Nella nuova e suggestiva cornice di Confronti all’interno delle Giornate degli Autori è presentato anche l’esordio al lungometraggio di Giulio Donato con il suo Labirinti. La storia di Francesco e Mimmo è raccontata anche con un pizzico di magia, necessaria per comprendere alcune scelte.
Per capire meglio il film
abbiamo fatto alcune domande al regista Giulio Donato.
Volevo partire con una
riflessione sull’inizio del film, dove conosciamo i due protagonisti
giovanissimi. Mi è piaciuto molto il modo in cui mescoli loro con il paesaggio,
che poi ritorna più volte all’interno del film tanto che, secondo me, si può
considerare una sorta di terzo protagonista. Com’è nata questa prima scena che,
insieme alle musiche, sembra quasi creare un’atmosfera da sogno, elemento
ricorrente nel film.
Sì, quello che hai detto
sul sogno è abbastanza pertinente. Poi devo premettere che a me piace molto
lavorare con i bambini, raccontare storie di bambini (ci avevo già lavorato nei
miei cortometraggi) e quella sequenza, come anche tante altre sequenze del
film, rappresentano una sorta di chiusura di alcuni momenti della vita. Io vedo
l’infanzia come un sogno, la vedo come un momento di libertà pura, di
creatività, un momento nel quale ci affacciamo a tanti aspetti per la prima
volta, a diversi aspetti della vita, sia con curiosità ma anche con libertà. Il
tutto rispetto a quei famosi labirinti o comunque regole mentali che si possono
costruire nella vita andando avanti in base a quello che uno ha dentro oppure
alla società nella quale vive. Invece da piccoli siamo molto più liberi di fare
qualsiasi cosa e questo si collega al tema della natura, tant’è che la prima
immagine è proprio la rappresentazione di quello che hai detto: un personaggio.
Io volevo descrivere questa natura come qualcosa di vivo, molto potente, quasi
irrazionale e definito e deciso. La natura è così: prendere e lasciare, è più
forte di noi, ci sovrasta e può fare quello che vuole quando vuole. In questa
storia ho voluto dare questa chiave quasi angosciosa per
andare di pari passo proprio con i sentimenti di Francesco, il
protagonista. Per me il film parla proprio di uno stato d’animo più che degli
eventi e la terra va di pari passo perché da una terra malsana, che ribolle,
che è potente e dirompente da cui sta per succedere qualcosa, vengono avvolti e
circondati, ma anche sovrastati in dei punti dalla terra, non solo dal punto di
vista naturale, ma proprio da quello territoriale, cioè quello che li circonda
e che si lega allo stato culturale, sociale e psicologico di questa regione.
Quindi i bambini all’inizio sono completamente avvolti, crescono in libertà con
le biciclette, vanno su una strada, che è quasi un’autostrada, in bicicletta da
soli che sono cose che in città non vengono fatte (io sono nato a Roma ma la
famiglia di mio padre viene da questo paese dove ho girato principalmente e ci
sono cresciuto anche io, venendoci tutte le estati).
Questa tua risposta mi ha
fatto riflettere ancora più sul legame che c’è tra i personaggi e il concetto
di labirinto. I labirinti del titolo, del libro sono una grande metafora che
sottolineano l’assenza di confini definiti e il fatto che il film abbia una
doppia (in alcuni casi anche più che doppia) valenza.
Dipende da come lo vivi.
Puoi decidere di seguire il mio sguardo sul film e su queste due realtà che ho
raccontato che racchiudono un po’ le due strade che si possono prendere nella
vita. Dipende come decidi di vivere il labirinto, cioè puoi decidere di seguirne
le regole, di starci bene, di stare nella tua comfort zone e accettare il fatto
di rimanerci chiuso, ma puoi anche non avere il coraggio di uscire. Poi c’è la
seconda strada, quella di Francesco che è quella di prendere
atto che questo labirinto c’è, di riconoscerlo e non volerne fare parte; vuole
uscirne. Quindi sicuramente è ambivalente: si può decidere di starci e di
sguazzarci come di starci male e cercare a tutti i costi di uscire, però se non
hai i mezzi e la forza di uscirne puoi rimanere intrappolato.
