venerdì, marzo 26, 2021

Fuori orario cose (mai) viste presenta: una notte dedicata a Silvia Luzi e Luca Bellino

                                                    FUORI ORARIO COSE (MAI) VISTE

presenta

''OCCHI APERTI / SGUARDI SBARRATI''

una notte dedicata a Silvia Luzi e Luca Bellino

La storica trasmissione di Rai Tre dedica un'intera nottata al cinema dei registi, tra musica, realtà e finzione.

SABATO 27 MARZO / RAI 3



Il rapporto dialettico con il mondo al di là delle etichette di genere, il forte legame con il cantautore piemontese Gianmaria Testa scomparso nel 2016, la ribellione come punto centrale del racconto: Fuori Orario - Cose (mai) Viste dedica una nottata ai registi 
Silvia Luzi Luca Bellino.

L'appuntamento dal titolo evocativo ''Occhi Aperti / Sguardi Sbarrati'' si apre all'una e trenta circa con il videoclip di Povero Tempo Nostro, singolo postumo del cantautore piemontese Gianmaria Testa, realizzato da Luzi e Bellino lungo il cimitero delle barche alla foce del fiume Tevere, dove in un'atmosfera apocalittica lo sguardo di una bambina ci accompagna in un simbolico viaggio attraverso il nostro mondo e le sue miserie.

A seguire sarà la volta de Il Cratere, primo lungometraggio di finzione della coppia di autori. Presentato alla Mostra del Cinema di Venezia nel 2017, Il Cratere è una storia di sogni e ribellione raccontata attraverso un padre che vede nella voce della figlia adolescente un'arma per un impossibile riscatto sociale. Accolto con successo da pubblico e critica, Il Cratere ha ricevuto numerosi riconoscimenti tra cui il Grand Prix al Tokio International Film Festival, il premio più importante ottenuto da un film italiano in Asia.





In chiusura di nottata Fuori Orario propone una conversazione con Silvia Luzi e Luca Bellino a cura di Fulvio Baglivi, ripercorrendo i loro lavori e il filo rosso della rivolta a partire dal pluripremiato documentario Dell'Arte della Guerra che nel 2012 ha raccontato la lotta degli operai della ex Innocenti di Milano.

Il rapporto dialettico con il mondo che di volta in volta Luzi e Bellino provano a mettere in scena superando i limiti e le etichette di realtà e finzione sarà il centro dell'incontro con i due autori, che hanno fatto dell'indipendenza una scelta sia artistica sia produttiva.

Sabato 27 marzo – Rai 3 dalle 1:30.

''OCCHI APERTI / SGUARDI SBARRATI'' - Fuori Orario cose (mai) viste è a cura di Ghezzi, Baglivi, Di Pace, Esposito, Fina, Francia, Fumarola, Giorgini, Luciani, Melani, Turigliatto.


lunedì, marzo 22, 2021

SOUND OF METAL

Sound of metal

di Darius Marder

con Riz Ahmed, Olivia Cooke, Paul Raci

USA, 2019

genere: drammatico

durata: 120’

Un’immersione completa e totale. Ecco come descrivere “Sound of metal”, forte debutto alla regia di Darius Marder.

Ruben è un musicista e più precisamente un batterista che, con la propria fidanzata, gira il mondo “in sella” a un camper che è la loro casa. Impegnati in un tour che li vede protagonisti, lui alla batteria e lei alla voce, la coppia cerca di andare avanti in questo modo. Purtroppo, però, un giorno improvvisamente, nel bel mezzo di una serata, Ruben inizia ad avere problemi d’udito. Senza parlarne con nessuno, si reca da un medico che non può far altro che constatare la perdita di udito del proprio paziente. Solo una piccola percentuale, destinata, nel giro di pochissimo tempo, ad azzerarsi completamente, è quella rimasta a Ruben. Un’ipotetica soluzione potrebbe essere quella di procedere con un’operazione, ma, oltre al costo molto elevato, non porterebbe comunque a riacquisire l’udito ormai perduto. Per aiutarlo la fidanzata Lou lo affida alle “cure” di Joe, anch’egli sordo, che si occupa di persone come Ruben. Persone, però, che ritengono comunque che la mancanza di udito non sia un difetto o una cosa da migliorare, ma un “punto di forza” al quale aggrapparsi per vedere la realtà da un altro punto di vista. E proprio questa sarà una chiave importante per Ruben che, anche se a malincuore, accetterà di farsi aiutare, ma anche per lo spettatore che proverà, seppur solamente per le due ore della durata del film, ad immedesimarsi nei personaggi. La bravura di Marder, infatti, risiede proprio in questo. La scelta, in determinati passaggi, di annullare completamente il suono per permettere di farci percepire la realtà così come si trova a percepirla Ruben, è geniale. Il completo annullamento e straniamento dalla realtà che tanto angoscia il protagonista, portandolo a compiere scelte spesso avventate, lo si può comprendere a pieno solamente se si capisce la situazione che lui stesso vive.

Sono tanti i primi piani che mostrano non solo il batterista, ma anche gli altri personaggi, nel tentativo di comunicare comunque in qualche modo, che sia inizialmente la forma scritta, che sia poi la lettura del labiale arrivando alla lingua dei segni. I numerosi primi piani servono proprio a sottolineare la forza degli sguardi che sorreggono il tutto. Sguardi che si trovano costretti a vivere una vita per certi aspetti “diversa”, per svariati motivi. Ma anche, cinematograficamente parlando, sguardi che talvolta bucano lo schermo e che sono in grado di dire ancora più delle parole stesse.

