"To the wonder"/id.
di: T. Malick.
con: B. Affleck, O. Kurylenko, R. McAdams, J. Bardem, R. Mondello.
- USA 2012 -
112 min.
E' certo che esiste un posto nel nostro cuore "dove tira sempre il vento" - fraintendimenti, rancori, bassezze, veri e propri odi - Altrettanto vero è che ce n'è un ulteriore, quello dove le curiosità si ramificano e si fanno passioni, i moti dell'animo scalpitano e pretendono di essere chiamati "amore": un luogo che respira, fiorisce e splende quando si apre al mondo e all'altro. Tra i due spazi, materiali tanto quanto metaforici, più o meno ampi, più o meno angusti, trova posto una grande finestra che li divide e al tempo li mette in comunicazione: il cinema di Terrence Malick. Sin dai suoi esordi, infatti, l'autore americano ha disposto davanti ai nostri occhi gli strumenti di cui si sarebbe servito per rendere possibile uno scambio continuo tra le due regioni del cuore umano allo scopo di propiziarne, un giorno o l'altro, prima o poi, chissà, l'incontro in una sorta di "terra promessa della visione" di armonia e di gioia. Ecco, allora, lo slancio cieco, furtivo e violento eppure non privo di una sua selvatica innocenza dentro il corpo millenario di una natura enigmatica e impassibile di "Badlands" (1973); il corso silenzioso e solenne delle stagioni, il respiro morbido e indefettibile del Tempo che di quelle stagioni e' il tessuto invisibile ed essenziale: il paesaggio avvinto a doppio filo al panorama interiore e ai gesti spesso irrimediabili che esso concorre a produrre, di "Days of heaven" (1978). E poi - dopo un quasi ventennale silenzio - il buio della ragione, l'insensibilità e la ferocia che dilagano in mancanza del più elementare sentimento di vicinanza e fraternità nelle pieghe di un confitto miniatura perfetta di quell'altro che stagna nel pozzo nero della nostra natura e del quale "solo i morti hanno visto la fine" (Platone, "Menesseno"), di "The thin red line" (1998). Quindi l'amore irrealizzabile tra mondo come Natura/Ciclo (Pocahontas) e il mondo come Tecnica/Storia (J. Smith) di "The new world" (2005). E ancora, l'emersione del lato autobiografico - le difficoltà nei rapporti parentali; l'ambivalenza delle figure "padre" e "madre"; la morte improvvisa di un fratello tanto amato - come punto di convergenza e di rilancio delle direttrici che costituiscono la vicenda dell'uomo in quanto individuo e il suo ruolo di creatura-ingranaggio all'interno di un "corpo vivente universale" nella prospettiva (cristiana) di una approssimazione all'infinito degli affetti in vista della definitiva e trionfante edificazione dell'"albero della vita", di "The tree of life" (2011).
Con "To the wonder" - sesto lungometraggio accolto con insofferenza e non pochi lazzi alla Mostra del Cinema di Venezia del 2012 - Malick insiste nel suo viaggio grandioso e marginale alle radici della solitudine, della (im)possibilità di amare durevolmente e delle afflizioni che tutto ciò imprime nelle esistenze di persone che la Modernità ha plasmato in monadi tanto libere sulla carta quanto nella pratica quotidiana orfane di riferimenti (o, se vogliamo, incapaci a gestire il campo libero creato dalla mancanza di riferimenti, che e' anche peggio) che la razionalizzazione estrema della nostra avventura esistenziale ha reso friabili, insoddisfacenti, troppo scopertamente contraddittori, facilmente opinabili, opportunisticamente reversibili. Via via sempre meno interessato alla progressione canonica del racconto, al peso logico-drammaturgico dei dialoghi (di continuo anticipati/resi superflui da una voce esterna), il regista di Waco ha preso a concentrarsi sui silenzi dei suoi personaggi, sui loro visi meditabondi, proiettando su di essi, come accennato, fasi ed episodi del proprio personale vissuto ed incrociando il suo sguardo con quelli di uomini e donne taciturni, a volte ombrosi, spesso malinconici e dall'aria trasognata e/o sperduta, fondamentalmente inappagati e oramai pressoché anedonici, lo stesso alla estenuata ricerca di un segno di speranza e riconciliazione, di un trasporto autentico di benevolenza ed empatia.