È vero, è pieno di
riferimenti in questo senso, di doppi significati. Anche io ho visto
continuamente questo doppio binario legato al fatto che sono due protagonisti,
ognuno con una diversa concezione di tutto quello che li circonda. Ci ho
ritrovato, quindi, questo discorso di uscire e entrare nel labirinto. Sono due
binari che viaggiano sempre in parallelo, ma che, però, alla fine, secondo me,
nel bene e nel male sono sempre comunque destinati a incontrarsi o scontrarsi e
anche la fine, senza fare spoiler, è emblematica di questo.
Sì, sì, soprattutto se
partiamo dalla fine devo dire che inizialmente mi interessava proprio il
discorso dei protagonisti e di decidere di fare un capitolo finale dove Mimmo diventava
il protagonista, quindi l’ho strutturato proprio nella scrittura. Ho ragionato
tanto su cosa far succedere in questo terzo atto e ho scritto miliardi di
versioni e mentre lo facevamo ho cambiato alcune cose, anche perché ci sono
voluti due anni per realizzarlo, quindi è stato molto particolare come
lavorazione. Mentre giravo ci fermavamo, montavamo, riscrivevo, rigiravamo due
giorni, poi tornavamo a montare, è stata molto fluida come lavorazione e mi ha
dato tanta libertà. E con questo finale volevo far vedere che cosa succede alle
due strade, con i pro e contro, perché nessuno dei due è risolto alla
fine, non è che chi ha scelto una cosa sta bene e l’altro sta male. Poi c’è il
punto finale che ho voluto inserire per far capire il film di che cosa parla,
secondo me: della forza e del coraggio di trovare la propria strada. Farlo
attraverso quel libro è un’iperbole, è qualcosa di magico.
Quello che ho voluto fare
è stato seguire un realismo magico, far vedere delle cose magiche solo
tramite la messa in scena quando in realtà non sta succedendo niente di strano.
Dipende tutto da come si guardano le cose, che è anche un po’ la potenza del
cinema, di come vengono raccontate e come vengono dipinte per lo spettatore.
Nelle scene in cui lui letteralmente sta in un bosco con un libro in mano lo
spettatore sa comunque, in base al linguaggio del film, che si trova
all’interno di un sogno. Io volevo mostrare questo e con quella fine si viene
trasportati metaforicamente di nuovo nel sogno. Un sogno con quel fuoco
esclusivo quasi spento.
Visto che l’hai citato ti
chiedo subito di questo fuoco che mi ha colpito, anche perché ritorna più volte
nel film. Volevo fare una riflessione con te a proposito di questo fuoco perché
spesso si tende a pensare che, soprattutto nei film, sia l’acqua l’elemento che
purifica, quello che arriva, una volta successo di tutto, a lavare via tutto,
solitamente con la pioggia. Nel tuo caso, invece, è il fuoco, che solitamente
spaventa e incute timore, ad avere una valenza purificatrice, come qualcosa che
ha il potere di cambiare capitolo, di voltare pagina.
Sì, è un po’ come il
discorso che facevo all’inizio a proposito della natura. Poi, dal mio punto di
vista, credo molto all’ambivalenza delle cose in generale, al guardare le cose
da più punti di vista e mi piace anche dare modo allo spettatore di vedere le
cose da più punti di vista. Questo è l’approccio che vorrei sempre avere, cioè
far vedere al pubblico una cosa che non è o nera o bianca, ma qualcosa che poi
può restituire anche a me dei punti di vista diversi.
