venerdì, settembre 20, 2024

'COPPIA APERTA QUASI SPALANCATA' CONVERSAZIONE CON FEDERICA DI GIACOMO

Film d’apertura delle Giornate degli Autori e in sala dal 29 agosto Coppia Aperta quasi spalancata prende in prestito il teatro e un’attrice di successo, Chiara Francini, per parlare dell’amore di coppia in tutte le sue declinazioni. Del film abbiamo parlato con Federica Di Giacomo.

Coppia aperta quasi spalancata di Federica Di Giacomo è in sala dal 29 agosto con I Wonder Pictures, ma è stato presentato anche a Venezia 2024.

Leffetto meta cinematografico della prima sequenza è piacevolmente spiazzante. Allinizio infatti crediamo di guardare un film di finzione interpretato da Chiara Francini e Alessandro Federico, poi quando il privato degli attori entra allinterno dellinquadratura ci si accorge di trovarsi di fronte a un documentario. In realtà Coppia aperta quasi spalancata è un film polivalente dove arte e vita si mescolano di continuo. Come ti è venuto in mente un inizio del genere?

L’idea è nata quando abbiamo seguito per alcuni giorni la tournée teatrale. Nella vita reale rispetto allo spettacolo i rapporti tra i due attori erano ribaltati, Alessandro più sottomesso e Chiara molto dominante con effetti piuttosto comici. Da lì abbiamo pensato che rompere subito il meccanismo di finzione classico aiutasse lo spettatore ad entrare in una prospettiva diversa che portava il racconto nella società. D’altronde Franca Rame con la vena provocatoria del suo stile era riuscita a realizzare una satira molto pungente della società del suo tempo. La volontà quindi era quella di trasporlo con lo stesso spirito dell’autrice nell’Italia di oggi attraverso una nuova geografia dell’amore.

Coppia aperta quasi spalancata è costruito come un gioco di specchi perché il tema dellamore di coppia analizzato nelle sue variabili aveva anche nel sodalizio lavorativo tra Chiara e Alessandro con possibile esempio. 

Sì, la cosa interessante era proprio quella. Attraverso l’osservazione le mie ricerche si sono indirizzate in due direzioni. La prima consisteva nel cercare nella realtà chi praticava il modello di coppia aperta, cercando di capire se questo concetto era lo stesso quarant’anni fa oppure no. All’inizio ho cercato anche nell’ambito dello scambismo che è la versione più immediata con cui si traduce il concetto di coppia aperta, nel senso che normalmente si parla di aprire la coppia solo dal punto di vista sessuale, prospettiva, questa, che ho trovato fin da subito poco interessante perché restringeva troppo il campo. Al contrario il poliamore come nuova visione della società e della famiglia mi sembrava un punto di vista più stimolante. Per questo ho seguito una di queste coppie che guardano alla monogamia come qualcosa di medievale destinato a durare ancora oggi solo per motivi legati alla struttura sociale – dunque alla disparità tra uomo e donna – ed economica. Una critica questa che in fondo era presente anche nel testo teatrale. Parallelamente ho iniziato a seguire anche Chiara e Alessandro nella confidenzialità che spesso si stabilisce nel corso delle tournée teatrali.

Se consideriamo che nel rapporto lavorativo tra Chiara e Federico si inserisce anche Frederic, compagno dellattrice, è possibile vedere anche loro come una variante di coppia aperta, seppur nel senso più platonico del termine.

Infatti si tratta di una versione poliamorosa che non si realizza perché in loro persiste l’idea della monogamia, in Inglese si dice One Penis Policy, cioè un unico uomo dentro la coppia dunque dell’esclusività sessuale in cui si possono condividere molte cose ma non tutte. Devo dirti che il parallelismo tra un trio che non si apre e l’altro, in cui invece due maschi eterosessuali diventano amici e accettano di condividere la relazione con la stessa donna, è nato in maniera spontanea ma per me era molto importante perché ripropone la domanda fondamentale del testo, può una donna permettersi la libertà sessuale e sentimentale che viene socialmente accettata per l’uomo?

Coppia aperta quasi spalancata si pone in continuità con i tuoi precedenti lavori a partire. Anche ne Il Palazzo, per esempio, raccontavi un modo di vivere estraneo ai costumi della nostra società. Li portavi agli estremi il concetto di amicizia, qui quello relativo allamore. Anche in Coppia aperta quasi spalancata abbiamo a che fare con una filosofia proveniente dalla cultura degli anni settanta a testimonianza di un discorso che porti avanti con coerenza di film in film. 

Sicuramente mi affascina scoprire microcosmi di senso all’interno del nostro mondo, fatti di persone che condividono una situazione o un modo di pensare diverso. Quando ci entro, sospendo il giudizio e li osservo per mesi, o anni e cerco di guardare tutto dal loro punto di vista, con le loro parole, con i loro codici interni. Mi sembra sempre, dal mio primo film, un modo per guardare il resto della società con una nuova distanza che illumina di significato e di orizzonti di senso interessanti i paradigmi del pensiero dominante. Le comunità dei poliamorosi mi hanno aiutato a vedere la monogamia con occhiali particolari, ho riconsiderato certi concetti che anche io avevo incrostati dentro di me, mi sono resa conto che molte idee sull’amore e sulla gelosia le avevo interiorizzate senza problematizzarle abbastanza e ne ho fatto un tema del film.

Come pure labitudine di prendere le parti più estreme del tuo discorso e inserirle in un contesto di normalità per constatarne gli effetti. 

Come in Liberami ho cercato di ribaltare la prospettiva normalizzando la figura del prete esorcista qui mi sembrava stimolante ribaltare la prospettiva verso i Poliamorosi che, come mi hanno raccontato moltissimi di loro, in Italia vengono visti attraverso stereotipi vecchi e fuorvianti. Alcuni parlano di terrore poliamoroso, quando decidono di parlarne ci sono reazioni di ansia, di paura piuttosto scomposte, a volte esilaranti, di chi ha un’idea più tradizionale del rapporto, come se fossero portatori di un virus contagioso. Quando abbiamo incontrato la polecola, cioè la famiglia di SaraDaniel Efrem e Chloè, abbiamo respirato un’atmosfera di tranquillità, rispetto e cura che li pone proprio all’opposto dell’idea che si ha spesso dei poliamorosi come nevrotici cercatori di emozioni e sesso. Quindi il dispositivo del ribaltamento ha funzionato.

Un dispositivo, quello che hai appena detto, riassunto da inquadrature ricorrenti in cui vediamo la quinta teatrale ripresa dal backstage. 

Sì, certo, quelle inquadrature facevano parte del meccanismo per passare dal teatro alla vita reale. C’è da dire che i testi di Franca Rame sono ad alto contenuto autobiografico. Lei è stata una delle prime autrici ad avere il coraggio di portare la propria vita sul palco. A far diventare politico il personale ce l’ha insegnato lei, portando anche il teatro fuori dai teatri borghesi verso la gente comune, quindi mi sono anche sentita legittimata a fare un’operazione meta teatrale e anche meta cinematografica. Capisco che la perdita di riferimenti e un linguaggio diverso da quello classico può risultare un po’ straniante per chi non vi è abituato ma quando è così siamo anche più aperti ad accettare opinioni diverse dalla nostra. In una scena può capitare di sentirci più vicini a un personaggio, in un’altra ad un secondo senza sentire il bisogno di riconoscersi in posizioni di pensiero definitive.

