima senza lasciare traccia. Inizia così un confronto psicologico tra il dottor Greene (che non conosce il paziente in questione) e Michael, per sapere se lui ha informazioni preziose su che fine abbia fatto il dottor Lawrence.
Tratto da una pièce teatrale di Nicolas Billlon, autore anche della sceneggiatura, il dramma si svolge nel giro di poco più di novanta minuti con continue interruzioni da eventi esterni, dove nella realtà si scoprirà che Michael è un geniale manipolatore con uno scopo finale ben preciso. Il rapporto tra lui e il suo medico curante Lawrence è ambiguo: Michael è un omossessuale che si è innamorato del suo psichiatra in un classico transfert tra medico e paziente. I dialoghi serrati sono tutti concentrati nei tentativi del dottor Greene di scoprire la verità, mentre Michael gioca a ingannarlo, provocarlo, depistarlo. Michael è figlio di una famosa cantante d’opera con cui ha avuto un rapporto traumatico fin da bambino (non voluto dalla madre perché vissuto come un ostacolo alla sua carriera) e che ha assistito al suo tentativo di suicidio senza intervenire e facendola morire. Ma il trauma più profondo Michael lo ha vissuto con il padre, quand’era ancora bambino, dove durante una battuta di caccia in Africa assiste alla morte di un elefante che lo mette di fronte al dramma della perdita e del dolore emotivo.
Due sono i temi portanti di questo thriller psicologico: l’elaborazione del lutto e la conoscenza della verità, continuamente ingannata e manipolata dai personaggi. Se Michael in qualche modo non è mai riuscito a superare la morte della madre e il suo essere rifiutato come figlio, dall’altro scopriamo che anche il dottor Greene ha perso la propria figlia Rachel due anni prima, in un tragico incidente causato dalla moglie, da cui si è separato, e che per gradi il regista rivela essere l’infermiera Peterson. Lei conosce Michael e lui riesce a convincere il dottor Greene a lasciarla fuori dal colloquio. Greene e la Peterson non hanno superato ancora il dolore della perdita della figlia e questo li tiene lontani uno dall’altra e sarà anche la causa del tragico finale di cui è protagonista Michael. Solo nel finale i due si riconcilieranno, nell’ultima inquadratura in campo lungo, seduti su una panchina nel freddo e immersi nella neve (un gelido inverno metafora metafisica e morale di un immobilismo dei sentimenti, della mancanza di calore umano che li ha travolti).  


Oltretutto l’ospedale è stato investito da uno scandalo da poco su un altro medico che aveva rapporti non corretti con i pazienti e di cui Greene non si è mai avveduto. E qui entra in ballo il secondo tema, forse il più importante e interessante dell’intera opera del regista Charles Binamé, che mette in scena la volatilità di ciò che sembra vero e della manipolazione della verità. Greene crede di avere sotto controllo la situazione, ma nella realtà, letteralmente, non vede e quindi non capisce fino in fondo Michael, ma anche se stesso. Del resto, fin dall’inizio non legge il fascicolo del paziente perché ha dimenticato gli occhiali da vista a casa e si lascia convincere da Michael a scendere a patti con lui per poter conquistarne la fiducia. Greene è costretto poi a rivolgersi alla Peterson, chiedendole in prestito i suoi occhiali per vedere delle foto compromettenti di Michael nudo che il dottor Lawrence tiene chiuse a chiave nel cassetto della scrivania del suo studio e poi leggere un biglietto lasciato dal dottore e consegnato al ragazzo. Questi glielo rivela e lo consegna in due pezzi, prova della reale motivazione della scomparsa di Lawrence e che tragicamente disvelerà una verità altra, diversa da quella che appare all’inizio. Da un iniziale omicidio da parte del paziente del suo amante, per passare all’ipotesi di una fuga del dottore che ha rapporti sessuali con Michael, si arriva alla conferma improvvisa della fuga di Lawrence che risulta molto più semplice e banale. Ma quando Greene lo scoprirà sarà troppo tardi per lui, la Peterson e Michael. Il dottore non capisce perché non riesce a vedere la realtà che ha di fronte, mancando degli strumenti adatti alla comprensione di quello che è successo.
Michael dà degli indizi a Greene raccontando di una canzone francese che la madre gli cantava per insegnargli a contare: “Un elephante trompe, deux elephantes trompe…” (da cui il titolo della pellicola) che se da un lato appare uno simbolo inconscio tra la morte dell’elefante, a cui Michael ha assistito da bambino, e la rappresentazione della sua omosessualità (la proboscide dell’animale), dove “trompe” nella realtà non vuol dire “cadere”, ma “ingannare”, “prendere una cantonata”. E Greene non conosce il francese e non capisce che Michael, indirettamente, gli sta confessando l’inganno che ha messo in piedi per portare a termine il suo lucido e folle piano.


