lunedì, ottobre 28, 2024

LA PIE VOLEUSE

La pie voleuse

di Robert Guédiguian

con Ariane Ascaride, Jean-Pierre Daourroussin, Gérard Meylan

Francia, 2024

genere: commedia

durata: 96’

Ancora una volta c’è Marsiglia quando si parla di Robert Guédiguain che, tracciando al meglio il suo cinema e avvalendosi di quelli che sono ormai i suoi attori feticci, realizza un ennesimo spaccato di vita (francese). Stavolta il film è La pie voleuse, presentato nella sezione Grand Public della Festa del cinema di Roma.

Un inizio concitato, tra il treno in movimento e quello che è a tutti gli effetti un furto, o almeno un presunto tale, al quale il regista francese ricorre per introdurre la storia, senza poi tornarci nello specifico. Non ci interessa sapere chi sono i rapinatori e cosa volevano. A interessarci sono le vite quotidiane di una serie di persone, tutte (o quasi) che ruotano, per un motivo o per un altro, attorno a Maria, donna delle pulizie (e all’occorrenza badante) di alcuni anziani nei dintorni di casa. Ma Maria non ha solo i suoi amici da badare e sistemare. Ha anche un marito a cui piace giocare, soprattutto soldi che puntualmente perde; ha una figlia sposata con un marito molto spesso assente a causa del suo lavoro e un nipote al quale vuole regalare il miglior futuro possibile e che vede già come un pianista affermato. Purtroppo, però, il costo di un pianoforte e delle lezioni è molto alto, tanto che né i genitori né i nonni possono permetterselo. Ma Maria, per aiutare figlia e soprattutto nipote, pensa di escogitare un piano perfetto e avere quei soldi necessari per coltivare il talento del più piccolo.

A differenza di altri suoi film, anche più metaforici o comunque con una morale diversa, La pie voleuse tratteggia quella che è la quotidianità e come essa può subire un cambiamento, anche importante, da un momento all’altro.

Le persone con cui si litiga sono quelle che si amano davvero.

E di litigi in questo film ce ne sono, ma per fortuna ci sono anche (nuove) riappacificazioni. Un intreccio continuo di relazioni che iniziano, finiscono e si mescolano tra loro per dare vita a nuovi legami, più o meno forti dei precedenti.

Al pari dell’inizio, improvviso e inaspettato, anche lo sviluppo della storia rompe un apparente equilibrio per crearne un altro. Come la pie voleuse del titolo (che richiama sia il negozio di musica dove viene acquistato il pianoforte sia l’agire, seppur a fin di bene, della protagonista), anche il ritmo, al pari di un ladro, si trova costretto a rubare qualcosa. È come se la storia si fermasse per concentrarsi sui legami dei personaggi. E se può apparire improvvisa la relazione tra due personaggi completamente agli antipodi, quello che in realtà vuole proporci Guédiguain è la possibilità di guardare il mondo da un’altra prospettiva. Una diversa prospettiva legata anche al fatto che sono le generazioni a cambiare e che il male di alcuni può ricadere sul futuro, ma spetta poi a questo futuro cercare una via di fuga. E se, però, anche i figli cadono negli stessi errori e negli stessi errori dei genitori?

In questo modo il regista strizza l’occhio, come da sempre ama fare con il suo cinema, a una realtà sempre più vicina alla finzione straripante delle tante opere artistiche. Il regista francese filma una verità passata, ma anche presente, in netta contrapposizione, entrambe incarnate perfettamente dai personaggi, come se fossero schierati in due fazioni: da una parte i genitori, nello specifico Maria, che cerca in maniera quasi ossessiva di realizzarsi, anche attraverso gli altri, e dall’altra Jennifer, la figlia sempre attenta e prudente. Alla fine, però, nessuno prevarica sull’altro, non viene elogiato uno per affossare l’altro e non vengono dati giudizi. Non ci sono né vincitori né vinti, ma c’è la consapevolezza (e la speranza) di poter dare un’altra possibilità e fare in modo che si esca dalla sala cinematografica rinfrancati e rigenerati dall’atmosfera, complici fotografia e colori, sempre positiva dell’autore francese.