Alla maniera di Franca Rame, anche Chiara Francini nel film accetta di mettere in discussione se stessa e il suo personaggio attraverso un confronto serrato con la realtà. Da una parte vi figura come una sorta di grillo parlante, dallaltra non ha paura di mostrarsi con tutte le sue imperfezioni.  

L’idea era di ripetere un po’ il rito di Franca e quindi dell’attrice che quarant’anni dopo porta in giro lo spettacolo nei teatri stabili di tutta Italia accettando di aprirsi e di svelare qualcosa della propria vita. In realtà in questo Chiara è stata propositiva, cioè lei stessa mi voleva proporre sin dall’inizio la sua vita, i rapporti con la madre, quelli con il fidanzato e con il collega di lavoro. Non ti nascondo che si è trattato di un film molto complesso da girare perché per i poliamorosi invece mostrarsi ed aprirsi non era facile, molti di loro non lo avevano ancora detto a parenti o nell’ambito lavorativo. Per questo abbiamo costruito una relazione di fiducia che li aiutati a credere nel progetto e solo dopo molti mesi hanno aderito completamente al film.

Infatti unaltra caratteristica del film è quello di un confronto molto spontaneo in cui Chiara e Alessandro si trovano spesso in minoranza rispetto agli altri. Chiara non ha paura di essere fuori dal coro in maniera spesso conservativa così come non lhanno gli altri nel manifestargli il loro dissenso. 

Secondo me questo aspetto diventa metaforico rispetto alla nostra società. Negli anni settanta il dibattito e il confronto di idee era il benvenuto mentre adesso esprimere un’opinione contraria alla maggioranza rischia di metterti in disparte. Dunque la cosa più politica che potevo fare era quello di mantenere lo spirito di Franca, creando un dibattito per poi mostrarlo senza filtri, facendo venire fuori dei concetti che covano da anni dentro di noi. Non bisogna dimenticare di essere cresciuti in un paese cattolico in cui la monogamia è intoccabile, caricata com’è di un romanticismo che non esiste più perché nel frattempo la famiglia è completamente cambiata. Nel creare questi momenti di confronto abbiamo cercato di non dare troppe informazioni ai partecipanti per mantenere una certa genuinità e fare uscire le domande più scomode proprio perché su questi temi cosi personale e complessi non esiste una risposta unica.

Nel film ci sono delle scene esilaranti. Una di queste è quella dellincontro con la madre. In generale sia lei che altri sembrano più personaggi di quelli di finzione.    

Quello mi deriva dall’istinto documentaristico, nel senso che io mi innamoro degli esseri umani e tendo a considerare la loro forza espressiva pari o superiore a quella degli attori che sono comunque chiamati a fare un lavoro per arrivare alla verità. Quando ho incontrato la madre di Chiara ho trovato una tale carica di ironia, una tale dignità ed intelligenza, tempi comici perfetti, che mi sembrava impossibile da non rappresentare. Considera che in tutte le scene non c’è un dialogo scritto: cioè io predispongo, preparo, lavoro sulle situazioni da mettere in scena ma poi loro vanno liberi. Non intervengo mai durante le riprese.

Unaltra sequenza molto divertente è quella con Chiara e il marito, con questultimo che ha una mimica facciale opposta a quella di lei. I loro battibecchi sono degni di quelli tra Raimondo Vianello e Sandra Mondaini. 

Sì, il rapporto con Frederick era molto interessante perché lui ha questo umorismo nordico che si contrappone alla grande all’esuberanza di Chiara con le sue battute fredde, puntuali e ciniche. L’idea però è stata di non limitare il film su una coppia. Al contrario per me era molto importante aprirla per far diventare il film un racconto plurale nel tentativo di ragionare sulla monogamia di coppia da un punto di vista diverso. Da qui l’idea di creare un parallelismo con l’altra famiglia, quella fondata sul poliamore.

In tal senso ho trovato molto azzeccata la sequenza finale che rovescia completamente la filosofia del poliamore mostrando Chiara in balia di Frederic, maschio alfa in cerca della casa dei suoi sogni e non di quelli di lei. 

Beh, sì, il gioco era un po’ quello di far riflettere su cosa è veramente anomalo. In realtà l’ultima scena del film doveva essere un omaggio a Franca Rame. Io e la montatrice abbiamo scelto un pezzo della famosissima intervista con la Carrà in cui Franca parla dei baci che si possono dare anche se si è in coppia ma purtroppo per problemi di produzione non è stato possibile inserirla. In generale l’esclusività sessuale ci porta a stare con una determinata persona quando forse avremmo da condividere di più con altri. È l’idea che secoli di letteratura e cultura ci hanno tramandato della metà che ci completa e diventa l’unica aspirazione caricandoci tutti di aspettative eccessive. In una società – come dice il rapporto Istat sulla famiglia – in cui l’Italia è composta dal 33% di single, i poliamorosi propongono di riconsiderare in concetto di rete affettiva in cui gli altri affetti di cui ci circondiamo sono importanti tanto quanto questo fantomatico partner che dovrebbero risolverci tutta la vita.

Lesuberanza di Chiara rischiava di vampirizzare il testo del film. La tua bravura è stata quella di creare un dispositivo in grado di contenerla assicurando agli altri lo stesso spazio e complessità. Com’è stato lavorare con lei? Te lo chiedo perché tu sei una regista con una precisa identità, lei altrettanto e dunque appartenuti a mondi lontanissimi per visione della vita e del cinema. 

La cosa interessante era proprio andare dentro questa diversità cercando di capirla. Era chiaro che quando l’attrice e la produttrice di un film coincide con la stessa persona il rischio di sbilanciare la narrazione su un binario unico è molto forte e sapevo che questo poteva rendere difficile la lavorazione del film. In più veniamo anche da visioni della vita e del cinema molto diverse. Per questo motivo dopo i mesi di ricerca e sviluppo con il mio gruppo di scrittori ho proposto un trattamento ed ho condizionato la mia partecipazione al film alla sua accettazione, proprio per rendere condiviso con tutti il metodo e la struttura corale del film.

In realtà Chiara ha la dote di dire le cose fuori dai denti e senza molti filtri e la prima cosa che mi ha detto è che le interessava il mio modo di andare verso la realtà, quindi era disposta ad accettarne le conseguenze. Siamo partiti senza sapere se ci saremmo riusciti, senza avere dati certi, dovendo fare il film anche in tempi molto stretti per esigenze produttive. Abbiamo corso, ci siamo buttati, ci siamo scontrati ma questa energia molto forte ha creato un film vivace ed interessante.


Carlo Cerofolini

(conversazione pubblicata su taxidrivers.it)

giovedì, settembre 19, 2024

JOKER: FOLIE A DEUX

Joker: Folie à deux

di Todd Philips

con Joaquin Phoenix, Lady Gaga, Zazie Beetz

USA, 2024

genere: drammatico, thriller, musicale

durata: 138’

Di solito ci piace far discendere le nostre analisi affidandoci esclusivamente alla capacità di filmare il senso della storia. Nel caso di "Joker: Folie à Deux" vale la pena fare un'eccezione perché, seppur in parte intuibile per la natura dei protagonisti, non solo di Arthur Fleck ma della new entry Harleen Quinzel (Lady Gaga), che in termini di follia non è da meno del suo innamorato, giova specificare che il termine folie à deux, oltre al significato più evidente, relativo alle affinità di cuore e di vedute tra lui e lei, rimanda alla scoperta di due psichiatri francesi dello scorso secolo rispetto alla trasmissibilità della sindrome psicotica da un individuo all'altro.

