Mi chiamo Maya
di Tommaso Agnese
con Valeria Solarino, Matilda Lutz, Carlotta Natoli, Giovanni Anzaldo
genere, drammatico
Italia, 2015
durata, 90'
La vicenda narra di Niki ed Alice, due sorelle di cui la
prima è adolescente mentre l’altra ha nove anni, che restano orfane di madre a
seguito di un incidente stradale. Le due, non volendosi separare, scappano dall’assistente
sociale che le aveva in cura e vagano per Roma tentando di nascondersi.
Come già lascia intendere la trama, il rischio di un film
come “Mi chiamo Maya, diretto dall’esordiente Tommaso Agnese, è di non riuscire
a raggiare le numerose insidie che si presentando nel trattare un argomento
così delicato. Rischi che, ahinoi, durante la visione prendono la forma di
effettivi difetti dal momento in cui l’errare delle due piccole protagoniste, angosciate
da un futuro che non c’è e tormentate dall’assenza della figura materna, vanno
barcamenandosi tra situazioni che, oltre ad avere indosso l’odore della caduta
nello stereotipo, sono completamente sconnesse tra di loro, presentando una
drammaturgia che tende a far acqua da tutte le parti. Il cercare di salvare il
tutto dal punto di vista visivo, nonostante l’ottima fotografia di Davide
Manca, diventa controproducente nell’andare ad evidenziare maggiormente i
disgiungimenti che vanno a formare un tessuto narrativo per nulla coeso. Altra
nota dolente, sulla quale è impossibile sorvolare, è il livello medio-basso
della recitazione, che tende a gravare sulle spalle già esili della maggior
parte dei prodotti audiovisivi nostrani - l’onnipresente Valeria Solarino, già
vista di recente ne “la terra dei Santi”, continua a dimostrare di avere doti
recitative tutt’altro che spiccate -.
È il caso di prendere in considerazione, dunque, la
problematica che rende i temi sociali, troppo spesso nel cinema italiano
contemporaneo, un pretesto per creare prodotti che alla fine non riescono né a
restituire i dati del reale - laddove
per reale s’intenda la dialettica
circoscritta attorno al problema preso in considerazione - né ad avere
ripercussioni sull’attività fantasmatica con la quale il cinema nutre sé
stesso. Preso in considerazione ciò, “Mi chiamo maya” diventa un film che si agita in maniera
frenetica nelle sabbie mobili della non-forma
e, inesorabilmente, viene inghiottito senza lasciar traccia.
Antonio Romagnoli
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