"Oh, oh-oh,
life can be cruel.
Life in Tokio"
- Japan -
- II -
Diventa non così improbabile, allora, stabilire una continuità nella pluralità di toni, di atmosfere, di suggestioni, che e' innanzitutto uno sguardo sull'individuo, sulle forze che ne condizionano lo stare al mondo, nei modi di un tentativo teso a leggere il più lucidamente possibile le frizioni esistenti fra i retaggi culturali di un'antica compostezza, di un "ordine" a cui non e' estranea la dimensione spirituale dell'"armonia" (anche morale, sentimentale, psicologica) - solidissimo mastice di una conservazione fondata su rigide compartimentazioni sociali e su secolari equilibri di potere - e il furore schizofrenico, l'accelerazione parossistica imposta dalla tutt'altro che morbida dittatura della tecnologia, del denaro, delle merci, la quale, per sua stessa natura e inerzia, recalcitra ad ogni "ordine" che non sia funzionale al proprio auto-potenziamento; rifiuta ogni gerarchia stabilita, ogni potere organizzato, che non preveda una sua voce in capitolo: disperde e riassembla ogni struttura collettiva - quasi per riflesso condizionato,
Alla luce di ciò, risulta più agevole comprendere - pur essendo solo un
riferimento fra tanti, anche se significativo - il possibile specchiarsi di due
opere diversissime tra loro eppure come "orfane" l'una dell'altra in questa
inesausta "compresenza" - fatta di richiami, di allusioni, di ricorrenze di
luoghi, epoche e volti - di arcaico e futuribile, di destini sempre in bilico e
pervicacia a rimanere e a contare di radici millenarie; di fughe (più o meno)
possibili nelle pieghe senza limiti del desiderio e i tributi inauditi ingiunti
dalla ferocia del "qui e ora". "Ashes of time" di Wong Kar-way, da un lato
(lavoro del 1994, giustamente proposto in originale con sottotitoli nella
versione 'redux' curata dallo stesso regista), disperato scavo, tra le crepe di
una sfolgorante scorza "wuxia", nella desolazione e nei labirinti di una
passione tanto vagheggiata e sofferta quanto sterile o, semplicemente, fuori
portata; impreziosito da linee tanto essenziali e colori (da intendersi anche
come prisma emotivo) tanto vividi quanto e' distante il tempo interiore che
lungo le prime si muove e i secondi desidera, smarrisce e rimpiange, fino a
ridurre, appunto, la sua consistenza a cenere/"ash", ossia ad una specie
d'immaterialità affine al sogno ma per sempre malinconicamente inappagata. Ecco, quindi - l'asistematicita' dell'elencazione e' voluta - "Secret reunion" (2010), di Hun Jang, singolare "buddy movie" (interpretato, tra gli altri, da Song Kang-ho, attore prediletto di Park Chan-wook), sullo sfondo di diffidenze e avvicinamenti al cui apice si trovano una spia "dormiente" e un agente dei servizi segreti caduto in disgrazia, al di qua e al di la' del 37mo parallelo;
"The chaser" (2008), feroce esordio del già citato Na Hong-jin, in cui un ex
detective entrato nel giro della prostituzione e' costretto a reindossare i
panni del segugio allorché diverse "sue" ragazze scompaiono in circostanze
misteriose. E "The thieves" (2012), di Choi Dong-hoon, spettacolare e vivace
esempio di commedia "modello Ocean" all'interno della quale un gruppo di ladri,
tra colpi di scena, peripezie, doppi e tripli giochi in cui (quasi) nulla e'
ciò che sembra, fa di tutto per impossessarsi di una preziosa collana chiamata
"The tear of the Sun". Ancora, "The Berlin file" (2013), di Ryoo Seung-wan,
thriller spionistico convenzionale ma sostenuto da un buon campionario di scene
d'azione a far da raccordo ad un complicato andirivieni a base di traffico
d'armi, agenti in incognito, finanza ed organizzazioni terroristiche.