Alla luce di questo, il senso del nuovo lungometraggio di Todd Phillips denuncia da subito la volontà di disfarsi dell'ambiguità narrativa del precedente "Joker", indicando allo spettatore la direzione a cui guardare per decriptare i significati di un film che, come abbiamo imparato, si fa fatica ad associare agli altri superhero movies. Nonostante in superficie "Joker: Folie à Deux" appaia a prima vista come la storia di un amore impossibile inteso nel senso più classico della parola, per la forza persuasiva del colpo di fulmine che fa scattare la scintilla tra Arthur e Harleen, - entrambi detenuti nel famigerato (per chi conosce le storie di Batman e soci) Arkham Asylum - in realtà, è soprattutto la diagnosi certificata della strisciante follia che attraversa come un virus la nostra società a caratterizzare la lettura più profonda dei fatti che muovono la  storia  mostrandone la comunanza della patologia.

"Joker: Folie à Deux" ne verifica di continuo la virulenza mostrandone appena possibile le prove e dunque cospargendo il film di un'alienazione che colpisce a destra e a manca trovando la propria apoteosi nella scena conclusiva - che non sveliamo per non togliere allo spettatore la sorpresa di vederla al cinema -, quella che, oltre decretarne il punto di non ritorno di una malattia irreversibile, apre nuovi scenari per quanto riguarda il personaggio interpretato da Joaquin Phoenix.

Una schizofrenia che Phillips trasmette creando una dialettica tra temi contrapposti come realtà e immaginazione, verità e finzione, perdono e redenzione, odio e amore e facendo della varietà dei generi una sorta di cartina di tornasole dell'instabilità psichiatrica del duo per il fatto di presentarsi dapprima come un prison movie (ambientato all'interno della prigione in cui il protagonista è detenuto), per poi continuare come fosse un legal thriller (la trama è incentrata sul processo al Joker per i delitti commessi nel precedente episodio) e ancora puntellando l'impalcatura narrativa con esibizioni canore e danzanti (giustificate dalla presenza di Lady Gaga) chiamate a costituire l'elemento spettacolare del film, ovvero quell'intrattenimento più volte menzionato in "That's Entertainment" (tratta da "The Band Wagon", 1953) una delle canzoni più famose presenti nella colonna sonora del film.
Detto questo "Joker: Folie à Deux" continua a ragionare sulla società dello spettacolo portando agli estremi il pensiero già enunciato nel primo perché, se in "Joker" il debordante potere delle immagini dava il là al sollevamento di popolo capace di fare della morte in diretta (l'uccisione del presentatore televisivo Murray Franklin) la ragione di una leadership, destinata in un attimo a creare milioni di proseliti, il secondo capitolo ne presenta il conto, affermando l'impossibilità del Joker, come di noi altri, di uscire fuori dalla propria immagine, soprattutto se quest'ultima è entrata nell'immaginario comune attraverso la forza persuasiva e distorsiva della televisione, il medium che il regista sceglie in rappresentanza dei vari social network chiamati a dettare le dinamiche delle nuove relazioni sociali.

Uno scarto di significato che fa il paio con lo status del personaggio sul quale Phillips lavora per continuare a operare la demitizzazione del super eroe (anche se qui si tratterebbe di un super villain), nel cui profilo il conflitto tra identità e maschera diventa il contrappasso destinato a decretare l'impossibilità di uscire dal proprio personaggio a meno di non essere pronto a pagare la rottura del patto con i suoi sostenitori.
Peccato che nel farlo "Joker: Folie à Deux" si dimostri a corto di idee  rispetto al capostipite, del quale in parte ripete alcune trovate, in parte ne aggiunge altre, come gli inserti di musical - pensati per marcare la diversità del film - i quali, sulle note di un repertorio non originale, vengono proposti come espressione dell'amore di Arthur per Harleen, risultando quasi sempre estemporanei e fini a sé stessi (ci riferiamo soprattutto ai duetti tra i due amanti), dando l'impressione di non contribuire allo sviluppo della trama. Forte del successo del film precedente Todd Phillips non arretra di un millimetro in termini di coraggio spingendo il film verso "lidi" mai praticati da un blockbuster. Interessante sarà conoscerne gli esiti per capire se il pubblico continuerà a sostenerne le idee, non ultima quella di spingere due star come Joaquin Phoenix e Lady Gaga verso punte di antidivismo da cui entrambi escono comunque vincenti. In concorso all'81esima Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica "Joker: Folie à Deux" difficilmente ripeterà l'exploit fatto segnare nella precedente apparizione.


Carlo Cerofolini

(recensione pubblicata su ondacinema.it)

mercoledì, settembre 18, 2024

EL JOCKEY

El Jockey

di Luis Ortega

con Nahuel Pérez Biscayart, Úrsula Corberó, Daniel Giménez Cacho

Argentina, Messico, Spagna, Danimarca, USA, 2024

genere: commedia, gangster

durata: 96’

Le maschere, storpiate, brutte, tragicomiche, mostrate una dietro l’altra nella prima sequenza di “El Jockey” di Luis Ortega sembrano quasi volerci mettere in guardia e prepararci a una visione diversa dalle altre dove forse non tutto è da prendere sul serio, dove quelle stesse maschere verranno tolte e dove tutto quello che si vede non è come sembra.

Perché Luis Ortega prova a stupire fin da subito, ad andare contro corrente, mostrandoci un film a metà tra il tragico e il comico, tra il reale e il fantastico, costantemente in bilico tra la vita e la morte (antipodi sui quali si fonda l’intera storia).

            La scuola migliore è la disgrazia.

E di disgrazie al povero Remo Manfredini, fantino leggendario, ne succedono davvero tante, quasi da perdere il conto.

Remo Manfredini è un fantino leggendario, ma il suo comportamento autodistruttivo sta cominciando a metterne in ombra il talento e a mettere a repentaglio la relazione con Abril, la fidanzata.

Il giorno della gara più importante della sua carriera, che lo libererà dai debiti col suo boss mafioso Sirena, ha un grave incidente, scompare dall’ospedale e vaga per le strade di Buenos Aires. Libero dalla propria identità, inizia a scoprire il suo vero io. Ma Sirena è determinato a stanarlo. Vivo o morto. (Fonte: Biennale)

Al di là della storia, più o meno semplice, più o meno contorta, a impressionare del regista argentino è sicuramente lo stile, fuori dal comune e mai ripetitivo, nonostante il susseguirsi di eventi che potrebbero portare a una ripetizione quasi estenuante.

E' chiaro fin da subito l’intento di Luis Ortega, seguire il protagonista che, all’occorrenza, può trasformarsi in chiunque, assumendo diverse sembianze e che quindi, non solo arriva a catalizzare qualsiasi tipo di attenzione su di sé, ma permette anche una più semplice identificazione proprio perché abbraccia una fetta di pubblico più vasta.

