French connection
di C.Jimenez.
con: J.Dujardin, G.Lellouche, B.Magimel, C.Sallette.
Francia, Belgio, 2014
genere, thriller
durata135'
Talune
apparenti banalità rivelano interessanti risvolti se si dimostra quella
sagacia minima e quella pazienza utili ad inquadrarle da punti di vista
appena più eccentrici rispetto a quelli usuali. Affermare, in tal
senso, che un arco di tempo teso fra due opposti distanti più o meno un
decennio emette una vibrazione e produce uno slancio differente a
seconda che si consumi nella cornice febbrile del Crimine o in quella -
quantomeno esteriormente - solenne, compartimentata e fitta di
procedure, della Legge, rasenta l'ovvio solo se si evita di considerare
l'impatto, ad esempio, emotivo che i fatti, le circostanze, il caso
hanno sulle rispettive visioni-del-mondo. Ecco, quindi, che dieci anni
bastano appena - segnandone spesso l'epilogo - a circoscrivere il
primato violento di un potentato malavitoso; o, d'altro canto, sembrano
non tanto non passare, quanto non produrre mai risultati soddisfacenti
in campo investigativo - per opacità del Sistema, intoppi burocratici,
ritardi o deviazioni più o meno pilotate, mera incapacità, lassismo - a
fronte di sforzi, non di rado a carico di singoli invisi o negletti,
sovrumani.
Simile parallelismo rivive - ed e' il pregio maggiore, almeno fintanto che le tensioni innescate dalla prossimità dei due universi alternativi per statuto (Crimine/Legalità)
generano frizioni tali da provocare ripercussioni nei rispettivi ambiti
- in "French connection", di C.Jimenez, che del semi-leggendario
omonimo di Friedkin (1971) oltre al titolo (quello originale e' comunque
"La French") conserva l'attenzione minuta alla ricostruzione del
dettaglio (qui, retrospettivamente, quello d'epoca: abbigliamento,
arredamenti, suppellettili, mezzi di trasporto, armi), come l'evidenza
di certi esiti d'indagine (l'eroina suddivisa in panetti plastificati
stipati nei pertugi metallici delle automobili destinate
all'esportazione o semplicemente imbarcate per il trasporto
oltreoceano).
Dieci
anni, si diceva, in via approssimativa dall'alba degli anni '70 agli
esordi del primo settennato di Mitterrand, restituito attraverso il
percorso professionale e privato del giudice Pierre Michel/J.Dujardin
(figura estratta dalla viva cronaca), uomo integerrimo eppure pragmatico
capace di applicarsi fino all'ossessione per ottenere un risultato (da
profondo conoscitore delle lusinghe subdole del poker quale era),
promosso da una sezione del Tribunale dei Minori all'Anticrimine, ossia
messo faccia a faccia con l'impero stupefacente dei Marsigliesi - La French,
appunto, organizzazione eterogenea formata da francesi, corsi e
italiani trapiantati, con solidi agganci nella Polizia stessa come nelle
Istituzioni, tratteggiata, per dire, e in via pressoché definitiva,
dalla penna di uno come J.-C.Izzo - in specie con l'indiscusso, ai
tempi, burattinaio, il transalpino di origine napoletana Gaetan
Zampa/G.Lellouche, detto Tany, tipo guascone e charmant, quanto, all'occorrenza, spietato.
Con
disponibilità di mezzi e apprezzabile disinvoltura, Jimenez riannoda
fili (impossibili da recidere) di rimembranze cinematografiche
disparate, non ultime quelle del già ricordato Friedkin, altre ancora di
chiara ascendenza scorsesiana - i suoi bravi ragazzi, i suoi casino - per lo più nella resa enfatica di alcune sottolineature di montaggio, che isolando particolari caldi ne
esaltano al tempo la consistenza materica e la valenza simbolica (una
siringa in uso; una mazzetta di banconote; una pistola, et.): stesso
dicasi per l'uso circostanziale e storico-narrativo della colonna sonora, nonché per una qual tendenza ad impostare il racconto come l'avvicendarsi fatale delle
tappe di una grande epopea negativa. Nel rispetto di cromie
complementari - la luce radente fra le pietre calcinate e i vecchi
lastricati di Marsiglia, sullo sfondo di un azzurro impassibile; la
pienezza avvolgente e vistosa delle tonalità nei locali notturni o di
singoli sfarzi da rotocalco - distribuite come miraggi seducenti ad
avvolgere altrettanti crudeli disinganni, il regista piega altresì
l'inesorabilità feroce del (neo-)polar ad un andamento
cronachistico (quindi giocoforza fluttuante sulla superficie d'intrecci
fin troppo ramificati) che si mantiene efficace se cadenzato sulla
brutalità episodica dei vis-a-vis, delle esecuzioni, dei
regolamenti di conti ma che dilata e diluisce l'incalzare degli eventi,
oltreché buona parte delle loro istanze nobili (il desiderio di
giustizia, la ribellione alla rassegnazione, et.), al momento
d'indulgere entro il perimetro umano/personale dei
personaggi/contendenti, chi alle prese con le ovvie incomprensioni
maturate durante il decorso di un mestiere che le vicissitudini rende
via via pericoloso, chi furente di scoraggiamento al cospetto del
progressivo sgretolarsi della propria egemonia.
Pierre e Tany si
sfidano, allora, come figure emblematiche di una realtà - il traffico
di droga su vasta scala, la corruzione, le connivenze inconfessabili -
data per scontata o solo lambita da un vaglio analitico centrato ma
parziale, diligente nello stabilire i limiti morali di inconciliabili
codici di comportamento ma come prudentemente equanime nella sua
programmatica allusivita' al momento di ridistribuire le responsabilità a
quei comportamenti sottese, fino ad un bel mattino di Ottobre, quando
sarà lo schiocco secco di una calibro 9 a spezzare quell'arco, quei
dieci anni e ad imporre il silenzio tra le scaglie di sole e di mare di
una città della bassa Provenza.
TFK
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