Pantafa
di Emanuele Scaringi
con Kasia Smutniak, Mario
Sgueglia, Francesco Colella
Italia, 2022
genere: horror
durata: 101’
Il passato come colpa, ma
soprattutto l’impossibilità di conciliarsi con ciò che è stato e ora non è più.
Pantafa di Emanuele Scaringi ragiona sul nostro tempo procedendo con coerenza
sul percorso della propria filmografia delegando ancora una volta al genere –
questa volta tocca all’horror -, il compito di tradurre il paesaggio interiore
dei personaggi.
Se la trama è presto
detta, ruotando attorno alla fuga dal mondo di una madre e della sua bambina,
destinate a fronteggiare gli inquietanti sviluppi derivati dalla decisione di
soggiornare in un paesino di montagna, quello che più interessa in questo caso
è il modo in cui Scaringi riesce a conciliare la componente più personale del
suo discorso con la necessità di non venire meno al presupposto principe del
genere in questione, ovvero quello di mettere paura allo spettatore.
Così facendo Pantafa si
confronta con luoghi e personaggi tra i più classici del cinema horror, a
cominciare da una versione femminile del Bogeyman americano, retaggio della
tradizione popolare, alla casa infestata da demoniache presenze e per finire
con una concezione del male radicata nella storia degli uomini e dunque
destinato a reiterarsi nel tempo e nello spazio (quest’ultimo, come insegna la
Blumhouse, circoscritto per lo più all’interno di un unico ambiente). Questo
per dire come ogni elemento nel film di Scaringi suggerisce (fuoricampo) una
serie di titoli putativi al suo.
In questa ottica Scaringi
è bravo a sottrarsi dalla sudditanza verso i prodotti americani. Così è, per
esempio, la scelta del linguaggio dialettale, peraltro, nella sua asprezza
vocale, adatto a rendere il senso di una realtà minacciosa e respingente.
Altrettanto lo è il rigore di un’essenzialità che non riguarda solo la
messinscena, priva o quasi di CG, ma anche la recitazione, con Kasia Smutniak e
la piccola Greta Santi, brave a far trasparire il disagio dei personaggi da
interpretazioni scarnificate e prive dei consueti birignao.
Come successo ne La
profezia dell’Armadillo ma anche ne L’alligatore anche in Pantafa Emanuele
Scaringi mostra di prediligere il racconto intimo di esistenze ribelli e per
questo costrette ai margini. Ma non solo, perché come nel film d’esordio, anche
in quest’ultimo la crisi di identità dei personaggi si trasforma in un
conflitto, tra realtà e immaginazione, tra carne e spirito, capace di
raccontare i fantasmi delle nostre paure.
Nel farlo Pantafa non si
volge mai indietro, immerso com’è in un senso di colpa che impedisce al film di
trovare ragione dei propri patimenti. A confermarlo la scelta di collocare le
foto d’epoca, quelle con gli antenati dei protagonisti, oltre il termine della
storia. Una sorta di commento fuori campo utile a ribadire – come si diceva
all’inizio – l’impossibilità di fare pace con il passato. Ultimo atto di una
coerenza che in Pantafa non viene mai meno.
Carlo Cerofolini
(recensione pubblicata su taxidrivers.it)
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