Luis Ortega sceglie di non limitarsi a un solo ambiente, ma anzi decide di mostrare quelli che sono i bassifondi di un’Argentina (che potrebbe essere qualsiasi altro luogo) facendo leva sulla decadenza e sulla mancanza di qualsiasi cosa da parte di tutti gli abitanti, dai giovanissimi ai più anziani.

Se per conoscere meglio Remo e la sua fidanzata (la Ursula Corbero de “La casa di carta”) non approfondiamo troppo il loro rapporto, mostrato solo in un breve momento tragicomico nel quale i due condividono alcuni pensieri intimi sulla genitorialità e non solo, ma ci basta vedere alcune dinamiche che li mostrano intenti a dialogare con altri personaggi, diventa, però, fondamentale quella scena di ballo, già iconica un attimo dopo averla vista, che li contrappone visivamente, fisicamente e mentalmente. Quella che sembra essere una parentesi ridondante, se non quasi inutile, diventa il mezzo attraverso il quale comprendere determinate scelte di entrambi i personaggi (non a caso vestiti in maniera opposta e contrapposta, come a dover considerare solo alcuni aspetti per l’uno e altri per l’altra).

            Devi morire e rinascere.

Con questa frase è possibile riassumere l’intera opera di Ortega che, facendo leva su un’ottima interpretazione di Nahuel Pérez Biscayart, gioca continuamente con il personaggio, la storia e lo spettatore, prendendolo costantemente in giro, illudendolo di stare vedendo qualcosa per poi cambiare immediatamente prospettiva e punto di vista facendolo dubitare anche della realtà stessa.

Tra citazioni più o meno evidenti (quella a “Il Padrino” è da antologia), “El Jockey” fa sua questa caratteristica centrale, ma si perde al suo interno, inserendo il pubblico in un vortice dal quale è difficile uscire, anche alla fine della visione, anche quando sembra tutto finito e “spiegato”.


Veronica Ranocchi

martedì, settembre 17, 2024

'IL MIO COMPLEANNO' CONVERSAZIONE CON CHRISTIAN FILIPPI

Sviluppato e prodotto nell’ambito della dodicesima edizione della Biennale College Cinema con il sostegno di un grant messo a disposizione dalla Biennale di Venezia, Il mio compleanno di Christian Filippi è il racconto di un amore impossibile e di un’esistenza che stenta a prendere il volo. Del film abbiamo parlato con il regista.

Il mio compleanno inizia portandoci subito nel mezzo dell’azione con Riccardino che minaccia di uccidersi buttandosi giù dalla palazzina che ospita la casa famiglia. Mentre gli altri ragazzi lo sfidano a saltare di sotto e gli educatori lo scongiurano di desistere, la sequenza delinea le gerarchie dei rapporti tra il protagonista e i personaggi principali. Tra questi emerge soprattutto l’intesa con Simona, una delle educatrici della struttura.

Sì, guarda, ti dico subito che la maggior parte delle scene girate dentro la casa famiglia sono tratte dalla vita reale, quelle raccolte negli anni del volontariato in queste strutture dove facevo dei piccoli corsi di cinema mostrando i film ai ragazzi. Fatti come quello raccontato nella scena iniziale si sono ripetuti spesso: le litigate tra gli ospiti non si contavano ma accanto a queste vi erano momenti di grande solidarietà. Nella prima scena mi piaceva iniziare con la rabbia e la disperazione del protagonista senza però tralasciare l’ironia che i ragazzi sanno tirare fuori per stemperare la drammaticità della loro condizione.

Infatti la scena iniziale, per il misto di riso e pianto, è fondante anche del clima drammaturgico che si respira nel film.

Stando a contatto con loro ho capito che vivono le loro storie con enorme drammaticità, però poi hanno l’ironia sufficiente per proteggersi dalla realtà. Volevo che la scena iniziale trasmettesse un’adrenalina tale di coinvolgere fin da subito lo spettatore, poi però nel corso del film, ho cercato di non far venire mai meno piccole dosi di leggerezza tenendo conto che rispetto al pubblico festivaliero questa componente è quella che attira al cinema i giovani. Detto questo il mio desiderio più grande è quello di proiettare il film laddove è nato e cioè nella case famiglia in cui ho lavorato. Spero di riuscirci.

Uno dei fili conduttori del film è il rapporto tra Simona e Riccardino, di cui entra a far parte più avanti anche la madre del ragazzo. Da questo punto di vista Il mio compleanno racconta una sorta di triangolo amoroso dove questi tre personaggi si contendono in qualche modo uno l’amore dell’altro. 

Insieme alla sceneggiatrice Anita Otto abbiamo cercato di creare una sorta di menage tra i personaggi in cui spicca la figura di questa educatrice molto protettiva e con una vocazione materna verso i ragazzi per i quali ha sacrificato la sua vita. Simona è ispirata a tantissime educatrici ed educatori con cui mi sono trovato a collaborare. Documentandomi ho potuto constatare come per loro tutto questo sia una vera e propria missione. Ho cercato di metterlo dentro il film insieme alla dicotomia tra chi è la madre biologica dei ragazzi e chi non lo è. Anche Antonella, la madre di Riccardino, è innamorata di lui però forse non ha gli stessi mezzi di Simona per instaurare una relazione con il figlio.

Quello che mi è piaciuto è stato il modo in cui il film mette in scena il triangolo sentimentale tra i personaggi. Pur rimanendo sempre all’interno di una dimensione affettiva parliamo di un rapporto fatta di contatti fisici, con corpi che si toccano, si abbracciano e si respingono e dunque di qualcosa che imita l’amore sensuale.

Si, beh, sulla fisicità è stato fatto un lavoro lungo e meticoloso che partiva dalla scrittura e si è concretizzato durante le prove con gli attori. Da parte mia sentivo la necessità di mettere Riccardino nella condizione di toccare le cose perché lui è uno che ha bisogno di concretezza e di azione. Il suo motto è: “mi impedite di farmi vedere mia madre? Bene, allora me la vado a prendere io!”

Questo bisogno dell’altro si esprime senza limiti sia con Simona, con gli altri compagni e anche con la madre. Penso alla scena in cui vediamo Riccardino che si rotola sul corpo degli amici e anche alle sequenze in cui abbraccia e balla con Simona. Il desiderio di contatto finisce per misurare il bisogno d’amore del ragazzo.

Si tratta di una vera e propria fame d’affetto e di relazioni. Nel corso delle prove una delle indicazioni date a Zackari Delmas è stata quella di lavorare su questa fame di vita che si manifesta con la voracità in cui Riccardino mangia, fuma e, come dicevi, dal modo tutto fisico di relazionarsi con gli altri. I suoi eccessi ne evidenziano i bisogni e le mancanze.

Nel fare questo sei stato bravo a trovare un equilibrio perché soprattutto nel rapporto tra Riccardino Simona e Antonella era facile superare questa soglia e dunque di banalizzare i sentimenti messi in campo dalla storia. Perché poi i corpi trasmettono energie che bisogna comunque saper incanalare.

In effetti questa era una delle mie paure. Quando ho scritto la storia sono stato molto attento a non far cadere quel rapporto all’interno di una dimensione erotica. In questo senso le prove quotidiane con gli attori mi hanno aiutato nel trovare la giusta misura.

Il risultato del tuo lavoro consente alle immagini di diventare “carne” contribuendo in questo a quelle caratteristiche di concretezza verso cui si dirige la ricerca del personaggio.