Veronica Ranocchi

domenica, ottobre 27, 2024

PARTHENOPE

Parthenope

di Paolo Sorrentino

con Celeste Dalla Porta, Silvio Orlando, Dario Aita

Italia, 2024

genere: drammatico

durata: 136’

Un’ode a Napoli è quello che ha ripetuto più e più volte Paolo Sorrentino nel presentare e promuovere il suo Parthenope

“Certo che è enorme la vita. Ti ci perdi dappertutto”.

È con questa frase, e con le meravigliose immagini di una Napoli quasi magica e onirica, che si apre l’ultima fatica del regista partenopeo. In qualche modo è un primo tentativo di Sorrentino di invitare lo spettatore a immergersi completamente in un’opera tanto reale quanto immaginata e sperata, un’opera vera e autentica, ma al contempo onirica e a tratti utopistica.

Quella che sentiamo è la voce di una donna che vediamo solo di spalle da un terrazzo. Poi improvvisamente siamo catapultati nel 1950, nel momento in cui viene data alla luce Parthenope, sorella minore del tormentato Raimondo. Velocemente arriviamo al 1968, più precisamente alla maggiore età della protagonista, per poi percorrere alcuni anni densi e intensi di avvenimenti. Tra incontri con personaggi particolari, studi universitari in antropologia e una maggiore consapevolezza di sé, dopo aver compreso le difficoltà della vita, Parthenope si mostra e si racconta in una serie di ricordi che rievocano, inevitabilmente, una Napoli che è la sua stessa incarnazione. 

“Io non so niente, ma mi piace tutto”.

Una delle tante frasi a effetto che Sorrentino inserisce nel film (e nei suoi film in generale), ma anche una delle tante frasi a effetto di cui sono impregnati i film più classici, come ci ricorda più volte la giovane Parthenope che, per un breve periodo, sogna di diventare attrice perché “gli attori nei vecchi film hanno sempre la risposta pronta”.

Quello che fa un’incredibile esordiente come Celeste Dalla Porta nel corso del film è guidarci all’interno del suo mondo (e) quello di Napoli. Se da una parte vediamo una ragazza, a volte tormentata, a volte sicura di sé e determinata a conoscere nuove sfumature, dall’altra vediamo anche il suo corrispettivo, una Napoli elegante, silenziosa, quasi magica, con la sua eccentricità e la sua unicità. Perché Napoli (e Parthenope) è quello che dice la Greta Cool di Luisa Ranieri (per la quale i riferimenti si sprecano), ma è anche molto di più. 

Perché Sorrentino ci guida, tramite la sua protagonista, sia in una storia di crescita, d’amore, d’accettazione e di consapevolezza, ma più di tutto ci guida nella sua Napoli, quella che nasconde al suo interno delle perle di rara bellezza, siano esse una carrozza, un figlio tanto grande quanto tanto adorato o un miracolo, quello di San Gennaro, elevato ormai non più a credenza popolare, ma a consapevolezza nazionale.

“Sei bella e indimenticabile”. Tutto è al contempo materialità e astrattismo. La bellezza vera, giovane, fresca e corporea di Parthenope è esattamente identica alla bellezza universale e immutata di Napoli che, complice il mare, il paesaggio e una fotografia che propone immagini perfette, è veramente indimenticabile per chiunque, dallo spettatore al più fragile dei personaggi destinato a rimanere inerme e indifeso nei confronti di un futuro per lui irraggiungibile, forse perché nel suo silenzio aveva già compreso tutto.

Ogni inquadratura può essere considerata un quadro per come è congegnata, alla Sorrentino, e proprio per questo, nasconde molto più di quello che si può immaginare. Dalle tematiche care al regista allo sviluppo di uno sguardo sempre più deciso e preciso, si passa con disinvoltura alla conoscenza di personaggi eccentrici nella loro normalità e normali nella loro eccentricità (dalla Flora Malva di Isabella Ferrari, celata da un velo nero che vuole coprirle un volto ormai fin troppo deturpato a un Devoto Marotta al quale presta il volto Silvio Orlando, professore universitario che invita a vedere e non a guardare, con un metodo di insegnamento tutt’altro che convenzionale, senza dimenticare l’omaggio a John Cheever di Gary Oldman).

“Quando sai tutto muori triste e solo”.

