"Les Lyonnais/A gang story".
diO.Marchal
con, G.Lanvin, T.Karyo, D.Duval, F.Renaud, L.Astier, F.Levantin.
Francia, 2011
genere, polar
durata, 102'
Sembra
uno scherzo - e se lo e', non può essere che di pessimo gusto - ma il
cantilenante adagio (il quale, e' chiaro, prima o poi, si rivelerà
comunque essere l'ultimo azzardo di una serie di ripugnanti automatismi)
per cui si-deve-fare-tutto-ciò-che-si- può-fare, al momento di entrare in circolo col composto semplice ma spesso indigesto (perché scomodo) di cui e' fatto il noir - e il suo gemello europeo, il polar - trova un suo sinistro e affascinate ubi consistam,
ossia quella formula coerente, rudemente elegante, nutraceutica e
stimolante dipendenza, di un-mezzo-per-uno-scopo, al cui maliardo
inganno e' difficile sottrarsi. Caso di specie e' "Les Lyonnais" - reso
come "A gang story" - di Olivier Marchal ("Gangsters", 2002; "36 Quai
des Orfevres", 2004; "L'ultima missione", 2008; "Braquo, serie TV dal
2009), tipo robusto dall'aria esausta ma risoluta, passato, dopo quasi
vent'anni trascorsi tra la Brigade Criminelle di Versailles e l'antiterrorismo, la Surete', di Parigi, con crescente successo e considerazione, alla scrittura, prima e alla direzione, poi.
Giocato
sull'incastro incalzante e deterministico tra passato e presente (il
passato, in particolar modo se di natura criminale, non solo permea di
se' e vincola il presente in un meccanismo perverso e non di rado letale
che aggiunge senza posa anelli nuovi alle catene della colpa ma
induce spesso ad illudersi, a mo' di appiglio estremo, circa la
possibilità per cui gl'individui di esso impastati e da esso plasmati vi
restino fedeli), "Les Lyonnais" ricostruisce, a partire dalle memorie
di Edmond Vidal, detto Momon (G.Lanvin), sopravvissuto truand di
origine gitana, malinconico e, in conclusione, solo senza scampo - in
un rifluire continuo di cronaca e finzione utile a restituire più un
paesaggio psicologico ed emotivo che un resoconto, sebbene puntuale
nella sua voluta frammentarietà, di un'avventura malavitosa - le vicende
sul filo del rasoio della banda che titola il film, la quale, al
termine di un feroce apprendistato come forza fresca di
un'organizzazione di sedicente ispirazione gaullista, si coagulo' in
manipolo autonomo e imperverso', a colpi di rapine-lampo tanto con
scrupolo congegnate, quanto all'occorrenza brutali - non arrestandosi
appunto davanti a nulla, meno che mai di fronte al nascente mercato
internazionale degli stupefacenti (che ne avrebbe, tra l'altro, minato
gli equilibri interni fino alla discordia e alla dissoluzione) - nella
Francia sud-orientale per circa un decennio, tra la fine degli anni '60 e
per buona parte dei '70. All'interno di tali direttrici, punto di
saldatura e frizione di tutte le vicissitudini, trova posto la parabola
umana, personale e familiare, intessuta da Momon con Serge
Suttel/T.Karyo, compagno, complice e fratello d'elezione, conosciuto in
quell'età, la fanciullezza, e secondo i modi di una solidarietà tra esclusi, durante la quale e' possibile tracciare indelebilmente il sentiero di un'esistenza intera.
"Servono
tre cose per diventare uomo", sussurra il padre al piccolo Edmond:
"Agire con rapidità, parlare poco e non tradire i propri ideali".