Di questo ti ringrazio perché hai letto veramente molto bene il lavoro fatto sul film.

Parlando dello stile del film Il mio compleanno adotta quello di tipo documentaristico in cui la leggerezza del dispositivo e la scelta di utilizzare un formato d’inquadratura più piccolo ti consente di vivere con i personaggi, di stargli vicino preservandone l’intimità del punto di vista. 

Vendendo dal documentario fin dai primi cortometraggi ho sempre privilegiato l’utilizzo della macchina a mano proprio per stare vicino ai personaggi attraverso la tecnica del pedinamento. Qui però abbiamo cercato di lasciare gli attori più liberi possibile. Ci avvicinavamo a loro facendo ciak da diversi punti di vista. Pensando a Riccardino Antonella e Simone l’obiettivo era di muoverci insieme a loro lasciandogli però la libertà di creare la coreografia dei loro spostamenti. Volevo preservare anche sul set la naturalezza raggiunta nelle prove. Non volevo perderla, così ho permesso agli attori di muoversi e sono stato io ad andargli dietro. Questo mi ha consentito di sentire i loro affanni, i loro respiri, le loro mani che si toccano l’un l’altro.

Il mio compleanno è anche un film di primi piani a cui tu restituisci importanza in termini emozionali e narrativi. Tra i più belli c’è quello del primo incontro con Don Ezio in cui decidi di restare sul volto di Riccardino per leggervi il crescendo tumultuoso di pensieri e di emozione provocate dalle parole del prete.

Quel primo piano è stata una scelta di montaggio perché inizialmente avevamo girato un campo controcampo di Don Ezio per poi renderci conto che in quella scena la performance di Zack era così alta da non poter essere persa. E poi, come dicevi, facendo così è possibile cogliere il montare della rabbia fino all’esplosione nervosa con cui si conclude la scena.

Il secondo di cui ti volevo chiedere è quello altrettanto bello sul volto di Silvia D’Amico che racconta il momento in cui Riccardino incontra la madre in clinica. Il colore delle luci e la luminosità rarefatta così come la vicinanza della cinepresa raccontano di una visione ideale, quella che ha Riccardino del genitore. Parliamo di una sequenza che è il punto di partenza per un progressivo ritorno alla realtà, con le immagini che un poco alla volta diventeranno sempre più concrete per corrispondere alla presa di coscienza del ragazzo rispetto all’impossibilità di vivere con la propria madre.

Sì, perché ho provato a rendere la fuga di Riccardino dalla casa famiglia e il successivo incontro con la madre quasi in maniera onirica per dare vita all’ossessione che tormenta il ragazzo prima di lasciare l’istituto. Il primo piano di Silvia abbiamo deciso di girarlo con queste lenti macro, molto vicine all’attrice e capaci di trasfigurare lei e l’ambiente. Questo mi ha permesso di costruire la sequenza più in fretta possibile considerando che i film della Biennale College scontano i limiti di un budget ridotto all’osso. Non avendo possibilità di accedere a una vera clinica siamo riusciti a trovare il modo per dare la sensazione che la scena fosse comunque ambientata li. Comunque si, il primo piano è stato fatto pensando che fosse tutto dentro la testa di Riccardino.

Infatti il colore rosso di quel primo piano rimanda a quello presente quando Riccardino telefona alla madre dentro il bagno della casa famiglia.

Proprio così. Abbiamo cercato di ricreare quella stessa fotografia, perché poi anche lì non sentiamo mai la voce di Antonella e dunque è come se quella fosse frutto della fantasia e del desiderio del ragazzo di stare con la madre. Da qui la scelta di una resa fotografica quasi astratta.

La fotografia testimonia il passaggio di Riccardino da una situazione ideale, vissuta dentro la propria testa, a un’altra più concreta e reale. Una delle scene spartiacque è appunto quella del compleanno che Antonella festeggia regalando al figlio un dolce. Considerando che ciò che segue racconterà di un tradimento è come se tu avessi messo in scena una sorta di ultima cena.

Sì, sì esatto. Abbiamo cercato di costruire la prima metà del film con una macchina più posata, servendoci di inquadrature molto cinematografiche. Nella seconda invece abbiamo cercato di virare su una realtà più cruda, che poi è quella che effettivamente Riccardino vive una volta fuori della casa famiglia. Passando da un mondo protetto a un altro dove non esiste alcun paracadute la mdp diventa molto più dinamica, molto più sporca. Nella scena del compleanno abbiamo cercato di racchiudere il passato e il presente della loro storia. Li siamo vicini al momento in cui la madre di Riccardino rendendosi conto di non farcela e di danneggiare il figlio si fa coraggio dicendogli che è arrivato il momento di prendere strade differenti. È come se il quel momento la madre permettesse al figlio di iniziare il percorso per diventare adulto.

A questo proposito la scena simbolica di questo passaggio è quella in cui vediamo Riccardino accarezzare la testa di Antonella addormentata sulle sue gambe. In precedenza era successo l’esatto contrario mentre ora è il ragazzo a interpretare il ruolo dell’adulto.

Si, quella è proprio la scena che testimonia il cambio di prospettiva di cui parlavamo. La notte prima, dentro la macchina, è Riccardino che dorme in braccio alla madre mentre in quella successiva accade l’esatto opposto per le ragioni che dicevi nella domanda. Riccardino si libera in qualche modo dall’ossessione della madre e forse capisce di dover essere lui a occuparsi di lei.

Dopo la separazione dalla madre c’è anche quella da Simona, testimoniata da primi piani separati di lui e lei all’interno della macchina che li sta riportando a casa.

Quella scena mi serviva per sancire la separazione tra Simona e Riccardino. È l’unico modo in cui abbiamo potuto farlo perchè la camera car era molto costosa. A un certo punto mentre Riccardino piange si vede la mano di Simona che entra in campo ma poi si ritrae subito. Li è come se lei gli dicesse di poterlo proteggere ma che è ancora più importante che lui si stacchi e inizi una nuova vita, diversa dalla precedente. Il personaggio che abbiamo raccontato è cresciuto lì dentro per poi diventare educatrice.  A un certo punto anche lei capisce di dover cambiare vita prendendo il coraggio di andare via. In questo senso Simona e Riccardino si aiutano uno con l’altro per avere il coraggio di farlo.

Nel ruolo di Simona Giulia Galassi è davvero brava. Il suo è un personaggio che rimane nel cuore. Allo stesso modo lo è Zakari Delmas.

Giulia la conosco da molto tempo, sapevo che era molto brava per cui appena ho saputo di poter fare il film ho pensato subiti a lei. Zakari l’avevo visto in un bellissimo corto intitolato Ovunque Altrove. Aveva solo quindici anni ma la sua fisicità mi aveva colpito. Quando ha fatto il provino avevo diciotto anni e questo ha concorso nella sua scelta perché volevo che la sua energia corrispondere a quella del personaggio. Insieme abbiamo costruito il suo ruolo a cui lui ha dato un corpo, una voce, le movenze, il modo di vestire e di parlare. Ha un talento infinito. Gli auguro il meglio.

So che ci tieni a ringraziare i produttori del film.

Si perché senza Leonardo Baraldi e la società Schicchera Production Il mio compleanno non sarebbe stato possibile realizzarlo.   

Che tipo di cinema ti piace?