È quasi impossibile non scrivere di Parthenope partendo e parlando attraverso frasi e citazioni che si inseguono durante tutto il film. E forse, proprio in linea con quest’ultima, è meglio non scardinare troppo un film che poggia le sue solide basi su una visione reale eppure onirica di un mondo che, alla fine, appartiene un po’ a tutti, basta solo riuscire a vederlo.

Prendendo in prestito temi cari al cinema di Sorrentino e volti ormai diventati iconici grazie a lui, il regista napoletano disegna un film anche sulla sua pelle, seppur in maniera minore rispetto al precedente È stata la mano di Dio, ma provando comunque a raccontarsi in un modo in cui solo lui riesce a fare.


Veronica Ranocchi

martedì, ottobre 15, 2024

IL ROBOT SELVAGGIO

Il robot selvaggio

di Chris Sanders

USA, 2024

genere: animazione, fantascienza

durata: 102’

Questa volta sono bastati pochi e semplici ingredienti alla DreamWorks per creare una storia degna di rimanere impressa nel cuore di chiunque.

Uno spazio e un tempo indefiniti fanno da cornice alla storia di Roz, robot multiuso ROZZOM disperso a seguito di un tifone, insieme ad altre cinque unità da una nave cargo della Universal Dynamics. Roz, il cui vero nome è unità ROZZOM 7134, programmata, come tutti gli altri robot, per aiutare e soprattutto per portare a termine un compito, si trova spaesata in un luogo abitato soltanto da animali con i quali inizialmente non riesce a comunicare e che, spaventati, la ribattezzano “il mostro”. Allontanata ed evitata da tutti, Roz pensa di fornire la sua posizione ai produttori per essere recuperata, ma a seguito di un inseguimento distrugge un nido di oche lasciando intatto solo un uovo. Aiutata, in qualche modo, da alcuni degli abitanti del posto, Roz ha un nuovo compito: prendersi cura del piccolo (che la identifica come madre, essendo la prima cosa che vede alla nascita) e aiutarlo a crescere e sopravvivere. Per farlo potrà contare sull’aiuto dell’astuta volpe Fink e non solo…

Il robot selvaggio, nato dalla penna e dai disegni di Peter Brown e diretto da Chris Sanders (che ha all’attivo grandi titoli come Lilo & Stitch, Dragon Trainer, I Croods, tanto per citarne alcuni) è sicuramente un film d’animazione al passo coi tempi.

Dai numerosi temi che emergono sia dalla storia che dai rapporti con i personaggi agli innumerevoli riferimenti e alle citazioni che si sprecano nel corso della narrazione, il film di Sanders regala una visione a metà strada tra il vecchio e il nuovo.

Innanzitutto c’è la scelta di ricorrere a un’animazione volutamente sporcata, imprecisa e imperfetta in alcuni punti. Non siamo di fronte alla perfezione alla quale ci ha abituati la Pixar, ma non siamo nemmeno di fronte ai primi acerbi disegni dei grandi e storici classici Disney. Il robot selvaggio mescola in ogni decisione, sia tecnica che narrativa, l’esperienza del passato con la speranza del futuro e lo fa strizzando l’occhio non solo ai più piccoli, ma anche e soprattutto agli adulti, invitandoli a guardare il mondo da un’altra prospettiva, proprio come Roz.

Amore, amicizia, ecologia, speranza, forza di volontà. L’elenco potrebbe continuare all’infinito talmente sono tanti gli aspetti da dovere e potere analizzare. Ma Il robot selvaggio è anche e soprattutto metafora di vita, la vita di ogni giorno che, tra pericoli, insidie e ostacoli, ci mette di fronte a delle scelte, più o meno importanti non solo per il bene del singolo, ma anche dell’intera comunità.

Identificarsi in Roz è semplice: è l’unico essere non animale del luogo e l’unico essere che cerca fin da subito di comunicare utilizzando un mezzo tutt’altro che animale, la parola, ma è il rapporto che crea con gli altri animali a renderla umana a tutti gli effetti, trasformando anche loro in esseri più vicini a noi, in grado di essere compresi. Ed è così che Fink (un omaggio o un prestito da Zootropolis e il suo riuscito coprotagonista) capisce che forse essere il più furbo del gruppo può avere dei vantaggi in fatto di prede e cibo, ma non lo porterà mai ad avere degli amici. Allo stesso modo Beccolustro (la piccola oca “nata” da mamma Roz) dovrà allargare i suoi orizzonti e comprendere che a volte le cose più semplici sono quelle meno scontate.