Il rischio di una simile sceneggiatura, in cui i dialoghi sono determinanti per la drammaturgia, era quello di trasformare il film in una semplice messa in scena di un’opera teatrale con la macchina da presa, trasformando “Elephant Song” in un kammerspiel fuori tempo massimo. Oltretutto, il regista canadese ha una vasta esperienza televisiva e il pericolo era assistere a un prodotto con un linguaggio distante dalle possibilità che il cinema può offrire. Al contrario, Binamé riesce a evitare tutto ciò, innanzitutto montando la storia in un lungo flashback e con brevi flashforward per tornare al presente del racconto; poi, inserendo un incipit dell’infanzia di Michael e altri flashback mentali dei ricordi di Michael della morte della madre e del complesso episodio in Africa, in una myse en abyme che rende profondo e articolato il tessuto narrativo dell’opera, dove i raccordi sono anche dovuti al montaggio sonoro (così il rumore del fan coil dello studio di Lawrence agganciano sempre il ricordo africano di Michael, come fattore scatenante della memoria del giovane paziente). Elementi di grammatica cinematografica di eleganza formale che rendono “Elephant Song” un film di una millimetrica precisione nella scoperta della verità tra le pieghe della realtà.
E su tutto dobbiamo citare la grandezza dei tre interpreti che riescono a fornire una prova attoriale di grande misura e intensità. Particolarmente colpisce la nervosa e camaleontica recitazione di Xavier Dolan, enfant prodige del cinema canadesa, già regista affermato nonostante la giovane età e autore di un capolavoro come “Mommy” (premiato al Festival di Cannes come miglior regia nel 2014), che dà un saggio delle doti di attore con vaste sfumature emotive.
Inedito in Italia, è meritevole l’operazione della Fondazione Cineteca Italiana di programmare “Elephant Song” presso la sala Alda Merini allo spazio Oberdan di Milano, permettendo ai fortunati spettatori di gustarsi un film che è un piccolo gioiello di messa in scena e di recitazione. E che consigliamo vivamente di non perdere.
Antonio Pettierre

“Elephant Song”, Fondazione Cineteca Italiana, Spazio Oberdan, Sala Alda Merini a Milano fino al 24 gennaio 2016  http://oberdan.cinetecamilano.it/eventi/elephant-song-anteprima/

LA FOTO DELLA SETTIMANA






















Ragione e sentimento di Ang Lee (Usa, 1995)

ASSOLO

Assolo
di Laura Morante
con Laura Morante, Piera Degli Espositi, Francesco Pannofino
Italia-Francia, 2015
genere, commedia
durata, 97'



Laura Morante invece è impavida nell'affrontare a testa alta un tema scomodo e apparentemente poco commerciale come i 50 anni delle donne che improvvisamente si sentono inutili, invisibili e inette. Diversamente da "Ci vuole un gran fisico", unica commedia italiana recente a mettere al centro una cinquantenne, il film della Morante rifiuta per la sua protagonista una rappresentazione grottesca: l'autrice si regala un autoritratto pieno di grazia e ironia, mai beffardo o crudele, poco incline ai patetismi e ai compiacimenti vittimisti. Il suo sguardo è gentile anche verso i personaggi maschili, fra cui spicca per irresistibile sgradevolezza Marco Giallini.
Laura Morante, alla seconda prova come regista e autrice, continua il percorso intrapreso con "Ciliegine", costruendo un'altra commedia più francese che italiana, più newyorkese che romana. Passando per i film della coppia Agnes Jaoui-Jean Pierre Barci e per le commedie di Woody Allen, Morante trova una sua cifra narrativa singolare fatta di malinconia, ritmo e leggerezza. È impossibile non voler bene alla sua Flavia, che attraversa il presente incespicando nei suoi errori passati e in qualche modo resta in piedi, che aspira ad uscire dal coro ma non osa l'assolo per paura di stonare.

Morante prende di petto anche il tema della morte, che sottende l'intera storia e riguarda quasi tutti i personaggi, e lo descrive in una sequenza onirica che attinge a Pina Bausch invece che a Fellini o all'ultimo Sorrentino. In una storia di maturazione la cui protagonista deve imparare a scegliere invece di aspettare di essere scelta, la morte è un punto di partenza, perché al suo cospetto il tempo stringe, le opzioni si riducono, e quelle che restano sono quelle che contano. E il tempo, anche se poco, può bastare, se lo si usa per guidare in avanti, anziché guardare all'infinito nello specchietto retrovisore.Flavia è una cinquantenne con due matrimoni alle spalle e due figli grandi che la trovano antica. Insicura e velleitaria, come si autodefinisce, è incapace di rendersi autonoma dagli ex mariti e dalle loro seconde mogli, che considera molto più determinate di lei. Per dare una svolta alla sua vita si rivolge a una psicologa cui racconta qualcosa di tutti meno che di se stessa. Riuscirà Flavia a mettersi alla guida della propria esistenza a prescindere dai suoi rapporti con gli uomini, dal suo complesso di inferiorità nei confronti delle donne, e dalla sua sessualità repressa?

Ne emerge un'antieroina che vorrebbe vivere a Paperopoli, un'eterna ragazza che chiama ancora "dischi" i cd, che trova l'autoerotismo ridicolo e che deve mettere ordine nella sequenza degli eventi che determineranno il resto del suo percorso. Al centro della storia c'è uno dei temi tabù della nostra epoca, la distinzione fra la solitudine come condizione di vita e la solitudine come percezione di sé: perché si può essere soli e non soffrirne, così come si può essere in due e sentirsi disperatamente soli.
Riccardo Supino