Parigi. Neil (Affleck) e Marina (Kurylenko), insieme. Con loro anche la figlia di lei, Tatiana. Neil e Marina visitano Mont Saint Michel, giocano con la marea che sale. Si guardano. Si toccano. Si amano. Stati Uniti. Un piccolo centro dell'Oklahoma nei dintorni del quale Neil porta avanti il suo lavoro (molto simile ad uno di quelli svolti nel passato dallo stesso Malick) basato su valutazioni di compatibilità ambientale di impianti industriali, in particolare petroliferi. L'amore ha bisogno del tempo per vivere. Neil e Marina vivono il loro come se il tempo non contasse. Ma il tempo consuma l'amore e predispone le cose al dominio della morte ("... e la' dove la morte, se profusa/non e' strage, ma solo mutamento/... consentimi il viaggio, amore, nelle tue mani... H. Crane, "Voyages III", da "White buildings", 1926). Della piccola comunità e' pastore padre Quintana (Bardem), roso da dubbi di fede e avvilito dal sospetto di fingere di provare ciò che prova verso il proprio ministero e quindi verso gli altri. Neil tenta di accarezzare la "meraviglia" durante il brevissimo interludio condiviso con una ragazza appartenente al passato, Jane (McAdams). Dal canto suo, Marina, seppur riparata a Parigi dopo la scadenza del suo visto di soggiorno e il naufragio della relazione con Neil, si risolve a tornare negli USA... Messo così, potremmo dire di trovarci dalle parti del melo'. Non fosse che nelle mani di Malick e non secondariamente sullo sfondo di un'America sempre più atterrita e devastata dalla povertà e dalla tossicità del Progresso, quasi fatalmente ci si addentra nei meandri di un sentire complessivo sull'uomo, su come ha deciso/subito il sistema che giorno dopo giorno sotto i suoi occhi si e' trasformato in una trappola di frustrazione e incomprensione (nel film, al netto del doppiaggio, si parlano quattro lingue diverse) e su come tutto questo complica quando non lede irrimediabilmente il suo rapporto con se' stesso, con l'altro, con la molteplicità irriducibile e senziente della realtà fisica.
Se "i limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo", come ricorda Wittgenstein, allora i limiti del linguaggio di Malick (nel senso di ciò su cui egli ha scelto di argomentare, a dire, in ordine sparso, l'enfasi data al tema della grazia; l'ardire di un ideale di bellezza che non si limiti ad una funzione di "soprammobile di pregio dell'intelletto" o sterile "presa di posizione estetica" ma arrivi a permeare di se' lo sguardo sulle cose e i gesti di ogni giorno; un tentativo di ricomporre il dissidio biologico/psicologico tra Natura organismo vivente generatore e Cultura slancio creativo umano, sola eventualità per accedere, seppur momentaneamente, alla "meraviglia"), assumendo il mondo come "campo d'azione" e l'uomo come coscienza e tormento di essere parte del mondo, restano ancora validi nei presupposti, ben al di la' degli esiti che, come tali, sono per definizione esposti a successi e rovesci, intuizioni e corrivita', giri a vuoto, sgretolamenti, questi e quelle anche in "To the wonder" tutt'altro che assenti: da frivolezze prolungate da risultare sfuggenti per non dire irritanti, a scampoli di dialogo o di commento in equilibrio sul rasoio del sentimental-mellifluo; da birignao filosofici più simili ad avvitamenti del pensiero che a riflessioni compiute, a presenze (la Mondello) la cui imperscrutabilità e' totale: allo stesso Mont Saint Michel, "meraviglia d'Occidente", a cui in parte il titolo allude, utilizzato a fini poco più che esornativi. Premesse fondate pero', si diceva, anzi, per certi versi persino rivoluzionarie, in specie se disseminate come contraltari nel panorama iper-razionalista/sempre calcolante/un-mezzo-per-uno-scopo, in definitiva istituzionalmente cinico, nel quale viviamo/ci dibattiamo, perché profondamente e volutamente "anti-storiche", "anti-materialiste", sovente pure con misura "didascaliche" e "moraleggianti", come oramai non abbiamo più la forza e l'ingenuità non si dice di essere - o attorno a cui star li' a dibattere - ma, semplicemente, di ammetterne la legittimità. Malick, nel bene e nel male, fa questo, in pressoché beata/indifferente/maledetta solitudine (nel gran circo del cinema americano contemporaneo, la stessa dirittura, la stessa coerenza ad una "sensibilità del mondo" prima ancora che ad un'idea di Cinema - che, per quanto accennato, in fondo si ha gioco facile accostare ad un innocuo languore - e' possibile ascriverla solo a pochissime persone, due per tutte: Lynch e Cronenberg) vivisezionando e ricomponendo vaste parti delle sue opere (la pressoché intera mole del lavoro del regista texano ha subito corpose e mirate "mutilazioni": ore e ore di girato sacrificate/arrese/immolate al sogno/ostinazione della purezza, della redenzione - almeno parziale - attraverso l'immagine; dozzine di facce e corpi spesso appartenenti alla Hollywood che conta estromesse dalla mano adolescente - col concorso, qui, di ben cinque collaboratori per un montaggio, stavolta, più serrato - che pretende il fremito della bellezza suprema, carezzandola contropelo: solo in "To the wonder" non abbiamo visto/non vedremo mai ? Rachel Weisz, Barry Pepper, Amanda Peet, Jessica Chastain), spingendo la già leggendaria ricchezza dei colori e delle forme - da qualche tempo organizzate da Emmanuel Lubezki - oltre i confini del suo stesso di fatto innegabile "manierismo" (gli apparenti "sheltering skies", immensità monumentali ma fragili; gli alberi, potenze mute, tranquille e avvolgenti; le parole, sempre più sussurrate; gli sguardi, sempre più indifesi; la "retorica" sempre più esplicita e quindi, oggi come oggi, addirittura "oscena"), in quei territori silenziosi e isolati dove l'aria si fa sottile, il Cinema ha il respiro profondo e lungo del Mondo che da sempre vuole abbracciare/sostituire e il cuore si libera di un po' di quel vento che lo agita ma non lo illude di essere felice. "E all'improvviso/non una parola viene ma il pensiero di finestre alte/il vetro che assorbe il sole/e, al di la', l'aria azzurra e profonda che non mostra/nulla, che non e' da nessuna parte, che non ha fine". (P. Larkin, "High windows", da "High windows", 1974).