Insomma gli insegnamenti sono tanti, alcuni da scavare a fondo, altri che emergono più in superficie, tra un inseguimento e l’altro, una corsa, un addestramento e un’amicizia sempre più forte e solida.

Impossibile non pensare a Wall E guardando Il robot selvaggio, ma se quello che caratterizzava il robot della Pixar era la solitudine, quello che caratterizza Roz è ben altro: qualcosa di profondo e innato in ognuno di noi, da ricercare e salvaguardare costantemente, ma anche da addomesticare (come insegna Il piccolo principe, altro titolo di richiamo).

E se diventa anche divertente cercare di individuare i famigerati Easter Eggs (dalla gamba di legno di Dragon Trainer alla spedizione in volo che ricorda quella per mare di Alla ricerca di Nemo, passando per il Baymax di Big Hero 6 e il suo “quanto valuti da 1 a 10 la mia prestazione?”) è interessante notare come i riferimenti e i richiami siano una sorta di omaggio a dei titoli che è come se, messi tutti insieme, avessero come conclusione proprio la storia de Il robot selvaggio. Una Roz che diventa una sorta di Mary Poppins disposta a strapparsi un cuore artificiale dal suo bagaglio pieno di cose per fare spazio a un cuore vero e accogliere il piccolo Beccolustro con il quale si crea un legame indissolubile e anomalo, alla Sepúlveda, con il suo gatto che è riuscito a insegnare a volare a una gabbianella.


Veronica Ranocchi

mercoledì, ottobre 09, 2024

IL TEMPO CHE CI VUOLE

Il tempo che ci vuole

di Francesca Comencini

con Fabrizio Gifuni, Romana Maggiora Vergano

Italia, 2024

genere: drammatico

durata: 110’

Ci sono diversi modi di realizzare un biopic. Trattandosi di un genere oltremodo popolare la tendenza generale è quella di affidarsi alla fama del protagonista attenendosi a un racconto riepilogativo degli eventi più importanti della sua vita. La mancanza di regole fa si che taluni optino per una rappresentazione capace di risalire al tutto proponendo una o più fasi della stessa esistenza come ha fatto Dennis Boyle per “Steve Jobs”. A valorizzare il genere però è stato più di tutti Christopher Nolan che lo scorso anno ha monopolizzato la stagione dei premi con un film, “Oppenheimer”, che lavorando sulla forma ha saputo superare i limiti del conosciuto per raccontare dal di dentro le contraddizioni del suo personaggio.

Per competenza argomentativa e soprattutto per la capacità di adottare un punto di vista intrinseco alla materia narrata “Il tempo che ci vuole”  nella sua natura di biopic anomalo - pronto a trasfigurare il reale in favore di un racconto emotivo e poetico -, partiva in qualche modo avvantaggiato in virtù del fatto che a raccontare il rapporto tra Luigi Comencini e sua figlia Francesca è proprio quest’ultima, ancora una volta dopo il film d’esordio (“Pianoforte”, 1984) alle prese con un discorso autobiografico che qui si va completando nel ricordo della figura paterna, approfondita nella sua accezione salvifica e dunque negli effetti benefici che ebbe la sua vicinanza nel percorso di guarigione dalla tossicodipendenza.

Se “Pianoforte” era stato per la Comencini un film girato quasi in diretta, nell’intento di oggettivare il ritorno alla vita nella necessità di mettersi alle spalle una volta per tutte l’esperienza più drammatica della propria vita, “Il tempo che ci vuole” è un’opera che ha dovuto aspettare il tempo necessario per essere realizzata e che dunque più di altre ha a che fare con l’età matura. E questo non tanto per il consuntivo esistenziale che il lungometraggio contiene e neanche, come si potrebbe pensare, per un rapporto, quello tra padre e figlia che nei fatti costituisce il centro del racconto. Parafrasando il titolo del film, il tempo che ci vuole è tra le altre cose quello necessario per fare pace con la generazione dei padri che le generazioni sessantottine avevano dichiarato di voler uccidere. Se “Colpire al cuore” per essere stato contiguo agli anni di piombo non poteva far altro che raccontare il rapporto padre figlio nella sua irresolutezza conflittuale, “Il tempo che ci vuole” riesce a smarcarsi dal contesto storico che racconta leggendo quella stagione a distanza di anni e dunque da una prospettiva che gli consente - sotto la spinta della propria esperienza - di guardare a quel rapporto in maniera conciliante.

