Blackhat
di Michael Mann
con Chris Hemsworth, Viola Davis, Tang Wei
Usa, 2015
durata, 135'
Nell'ultimo film dedicato
alla serie all'agente 007 (Skyfall) il personaggio di Javier Bardem si rivolgeva a
James Bond, ricordandogli che oggigiorno le guerre non si vincono sul
campo di battaglia ma sulla tastiera di un computer. Un inserto minimale e in
fondo anche contraddittorio rispetto all'estetica di un prodotto che fa dello
scontro fisico e dell'azione tout court i suoi cavalli di battaglia. Eppure l'eccezionalità di quelle parole
risuona per tutta la storia, riflettendo in modo drammatico il senso di
stanchezza dell'eroe tagliato fuori da una realtà che non riesce più a
controllare. Con bel altre conseguenze, tale dimensione di incompletezza e di
smarrimento ritorna nel nuovo film di Michael Mann, "Blackhat",
titolo gergale che rimanda all’utilizzo illecito delle capacità informatiche da
parte di Nick Hathaway (il Chris Hemsworth di "Thor" e di "Rush"), hacker
reclutato da Cia e Fbi nel tentativo di sgominare l’organizzazione criminale
che sfruttando le risorse della rete mette a rischio la sicurezza delle
nazioni.
Lo scenario presentato da
Mann però, non si ferma alla semplice lotta tra bene e male, pur presente in
molte parti del film con la consueta dose di sparatorie e altre belligeranze, ma si incunea
all’interno di un discorso filosofico ed esistenziale, che contiene i motivi che
da sempre agitano le storie del regista americano; come lo sono il tema
dell’amicizia virile e degli amori impossibili, rappresentati rispettivamente
dal legame fraterno tra Nick e Dawai, ufficiale cinese incaricato di
collaborare con gli Stati Uniti nella risoluzione del caso, e dal rapporto
sentimentale che il protagonista instaura con la bella Taing Wei (Lust: Caution), sorella
dell’amico. Ma soprattutto “Blackhat” ripropone una visione del mondo oscura e
minacciosa, che nei film di Mann produce da una parte, la struggente elegia di
un paradiso perduto e invano ricercato nella sfera delle cose umane (i soldi,
gli affetti, il gioco di squadra), dall’altra, un’esplosione di rabbia folle e
insensata che si abbatte sui protagonisti con un tasso di mortalità
paragonabile a quella di un altro campione di pessimismo cinematografico come William
Friedkin.
A differenza di
altre
volte gli esiti funzionano a fasi alterne: pregevoli quando il film si
apre
sulla realtà, interrogandola con scene come quella in cui, appena uscito
di
prigione Nick, alla maniera del John Dillinger di “Nemico Pubblico”, si
ferma a
guardare lo spazio che gli sta davanti, ricavandone un senso di
vuoto esistenziale. Come pure nella pulsione autodistruttiva derivata
dall'infinita reiterazione degli scontri a fuoco, come sempre dilatati oltre le
regole del genere e sintonizzati sull'adreanalina dei personaggi. Insufficienti quando si tratta di dare coerenza ai
contenuti con una forma, che appare didascalica nei dialoghi, quanto
inadeguata nella linerita di una progressione narrativa che
sconfessa le caratteristiche di irrazionale di cui il film si fa
portatore. Superiore alla media dei film in circolazione, "Blackhat" non è
il miglior film di Michael Mann.
Se fosse il miglior film di Mann sarebbe un capolavoro assoluto... :)
RispondiEliminaHai ragione, purtroppo qui invece è esattamente il contrario...
RispondiEliminanickoftime