Naturalmente da sottolineare, anche in funzione di quest’ultima analisi, la prova attoriale di Riz Ahmed, sul quale il regista fa praticamente totale affidamento e che riesce a fare ben comprendere i vincoli e le “privazioni” ai quali è costretto. La musica, che è sempre stata tutto per lui, diventa indirettamente la sua nemica. Prova, all’inizio, a lottare con tutte le sue forze per cercare di andare comunque avanti in qualche modo, ma si rende subito conto di non esserne in grado. Quello che era stato il suo habitat e il suo mondo si ribalta all’improvviso e gli crolla addosso. Tutto si complica e si ritrova senza nessuna certezza. Ed è interessante riflettere su questo aspetto che pone diversi interrogativi. Perché non va fatto l’errore di pensare che “Sound of metal” sia soltanto un film sulla musica e/o sulla perdita dell’udito e su una sorta di processo di accompagnamento volto all’accettazione di ciò. Il film è in realtà una riflessione ben più ampia. Si va dai rapporti interpersonali, all’accettazione di sé, alla ricerca del proprio futuro e della propria strada. Anche se non ci viene detto praticamente niente a proposito del passato di Ruben o di quello della fidanzata, si può dedurre che il loro viaggio è stato duro e tosto e che lui non ha, proprio per questo, nessuna intenzione di mollare.

Sono tanti gli insegnamenti che si possono cogliere dalla visione di questo film, dagli atteggiamenti ad alcune intense frasi che smuovono gli animi dei personaggi e non solo. E a chiusura di tutto Marder regala una scena finale veramente da brividi che, oltre a fare da contraltare alla narrazione, compensa con la forse, a tratti, eccessiva durata.

Ultimo elemento da segnalare è la scelta del titolo. Un titolo con una doppia chiave di lettura, probabilmente intraducibile in qualsiasi altra maniera, che, a visione ultimata, strizza l’occhio allo spettatore.

La speranza è, quindi, quella che il film, fresco di diverse candidature, riesca a portarsi a casa almeno una statuetta ai prossimi Oscar.


Veronica Ranocchi

Cinemarmocchi. Un crowdfunding per aprire la prima sala cinematografica a misura di bambino a Milano



CineMarmocchi
Un crowdfunding per aprire la prima sala cinematografica
a misura di bambino a Milano, nel quartiere Giambellino


La raccolta fondi sarà online dal 28 gennaio sulla piattaforma
Produzioni dal Basso



Milano, 27 gennaio – L’associazione culturale Project W con Wanted Cinema, la celebre distribuzione cinematografica milanese capitanata da Anastasia Plazzotta, da sempre portavoce di un cinema ricercato e fuori dagli schemi, proprio ora che le sale sono chiuse e la cultura è completamente bandita e messa da parte, non si è lasciata scoraggiare, e andando contro corrente ha deciso di lanciare un nuovo progetto grazie al crowdfunding civico promosso dal Comune di Milano, che mira a finanziare la realizzazione di un nuovo progetto: il CineMarmocchi.

Dopo la significativa esperienza con il Wanted Clan in zona Porta Romana, cineclub e quartier generale della distribuzione cinematografica, che ha preso vita quattro anni fa anche grazie alle donazioni dei cittadini milanesi, sempre attraverso un crowdfunding civico, Wanted Cinema e l’associazione culturale Project W puntano alla realizzazione di un nuovo e ambizioso spazio, quello dei CineMarmocchi, ovvero il primo e unico cinema a Milano pensato e dedicato ai bambini, che sarà realizzato in uno dei quartieri più vibranti e multiculturali della città, ma oggi particolarmente colpito dall’emergenza Covid, quello di Giambellino, all’interno del Parco delle Crocerossine. Il progetto è patrocinato dal Municipio 6 del Comune di Milano e della Fondazione Ente dello Spettacolo

Un cinema a misura di bambino, costruito “alla Montessori”, che punterà sull’importanza dell’aggregazione, della socialità, della integrazione e non per ultimo sull’educazione al linguaggio cinematografico. Un luogo dove la programmazione dei film prenderà spunto dalla multiculturalità che contraddistingue il quartiere e proporrà titoli inediti e in lingua originale con sottotitoli, coinvolgendo attivamente la comunità con incontri e i dibattiti insieme a ospiti, registi e autori. La programmazione cinematografica sarà inoltre affiancata da attività collaterali, come mostre concerti, letture alle attività ludiche e all’aria aperta.

Tra le personalità contattate e che hanno subito aderito al progetto menzioniamo gli scrittori Roberto Saviano e Sandro Veronesi e il critico cinematografico Gianni Canova. Entrambi dialogheranno con un piccolo gruppo di donatori su zoom in una situazione conviviale di fronte a un calice di vino.  Inoltre, tra le tante altre ricompense, anche alcuni incontri riservati a pochi donatori, con distributori, registi e produttori. Uno di loro sarà Carlo Cresto-Dina. Sarà poi possibile scegliere la Bibbia di tutti i cinefili, “Il Mereghetti”, con dedica dell’autore.
Inoltre, tra i numerosi eventi a sostegno dell’iniziativa sono previste delle anteprime esclusive dei titoli più attesi targati Wanted Cinema, come l’imperdibile “The Man Who Sold his Skin”, presentato all’ultimo Festival di Venezia, “Sull’Infinitezza” del regista Roy Andersonn premiato con il Leone d’Argento e l’attesissimo “Corpus Christi”.

La raccolta fondi, che sarà attiva dal 28 gennaio sulla piattaforma del crowdfunding civico del Comune di Milano sul sito Produzioni dal Basso, sarà destinata in un primo momento a realizzare una rassegna cinematografica all’aperto nei mesi estivi del 2021 e dedicata ai più piccoli, che si svolgerà sempre all’interno del Parco delle Crocerossine e a seguire all’acquisto della struttura che ospiterà la vera e proprio sala cinematografica, che entrerà in funzione il prossimo autunno. 