Di
tutt'altra pasta, speziato (molti dicono appesantito) da uno stile ricercato,
sovente barocco, che non si tira indietro davanti all'uso del 'ralenti', di
tessiture musicali "incongrue", di cromatismi vistosi, di esibite violenze e
venature horror - tutto ad orbitare attorno al mondo dell'infanzia e
dell'adolescenza - "Confessions" (2010), di Nakashima Tetsuya. Stessa o simile
"follia" anima "Sukiyaki western Django" (2007) di Takashi Miike nel quale -
segnalata la presenza di Tarantino nei panni di un maestro d'armi - si
squadernano di fronte agli occhi, nel cuore dell'archetipico intreccio che vede
un eroe senza nome barcamenarsi tra due potentati sempre in lotta, in una
fantasmagoria sfrenata e a tratti paradossale, riflessi deformati di Kurosawa,
di Leone e di un nutrito numero di spaghetti-western nostrani. Sempre di Miike
si ricorda "13 assassini" (2010) - ispirato all'omonima opera di Eiichi Kudo
del 1963 - film-di-samurai brutale e in parte pervaso da un cupo fatalismo, via
via a stemperarsi fino all'apoteosi iper-coreografica della battaglia finale,
cruenta, movimentatissima e pressoché senza scampo per i contendenti. Di
respiro metropolitano, invece, e di ritmo ora pronto ad aumentare i giri ora
disposto a concedersi pause per seguire i movimenti (anche interiori) di
personaggi assediati da una solitudine oramai intrinseca alla loro condizione,
due lungometraggi di Pou-Soi Cheang, "Accident" (2009), basato sulle singolari
vicissitudini di un killer in grado di mascherare le proprie esecuzioni sotto
le spoglie di messinscene intricate al punto da simularne la casualità (almeno
fino a quando non dovrà accorgersi che l'imprevedibilità non e' solo una
variante dell'ingegno umano ma uno degl'ingredienti primi della struttura
stessa del mondo) e "Motorway" (2012), sfida senza quartiere su quattro ruote
per le strade di Hong Kong, tra un poliziotto impulsivo, testardo (e il suo più
riflessivo compagno) e un eccezionale pilota-filosofo aggregato al crimine.
Risale al 2008 "Beast stalker", di Dante Lam, particolare 'noir' sospeso tra
colpa e redenzione: la prima vissuta assai malamente da uno sbirro roso da un
tormento incancellabile; l'altra perseguita da una madre attraverso la ricerca
perentoria di una giustizia il cui sentiero da percorrere e' oltremodo
tortuoso. A fare da catalizzatore, una giovane vittima innocente. Indi
"Shaolin" (2011), di Benny Chan, epopea tragica nella Cina degli anni '20
travolta dalla devastazione di conflitti intestini in cui il riscatto personale
non può esimersi dallo scontrarsi con l'implacabilita' dei gravami da pagare al
sangue. Del 2012 e' "Confession of a murder", di Byeong-gil Jeong, paradossale
e allusiva parabola contemporanea focalizzata su un omicida (presunto),
l'irriducibilita' di un poliziotto cocciuto e stravagante e, nell'opacità
dell'incertezza che permea l'intera storia, sulla dolciastra e sinistra
capacita' distorcente dei mezzi di comunicazione di massa. Di gusto 'retro'' e
piglio a volte ironicamente "saccente", "Bullet vanishes" (2012), di Law Chi-
leung, riunisce, attorno ad un caso bizzarro quanto insolubile, l'astuzia, la
pedanteria, la scaltrezza e la malinconia di un Holmes e di un Watson in salsa
orientale. Suggestioni e atmosfere stranite intridono, al contrario, "Black
home" (2007) di Terra Shin, in cui le indagini del goffo assicuratore
protagonista conducono la vicenda sul cammino di un orrore imprevisto, di un
incubo ad occhi aperti. Rocambolesco e fracassone - infine - quasi
un'emanazione (se possibile) arricchita del già caleidoscopico microuniverso de
"I pirati dei Caraibi", "Legend of the Tsunami warrior" (2008), di Nonzee
Nimibutr, che, tra regni conquistati e perduti, vendette giurate e dilemmi
legati alla crescita, tenta, con risultati alterni, di shakerare in due ore
abbondanti di spettacolo, battaglie navali, abbordaggi pirateschi, arti magiche
e marziali et...E' sensato notare, pertanto e in conclusione - e proprio in virtù dei pochi esempi appena riportati, chi più chi meno in linea col tentativo di misurarsi
con l'esperienza umana all'alba di un nuovo millennio - quanto il divario (di
certo geografico ma non solo) che vincolava fino a non molto tempo fa
l'Occidente ad una considerazione delle manifestazioni della cultura popolare
dell'Oriente - estremo o meno - oscillante tra sussiego, paternalismo, se non
pigra indifferenza, si sia assottigliato, e ciò in gran parte perché la partita
decisiva - quella della sopravvivenza in un futuro la cui possibilità (al di
la' delle "sorti e progressive" tipiche di ogni propaganda) e' ben dentro il
regno delle incognite - si gioca oramai su un solo campo, vasto e accidentato
come l'intero pianeta, e coinvolge tutti. Fosse solo per attenersi ad un logico
principio di precauzione, allora, che sarebbe il caso di sbrigliare un po' più
la curiosità riguardo a come la pensano (e a come la vedono) "quelli" all'altro
capo del mondo.- parte seconda -
FINE
TFK
Nessun commento:
Posta un commento
Leggi bene prima di inserire un commento:
Se possiedi un account Google/Blogger nella lista sottostante scegli Identita' Google/Blogger ed inserisci i tuoi dati (e-mail e password) per pubblicare il commento con il tuo nickname.
Oppure scegli l'opzione Nome/URL ed inserisci il tuo nome, se vuoi evitare di pubblicare i commenti come anonimo.
Grazie, ciao.