Queer
di
Luca Guadagnino
con
Daniel Craig, Drew Starkey, Jason Schwartzman
Italia,
USA, 2024
genere:
drammatico
durata:
135’
Portare
sullo schermo un romanzo di un autore famoso e controverso come William S.
Burroughs aveva come contropartita il rischio di essere fagocitato dalla
bravura di uno scrittore che dopo la morte ha visto la sua fama crescere a
dismisura fino a diventare il parametro per misurare il livello di
trasgressione di un’opera artistica. Prima di entrare nel merito del nuovo film
di Luca Guadagnino è importante sottolineare come nelle opere di Burroughs arte
e vita costituiscono in egual misura la spinta che ne guida la visione e,
dunque, come i suoi libri, non possano prescindere dalla presenza del dato
autobiografico e dalla sua trasfigurazione.
Quando
Guadagnino in sede di presentazione del film afferma che “Queer” è la sua opera
più personale, quella che ne riflette maggiormente la persona, non fa solo
un'affermazione glamour, fatta apposta per soddisfare la curiosità dei media da
sempre smaniosi di speculare sulla vita del famoso di turno, ma entra nel
merito dell’opera ancora prima della proiezione con una dichiarazione di
intenti che ci aiuta a capire la genesi del film e la sua urgenza.
La
sequenza iniziale per come è girata ci lancia più di un indizio. La ripresa a
piombo su una varietà di oggetti personali disposti sul materasso, solo in
apparenza in maniera casuale (tra questi una macchina da scrivere, una
rivoltella, vari tipi di occhialini), altro non è che l’escamotage utilizzato
dal regista per tracciare una sorta di mappa esistenziale e artistica, capace
di riassumere in un solo colpo il personaggio, di William Lee e il suo
demiurgo, William Burroughs. Ma non basta, perché lavorando sul fuori campo e,
dunque, evitando di visualizzare il collegamento tra oggetto e soggetto,
Guadagnino fa del corpo il centro della sua ricerca, come se “Queer”, con il
pretesto di raccontare le vicissitudini di un transfuga americano alla ricerca
del piacere nella Città del Messico degli anni 40, non faccia altro che
ragionare sulla maniera di conciliare la presenza del corpo (ritrovato) con le
aspirazioni di un’esistenza riassunte da quegli oggetti. A confermarlo, nella
scena che decreta la fine del viaggio e anche la conclusione del film, sono non
solo la presenza dei corpi sul medesimo letto (di Lee/Burroughs e del suo
amante), ma anche la risposta alle domande del protagonista e dello stesso
Guadagnino (se sono vere le sue dichiarazioni) costretti a fare i conti dopo un
percorso lungo e periglioso con l’inconciliabilità tra carne e spirito
("I'm not queer, i’m disembodied”, dichiara più volte William Lee nel
corso del film) come dimostra la natura fantasmatica dell’amante che abbraccia
per un’ultima volta il suo mentore.
D’altronde
che “Queer” sia un romanzo, e soprattutto un film autobiografico, lo dimostra
la scelta di Guadagnino che non a caso sceglie di tradurre in immagini il
romanzo che, pur contenendo alla pari degli altri stilemi e luoghi tipici della
poetica dello scrittore americano, si concentra soprattutto sulla condizione
omosessuale e sulle dipendenze e i tormenti che essa comporta. Se “Il pasto
nudo” era il racconto allucinato e allucinante del mondo di un
tossicodipendente in cui la diversità sessuale entrava in gioco per contribuire
a una storia di cospirazione e controllo popolata di spie e agenti segreti,
“Queer” sgombera per un attimo il campo dalle fantasie più spinte e surreali
tipiche dello scrittore americano per raccontare in maniera quasi classica il
percorso di consapevolezza del protagonista attraverso la storia d’amore tra
Lee e il giovane studente di cui rimane ammaliato.
Ed è proprio il film di David Cronenberg a fornire il termine di
paragone per capire quello di Guadagnino, perchè se “Il pasto nudo” era un film
dove la parola si faceva carne, “Queer” si comporta all’esatto contrario
partendo della carnalità del corpo, quello di Allerton (interpretato da Drew Starkey),
come unico oggetto del desiderio, per arrivare in qualche modo alla sua
negazione e dunque a quel “diesembodied” che più volte affermano i personaggi
di “Queer”. In questo senso il film, al di là delle didascalie volte a
introdurre i capitoli del racconto, si può considerare attraversato da uno
scarto di senso che ancora una volta dipende dalla funzione del corpo, con la
prima parte occupata dai “cruising" di Lee, impegnato ad andare a zonzo
per i locali gay della metropoli in cerca d’amore e proseguita dal tentativo
del protagonista di omologare la relazione con Allerton, e la seconda,
caratterizzata dal viaggio nella giungla sudamericana in cerca di un potente
allucinogeno in cui l’azione fisica è destinata a sostituire quella sessuale in
un contesto in cui il corpo assume una dimensione sempre più fantasmatica.
Ciò che stupisce nel film
di Guadagnino, al di là di quanto abbiamo detto, sono soprattutto le
scenografie che ricreano Città del Messico. Guadagnino da par suo le riprende
con una fotografia iperreale facendo della loro bidimensionalità il segno di
una rappresentazione più ideale che reale, frutto della continua alterazione
della percezione vissuta dai protagonisti. A differenza di Cronenberg, a suo
tempo costretto dalla guerra a girare in studio anziché a Tangeri,
Guadagnino con il suo cinema così controllato e algido sceglie con coerenza di
ricreare la sua Città del Messico negli studi di Cinecittà realizzando un’opera
nell’opera, allorché non solo si permette di lanciarsi in panoramiche della sua
creazione risultando altrettanto veritiero (di solito in casi analoghi la mdp
tende a restringere il campo) ma non rinuncia a mappare la città proponendone
scorci e sobborghi capaci di restituire la magia del cinema a un livello
raramente visibile in un’opera indipendente come lo è quella di Guadagnino.
Conscio di essere uno dei registi più alla moda, il nostro sfrutta il momento
consentendosi di spaziare tra generi e argomenti grazie a un dispositivo capace
di intercettare tendenze e spirito del tempo con un cinema che non rinuncia
alla bellezza dei singoli elementi. La perfezione con cui Guadagnino si
preoccupa di metterli in scena ha il neo di togliere energia e pathos
all’urgenza del suo racconto. Inserito nel concorso ufficiale dell’81ma Mostra
Internazionale d’Arte Cinematografica, “Queer” propone la coraggiosa
interpretazione di Daniel Craig tra quelle meritevoli per il premio di
categoria.
Carlo Cerofolini
(recensione pubblicata su ondacinema.it)
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