Il fuoco, per esempio,
segue la stessa linea nel senso che, come hai detto tu, è un elemento che
magari a prima vista può essere negativo, una cosa che ti può fare male,
pericolosa, a volte incontrollabile e che vive di vita propria, ma non è solo
questo. Ho cercato di portare all’attenzione questo nella parte finale del
secondo atto, che è il primo finale del film con l’esplosione e questo incendio
che colpisce quella che è, senza fare spoiler, la proiezione del protagonista,
una figura che lui ha visto per un secondo e che gli ha fatto proiettare
tantissime cose su sé stesso. Questo fuoco sembra che stia bruciando quella sua
possibilità, quella sua chance di uscire dal labirinto. Nonostante ciò lui
cerca di salvare la cosa più preziosa che ha, il mondo dei sogni ed ecco il
perché del significato diverso di questo fuoco. Quindi il
fuoco, come dicevi, da cosa pericolosa diventa un abbraccio, come nella realtà
dove c’è il fuoco che può sia bruciare che scaldare.
Oltre a questo è proprio
la costruzione della scena in sé a essere particolare con quello sguardo in
macchina (tra l’altro, a volte, si dice uno sguardo che brucia),
poi contornato dal fuoco che rende ancora più significativo tutto quello che
hai detto. Forse è un po’ come se trovasse veramente la via di fuga dal
labirinto.
Esatto e ha pure il
coraggio di bucare lo schermo e guardare lo spettatore: è una provocazione.
Sembra quasi voler dire “so che tu mi stai guardando e che magari stai
giudicando e invece io ho il coraggio di guardarti” e rompe un po’ la tensione
della parete.
Sono davvero tante le
scene che, come questa, danno vita a idee, suggestioni, riflessioni e metafore.
Tra queste non posso non citare la scena di canto sul prato. Secondo
me quella è una scena esplicativa di tutta la storia, ma anche una di quelle
scene che segnano un prima e un dopo. Lì scatta nuovamente qualcosa in
Francesco.
Sì, quello è un punto di
svolta. Il canto rappresenta un momento, oltre che una scelta stilistica, di
rottura di tante regole che ci sono nella narrazione classica. Ed è anche uno
stacco dopo tante scene movimentate nelle quali sono successe tante cose. In
quel momento, invece, lui si ferma e ascolta questa canzone di 4 minuti come lo
spettatore che guarda fisicamente la performance di un cantante che sta
cantando una canzone che ha scritto per il film. È come se Francesco dicesse
“lascio la frenesia, l’agitazione, l’ansia, la paura, il dolore degli anni
violenti e burrascosi che hanno caratterizzato l’adolescenza e decido di
fermarmi, di ascoltare questa cosa e accettare che sono pronto ad andare via”.
Non a caso anche fisicamente si vede l’effetto speciale che vola via, una massa
informe che all’inizio lui inizia a sognare, senza capire cosa sia. Si tratta
di qualcosa di misterioso, quasi ansiogeno, anche con la musica, fino a che non
ha finito il suo compito.
E infatti è interessante
il collegamento continuo che c’è tra sogno e realtà e che il cinema, come
dicevi all’inizio, può raccontare e rendere al meglio. Ma è bello perché, a
volte, anche noi come Francesco, ci perdiamo un po’ in questo sogno. Come hai concepito
questa massa informe? Non so se era anche un modo per raccontare la vita di
Francesco in una versione onirica, in parallelo a quella reale.
Il processo è stato molto
naturale e richiama l’approccio che voglio avere nei confronti del pubblico.
Vorrei raccontare le cose tramite le emozioni del personaggio, ma anche solo
attraverso le immagini o il montaggio e con le espressioni del protagonista
piuttosto che con degli eventi. Per rimanere fedele a questa visione mi sono
concentrato sui sogni che per me sono un tema molto importante. Ne faccio
tanti, ci penso tanto, quindi c’è anche un mio rapporto personale che ho con i
sogni e con quello che penso dei sogni, con quello che ho studiato.
Partendo da questo
concetto, pensando a quello che volevo comunicare come sensazione, ho pensato a
che cosa rappresentare visivamente, e con gli effetti speciali di cui sono
molto contento (perché studio molto l’arte digitale e visiva e ho portato delle
reference), mi immaginavo una massa informe di un materiale vicino alla realtà,
ma anche irreale, come i sogni. Poi c’è tutto il processo che porta Francesco a
sognare e a materializzare i suoi sogni. Lui ragiona sul fatto
che non sa com’è fatto un corpo umano (e infatti va a prendere un libro di
scienze per saperne di più) e poi segue vari altri step per conoscere sempre di
più. In tutto il film Francesco è completamente concentrato su
questo dopo essere stato continuamente concentrato su Mimmo, che è
il solo con il quale parla e al quale si rapporta.