La situazione attuale è estremamente difficile e, nonostante ciò – ha spiegato Anastasia Plazzotta, Ceo di Wanted Cinema - abbiamo deciso di imbarcarci in questa follia spinti dal nostro amore per il cinema e dalla convinzione che avremo un futuro solo se la cultura tornerà a occupare un posto privilegiato nella vita di tutti i giorni. Solo la nostra passione e l’amore per la settima arte ci ha dato la forza di proporre un progetto così ambizioso, ora che le sale sono chiuse e che non ci possiamo nemmeno incontrare. Ma è proprio perché siamo sicuri dell’importanza della condivisione per salvarci dall'isolamento culturale, che abbiamo avuto la forza di proporre questo progetto. Da soli non ce la possiamo fare. Goccia dopo goccia, l’aiuto di ciascuno ha il potere di far nascere un nuovo cinema a Milano!

Per saperne di più sul progetto e per scoprire tutte le ricompense, oltre quelle già sopra manzionate: www.produzionidalbasso.com/project/cinemarmocchi-il-primo-cinema-per-bambini-di-milano/

domenica, marzo 21, 2021

Invisibili: Panty & Stocking with Garterbelt

Panty & Stocking with Garterbelt

di: Imaishi Hiroyuki

animazione

Stag I, ep. I/XIII

durata media: 23' ca./ep

- Giappone 2010 -


Ci sono quelli che comprendono

e quelli che non comprendono

-- Guy Debord --


Magari - per una volta la statistica mostrandosi clemente - a conti fatti risulterà non così campata in aria l’eventualità per cui qualcuno di noi, grattando bene gli angoli incrostati della memoria, finisca per scoprire di avere conosciuto o, quanto meno, di avere frequentato, un geniaccio abbastanza svitato da non voler rinunciare a determinati estri personali (in specie quelli sgangherati e inclini a generare capricci iperbolici e cortocircuiti sorprendenti) partoriti da una immaginazione gioiosamente bislacca, per barattarli, mettiamo, con la (santa) stabilità e il (sempre sia lodato) quieto vivere. Ebbene, in quel caso - fortunato caso - si potrebbe affermare di essersi trovati di fronte a un tipo come Imaishi Hiroyuki, uno pronto a squadernarti sotto il naso le tavole/estremizzazioni animate di una fulminante serie costituita da tredici episodi della durata media di circa ventitré minuti, al loro interno divisi in due segmenti di più o meno dodici minuti ciascuno, ossia “Panty & Stocking with Garterbelt”.



Su un pianeta Terra agglutinato attorno a una sua stramba sineddoche a nome Daten City - non per nulla, “città piena di amore e desideri”, come recita a mo’ di esergo quasi ogni incipit - sorta di avamposto in eterno bilico tra gli Inferi e il Paradiso, vengono inviati due Angeli in forma di effervescenti sorelle ragazzine - Panty (detta Anarchy Panty), bionda, occhicerula, scansafatiche, intercalare da carrettiere, perennemente infoiata, i cui slip all’occorrenza si trasformano in una pistola celeste chiamata Backless, e Stocking (detta Anarchy Stocking), gothic lolita, una campana di capelli nero-fucsia a bardarle la testa, occhi verdi, leziosa, precisina, divoratrice compulsiva di dolci, le di lei parigine, una volta smesse, capaci di diventare due spade magiche, Stripes I e II - con la missione, sempre più a stento mediata, controllata, indirizzata dal nerboruto parroco afro Garterbelt - in tunica bianca con grosse croci rosse di ordinanza alle estremità sotto la quale occhieggiano infine calze a rete e giarrettiere a dissimulare sfiziose allusioni cripto-sodomite con nuance sadomaso, acconciatura globulare simil anni ’70 e fare quasi sempre aggressivo-intimidatorio vista la sufficienza sarcastica con cui le due pesti se lo rimpallano (“afro di merda”, lo rimbrottano a ripetizione) - di liberare la cittadinanza - e, quindi, per estensione, l’Umanità intera - dalla presenza molesta di Fantasmi/Ghosts, esseri ributtanti di ogni foggia e dimensione (nonché odore…) scatenati dalle forze del Male capitanate dal perfido Sindaco Corset con la collaborazione di due demoniache servitrici - antagoniste speculari di Panty e Stocking - ovvero Scanty e Kneesocks, e così riguadagnare, grazie a crediti monetari via via accumulati dopo ogni eliminazione portata a termine, l’accesso ai Cieli, tra inseguimenti (le Nostre hanno in dotazione una sorta di humvee rosa ribattezzato See Through), scazzottate, duelli all’ultimo sangue, monumentali devastazioni, parentesi sexy, abbondanti mangiate, rampogne ammonitrici, scampoli di fanatismo idol e languidi rifiati di puro tedio adolescenziale durante i quali massacrare a piacimento, indulgendo nelle pratiche più perverse e brutali - da reiterare almeno un paio di volte a episodio - il curioso animaletto di casa (la chiesetta del burbero Garterbelt), Chuck, mezzo quattro zampe, mezzo volatile, in realtà chissà che, comunque poi e ogni volta in grado di risorgere dai propri stessi poveri resti.