Legato alla Settima arte per forza di cose, “Il tempo che ci vuole” più che sul cinema e un film sul modo in cui Luigi e Francesca Comencini lo hanno inteso e cioè in maniera minoritaria rispetto alle priorità della vita. In questo senso partendo dalla figura paterna, divisa tra la vita e il set, il film fa del cinema e delle sue incursioni nell’esistenza dei protagonisti una sorta di appendice a un quotidiano che la Comencini decide di trasfigurare attraverso rimembranze che si colorano di continua fantasia. Incastonato all’interno di una cornice che rimanda al sogno e dunque al cinema (ci riferiamo ai frammenti del film in bianco e nero che aprono e concludono il film, quelli in cui vediamo una persona addormentarsi e poi destarsi dal sonno), il racconto si mantiene coerente alla sua premessa prendendo le distanze da qualsiasi naturalismo per abbracciare una visione ideale che pur facendo riferimento a fatti realmente accaduti li reinterpreta alla luce del sentimento di affetto e di riconoscenza della figlia nei confronti del padre.

Raccontando la propria vita e quella del genitore come non era mai stato fatto, immaginandola in esclusiva e cioè senza la presenza (visiva e materiale) di familiari e amici, “Il tempo che ci vuole” adotta un dispositivo che si fa portatore di un nuovo sguardo sulle persone e sulle cose e con esso di una buona dose di libertà artistica. Funzionale al discorso privato e dunque alla volontà di dare conto di un’esperienza eccezionale come lo è stata quella della Comencini con il padre e mentore, il “metodo” utilizzato dall’autrice si porta dietro una freschezza che alleggerisce il discorso evitando all’immaginazione di essere imbrigliata da intellettualismi e autocelebrazioni.

Così facendo ad andare in scena sul grande schermo è una favola nella favola che mescola realtà e finzione nella maniera in cui lo facevano i film di Luigi Comencini, sempre attenti a preservare l’umano dall’invadenza della macchina da presa. “Il tempo che ci vuole” parafrasa il cinema ogni volta che può, talora dando vita a fantasmagorie cinematografiche che rimandano all’universo e alla mitologia condivisa dai due protagonisti (a svettare sono quelle legate al Pinocchio collodiano), altre volte valorizzando attraverso i molti primi piani presenti della seconda parte la forza espressiva degli attori, Fabrizio Gifuni e Romana Maggiora Vergano, bravissimi nel dare conto di gioie e dolori mantenendosi sempre sulla soglia di un'essenzialità che non rinuncia all’emozione. Al contrario dei biopic classici, che rincorrono l’interpretazione mimetica per far parlare di sé, “Il tempo che ci vuole” se ne tiene lontano in maniera coerente affidando agli attori la capacità di suscitare i ricordi senza usurparne l’immagine. Presentato fuori concorso all’81 Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica, per chi scrive “Il tempo che ci vuole” avrebbe meritato una vetrina ancora più prestigiosa.


Carlo Cerofolini

(recensione pubblicata su ondacinema.it) 

venerdì, ottobre 04, 2024

FAMILIA

Familia

di Francesco Costabile

con Francesco Gheghi, Francesco Di Leva, Barbara Ronchi

Italia, 2024

genere: drammatico

durata: 120’

Dopo il debutto forte e impegnato con il suo “Una femmina” Francesco Costabile torna a parlare di tematiche d’impatto con il suo “Familia”.

Un film che dà valore alla vita, (di)mostrando come guardare e rapportarsi con il mondo che si è disposti a creare nella propria esistenza.