Ho cercato di
rappresentare quegli stati che lui viveva anche fuori, però magari in modo più
introverso, un po’ più chiuso e in modo più accentuato nei sogni. È come se nei
sogni lui avesse il coraggio di approfondire sé stesso attivamente e da lì
farsi delle domande e cercare forse di darsi le risposte. E si potrebbe
continuare ad analizzare tutto il percorso di Francesco che,
per esempio, si sta interrogando sulla sua sessualità. Si capisce che lui su
questo tema ha degli interrogativi e la rappresentazione di ciò è il ragazzo
biondo che vede per un attimo e che gli dà un senso di libertà.
A proposito di questo
ragazzo, poi, devo dire che in realtà è un cantante che non ha mai recitato in
vita sua, che ho fatto venire da Berlino appositamente. La canzone è sua e
inizialmente voleva cantarla in inglese o in italiano. Io, invece, gli ho suggerito
di cantarla in tedesco, una lingua meno comune dell’inglese, che per lui
è esotica. Quindi ascolto una cosa completamente diversa da me che
però mi comunica una speranza di poter essere me stesso, di poter essere
diverso rispetto a quello che un paese di 200 abitanti, in montagna,
nell’entroterra, nella provincia di Vibo in Calabria, uno dei più remoti
d’Italia, con tanti preconcetti può darmi. Legandomi a questo ti rivelo che
avevo inizialmente provato a girare in una provincia laziale, poi ho cambiato
per cercare un luogo culturalmente diverso.
E poi c’è anche forse il
discorso della lingua, del dialetto che ha un’evoluzione nel film (alcuni
ragazzi parlando con Francesco glielo dicono “parli in italiano”). Cambiando e
crescendo, cambia anche il suo modo di parlare, quelle poche parole che pronuncia,
perché parla poco, cambiano. L’aver scelto un paese della Calabria piuttosto
che una provincia laziale secondo me ha contribuito a una resa più efficace
perché si tratta sicuramente di un dialetto più difficile da
comprendere, di una vera e propria lingua.
Sì, perché dà ancora più
l’idea della distanza e dell’isolamento di questa piccola natura. Lì, per
esempio, ancora di più rispetto ad altri luoghi, si parla di un dialetto che
cambia nel giro di un chilometro, da un paese all’altro. E quasi nessuno parla
italiano, con noi che veniamo da fuori magari si sforzano, ma è anche un senso
di appartenenza, motivo per cui capita spesso che il bullo di turno dica che
non devi parlare italiano, come a sottolineare che “noi siamo un’altra cosa”.
L’italiano diventa, come ogni diversità, un sintomo di chi vuole alzare la
testa rispetto al gruppo.
E a proposito del
libro Labirinti con il quale Francesco entra in contatto che
cosa puoi dire?
Intanto che il libro è
inventato, cioè non è un libro vero. Cioè è sempre stato, come nel film, anche
per me, uno strumento simbolico, magico. Pensa che nel paese non c’è neanche la
biblioteca, l’abbiamo dovuta creare per finta. Nessuno legge libri e il fatto
che lui prenda questo libro e venga incuriosito da questa copertina, se lo
nasconda nei pantaloni perché potrebbe essere un oggetto di scherno, è
significativo. Con questo oggetto simbolico lui si incuriosisce alla lettura,
alla cultura. A differenza di quello che succede nella grande maggioranza dei
casi: tanti ragazzi non finiscono il liceo, tanti sicuramente non leggono.
Per lui è una novità.
Sì, è una novità che vuole custodire come un oggetto
prezioso, come il forziere dei pirati. Infatti lo legge da solo, di notte,
quando non lo vede nessuno. O chiuso in bagno.
Veronica Ranocchi
(intervista pubblicata su taxidrivers.it)
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