Messa così la faccenda, parrebbe di aggirarsi dalle parti di un’ennesima presa per i fondelli di calco nerd. Il che non implicherebbe nulla di male, beninteso e, a guardar bene, nel caso non sarebbe nemmeno per forza da escludere. Anzi, tale intento viene persino dichiarato per esteso all’interno dello svolgersi delle vicende (intro ep. II), ribadito dalla presenza di Brief, ragazzino imbranato e gentile, il cuore in pena per la sempre volubile Panty che, dapprincipio e per lo più, lo sfotte e lo vessa (l’epiteto più ammodo che gli affibbia è “nerd senza palle”), e certificato dall’autoironica casa di produzione - il celebre Studio Gainax (Nadia, Il mistero della pietra azzurra; Neon Genesis Evangelion, et.) - che in calce a ogni avventura non esita a far accompagnare la propria ragione sociale dal termine geek. E’ pure vero, però, cercando in ogni caso di arginare la pigrizia mentale che assedia oramai da eoni l’uomo-medio-occidentale-contemporaneo vezzeggiandone l’illusione di vivere sul serio a riparo tra le quattro mura dei suoi vizi e dei suoi pregiudizi, che un aspetto che salta agli occhi e su cui è il caso di mettere da subito l’accento è lo sforzo comune che anima tanto il tono di questo “Panty & Stocking…” - aperto, ingenuamente dissacratorio, ribaldo e a suo modo irrequieto - quanto le implicazioni contenutistiche - bassoventrali, anarcoidi, a volte confuse eppure come di slancio insofferenti alla resa alla nostra attuale condizione di ospedalizzati mentali permanenti - che lo percorrono in una scapestrata e divertita rincorsa al ribasso (ossia alla desertificazione voluta di qualunque istanza che tenti di frapporsi tra la monotonia del mondo organizzato e il desiderio puerile di farne strame in ossequio alle spinte che una volta avrebbero chiamato in causa la fase anale di freudiana memoria. Traslando: feci e peti per l’appunto punteggiano spesso di marrone scene e dialoghi; nel primo episodio Daten City viene né più né meno che ricoperta di letame), pronta a maneggiare archetipi primi - il Bene e il Male su tutti - senza ipocrisia reverenziale o, peggio, sottintesi edificanti o moralistici (Panty e Stocking assolvono al compito di salvatori ultraterreni più perché tale circostanza assicura loro vantaggi immediati, cioè concreti - Panty, in particolare, ciò che persegue con sincero trasporto è l’idea “gloriosa” di scoparsi mille uomini prima di fare ritorno in Paradiso - lusingandone di concerto la vanità, che per una deliberata convinzione escatologica; lo stesso Garterbelt si rivolge a Dio avvertendolo che non intende essere “preso per il culo” da Lui nell’esecuzione del proprio ufficio), ossia senza concedere ai suddetti archetipi il credito illimitato che si riconosce ai princìpi ridotti a stereotipi. E tacendo - solo per non sprecarci troppe parole - sul Sesso, vissuto sia dalla insaziabile Panty, sia dalla più morigerata Stocking, per quello che dovrebbe davvero essere (e quindi essere messo-in-scena): un gioco delle parti che ha come scopo il piacere (Garterbelt: “Sembra proprio che il Paradiso sia molto contrariato dal tuo comportamento da puttana”. Panty: “Sono incazzatissima. Fanculo. Che c’è di male a essere una troia ?!”). O, ancora, sul Linguaggio, come visto, spiccio e fieramente scurrile: non si contano, invero, le manciate di turpiloquio che le due adorabili guastatrici riversano sui propri malcapitati interlocutori o si scambiano l’una con l’altra. Si va dal “coglione” al “deficiente” alla “testa di cazzo”; e così dalla “vacca” alla “troia”, dalla “succhiacazzi” alla “ritardata”.


Tutto questo armamentario teorico, d’altro canto, potrebbe risultare ozioso o non rappresentare un autentico scarto se non fosse altresì e con audacia posto in stretta comunicazione con una progressione drammaturgica e un apparato visuale allo stesso tempo ricorrenti e centripeti, nel senso di uno schema narrativo di base orizzontale - stasi preliminare/individuazione del nemico/strategia di combattimento/eliminazione - che si ripete con costanza legando gli episodi alla stregua degli anelli di una catena ma scongiura (o, se vogliamo, maschera) la propria esilità/prevedibilità per il tramite di una accelerazione forsennata impressa al moto di pressoché ogni elemento appartenente all’inquadratura: figure umane, animali, palazzi, mezzi di locomozione, unità del paesaggio, semplici oggetti, i rumori stessi, infatti, partecipano contemporaneamente della medesima incontenibile schizofrenia (dinamica e di tratto: spezzettata/continuo; impalpabile/ingrossato; sottotraccia/vivido, et.), di una sorta di eclettismo epilettico che senza sosta e alla lettera rimette istante per istante il singolo aspetto in gioco, in una sarabanda che si alimenta, sul basso intermittente di una qual sfuggente voluttà annientatrice, di un irrefrenabile cupio dissolvi le cui sparute tregue altro non sono che intervalli di rifiato utili a innescare un nuovo abbrivio e al cui interno però si agitano, liberi e impertinenti, i segni di una imprevedibile istanza di rigenerazione. In altre parole: la centrifuga/frullatore messa in moto da Imaishi con “Panty & Stocking…”, non molto dissimile, come ingranaggio, da quella all’opera in un altro suo spassosissimo delirio, “Dead leaves”, del 2004, non fermandosi mai distrugge man mano che avanza il terreno su cui si sposta ma è su questa stessa distruzione che poggia le basi per protrarre la propria oltranza. Risulta evidente di conseguenza che, quantomeno, una logica del genere abbisogni di un sistematico avvicendarsi di frizioni e di trovate per rendere sostenibile questo che è l’azzardo più rischioso perché fondato essenzialmente sul rilancio. E in “Panty & Stocking…” invenzioni e colpi di mano non mancano; addirittura se ne contano fin troppi col rischio, nello scapicollo inesausto di un bulimico carnevale cromatico-sensoriale, di smarrirne qualcuno, sminuzzato e travolto con allegro sprezzo da un parossismo che non intende conoscere misura. Del resto e a rifletterci, l’assunto stesso, di per sé abbastanza cretino - Panty, Stocking e Garterbelt, approssimando, Mutande, Calze e Reggicalze - ben si presta a una manipolazione potenzialmente infinita, a una, con ogni probabilità, inesauribile copia di allusioni e sberleffi, come pure a una suggestione che evoca uno specifico gusto tutto nipponico per il demenzial-feticistico, qualcosa, cioè, che alligna storicamente negli anfratti più riposti dell’inconscio di un paese che ha fatto del rispetto delle tradizioni, della ritualizzazione degli atteggiamenti e delle abitudini, nonché della compartimentazione sociale, tre dei pilastri su cui ha edificato gran parte della consapevolezza della propria singolarità, e che arriva a incrociare, in ragione di una corrispondenza estetica nemmeno così spuria, taluni andanti tipici della pornografia nazionale - feticismo, come detto, ma pure voyeurismo, umiliazione, pratiche sado-maso, et. - qui ovviamente restituiti attraverso una rilettura filtrata di ispirazione ludico-grottesca ma non ipocrita nello scimmiottarne situazioni e ammiccamenti, del resto già a fondo codificati nel lessico e nella mentalità condivisa a quelle latitudini (vd., per dire, l’editoria e la cinematografia che ruotano intorno a concetti e a generi come l’ecchi, il pantsu, il pinku eiga). Non meno significativo a riguardo, dal momento che sessualità e pornografia, a maggior ragione in un contesto, quello capitalistico, come si sa progettato e tarato su direttrici di esclusivo stampo materialista, vengono sempre declinate assecondando un’ottica che privilegia la mercificazione del corpo femminile (la pornografia semplicemente non esisterebbe senza il corpo femminile), ossia e tra l’altro la subordinazione delle scelte e dei desideri di coloro che di quei corpi sono titolari, si prospetta inoltre il taglio psicologico e quindi attitudinale imposto da Imaishi alle sue due incontenibili eroine, latrici di una femminilità schietta, magari ruspante ma ben conscia di sé, della propria unicità, di quella trappola dei ruoli a suo tempo circoscritta da una personalità del calibro di Anaïs Nin (“Il più grande errore per una donna è aspettarsi che l’uomo costruisca il mondo che essa desidera, invece di crearselo da sola” che, calato nel nostro microuniverso alternativo, si tramuta nel molto più tranchant: “Una donna deve essere libera come un usignolo… Schiaccerò chiunque mi si pari davanti. Io sono l’angelo troia Panty e faccio quello che cazzo mi pare !”), quindi in grado di fare a meno tanto di vessilli rivendicativi quanto di lagne vittimistiche dal momento che, all’occorrenza, il maschio di turno, qualunque esso sia e senza tenere conto della auctoritas che ricopre o presume di detenere, viene messo in riga o, molto più sbrigativamente, preso a calci e a sganassoni, smarmellato sulle pareti o sull’asfalto o, ancora, spremuto come blando succedaneo sessuale.


