Qualche
settimana fa è apparsa su questo blog la recensione ad "Abacuc", un
film che si pone l'obiettivo di tornare all'essenzialità del cinema.
Oggi siamo lieti di pubblicare un'intervista che abbiamo avuto
l'opportunità di fare al regista, Luca Ferri.
Buonasera,
Luca. "Abacuc" è il primo lungometraggio apparso al cinema, ma non la
sua prima esperienza. Ci racconta qualcosa di ciò che l'ha preceduto.
C'è
tutta una filmografia, nata tra gli anni 2002 e 2011, che ormai non mi
rappresenta più. Nel 2011, poi, c'è stata la svolta, con la
presentazione a Pesaro di "Magog". Da lì tutti i lavori hanno
riferimenti linguistici maturi, più allineati al mio modo di scrivere.
È stato un lavoro lungo, che ha comportato 4 anni di riprese. È stato
molto complesso: mi sono occupato di tutto completamente da solo, dalla
messinscena alla fotografia.
Dunque si può dire che rinnega parte della sua produzione passata.
In
quella produzione ci sono elementi che ritornano, ma non c'è la
conoscenza del mezzo cinematografico e l'idea di cinema portata avanti
da "Magog" in poi. Sono esperimenti che non fanno riferimento al
concetto di "testamento" e che, quindi, non si confrontano con il tema
della morte, nettamente presente solo da "Magog" in poi.
Da cosa deriva la sua scelta di fare un cinema incentrato sulla morte
L'idea
nasce dal fatto che non si può non pensare alla morte. Poi tutto il mio
cinema è comico, anche questo tema è affrontato con ironia. Il mio
cinema trae spunto da altre forme d'arte: letteratura, architettura,
musica.
A proposito di questo, in "Magog" il riferimento è a "Gog e Magog" di Giovanni Pascoli.
No.
Il riferimento è a Giovanni Papini, che ha scritto un'opera intitolata
"Gog". Lo ritengo un autore straordinario, la cui opera contiene
passaggi strepitosi. Papini ha avuto una vita molto attiva, nell'ultimo
periodo è diventato anche cristiano.
Il suo cinema, quindi è colto. Nel pensarlo, aveva in mente un target specifico a cui rivolgersi.
No,
non è rivolto solo alle persone colte. Sono riconoscente al critico
Giulio Sangiorgio, che ha dimostrato che il problema non è il pubblico,
ma l'idea di pubblico che i selezionatori hanno. "Ecce Ubu" e "Curzio e
Marzio", ad esempio, sono stati colti nella loro essenza anche dalle
persone più umili.
Quindi non c'è il pericolo di essere fraintesi
Ovviamente
ci sono vari livelli di lettura: se si riconosce la presenza di
Donizetti in "Abacuc", per esempio, passa qualcosa in più, ma si può
comprendere la mia opera anche senza cogliere le citazioni. La citazione
è un aspetto anche comico. Utilizzo autori per lo più obsoleti, ma
molto comici.
Quindi
non ci sono difficoltà a far accettare al pubblico questo tipo di
cinema. Immagino, però, che sia abbastanza complicato fare tutto da
solo, senza molti aiuti.
È
chiaro che comporta grandi sacrifici e un grande coinvolgimento da
parte dell'autore. I miei film sono stati fatti con poco: per lo più
senza budget. A volte, un certo tipo di cinema deve vedere il limite
come un'opportunità. Non bisogna scoraggiarsi: si può fare molto anche
con pochi mezzi.
A
proposito di mezzi, gli strumenti e le tecniche adoperati nella sua
produzione, in "Abacuc" in particolare, sono quelli del passato: da cosa
deriva il desiderio di tornare alle origini del cinema.
Nella
mia opera "Habitat Piavoli" si parla esplicitamente della necessità di
tornare a un linguaggio precinematografico. Credo che ci siano ancora
aspetti legati allo stupore per il mezzo che valga la pena approfondire.
Quindi questo è solo l'inizio.
Sì:
l'idea è di fare, da qui in poi, un cinema che non vuole sedersi. Non
bisogna accontentarsi, per non rischiare di finire etichettati.
Ritiene, dunque, riduttivo incasellare il suo cinema in uno specifico genere.
Forse
è cinema di genere, forse tutto il cinema è di genere. Ma il mio cinema
è un continuo rimettersi in gioco. Poi, naturalmente, qualcosa in
comune c'è. Da "Magog" a "Una società di servizi" ci sono undici lavori,
che hanno tutti qualcosa in comune.
Un'ultima domanda, per concludere, sulle collaborazioni con Dario Agazzi e Lab80. Può raccontarci come sono nate.
Agazzi
l'ho conosciuto tramite un mio libro, "Fiori di broca", che lui aveva
letto. Lab80 è una realtà territoriale di Bergamo molto importante: ha
un grande coraggio. Mi permetto di aggiungere, tra le varie
collaborazioni, una realtà di Bologna: Nomadica. È un circuito autonomo
di registi significativi, anche internazionali, gioco forza esclusi:
Bruno Munari, ad esempio. Poi ci sono collaborazioni saltuarie, tra cui
quella con Enrico Mazzi, insieme al quale ho condotto un ultimo lavoro a
Torino.
Riccardo Supino
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