Circa il fatto che il caos non sia proditorio ma
quintessenza da arginare e di cui eventualmente sorridere (magari aiutandosi un
po'), Doc Sportello ne riceve ulteriore conferma dalla pervicacia con cui
un'assortita fauna sapiens insiste a commissionargli indagini della cui plausibilità
di fondo e' la prima a fregarsene e dalle cui ricadute farebbe bene a stare
alla larga. Il dato iperreale - nel senso di più-reale-del-reale, quindi sul
serio tragico - di uno scherzo come "Inherent vice" (con "vizio
di forma" che e'/sembra essere tutto ciò che non si può prevedere eppero'
nemmeno trascurare) e' l'accelerazione di un girare a vuoto di denaro, di
oggetti, di sentimenti, di animali umani, di ideali, di parole - chiacchiere su
chiacchiere che s'accumulano e sempre meno dicono - in vista di una perfezione
ipotetica che i tempi, i nostri, si sono poi incaricati - con alacrità
notevole, bisogna dirlo - di realizzare e statuire come moto perpetuo: l'unica,
vera forma di un vizio, quello di non vivere, e senza che ci sia, oramai,
neanche più tanto da ridere.
TFK
L’elaborazione più arguta da fare, quando si tratta di
maneggiare il testo di uno come Thomas Pynchon, è lasciare l’opera originale
intatta. È esattamente ciò che fa P.T. Anderson nel portare sullo schermo la
decostruzione - forse meglio identificabile come disordine preordinato, vista
la sistematicità e la consapevolezza con la quale (non) incede lo sviluppo
della storia - che avviene in una narrazione solo in apparenza scomposta. La
confusione del protagonista, dunque, lungi dall’avere una risoluzione - anzi
procedendo in direzione beffardamente opposta - va di pari passo con quella del
fruitore, al quale non rimane altro che “non chiedere” - “Don’t ask” è una
delle prime frasi che sente dirsi “Doc” Sportello da Shasta agli albori della
propria indagine -. Se l’intento di Pynchon è quello di adattare la
fantascienza americana al palco dell’Opera, quello di Anderson - qui riuscito
con una maturità definitivamente raggiunta - è di adattarla allo schermo
cinematografico.
Antonio Romagnoli
L'analogia è scontata ma non si può fare a meno di notarla,
perché la natura sentimentale del rapporto tra il detective Doc Sportello e
Shasta, la donna che lo ha appena mollato, rappresenta il motore di tutto il
cinema Andersoniano, da sempre innescato da una richiesta d'amore che
appartiene a tutti i personaggi del suo cinema. "Ineherent Vice" non
ne è immune, anzi, a ben guardare l'indagine del detective cinematografico più
naif che si ricordi riesce a declinare questa caratteristica radunando intorno
a se i topos più ricorrenti del regista americano. Ecco allora farsi avanti un
tessuto emotivo che ha a che fare con la ricerca di un paradiso perduto e, di
pari passo, con il tentativo di ricreare quello stato di grazia che permette di
essere felici. A farla da padrone è quindi la famiglia, che nel cinema di
Anderson rappresenta l'orizzonte imprescidibile a cui bisogna rifarsi per
capire l'essenza dei personaggi; da un lato (negativo) quella biologica,
artefice del trauma originale, dall'altro (positivo) la sua versione putativa e
"allargata". Gli esempi si sprecano ma basterà ricordare quella
"cinematografica" in cui trova asilo e poi si forma l'Eddie Adams di
"Boogie Nights", simile per stravaganza e irriverenza a quella della
comunità hippie in cui vive lo stranulato investigatore, oppure riandare ai
fotogrammi iniziali di "Punch Drunk Love" (il film più lisergico di
Anderson), quelli in cui il protagonista oppresso da madre e sorelle sfoga che
la sua frustrazione distruggendo ogni cosa. E poi, come dicevamo l'elemento
affettivo che, nei film di Anderson, con l'eccezione di quello interpretato da
Adam Sandler, è inadeguato e causa di ulteriore dolore, sia che riguardi
surrogati genitoriali ("The Master" ma anche ne "Il
petroliere") che campionesse di sensualità come lo sono a loro modo Amber
Wess, la porno diva interpretata da Julian Moore in "Boogie Nights, e,
ultima arrivata, la ragazza della porta accanto che fa perdere la testa a Doc
Sportello.
nickoftime
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