Con "To the wonder" - sesto lungometraggio accolto con insofferenza e non pochi lazzi alla Mostra del Cinema di Venezia del 2012 - Malick insiste nel suo viaggio grandioso e marginale alle radici della solitudine, della (im)possibilità di amare durevolmente e delle afflizioni che tutto ciò imprime nelle esistenze di persone che la Modernità ha plasmato in monadi tanto libere sulla carta quanto nella pratica quotidiana orfane di riferimenti (o, se vogliamo, incapaci a gestire il campo libero creato dalla mancanza di riferimenti, che e' anche peggio) che la razionalizzazione estrema della nostra avventura esistenziale ha reso friabili, insoddisfacenti, troppo scopertamente contraddittori, facilmente opinabili, opportunisticamente reversibili. Via via sempre meno interessato alla progressione canonica del racconto, al peso logico-drammaturgico dei dialoghi (di continuo anticipati/resi superflui da una voce esterna), il regista di Waco ha preso a concentrarsi sui silenzi dei suoi personaggi, sui loro visi meditabondi, proiettando su di essi, come accennato, fasi ed episodi del proprio personale vissuto ed incrociando il suo sguardo con quelli di uomini e donne taciturni, a volte ombrosi, spesso malinconici e dall'aria trasognata e/o sperduta, fondamentalmente inappagati e oramai pressoché anedonici, lo stesso alla estenuata ricerca di un segno di speranza e riconciliazione, di un trasporto autentico di benevolenza ed empatia.
Parigi. Neil (Affleck) e Marina (Kurylenko), insieme. Con loro anche la figlia di lei, Tatiana. Neil e Marina visitano Mont Saint Michel, giocano con la marea che sale. Si guardano. Si toccano. Si amano. Stati Uniti. Un piccolo centro dell'Oklahoma nei dintorni del quale Neil porta avanti il suo lavoro (molto simile ad uno di quelli svolti nel passato dallo stesso Malick) basato su valutazioni di compatibilità ambientale di impianti industriali, in particolare petroliferi. L'amore ha bisogno del tempo per vivere. Neil e Marina vivono il loro come se il tempo non contasse. Ma il tempo consuma l'amore e predispone le cose al dominio della morte ("... e la' dove la morte, se profusa/non e' strage, ma solo mutamento/... consentimi il viaggio, amore, nelle tue mani... H. Crane, "Voyages III", da "White buildings", 1926). Della piccola comunità e' pastore padre Quintana (Bardem), roso da dubbi di fede e avvilito dal sospetto di fingere di provare ciò che prova verso il proprio ministero e quindi verso gli altri. Neil tenta di accarezzare la "meraviglia" durante il brevissimo interludio condiviso con una ragazza appartenente al passato, Jane (McAdams). Dal canto suo, Marina, seppur riparata a Parigi dopo la scadenza del suo visto di soggiorno e il naufragio della relazione con Neil, si risolve a tornare negli USA... Messo così, potremmo dire di trovarci dalle parti del melo'. Non fosse che nelle mani di Malick e non secondariamente sullo sfondo di un'America sempre più atterrita e devastata dalla povertà e dalla tossicità del Progresso, quasi fatalmente ci si addentra nei meandri di un sentire complessivo sull'uomo, su come ha deciso/subito il sistema che giorno dopo giorno sotto i suoi occhi si e' trasformato in una trappola di frustrazione e incomprensione (nel film, al netto del doppiaggio, si parlano quattro lingue diverse) e su come tutto questo complica quando non lede irrimediabilmente il suo rapporto con se' stesso, con l'altro, con la molteplicità irriducibile e senziente della realtà fisica.