La storia di Luigi Celeste inizia quando lui, ancora piccolo, è con il fratello Alessandro ed entrambi sono costretti ad assistere, seppur al di là di una porta a vetri, alla violenza domestica che ha luogo nella loro casa per mano del padre. Franco Celeste (un bravo e detestabile Francesco Di Leva) è accecato da una gelosia morbosa a tal punto da non permettere alla moglie Licia (una dimessa, ma sempre efficace Barbara Ronchi) di condurre una vita normale come tutti. Possessivo al punto da costringerla a dire e fare tutto quello che vuole lui, nel momento in cui lei prova a ribellarsi, la violenza verbale si trasforma in violenza fisica. Queste scene, sempre più frequenti e sempre più spaventose, iniziano a uscire dalle mura domestiche tramite i figli che ne scrivono nei temi scolastici. Una denuncia e un allontanamento forzato del padre portano, però, alla separazione dei due figli dalla madre che, per proteggerli, si trova costretta ad accettare il fatto compiuto. Così i fratelli crescono, prendendo strade diverse, pur rimanendo uniti da quel piccolo-grande segreto familiare, il più grande, Alessandro, interpretato da Marco Cicalese, e il più piccolo, Luigi “Gigi”, interpretato dal giovane talento Francesco Gheghi (premiato a Venezia come miglior attore della sezione Orizzonti).

I sospiri concitati, carichi di preoccupazione e terrore, che si sentono fin dall’inizio, si trasformano nel corso del film, di pari passo con la crescita dei due fratelli, soprattutto di Gigi che, dopo aver millantato nella X MAS, è il primo a cercare una via d’uscita, seppur estrema, dalla situazione in cui lui, Alessandro e la madre si trovano.

Se la Familia del titolo vuole richiamare l’idea di famiglia normale intesa come equilibrata, in realtà quello che il regista vuole suggerire allo spettatore è che ne esistono diversi tipi, non tutti corretti, non tutti uguali, non tutti con le stesse regole. La riflessione è molto più ampia e inizia immediatamente. Due contesti e due rapporti diversi. La madre che evita di toccare l’argomento, cambia serratura e cerca di ovviare al problema non affrontandolo. Il padre che va a prendere i due figli e li porta al parco giochi, li fa (apparentemente) divertire, sperando di trasformarli in burattini nelle sue mani. E proprio dal contrasto di questi due rapporti nasceranno approcci diversi da parte dei due figli, in grado entrambi di reagire, ma non allo stesso modo. Il già più maturo Alessandro, in grado di comprendere fin dalla tenera età, la gravità della situazione cercherà, per quanto possibile, di dimenticare, a differenza di un agguerrito Gigi, in cerca più che altro di un suo posto nel mondo e di un suo autentico concetto di famiglia.

Il suo millantare all’interno del gruppo fascista è soprattutto una ricerca di un’identità che probabilmente non ha mai avuto a casa. Non è un caso, infatti, che solo in quel momento Gigi si senta un figlio, capito (almeno in parte) e aiutato, e non un padre o comunque qualcuno con la responsabilità di dover mandare avanti una famiglia. Ed è sempre lì che incontra Giulia (Tecla Insolia) con la quale sperimenta una sorta di relazione, provando a mettere in pratica insegnamenti che ha appreso autonomamente. Un tira e molla continuo che non sfocia, però, mai nella violenza fisica (fatta eccezione per una spinta). Un tira e molla al quale entrambi cercano di appigliarsi con le unghie e con i denti per non dover affrontare il resto del mondo, ma provando a rimanere nel proprio “caldo” nido come quello di un uccellino che dà vita ai suoi piccoli, covandoli e aspettando che l’uovo si schiuda.

Io non posso più aspettare.

L’impazienza e la determinazione di Luigi evolvono nel corso della narrazione, mostrando una crescita a tratti necessaria, a tratti pericolosa che ben si amalgama non solo con l’interpretazione di Francesco Gheghi che si concede anima e corpo al suo personaggio, ma anche e soprattutto con una regia onnipresente e mai ridondante. Dai continui cambi di sguardi dei personaggi ai movimenti lenti della macchina da presa nei momenti più conviviali e, quindi, notoriamente, più familiari, la regia di Francesco Costabile invita lo spettatore a prestare molta attenzione a ogni singolo elemento in scena. O fuori scena, come la corsa, apparentemente senza confini e senza meta del piccolo Luigi.


Veronica Ranocchi