Presentato in anteprima e in concorso alla 21ª edizione delle Giornate degli Autori all’interno del Festival di Venezia, Taxi Monamour di Ciro De Caro è il racconto del “breve incontro” di due anime in mezzo alla tempesta. Con Rosa Palasciano e Yeva Sai, di Taxi Monamour abbiamo parlato con Ciro De Caro.
Taxi Monamour è prodotto
da Simone Isola e Giuseppe Lepore per Kimerafilm, in associazione con Michael
Fantauzzi per MFF, in collaborazione con Rai Cinema, con Adler Entertainment e
con il contributo del Ministero della Cultura.
Con Giulia hai
fatto per la prima volta di un personaggio femminile la protagonista di un tuo
film. Taxi Monamour costituisce un passo in avanti in questa
direzione perché il film si concentra sull’incontro e sulla successiva amicizia
di due donne.
È stato un punto di
svolta vero perché ho scoperto che mi piace raccontare personaggi femminili.
Forse dipende dal fatto che non le conosco bene e quindi la curiosità verso di
loro diventa il motore per la mia ispirazione. Devo dirti che senza Rosa
Palasciano che ha scritto la sceneggiatura insieme a me Taxi
Monamour non ci sarebbe stato. Raccontare questa amicizia
non era una cosa facile perché non volevo che fosse il frutto di quelle strane
coincidenze che capitano solo nei film, ma che il suo sentimento crescesse con
gradualità.
Peraltro è un’amicizia
che nasce in un quadro di invisibilità che appartiene tanto ad Anna quanto a
Cristi. La prima lo è all’interno della famiglia, la seconda rispetto a una
società che non si accorge degli stranieri che la abitano.
Siamo partiti proprio da
questo, dai legami invisibili che la vita mette in moto e dalle trame
nascoste che poi permettono a persone nate in posti lontanissimi di diventare
amici. Sono sempre stato affascinato dal capire come questo sia possibile ed è
proprio questo che io e Rosa volevamo raccontare cercando di
soffermarci sulle cose che non si vedono perché sono le più importanti.
Quella di Taxi
Monamour è anche una storia di precarietà a partire dall’amicizia tra
Anna e Cristi destinata a occupare un frammento della loro vita. Il titolo
ne riassume il significato perché il taxi è espressione di un viaggio di breve
corso. È così?
Si è così. I rimandi sono
diversi perché a un certo punto lei guida la macchina del fidanzato come fosse
un taxi, facendo salire una persona per poi lasciarla davanti a casa. Quello
che hai detto è il più simbolico di tutti per cui mi fa piacere che tu
l’abbia colto.
Mi sembra che il
personaggio di Anna, per come l’avete scritto, sia un’evoluzione del modello
femminile rappresentato da Giulia. Allo stesso modo Anna è un’anima buffa e
irrequieta, sempre in movimento da una parte all’altra della città alla maniera
di certi personaggi di Woody Allen.
È un paragone che mi
mette in imbarazzo. Diciamo che i film di Allen come quelli
di Rohmer e Cassavetes li conosco a memoria
quindi può essere che qualcosa di loro mi sia caduto addosso come una specie di
benedizione. In generale quando scrivo e dirigo guardo tantissimo i miei
maestri, quindi anche Allen, cercando però di dimenticarmeli per
evitare di arrivarci in maniera troppo razionale.
Rispetto a Giulia il
disagio presente in Taxi Monamour diventa una vera e propria
patologia che però non viene mai approfondita dal punto di vista clinico, ma
solo nelle implicazioni che ha nella vita pratica. In Giulia c’era
una malattia esistenziale e il suo percorso di guarigione qui invece una
patologia che però rimane fuori campo e sembra esistere solo per alimentare la
transitorietà che attraversa la storia.
Per come è girato il
film, e cioè senza controcampo, spesso gli attori sono fuori campo. D’altronde
delle questioni principali non si parla mai perché vengono lasciate sullo
sfondo, cosa che a me piace molto. Credo in un cinema fatto di sottrazione
perché secondo me ciò che non fai vedere finisce per arrivare con più potenza.
La malattia era qualcosa di cui questo personaggio aveva bisogno e poi era una
cosa che mi piaceva raccontare. Ad Anna serviva un movente per
spingersi verso un’amicizia inaspettata, per avere il desiderio di lanciarsi
andare verso qualcosa di esterno rispetto alla famiglia e al fidanzato. Secondo
noi solo una cosa del genere poteva giustificare questo cambiamento. Quando la
vediamo all’inizio del film ha già deciso di avviare la trasformazione, a
differenza della maggior parte dei film in cui questo arriva solo in un secondo
momento. E poi volevamo che nessuno, tranne la sua nuova amica, sapesse della
malattia. In questo modo quando Cristi parte Anna ritorna
a essere sola con le sue cose, come d’altronde accadrà anche all’altra. Il loro
incontro le ha distolte per un attimo dalle loro vite. Non succede come nel
cinema classico dove i personaggi si incontrano e cambiano definitivamente.
In Taxi Monamour non ci sono grandi
trasformazioni se non in termini di consapevolezza.
A proposito di
sottrazione ho trovato veramente bella la scena in cui Anna parla con la
dottoressa dopo aver avuto l’incidente in macchina. La dottoressa pensa che
dipenda dalla malattia della ragazza e sembra non ascoltarla mentre lei le dice
che è stato il camion ad andarle a sbattere. Si tratta di un momento
tragicomico che riassume però un significato importante e cioè che anche il
mondo è fuori fase e non solo lei.