A riprova di una libertà espressiva che non teme l’inciampo buffonesco, il panico formalistico dell’abbozzo o del non-finito, come pure la sopraccigliosità degli ortodossi del buon gusto, e che trascina con sé senza troppe ubbie temi e volti di una buona fetta del Cinema e della cultura pop  recente - da Star Wars ai Transformers, dagli zombi di Romero al Tom Cruise di “Magnolia” passando per “Ritorno al futuro”, “Pulp Fiction”, “Fight Club”, “L.A. confidential” “Sex and the City”, le copertine di album dei Pink Floyd, dei Nirvana, dei King Crimson, fino a caricaturare anche “C’era una volta in America” - Imaishi affronta l’oceano di detriti a cui si è ridotta un’intera Civiltà, ovvero ciò che Daniele Luttazzi con un occhio a Debord chiama il “Blocco politico-militare-finanziario-giornalistico-spettacolare impegnato quotidianamente a produrre consenso ai rapporti sociali e di potere dominanti” come se, aggiunge Debord stesso, “la dissoluzione di questo sistema fosse questione di opinioni”, convogliandone, per mezzo di matite irriverenti dissimulate sotto le soavi fattezze acerbe di due angeli sfacciati, i lacerti ancora, nonostante tutto, più vistosi - Dio e Satana, la vita e la morte, il denaro e il sesso, la società e l’individuo, la produzione e il consumo - verso un ugual destino, vale a dire il gorgo di un colossale scarico contemplato con gli occhi maramaldi di un adolescente beffardo ma un tanto scoglionato. Esito che non avrebbe implicato lo stesso contraccolpo visivo se non si fosse sostanziato a partire da un disegno di preferenza sì infantile - taglie piccole o, per contro, abnormi; proporzioni sfalsate; colori squillanti; agire che sfida la gravità, et. - ma non ad alto tasso glicemico - lineamenti iper-aggraziati per incarnati efebici; prevalenza delle sfumature pastello; movenze di norma eleganti o stilizzate, et. - quindi incline alla deformazione stravagante (le complessioni, gli abiti, gli edifici, gli arredamenti, le strade, et.) rese indimenticabili già da Avery, al dettaglio eccentrico o fuori posto, marcato di nero compatto nei contorni e nei profili squadrati e appuntiti e dalle tinte accese nelle campiture degli sfondi, quanto vieppiù esaltato al momento di coagularsi in pose e gesti scoordinati o ginnico-futuristi, in acrobazie spericolate durante le quali il tratteggio si allunga e si flette in un elastico grafico a cui concorrono i caratteri cubitali associati agli urti o agli schianti degli oggetti come ai più disparati borborigmi corporali, seminando a ogni fotogramma il dubbio per cui la grande mobilitazione della modernità calerà suo malgrado il proprio sipario su uno sghignazzo ebete, un abbiocco improvviso e una scoréggia, con buona pace, ad esempio, del povero Eliot che, pur tra tante disillusioni, aveva tentato di restituirle un po’ di quel senso del tragico (“E’ questo il modo in cui il mondo finisce/Non già con uno schianto ma con un piagnisteo” - The hollow men, 1925 -) che, al contrario, abbiamo, pian piano e senza opporre soverchia resistenza, dissipato, come, più o meno, tutto il resto. Amen. 

TFK

La foto della settimana

 


                             Un 32 août sur terre di Denis Villeneuve (Canada, 1988)

Alice nella città 2021






Si aprono venerdì 19 marzo, le iscrizioni al Concorso Lungometraggi e al Concorso Cortometraggi alla XIX edizione di Alice nella città, la sezione autonoma e parallela della Festa del Cinema di Roma. La sezione è  dedicata agli esordi, al talento e alle nuove generazioni ed é diretta da Fabia Bettini e Gianluca Giannelli.