Avendo studiato alla Rossellini che il liceo di cinema presente a Roma ho iniziato a vedere film da piccolissimo. Partendo da Rossellini non mi sono più fermato. Tra i miei riferimenti ci sono innanzitutto due autori italiani con cui ho avuto il piacere di collaborare come assistente che sono Matteo Garrone e Claudio Giovannesi. Tra gli stranieri ti dico Andre Arnold, i fratelli DardenneStephan Brisee. Dopodiché sono un che guarda un sacco di blockbuster perché poi alla base di tutto c’è l’amore per il cinema.


Carlo Cerofolini

(conversazione pubblicata su taxidrivers.it)

lunedì, settembre 16, 2024

I'M STILL HERE

Ainda Estou Aqui (I’m still here)

di Walter Salles

con Fernanda Torres, Selton Mello, Fernanda Montenegro

Brasile, Francia, 2024

genere: storico, drammatico

durata: 135’

La questione dei desaparecidos è una di quelle su cui il cinema internazionale, ma anche italiano (ricordiamo il dittico del nostro Marco Bechis), non smette di ritornare, talmente traumatica è stata la scoperta dei metodi utilizzati dalle dittature sudamericane per eliminare i suoi oppositori interni. L’interesse è stato così ricorrente da dare vita a una vera e propria filmografia su un tema che deve stare particolarmente a cuore al direttore della Mostra se è vero che dopo "Argentina, 1985",  dedicato alla figura del pubblico ministero argentino incaricato di istruire il processo contro i responsabili degli eccidi compiuti dal regime militare argentino, Alberto Barbera e la sua squadra hanno fatto il bis inserendo ancora una volta nel concorso ufficiale un’altra storia di ordinaria persecuzione, quella messa a punto negli anni Settanta dal regime brasiliano nei confronti dell’ex deputato Marcelo Rubens Pavia, colpevole di aver aiutato a mantenere i contatti tra i perseguitati e le loro famiglie e per questo finito nella lista delle persone scomparse dopo essere state arrestate dagli agenti governativi.

Attraverso la storia di Pavia "I’m Still Here" ("Ainda Estou Aqui") di Walter Salles racconta la questione dei desaparecidos da un’ottica meno conosciuta di quelle occorse in Argentina e in Cile ma ugualmente feroce e metodica nel portare a compimento la sistematica eliminazione delle sue vittime. Nel farlo Salles sceglie il punto di vista più congeniale a se stesso e alla Storia dei fatti, un po' perchè agli appassionati non sarà sfuggita la similitudine tra la Dora di "Central do Brasil" e la Eunice Pavia di "I’m Still Here", madri coraggio di cui il cinema del regista brasiliano dimostra di essere particolarmente a suo agio (peraltro Fernanda Montenegro compare nell’ultima scena del film), con Fernanda Torres destinata a figurare tra le attrici da battere nella stagione dei premi; un po' perchè scegliendo di raccontare la tragedia attraverso un punto di vista femminile, che non è soltanto quello della madre, ma anche delle figlie della vittima Salles, riesce a leggerne la dimensione ancestrale, raccontando il fardello innanzitutto psicologico delle madri che ebbero la responsabilità di continuare a reclamare il ritorno a casa dei propri cari e allo stesso tempo di tenere unite le proprie famiglie. Una caratteristica, quella di una prospettiva femminile, che unita ai richiami alla storia oggi, ancora una volta scossa dal pericolo del rigurgito fascista, fa del film di Salles un’opera quanto mai attuale, destinata com’è a toccare i cuori per le analogie con i pericoli del tempo presente.

L’importanza dell’argomento è valorizzato da una regia che nel corso degli anni (e delle produzioni americane) ha consolidato la capacità di convogliare le sue riflessioni in una cinematografia popolare in cui emozioni e sentimenti vanno di pari passo con la narrazione mainstream e con una forma che fa suoi i codici della produzione indie promossa dal Sundance Film Festival, rintracciabile nella mescolanza tra racconto classico e stile indipendente, nella libertà dei formati (il frequente ricorso agli home movies), nella desaturazione delle scelte fotografiche e soprattutto nel modo in cui le forme del documentario intervengono sulla natura delle immagini per rafforzarne il contenuto di realtà.

Che poi nel farlo Salles costruisca un ritratto di famiglia borghese, quella dei protagonisti, capace di introiettare senza alcuna contraddizione la retorica dei miti artistici, politici e sociali della cultura europea sessantottina, trova risposta nella necessità di una condanna resa ancora più forte dal senso di giustizia che emerge nel momento in cui la violenza nei confronti della nostra famiglia equivale a quella portata avanti nei confronti dei valori di chi si oppone a qualsiasi tipo di fascismo.
Presentato in concorso all’81 Mostra Internazionale D’Arte Cinematografica "I’m Still Here" vede Walter Salles e Fernanda Torres entrare di diritto nella lista dei candidati a uno dei premi maggiori.


Carlo Cerofolini

(recensione già pubblicata su ondacinema.it)

domenica, settembre 15, 2024

MARIA

Maria

di Pablo Larraìn

con Angelina Jolie, Pierfrancesco Favino, Alba Rohrwacher

Cile, Italia, Germania, 2024

genere: biografico, drammatico

durata: 124’

Anche quest’anno Venezia ha accolto in concorso una nuova opera di Pablo Larraìn. Dopo il non troppo apprezzato “El Conde”, l’autore cileno riprende la sua trilogia dei personaggi femminili del ‘900 che aveva cominciato prima con “Jackie” e poi con “Spencer”. Stavolta è il turno della celebre soprano Maria Callas, interpretata da un’Angelina Jolie in odore di candidatura agli Oscar più per l’importanza della figura realmente esistita che per l’interpretazione in sé.

La storia si apre il 16 settembre 1977, giorno della scomparsa della diva, in quel di Parigi. Da lì, a ritroso, saltando tra i momenti salienti della sua carriera, alternati alla musica e alle opere che hanno reso celebre la soprano, Larraìn cerca di tratteggiare il dipinto di un’icona senza tempo (e spazio), facendosi aiutare dall’escamotage di un’intervista al tramonto della carriera.

Prendendo spunto da quel “Viale del tramonto” al quale la Maria di Angelina Jolie sembra strizzare continuamente l’occhio, si susseguono sullo schermo eventi reali e non, mescolati a sommo studio a causa di tutti i medicinali che la Callas era costretta (e intenzionata) a prendere continuamente.

Dopo aver solo intravisto il corpo ormai senza vita della Callas, veniamo proiettati indietro, attraverso una lunga e interessante carrellata che mostra la vita e le esibizioni, il pubblico e il privato di quella che ancora oggi è osannata in tutto il mondo come una delle voci più belle di sempre.

Con il canto, elemento fondante di quest'opera, spesso reso visivamente dal bianco e nero, come un ricordo impresso nella mente non soltanto della protagonista, ma anche di tutti coloro che la circondano e la osservano, va di pari passo la “dipendenza” dai medicinali, tra quelli autorizzati e quelli "desiderati". Il silenzio che accompagna l’assunzione di quello che dovrebbe essere un aiuto per la voce, la mente e la salute della Callas è significativo di un momento che forse solo lei conosceva veramente. Come se quel silenzio racchiudesse un’intimità segreta che solo lei (e pochissimi altri) era in grado di conoscere e gestire.

            Il palco è nella mia testa.