È un passaggio costruito
interamente su questa scordatura nel momento di massima rottura di Anna con
il resto del mondo. Non sappiamo quanto lei lo sia senza esserne consapevole
oppure se in qualche maniera le faccia comodo per proteggersi da una famiglia
come la sua, con una madre così strana e un padre assente. In un quadro simile
è ragionevole vederla un po’ fuori fase. A un certo punto per lei difendersi
diventa necessario.
Chi guarda quella scena
non mette in dubbio che Anna sia fuori fase ma dice sì, va bene, lei
sarà anche così ma pure il mondo fa la sua parte. In generale scene di
questo genere sono rassicuranti per chi le guarda.
Sì, è un mondo fuori
fase, quello in cui si ha l’impressione di essere sempre tutti connessi
costantemente mentre in realtà siamo oramai slegati. C’è una finta connessione,
una finta sincronizzazione, ma poi di fatto ognuno va per fatti suoi e di
conseguenza il mondo fa lo stesso andando dall’altra parte.
Anna e Cristi si
fanno da specchio nella precarietà della loro condizione. Entrambe hanno amori
lontani, entrambe hanno un problema di appartenenza con le rispettive famiglie,
entrambe sono alla vigilia di un punto di svolta esistenziale.
Sì, perché sembrano così
diverse, ma poi alla fine hanno quelle due o tre cose attraverso le quali
possono specchiarsi e vedere qualcosa di se stesse. Quello che hai notato è
giusto perché poi, alla fine, se in qualche modo si attraggono per qualche motivo
è perché hanno visto qualcosa dell’altra in cui si riconoscono.
Il film ribadisce un
concetto antico e cioè che sono le persone più lontane dalla nostra realtà a
capirci meglio, ad apprezzarci per quello che siamo.
Sì, esatto, perché
ambedue fanno fatica a comunicare con le loro famiglie. Ognuna trova un posto
sicuro nell’altra perché paradossalmente queste famiglie che soprattutto in
Italia siamo abituati a vedere come un rifugio in realtà non proteggono. Forse
lo fanno dal punto di vista materiale, ma non da quello affettivo.
Come nei film della nouvelle
vague i personaggi girano a zonzo per la città. Si tratta di un
movimento che riflette l’ansia del personaggio interpretato da Rosa Palasciano.
Anna tende a tenersi tutto dentro e questo continuo girovagare è la spia del
malessere che cova dentro.
Non mi va di girare un
film secondo i criteri standardizzati e dunque con le regole sempre più
opprimenti che ci sono adesso. Come si racconta un film è fondamentale.
Nel mio ci sono lunghi piani sequenza, c’è una macchina da presa a spalla. A
volte abbiamo deciso di tagliare, spesso abbiamo eliminato il campo e il
controcampo perché questo tipo di narrazione rispecchia un po’
l’agitazione delle due protagoniste. E poi in questa maniera lo spettatore è
costretto a guardare il film perché può succedere sempre qualcosa. Ci può
essere sempre qualcosa di sorprendente, che appare per un attimo e poi
sparisce, per esempio un piano sequenza che non arriva alla fine, ci possono
essere un taglio o un’inquadratura particolare. Insomma, non sono interessato
molto alle storie illustrate o alle serie tv che si possono ascoltare senza
fare riferimento alle immagini. Un regista deve avere anche il dovere di
costringerti a posare il telefono e a guardare il film senza fare nient’altro.
Questi ultimi si possono fare senza musica, senza attori, senza parole, senza
niente. L’unica cosa che conta sono le immagini. Solo loro riescono a tenere lo
spettatore lontano dal telefono e incollato allo schermo.
Come la vita è
imperfetta, così è la prima inquadratura del volto di Anna ripresa da una mdp
che nei suoi leggeri tremolii sembra seguire i battiti del cuore. Lo stesso
principio guida le discussioni famigliari con la telecamera che passa
nervosamente da un interlocutore all’altro restituendo la confusione di quel
momento.
Non volevo trasmettere un
sentimento di tranquillità ma tenere il pubblico sulle spine facendogli sentire
che qualcosa sta per succedere. La mdp si comporta un po’ come qualcuno
che sta lì in mezzo e reagisce a quello che accade. È uno spettatore invisibile
e come tale di colpo può essere attratto da qualcosa anche poco importante. Al
direttore della fotografia e all’operatore ho detto di lasciarsi sorprendere da
quello che accadeva e così è stato.
Abbiamo parlato di
cambiamenti invisibili, di quelli che avvengono senza che nessuno se ne
accorga. Quando alla fine vediamo Anna salutare Cristi ci rendiamo conto che
qualcosa è successo perché in una scena analoga il film asseconda la volontà di
Anna che dice al compagno di evitare saluti lacrimevoli. In effetti in quel
frangente la coppia rimane fuori campo, con le voci di commiato a fare le veci
dei corpi mancanti.
La mdp e il montaggio
procedono secondo la volontà della protagonista. In quel momento lei non vuole
salutare il compagno perciò la mdp decide di inquadrare i saluti di un’altra
famiglia. Dopo invece lei ha smesso di vergognarsene e dunque anche noi possiamo
guardarla mentre si congeda da Cristi.
Lo scarto tra una scena e
l’altra potrebbe essere il segnale di un cambiamento generale nella vita di
Anna.
Non so se avviene un cambiamento. Sono sincero, non lo
so veramente perché a me andava solo di raccontare quel momento lì. In generale
per me i personaggi hanno tutto il diritto di rimanere così come sono, senza il
dovere di cambiare per far contento il pubblico. Certo come dici tu potrebbe
essere un segno di una possibile evoluzione, ma può essere anche uno slancio
momentaneo. In linea con il modo in cui è stato girato il film diciamo che
lasciamo un punto interrogativo su questa cosa.
Carlo Cerofolini
(conversazione pubblicata su taxidrivers.it)
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