Sarà in programma dal 14 al 24 ottobre 2021 a Roma presso l’Auditorium Parco della Musica e in altri luoghi della città.


Lo scorso anno sono stati iscritti oltre 2000 titoli, tra lungometraggi e cortometraggi, provenienti da tutto il mondo. 115 sono state le proiezioni in programma tra il distretto dell’Auditorium e quello dell’Eur all’interno dello spazio della Nuvola allestito per la prima volta a sala cinematografica.

Per essere ammessi alla selezione le opere dovranno essere iscritte attraverso la piattaforma Filmfreeway, rispettivamente entro e non oltre lunedì 2 agosto per i lungometraggi ed entro e non oltre lunedì 26 luglio per i cortometraggi. Saranno presi in considerazione per la selezione esclusivamente i lungometraggi terminati non prima dell’1 dicembre 2020 e i corti, di durata non superiore a 40 minuti (titoli inclusi). Tutti realizzati non prima del 5 novembre 2020 e in entrambi i casi verrà data priorità ai film in anteprima mondiale o internazionale.

Alice nella città

A presiedere la giuria della sezione cortometraggi sarà quest’anno l’attrice Piera Degli Esposti.

Avere una grande signora del cinema assieme a noi quest’ anno è una grande gioia” dichiara Fabia Bettini. “Poterla mettere a contatto con il lavoro di giovani e giovanissimi ci è sembrato un grande regalo e rende perfettamente l’idea di quello che è diventato negli anni l’ecosistema Alice.  Non solo un Festival ma un luogo di scoperta dei nuovi talenti” conclude Gianluca Giannelli.

Alice nella città 2021

Alice nella Città rinnova inoltre per il sesto anno consecutivo la sua partnership con la European Film Academy per l’EFA Young Audience AWARD. Apre la call per partecipare alla giuria a 50 giovani di Roma e del Lazio di età tra i 12 e i 14 anni. La giuria sarà composta da ragazzi provenienti da 32 Paesi europei e i vincitori saranno annunciati il prossimo 25 aprile nel corso di una cerimonia trasmessa in live streaming dalla Germania. Per aderire si dovrà scaricare il modulo sul sito www.alicenellacitta.com e sui social di Alice nella Città e rimandarlo entro il 10 aprile alla mail segreteriaalice@gmail.com.

Il riconoscimento verrà assegnato a uno tra i tre film candidati quest’anno.

Pinocchio di Matteo Garrone (Italia/France), The Crossing (“Flukten Over Grensen”) di Johanne Helgeland (Norvegia) e il film d’animazione Wolfwalkers di Tomm Moore & Ross Stewart (Irlanda/Lussemburgo). A causa dell’emergenza pandemica, le proiezioni e le votazioni saranno online sulla piattaforma EFA, dal 21 al 24 aprile.

Alice nella città partner premi europei

Alice nella Città è tra i partner italiani dei premi europei. Insieme a loro la Fondazione Culturale Niels Stensen di Firenze e al Museo Nazionale del Cinema di Torino. Si occupa dei giurati di Roma e del Lazio e del loro coinvolgimento in diverse attività educational sul proprio sito e sui propri canali social.

Tra queste un incontro live  con  il regista Carlo Sironi, vincitore con il film  Sole del premio per la migliore rivelazione europea agli EFA 2020  e una serie di approfondimenti  curati da Fabia Bettini e Gianluca Giannelli. Ad esempio la masterclass dedicata a “Pinocchio” realizzata nel mese di febbraio insieme al costumista Massimo Cantini Parrini. Parrini è candidato agli Oscar 2021 e   agli interpreti Rocco Papaleo e Maurizio Lomba.

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giovedì, marzo 18, 2021

PROMISING YOUNG WOMAN

Promising young woman

di Emerald Fennell

con Carey Mulligan, Bo Burnham, Alison Brie

USA, 2020

genere: thriller, commedia

durata: 113’

E come dice il titolo stesso, si tratta proprio di una promettente giovane donna. Anzi di due: l’attrice Carey Mulligan (fresca di candidatura ai premi Oscar) e la regista Emerald Fennell.

“Promising young woman” è riuscito, con merito, a portarsi a casa diverse candidature, nella speranza che si trasformino poi in qualcosa di concreto.

La sceneggiatura originale di questo film pone al centro di tutto la figura e la visione femminile del mondo. Carey Mulligan è la trentenne Cassandra (per gli amici Cassie) che durante il giorno conduce una vita apparentemente normale, ma che si trasforma completamente la sera o in alcune “occasioni particolari” e sempre orchestrate ad hoc dalla stessa.

Vive ancora con i genitori e lavora in una caffetteria. Quasi tutte le notti è fuori casa. Con una visione tutta sua del mondo, Cassie cerca solo di “far luce” su un evento più grande di lei che non vuole dimenticare e soprattutto non vuol fare dimenticare ai veri responsabili. Tutto il suo modo di fare e il suo comportamento ruotano attorno alla “presenza” di Nina Fisher della quale lo spettatore scopre sempre più informazioni con il susseguirsi della narrazione. Anche se, fin dall’inizio, è abbastanza intuibile il fulcro della storia, il pubblico è comunque incuriosito dal modo in cui il tutto viene mostrato e dal comportamento, quasi sempre inaspettato e imprevedibile della protagonista.

Uno dei punti di forza, indubbio, dell’intero film è la costruzione: una divisione in “capitoli” che sembra prendere per mano lo spettatore invitandolo a entrare nel meccanismo della storia e tentare di comprendere lo sviluppo, salvo poi cambiare “improvvisamente” direzione.

Anche se, per certi versi, prevedibile come linea generale, si resta ogni volta spiazzati di fronte alle macchinazioni e decisioni di Cassie. Cinismo e spietatezza sono i due sostantivi con cui descrivere la giovane protagonista, ma anche il film in generale.