Come un mantra questa frase torna nel film, anche se a pronunciarla è soltanto una volta, ma è come se questo fosse l’obiettivo della Callas rivisitata da Larraìn, dove ci si concentra sull’approccio dell’artista al palcoscenico, alla musica e sul suo modo di vivere questo tramonto inevitabile e inesorabile.

Prendendo apparentemente le distanze dalla vita “pubblica” e dalla relazione con Aristotele Onassis, Larraìn rivisita a suo modo, come tipico del suo cinema, la vita della protagonista. Introduce Onassis nella storia, ma si limita a tratteggiarne le fasi salienti, dalla conoscenza e l’avvicinamento dei due alla storia d’amore (sempre celata nella pellicola) destinata a lasciare presto spazio a un'altra figura di spessore, la Jackie già ampiamente approfondita nel primo capitolo della trilogia.

Come in un intreccio senza fine esiste un trait d’union tra le due (tre) “creature” quasi mi(s)tiche che Larraìn decide di portare sullo schermo. Maria e Jackie sono inesorabilmente legate, unite dall’amore di e per Onassis. Un amore destinato a dover essere "spartito". Larraìn ci mostra una Maria inizialmente restia, ma poi profondamente innamorata dell'uomo tanto da accettare che quest'ultimo possa preferirle, almeno pubblicamente, Jackie, salvo poi rivelare alla soprano il suo profondo sentimento nei suoi confronti. Jackie, che mai si mostra in questo terzo capitolo, ma che viene solo menzionata, è posta allo stesso livello di Maria (non è un caso che, per entrambe, il regista cileno scelga il nome proprio, a differenza di quanto fatto per "Spencer"). Se per la Lady Diana amata da tutti c'è tempo e spazio per una sorta di redenzione, almeno cinematografica, per Jackie e per Maria ciò non è possibile, destinate a mostrarsi con le proprie debolezze e i propri demoni, probabilmente con la "colpa" di aver vissuto una vita comunque piena.

            Il mio corpo sapeva che ero una tigre.

Sembra quasi che, così facendo, la Maria futura riesca a parlare alla Maria passata, comprendendo i limiti che il suo corpo le mostra. Perché oltre alla musica, inevitabilmente perno della narrazione, un altro protagonista importante è il corpo, sia come corpo fragile, destinato a perire davanti al sopraggiungere del destino, sia come corpo che deve mostrarsi, a prescindere da tutto e da tutti, come qualcosa da esaltare, osannare, ammirare. Maria va nei bar soltanto per ricevere complimenti e adulazioni da camerieri, passanti, fan e da chiunque, senza però accettare di poter, anche solo per poco, ascoltare la propria voce che si è compiuta in un dato momento in un dato luogo e che non potrà mai più ripetersi esattamente allo stesso modo, come lei stessa afferma in un impeto di rabbia. La voce diventa il tramite tra la figura iconica di Maria e un corpo sempre più decadente. Corpo che risulta centrale anche per gli altri personaggi, dalla domestica interpretata da Alba Rohrwacher al tuttofare al quale presta il volto Pierfrancesco Favino. La prima non in grado di comprendere realmente le sfumature della bravura della soprano, il secondo, invece, concentrato su un lavoro sul corpo e sulla corporeità esemplare, che, invece di ridurlo a macchietta, lo mostra nella sua umanità (e nella sua realtà), di pari passo con la propria “padrona”.

Un’ultima ode alla divina Maria Callas.


Veronica Ranocchi

sabato, settembre 14, 2024

'DICIANNOVE' CONVERSAZIONE CON GIOVANNI TORTORICI

Prodotto da Luca Guadagnino e presentato in concorso nella Sezione Orizzonti dell’81esima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica, Diciannove è il coming of age di un giovane Holden Italiano. Di Diciannove abbiamo parlato con il regista del film Giovanni Tortorici.

Diciannove è prodotto da Frenesy, Pinball London, MeMo Films, AG Studios, Tenderstories, con il contributo del Ministero della Cultura.

Il titolo del film è indicativo di un’età in cui si ha per la prima volta la facoltà di decidere senza però avere ancora la consapevolezza del mondo e delle cose. Volevo partire da qui chiedendoti se il titolo rimandasse a questo tipo di condizione?

Sì, assolutamente. Ero indeciso tra più titoli. Mi ricordo che ne proposi una lista ai produttori. Uno di questi – I diciannove anni di Leonardo Gravina – era un pochino più letterario però poi pensando che il film parla del primo anno accademico di un ragazzo di diciannove anni ho ho pensato che l’età, quella in cui generalmente si finisce il liceo, fosse un fattore molto importante. Da qui la scelta di concentrare il significato del titolo solo su quella.

Sempre a proposito del titolo, Diciannove riproduce un po’ la dimensione esistenziale del protagonista, il suo essere sempre fuori fase rispetto alle persone e alle cose che lo circondano. Diciotto infatti è l’età che segnala uno spartiacque tra il prima e il dopo mentre diciannove sposta l’esistenza in una sorta di limbo temporale dove non si è né carne né pesce.

Sì sì, capisco cosa vuoi dire. In realtà pur essendo il più prossimo ai diciotto il diciannovesimo anno di età segna un tempo meno definito rispetto a quello precedente che è sicuramente più simbolico. In effetti come dici tu diciannove suggerisce come il protagonista sia un ragazzo fuori sincrono rispetto alla realtà in cui vive.

Come succedeva al protagonista de Il giovane Holden Leonardo possiede uno spirito critico e una sensibilità superiore a quella dei suoi coetanei.

Il giovane Holden non l’ho letto però devo dirti che sono stati molti a dirmi della similitudine con il personaggio del romanzo.

Nei coming of age i protagonisti sono un po’ come Leonardo e cioè capaci di avere una maggiore profondità di sguardo rispetto ai loro coetanei. Come quelli anche Leonardo paga la sua diversità con l’incomunicabilità tipica dell’età giovanile.

Di sicuro il mio personaggio è diverso dai suoi pari età ma io lo trovo comunque molto inconsapevole. È vero che ha preso le distanze da certe meccaniche giovanili dei ragazzi della sua età però penso non abbia la coscienza per capire il motivo per cui la ha fatto, così come non conosce il motivo delle nevrosi che continuano a tormentarlo.

Diciannove inizia come una sorta di fuga dalla terra natia e da un contesto familiare opprimente.

Una fuga dal rapporto con la madre e da quello con il padre di cui sentiamo solo la voce. Entrambi lo considerano ancora un bambino, incapace di badare a se stesso e non ancora maturo per sapere come bisogna prendere la vita. Le prime scene dovevo far emergere questa cosa delineando il contesto famigliare in cui si è formata tale idea. 

Il ritorno alla realtà di Leonardo è molto brusco. Le immagini lo certificano con un montaggio che passa dal buio del sonno alla luce del risveglio. Quest’ultima è molto forte, quasi disturbante, e in quanto tale concorre a trasmettere lo scombussolamento di Leonardo nel giorno della partenza.

La tua interpretazione mi piace molto. La scena notturna mescola onirico e simbolico e l’ho inserita più come suggestione che come elemento narrativo. L’ho fatto in maniera impulsiva e sulla scia di un aspetto autobiografico perché anche io come Leonardo soffrivo costantemente di epistassi. Lo sbocco di sangue che si vede a un certo punto mi serviva anche per mostrare il rapporto con la madre. Nel dirgli di non preoccuparsi lei gli dice di smettere di essere infantile riproponendo lo schema da cui Leonardo si allontana, almeno geograficamente.