Se "i limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo", come ricorda Wittgenstein, allora i limiti del linguaggio di Malick (nel senso di ciò su cui egli ha scelto di argomentare, a dire, in ordine sparso, l'enfasi data al tema della grazia; l'ardire di un ideale di bellezza che non si limiti ad una funzione di "soprammobile di pregio dell'intelletto" o sterile "presa di posizione estetica" ma arrivi a permeare di se' lo sguardo sulle cose e i gesti di ogni giorno; un tentativo di ricomporre il dissidio biologico/psicologico tra Natura organismo vivente generatore e Cultura slancio creativo umano, sola eventualità per accedere, seppur momentaneamente, alla "meraviglia"), assumendo il mondo come "campo d'azione" e l'uomo come coscienza e tormento di essere parte del mondo, restano ancora validi nei presupposti, ben al di la' degli esiti che, come tali, sono per definizione esposti a successi e rovesci, intuizioni e corrivita', giri a vuoto, sgretolamenti, questi e quelle anche in "To the wonder" tutt'altro che assenti: da frivolezze prolungate da risultare sfuggenti per non dire irritanti, a scampoli di dialogo o di commento in equilibrio sul rasoio del sentimental-mellifluo; da birignao filosofici più simili ad avvitamenti del pensiero che a riflessioni compiute, a presenze (la Mondello) la cui imperscrutabilità e' totale: allo stesso Mont Saint Michel, "meraviglia d'Occidente", a cui in parte il titolo allude, utilizzato a fini poco più che esornativi. Premesse fondate pero', si diceva, anzi, per certi versi persino rivoluzionarie, in specie se disseminate come contraltari nel panorama iper-razionalista/sempre calcolante/un-mezzo-per-uno-scopo, in definitiva istituzionalmente cinico, nel quale viviamo/ci dibattiamo, perché profondamente e volutamente "anti-storiche", "anti-materialiste", sovente pure con misura "didascaliche" e "moraleggianti", come oramai non abbiamo più la forza e l'ingenuità non si dice di essere - o attorno a cui star li' a dibattere - ma, semplicemente, di ammetterne la legittimità. Malick, nel bene e nel male, fa questo, in pressoché beata/indifferente/maledetta solitudine (nel gran circo del cinema americano contemporaneo, la stessa dirittura, la stessa coerenza ad una "sensibilità del mondo" prima ancora che ad un'idea di Cinema - che, per quanto accennato, in fondo si ha gioco facile accostare ad un innocuo languore - e' possibile ascriverla solo a pochissime persone, due per tutte: Lynch e Cronenberg) vivisezionando e ricomponendo vaste parti delle sue opere (la pressoché intera mole del lavoro del regista texano ha subito corpose e mirate "mutilazioni": ore e ore di girato sacrificate/arrese/immolate al sogno/ostinazione della purezza, della redenzione - almeno parziale - attraverso l'immagine; dozzine di facce e corpi spesso appartenenti alla Hollywood che conta estromesse dalla mano adolescente - col concorso, qui, di ben cinque collaboratori per un montaggio, stavolta, più serrato - che pretende il fremito della bellezza suprema, carezzandola contropelo: solo in "To the wonder" non abbiamo visto/non vedremo mai ? Rachel Weisz, Barry Pepper, Amanda Peet, Jessica Chastain), spingendo la già leggendaria ricchezza dei colori e delle forme - da qualche tempo organizzate da Emmanuel Lubezki - oltre i confini del suo stesso di fatto innegabile "manierismo" (gli apparenti "sheltering skies", immensità monumentali ma fragili; gli alberi, potenze mute, tranquille e avvolgenti; le parole, sempre più sussurrate; gli sguardi, sempre più indifesi; la "retorica" sempre più esplicita e quindi, oggi come oggi, addirittura "oscena"), in quei territori silenziosi e isolati dove l'aria si fa sottile, il Cinema ha il respiro profondo e lungo del Mondo che da sempre vuole abbracciare/sostituire e il cuore si libera di un po' di quel vento che lo agita ma non lo illude di essere felice. "E all'improvviso/non una parola viene ma il pensiero di finestre alte/il vetro che assorbe il sole/e, al di la', l'aria azzurra e profonda che non mostra/nulla, che non e' da nessuna parte, che non ha fine". (P. Larkin, "High windows", da "High windows", 1974).
TFK
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