Fin dalla prima inquadratura “Promising young woman” pone l’accento sullo sviluppo del personaggio principale in grado di oscurare, letteralmente, chiunque altro. Cassie è disposta a tutto pur di farsi valere e di far valere le proprie ragioni. Gli altri personaggi che hanno a che fare con lei vengono volutamente sviluppati a sufficienza, fatta eccezione per quelli direttamente coinvolti nell’avvenimento chiave del film.

Con il film di Emerald Fennell è come se si guardasse la realtà in maniera diversa rispetto al solito. Come filtrata esclusivamente da un occhio femminile (quello dell’attrice e quello della regista), particolarmente evidente nelle scene iniziali e nel tentativo di Cassie di “(ri)mettere in scena” il fatidico evento.

Elemento interessante che meriterebbe una riflessione attenta e precisa è quello della scelta degli ambienti e dei colori, mai lasciati al caso. Oltre alla netta distinzione tra i momenti “notturni” e quelli giornalieri, ci sono anche differenze evidenti che coincidono con le azioni e le scelte della protagonista. Un esempio su tutti è l’avvicinamento con Ryan, durante il quale lei è davanti a un muro bianco con una sola decorazione azzurra che la “circonda”. Ma anche sulla scelta degli abiti si riflettono i comportamenti della giovane.

Una riflessione amara sulla contemporaneità, nemmeno troppo distante da noi.

La Fennell dietro la macchina da presa e la Mulligan sullo schermo cercano di dare la propria versione dei fatti.

Probabilmente una visione che potrebbe suscitare pareri “discordanti” in base al pubblico che ci si approccia e alla sensibilità dello stesso.

L’impronta femminile è sicuramente rilevante ed è in grado di imporsi e far riflettere tutto il pubblico, ma pone il suo accento su aspetti sempre più attuali e sempre più preponderanti.

Lo scontro con gli altri titoli e le altre interpreti in corsa è tosto, ma “Promising young woman” ha tutte le carte in regola per dire la propria.


Veronica Ranocchi

domenica, marzo 14, 2021

Berlinale 2021. Per Lucio

Per Lucio

di Pietro Marcello

Italia, 2021

genere, documentario

durata, 79'



Per Lucio si nutre della stessa irrequietezza presente nei precedenti lavori di Pietro Marcello e come quelli di un viaggio intimo e sentimentale attraverso il tempo e lo spazio all’interno del quale è dolce naufragare.

In Per Lucio le immagini dei fiori poggiati sulla tomba di Lucio Dalla e su quella del suo paroliere Roberto Roversi rappresentano qualcosa di più di un semplice omaggio da parte chi – Tobia, manager del cantautore bolognese – li ha conosciuti entrambi. La commemorazione dell’artista da parte dell’amico e’ fin dall’inizio lo snodo attraverso il quale passare per intercettare la nuova avventura di Pietro Marcello, la sesta in ordine di tempo in una filmografia che ogni volta rende sempre meno appropriata la distinzione tra finzione e documentario.

Che si  tratti di una condizione fisica  o di uno stato dell’anima il cinema di Pietro Marcello da sempre mette in scena uomini, cose e  paesaggi rimossi dall’immaginario nostrano e finiti ai margini del discorso contemporaneo.

Fuori quadro per cause naturali come capita a Tommaso Cestrone, l’angelo di Carditello, in Bella e perduta e per l’appunto a Lucio Dalla, colti da morte senza alcun preavviso, quand’anche  costretti ad esserlo perché’ refrattari al sistema, e qui non si può fare a meno di ripensare all’Enzo e Mary de La Bocca del Lupo, e l’Arturo de Il passaggio della linea, dei suoi personaggi, Marcello fa il punto d’incontro (o di scontro, nel caso di Martin Eden) tra l’essere e il non essere, tra la vita e la morte, in una ribalta che li pone sempre in dialettica con il  proprio periodo e con il paesaggio d’elezione.

Essendo Lucio Dalla nato a Bologna nel 1943, dunque nel pieno   del secondo conflitto mondiale, non é un caso che a dare sostanza alle sue parole e alle sue canzoni sia un abbecedario visivo aperto dai volti di giovinezze spezzate dalla guerra e da donne innamorare, pronte ad abbracciare i propri uomini di ritorno dal fronte.

In una progressione di fotogrammi in grado di accogliere una parte significativa di storia italiana, attraversando cesure storiche decisive per il nostro paese, Per Lucio rievoca  usi e costumi che riguardano il passaggio dalla civiltà contadina a quella post industriale, la fiducia nel progresso (Nuvolari) e le lotte operaie (Itaca) gli anni di piombo e la strage di Bologna. E con essi la partitura musicale del cantante, pronta a tradurre la Storia in squarci di vita vissuta dal punto di vista di chi di solito non ha voce in capitolo.

Non sfugge all’appassionato la scelta da parte di Marcello di un repertorio sonoro più impegnato e meno ricordato, come pure il fatto che sia questo a rappresentare meglio di altri (e per esempio dei suoi hit più famosi) l’anonimato degli uomini e delle donne presenti nelle tante sequenze  che allacciandosi al tessuto più intimo e personale di Dalla fanno dell’arte uno strumento poetico e insieme politico, capace di ridestare nello spettatore la bellezza del territorio italico.

Rendendo attuale (ancora una volta attingendo dai tesori dei nostri archivi cinematografici) ciò che è passato e mettendo in sintonia il cambiamenti artistici del cantautore  con quella del paesaggio nostrano, Per Lucio si nutre della stessa irrequietezza presente nei precedenti lavori di Marcello e come quelli di un viaggio intimo e sentimentale attraverso il tempo e lo spazio all’interno del quale è dolce naufragare.

Inserito  nella sezione Berlinale Special della 71ª edizione del Festival internazionale del cinema di Berlino, Per Lucio e’ un film con cui far tornare Il pubblico in sala.