Nella sequenza notturna l’equilibrio e l’armonia conferita all’ambiente dalla classicità delle inquadrature contrasta con la disposizione delle pareti di casa che sembrano restringere lo spazio vitale del protagonista. È come se quelle immagini suggerissero prima delle parole la condizione di Leonardo.

Essendo un film molto personale Diciannove non è per nulla razionale o comunque la ragione si mescola a personalismi che ne minano la linearità. Molte cose sono entrate nel film attraverso la pancia dunque considerazioni come la tua mi servono per illuminare aspetti che magari sono presenti a livello subliminale.

Non è un caso che dopo quell’inizio lo schermo sembra esplodere attraverso un surplus di immagini e di suoni. La libertà di Leonardo corrisponde a quella della messinscena del film.

Sì, come succede durante il viaggio dall’autostrada all’aeroporto in cui la visione delle montagne voleva rimandare all’altrove leopardiano che si cela oltre le colline. Si tratta di una sequenza un po’ sognante.

La frammentazione di quella sequenza e il modo in cui hai deciso di tenere insieme i diversi frame favoriscono la trasmissione di uno stato d’animo più che di un segmento narrativo.

Esatto, infatti in un montaggio precedente avevo inserito delle didascalie riferite alla posizione leopardiana sull’altrove che si cela dietro i “monti azzurri”. Non a caso il segmento finisce con la sensazione di libertà data dalla visione del mare per poi proseguire con la condizione di straniamento trasmessa dal rumore dell’aereo e dai suoni all’interno del velivolo su cui viaggia Leonardo.

Da lì in poi è un continuo incalzare di sensazioni e nuove situazioni che il film traduce a livello formale con un impeto visivo e sensoriale volto a riprodurre l’intensità emotiva tipica dell’età giovanile e in particolare lo stordimento che si ha quando, come Leonardo, si entra a contatto con un nuovo mondo.

Si, appunto, di un’età in cui un viaggio in areo o la visione di un paesaggio vengono vissuti in maniera molto intensa, cosa che ho cercato di riprodurre attraverso le soluzioni formali a cui facevi cenno. Mi interessava riprodurre piccole cose, avvenimenti di poca importanza che però concorrono a formare la sensibilità del ragazzo. 

L’immagine dei monti di Palermo fa il paio con la facciata del palazzo londinese in cui vive la sorella. In entrambi i casi la maniera in cui questi sovrastano la figura del protagonista, impedendogli la vista dell’orizzonte, sembra suggerire il sentimento di estraneità e la solitudine che accompagnerà la fase iniziale del viaggio.  

Effettivamente è così. In più volevo descrivere quella parte di Londra dove si ritrovano gli studenti in cui tutto sembra dominato da questi palazzoni abitati da operai. Nella prima sequenza londinese lo stridio dei corvi preannuncia un’esperienza, quella con la sorella e la sua coinquilina, non del tutto allegra.

La bigger than life vissuta da Leonardo è introdotta dall’utilizzo di una musica operistica chiamata a scandire gli avvenimenti segnalandone l’enfasi emotiva.

La musica mi serviva per sostenere le scene di quella parte di film e per esempio quella in cui loro si preparano per andare in discoteca. Lì le musiche sono nel contempo leggere e malinconiche, allegre e più gravi per sottolineare la mescolanza d’umori in Leonardo.

Dei coming of age Diciannove ha tutte le caratteristiche, presentandoci un quadro di isolamento, solitudine e disagio a cui fa da corollario la contestazione dell’autorità precostituita che Leonardo mette in discussione attraverso il rifiuto di frequentare le lezioni universitarie per mancanza di stima nei confronti del professore. La diversità con altri film di questo genere sono le soluzioni formali che ti permettono di raccontare l’esperienza di Leonardo dall’interno. Una diversità che rispecchia quella di Leonardo rispetto al contesto in cui vive.

Un’altra cosa che secondo me differenzia Diciannove dai film simili al mio è che forse manca un po’ la parabola che porta al cambiamento del personaggio. Alla fine Leonardo rimane sicuro delle sue idee nonostante la sincerità della conversazione con il collezionista con cui si conclude il film. La risata finale con cui Leonardo sembra commentare le parole del suo interlocutore segnala la volontà di rimanere nelle proprie nevrosi.

In effetti il finale è privo di catarsi. In più l’ultima sezione del film ambientata a Torino arriva all’improvviso senza essere mai annunciata. Anche il finale è altrettanto netto e senza una conclusione vera e propria perché l’intento è quello di cristallizzare la condizione di Leonardo senza proporre una ricetta salvavita.

Io vengo da una formazione letteraria, nel senso che i primi anni di studi li ho dedicati alla letteratura. Volevo diventare uno scrittore poi a un certo punto mi è venuta l’idea del cinema che dati i trascorsi ha risentito della mia fissazione abbastanza maniacale nei confronti della forma. In particolare mi rifacevo all’idea di tanti scrittori che amavo, i quali dicevano che tutte le storie sono state già raccontate e che quindi a fare la differenza il modo in cui vengono narrate. È per questo che inizialmente ho amato i registi un po’ formalisti, quelli che vedono nella forma il modo più efficace di esprimere un’idea. Ho sempre un occhio attento alla messinscena.

Leonardo è sempre alla ricerca di uno stile capace di fare la differenza. Il film anche in questo fa da specchio alla modalità del personaggio.

Mi ricordo che Bernardo Bertolucci nel fare Prima della Rivoluzione diceva che un carrello è più morale di Riso Amaro.

La vicenda raccontata nel film, parlo decisione di lasciare la Sicilia, andare a Londra per poi stabilirsi in un’altra città italiana in cerca del proprio posto nel mondo, sembra rispecchiare non solo la tua vicenda umana ma anche quella del tuo produttore Luca Guadagnino.

Conosco abbastanza bene Luca. Mi ha raccontato spesso della sua adolescenza e devo dire che se penso a Leonardo e lo confronto con Luca mi sembrano persone agli antipodi. Luca è una persona molto speciale che sin dalla sua infanzia ha vissuto con un grado di libertà fuori dalla norma. Leonardo è un nevrotico che tende a sublimare le sue pulsioni attraverso i libri e l’isolamento. Certo in termini di spostamenti geografici la similitudine di cui parli esiste ma lo spirito con cui si compie il viaggio è diverso.

Parliamo del cinema che ti piace.

Ai tempi in cui studiavo letteratura amavo il neorealismo italiano forse perché vicino a una letteratura classica. In quel periodo vedevo a ripetizione Le notti di Cabiria e Sedotta e Abbandonata. Poi quando senti di avere una visione più cinematografica ho iniziato a guardare i b movies e i poliziotteschi. Mi piacevano tantissimo Castellari, Di LeoFulci ma anche Mario Bava Dario Argento. Dopo sono arrivati i vari FriedkinDe Palma, Peckinpah. Ovviamente Godard Infine ho un grande amore per il cinema di Hong Kong e quindi per i Johnnie To, gli Tsui Hark, e i John Woo.  


Carlo Cerofolini

(conversazione pubblicata su taxidrivers.it)