"Peccato che non funzioni così...", sentenzia a se stesso, una vita
dopo, lo stesso Momon, quando e' ora di tentare un bilancio
complessivo ed onesto della propria esperienza. Del resto, lucidità di
analisi, la quasi disperata lealtà di fondo (più a se stessi e come
sorta di ostinazione virile che fedeltà incrollabile ad un presunto codice che
la Storia e gli adeguamenti progressivi - sempre meno esigenti -
dell'animo umano ad essa hanno via via, dai rispettivi fronti, eroso,
tanto da far osservare ad un altro esponente di punta del cosiddetto neo-polar come Frederic Schoendoerffer: "Il milieu e' cambiato, i codici d'onore spazzati
via a immagine della nostra società che si e' degradata con le
disillusioni. Questi tipi sono totalmente irresponsabili, completamente
impazziti, fuori dai limiti. La violenza e' il loro linguaggio, il loro
mezzo di sopravvivenza per tenere il potere". E similmente: "Una banda
dura dieci o dodici anni. Dopo un'altra banda prende il potere: e'
veramente come nella catena alimentare. I malavitosi lo sanno. La storia
del criminale che termina la propria vita felice, in campagna, e' un
mito. Questo mestiere finisce sempre male"), come anche l'accurata
ricostruzione documentale delle storie, l'attenzione ossessiva ai
dettagli (abbigliamento, accessori, armi, gesti, sguardi), la pignoleria
nel tratteggio delle psicologie, hanno sempre caratterizzato i lavori
di Marchal, peraltro intrisi di una incoercibile irrequietezza, di una
irruenza a stento trattenuta, ambivalenze caratteriali, queste, che se
da un lato lo hanno posto sulla scia nobile segnata dalla meticolosa
compostezza, dal rigore nipponico, di un autore decisivo come
Melville, dall'altro hanno contribuito ad avvicinarlo a personalità non
meno complesse come, ad esempio, M.Mann e J.To, di alcuni canoni
espressivi dei quali ha saputo poi, di opera in opera, giovarsi
(pensiamo, per dire, alle geometrie al tempo essenziali, astratte eppure
sanguigne, selvagge, delle sequenze più squisitamente militari, a
diverse riprese presenti anche in "Les Lyonnais"). Elementi questi che
tornano di nuovo e assemblati quasi con ferocia intorno alle figure di Momon e Serge, gangsters predestinati da una educazione alla vita violenta e randagia, il cui unico cemento, la fiducia carnale e
omertosa - sottolinea Marchal - si rivela poco a poco malfido,
friabile, perché inadatto a respingere le infiltrazioni di un nuovo
genere di opportunismo (di evoluzione dell'adattamento ?), cieco,
irriflessivo, apatico, quindi incline a lasciar campo libero
all'efferatezza, abile a non svelare mai del tutto la sua amalgama di
base, neppure se sottoposto al vaglio della prova del nove per
eccellenza, l'avidità. In un contesto del genere, riferimenti già
precari come costanza, franchezza, capacita' di concentrazione, rispetto
delle gerarchie, e' facile che virino - e in fretta (sul serio stava
cambiando un'epoca: al di la' del gusto e dei costumi, della politica o
dell'economia, una mutazione antropologica vera e propria era in atto e cominciava a mostrare il suo vero volto a partire da uno dei laboratori sociali più
sensibili, quello del crimine) - in potenziali strumenti di
autodistruzione ("Una vita per una vita", si dice, a voce bassa,
meccanicamente, quasi ad autoconvincersi ma già non era più così vero).
Nella
luce tagliente che isola e attraversa ambienti e volti, ora come fiamma
pulsante che alimenta vite vissute senza risparmio perché senza domani
(ciò che costituisce il quotidiano e' già avvenuto - amori, figli,
svaghi - Oggi non c'è che da guardarsi le spalle, fumare nervosamente,
mangiare con le mani, cambiare spesso riparo), ora segno perspicuo,
persino accecante, a volte, di un destino segnato da sempre e avaro
d'indulgenze, la menzogna e il tradimento pur reiterati e intrecciati -
ci si e' giunti, al fine, a fare-tutto-ciò-che-si-può-fare - non
riescono più a giustificare e ad esaurire lo spazio già residuale di uno
stupore muto, l'ultimo, stonatura di nessun conto nel trionfo unanime e
annoiato della Morte.
TFK
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