Per Lucio è un film documentario presentato da Beppe Caschetto e Rai Cinema, è prodotto da IBC Movie con Rai Cinema in collaborazione con Avventurosa e con il sostegno della Regione Emilia-Romagna. Le vendite internazionali sono a cura di The Match Factory.

 

Per Lucio: la trama

Per Lucio è un viaggio visivo e sonoro nell’immaginario poetico e irriverente del cantautore bolognese Lucio Dalla. Una narrazione inedita del suo mondo condotta attraverso le parole del suo fidato manager Tobia e del suo amico d’infanzia Stefano Bonaga. Il film unisce biografia e storia, realtà e immaginario, dando vita a un ritratto che attinge dall’infinito bacino dei repertori pubblici e privati, storici e amatoriali. Liriche e musiche dipingono un’Italia sotterranea e sfumata, immergendo lo spettatore in una libera narrazione del Paese attraverso i tragici eventi del periodo e il boom economico. Questa è l’Italia degli ultimi e degli emarginati, questa è l’Italia di Lucio.

Carlo Cerofolini

(pubblicata su taxidrivers.it)

Berlinale 2021. Natural Light

Natural Light

di Denes Nagy

con Ferenc Szabo

Ungheria, Lettonia, Francia, Germania, 2021

genere, bellico, drammatico

durata 103'



Natural Light di Dénes Nagy racconta le tenebre della ragione attraverso un racconto di guerra in cui la forma diventa sostanza. In competizione nel concorso ufficiale della Berlinale 2021.

L’inizio di Natural Light del regista ungherese Dénes Nagy è scandito dalla natura delle cose. Un uomo a bordo di una zattera procede lungo il corso del fiume lasciando alla corrente il compito di condurlo a destinazione. Primordiale e spoglio,  l’ambiente circostante sembra regalare al viaggiatore un momento di tregua che la mdp racchiude in un estasi visiva bruscamente interrotta dall’urlo proveniente dalla foresta circostante. Il cambio di scena ci consegna un inserto di egual tenore ma di segno opposto, perché tra gli alberi e in mezzo al fango la carovana militare fatica ad avanzare, continuamente respinta da quegli stessi elementi che in precedenza erano stati favorevoli allo svolgersi del viaggio.

Così facendo in Natural Light lo scarto da cui scaturisce il senso del film si nasconde dietro la routine di un’azione di guerra “necessaria”,  quella messa in atto dal comandante per assicurare ai combattenti il rancio quotidiano e dunque il sequestro delle cibarie a bordo del natante. La frenesia dei gesti, l’incalzare degli ordini, la concitata partecipazione di un gruppo di persone senza un’identità che non sia quella dell’uniforme indossata  e soprattutto il rapporto di causa effetto tra l’idea e la sua realizzazione, ci dicono che il significato trascende la storia. Prendendo in considerazione l’agire umano inteso come volontà di determinare il corso dell’esistenza, allontanandosi da quella che è il suo normale divenire. Dunque l’inizio di Natural Light è la rappresentazione di un paradiso perduto. Mentre quello che segue è il tentativo di riconquistarlo, nonostante il male compiuto.

Se nel film – collocato nel pieno della seconda guerra mondiale – si raccontano i misfatti seguiti all’occupazione del territorio russo da parte delle milizie ungheresi, alleate dell’esercito nazista, è chiaro fin dall’inizio che alla pari di altre opere contemporanee incentrate sul medesimo tema, l’adesione al genere non è fine a se stessa.

Qui più che altrove, violenza e degrado, lungi dal diventare un’occasione di spettacolo, sono invece foriere di una riflessione che inizia e finisce dentro le anime dei personaggi. Soprattutto in quella annichilita e muta del sottotenente István Semetka (l’ottimo Ferenc Szabó), come già successo al Willard Coppoliano ma anche al soldato Witt del malikiano La sottile linea rossa,  chiamato al ruolo di testimoni oculare dell’immane tragedia.

Alla stregua di Apocalypse Now anche Natural Light è una sorta di viaggio nell’Ade. In cui però i termini di paragone, soprattutto formali, non guardano alle soluzioni messe in campo dal grande regista americano. Quanto piuttosto si rifanno alla lezione di László Nemes. Il regista ungherese è presente sia  quando si tratta di fare del punto di vista del protagonista una specie di occhio interiore sulla sorte delle vicende umane- seppure con immersioni non altrettanto totalizzanti ma attraverso pedinamenti e semi soggettive già usate dal regista de Il figlio di Saul -; sia nella capacità di stabilire una relazione intima tra protagonista e ambiente, in questo caso raggelata nei suoi momenti più drammatici attraverso il ricorso a campi lunghi e fuori campo (ancora Nemes, nelle urla senza corpo dei condannati a morte); che nella distanza fisica dai luoghi del delitto. Segnalando il rifiuto emotivo del protagonista, l’unico consentito a chi come lui è chiamato a rispettare gli ordini.

Di quanto la forma sia sostanza nel cinema ungherese lo dice la sequenza finale che, chiudendo il cerchio con quelle iniziali, ci riporta al concetto iniziale. Dopo tanti orrori è di nuovo una scena contemplativa a segnalare la fine del dramma. Anche qui il referente è ancora una volta l’elemento naturale e in particolare l’orizzonte a cui si rivolge lo sguardo di Ivan. Abbandonato sul sedile del treno che lo sta riportando a casa per una breve licenza. Fin li negata, la luce che trapela dalle nubi in via di diradamento intercetta una spiegazione simbolica prima ancora che narrativa, rappresentando il primato della ragione, ritrovata almeno fino a quando non ci sarà da mettersi di nuovo in moto.

In competizione nel concorso ufficiale della Berlinale 2021 Natural Light conferma la bontà di una cinematografia come quella ungherese, fucina di talenti capaci di primeggiare nel panorama internazionale.

Carlo Cerofolini
(pubblicata su taxidrivers.it)