Parthenope
di
Paolo Sorrentino
con
Celeste Dalla Porta, Silvio Orlando, Dario Aita
Italia,
2024
genere:
drammatico
durata:
136’
Un’ode
a Napoli è quello che ha ripetuto più e più volte Paolo
Sorrentino nel presentare e promuovere il suo Parthenope.
“Certo
che è enorme la vita. Ti ci perdi dappertutto”.
È
con questa frase, e con le meravigliose immagini di una Napoli quasi magica e
onirica, che si apre l’ultima fatica del regista partenopeo. In qualche modo è
un primo tentativo di Sorrentino di invitare lo spettatore a immergersi
completamente in un’opera tanto reale quanto immaginata e sperata, un’opera
vera e autentica, ma al contempo onirica e a tratti utopistica.
Quella
che sentiamo è la voce di una donna che vediamo solo di spalle da un terrazzo.
Poi improvvisamente siamo catapultati nel 1950, nel momento in cui viene data
alla luce Parthenope, sorella minore del tormentato Raimondo.
Velocemente arriviamo al 1968, più precisamente alla maggiore età della
protagonista, per poi percorrere alcuni anni densi e intensi di avvenimenti.
Tra incontri con personaggi particolari, studi universitari in antropologia e
una maggiore consapevolezza di sé, dopo aver compreso le difficoltà della vita,
Parthenope si mostra e si racconta in una serie di ricordi che
rievocano, inevitabilmente, una Napoli che è la sua stessa incarnazione.
“Io
non so niente, ma mi piace tutto”.
Una
delle tante frasi a effetto che Sorrentino inserisce nel film (e nei
suoi film in generale), ma anche una delle tante frasi a effetto di cui sono
impregnati i film più classici, come ci ricorda più volte la giovane Parthenope
che, per un breve periodo, sogna di diventare attrice perché “gli attori nei
vecchi film hanno sempre la risposta pronta”.
Quello
che fa un’incredibile esordiente come Celeste Dalla Porta
nel corso del film è guidarci all’interno del suo mondo (e) quello di Napoli.
Se da una parte vediamo una ragazza, a volte tormentata, a volte sicura di sé e
determinata a conoscere nuove sfumature, dall’altra vediamo anche il suo
corrispettivo, una Napoli elegante, silenziosa, quasi magica, con la sua
eccentricità e la sua unicità. Perché Napoli (e Parthenope) è quello che
dice la Greta Cool di Luisa Ranieri (per la quale i
riferimenti si sprecano), ma è anche molto di più.
Perché
Sorrentino ci guida, tramite la sua protagonista, sia in una storia di
crescita, d’amore, d’accettazione e di consapevolezza, ma più di tutto ci guida
nella sua Napoli, quella che nasconde al suo interno delle perle di rara
bellezza, siano esse una carrozza, un figlio tanto grande quanto tanto adorato o
un miracolo, quello di San Gennaro, elevato ormai non più a credenza popolare,
ma a consapevolezza nazionale.
“Sei
bella e indimenticabile”. Tutto è al contempo materialità e
astrattismo. La bellezza vera, giovane, fresca e corporea di Parthenope
è esattamente identica alla bellezza universale e immutata di Napoli che,
complice il mare, il paesaggio e una fotografia che propone immagini perfette,
è veramente indimenticabile per chiunque, dallo spettatore al più fragile dei
personaggi destinato a rimanere inerme e indifeso nei confronti di un futuro
per lui irraggiungibile, forse perché nel suo silenzio aveva già compreso tutto.
Ogni
inquadratura può essere considerata un quadro per come è congegnata, alla
Sorrentino, e proprio per questo, nasconde molto più di quello che si può
immaginare. Dalle tematiche care al regista allo sviluppo di uno sguardo sempre
più deciso e preciso, si passa con disinvoltura alla conoscenza di personaggi
eccentrici nella loro normalità e normali nella loro eccentricità (dalla Flora
Malva di Isabella Ferrari, celata da un velo nero che vuole coprirle
un volto ormai fin troppo deturpato a un Devoto Marotta al quale presta
il volto Silvio Orlando, professore universitario che invita a vedere
e non a guardare, con un metodo di insegnamento tutt’altro che convenzionale,
senza dimenticare l’omaggio a John Cheever di Gary Oldman).
“Quando
sai tutto muori triste e solo”.
È
quasi impossibile non scrivere di Parthenope partendo e parlando
attraverso frasi e citazioni che si inseguono durante tutto il film. E forse,
proprio in linea con quest’ultima, è meglio non scardinare troppo un film che poggia
le sue solide basi su una visione reale eppure onirica di un mondo che, alla
fine, appartiene un po’ a tutti, basta solo riuscire a vederlo.
Prendendo
in prestito temi cari al cinema di Sorrentino e volti ormai diventati
iconici grazie a lui, il regista napoletano disegna un film anche sulla sua
pelle, seppur in maniera minore rispetto al precedente È stata la mano di
Dio, ma provando comunque a raccontarsi in un modo in cui solo lui riesce a
fare.
Veronica Ranocchi
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