True Detective sembra aver posto una sorta di spartiacque
nel modus narrandi dei noir americani e non, riuscendo a creare una palette
stilistica riutilizzabile più e più volte all’interno di prodotti del medesimo
genere, tant’è che numerose sono le pellicole o le serie che ne seguono le
impronte, cercando tuttavia di innovare sul piano contenutistico (La Isla Minima). Questi sono i
presupposti con cui si apre l’ultimo lavoro di J. C. Chandor, un atipico
tentativo di rivalsa personale di un immigrato derubato, in cui i personaggi
affrontano quello che i media americani definirono “uno degli anni più violenti di sempre” per la città di New York;
sembra proprio volerci suggerire ciò il regista, appropriandosi nella sequenza
iniziale dei cromatismi tipici di lavori Fincheriani come Gone Girl, raffreddando i fotogrammi rappresentanti le prime luci
mattutine in cui Oscar Isaac si ritrova in corsa. La macchina da presa striscia
quasi a contatto con l’asfalto, si rialza lentamente sino a mostrarci il fulcro
della vicenda, lasciandoci il tempo di entrare in confidenza con lui,
permettendoci di conoscerne gli affetti, i problemi, i desideri.
A Most violent year si sviluppa
lentamente, quasi esasperando lo spettatore e mettendone alla prova i nervi,
per poi scrollarsi di dosso questa sensazione ed esplodendo, grazie ad un
montaggio attento alle vicende, in alcune scene di rara efficacia, lasciandoci
intendere l’importanza di un decoupage lento e lineare, di long takes e
carrellate immersivi e di un’attenzione unica alla messa in scena. Chandor
aveva già dimostrato di saper maneggiare adeguatamente un ottimo script e
renderlo visivamente al meglio nel piccolo capolavoro Margin Call, in cui un parterre attoriale di tutto rispetto si
muoveva tra i torbidi ingranaggi della (sempre cromaticamente) glaciale Wall
Street, ma qui riesce nell’arduo e impensabile tentativo di superare sé stesso.
“Fissate il cerchio e poi, molto
lentamente, cominciate a muovere la testa” sembra essere lo stile da lui
adottato: mostrare dapprima il fulcro tematico della vicenda, esplorandone i
personaggi, ambientandoli in un luogo riconoscibile (ed ottimamente arredato,
con pochi elementi scenici ma d’impatto e funzionali, allo stesso tempo ricco
in dettagli e spoglio di orpelli) per poi, sempre con estrema lentezza,
sovvertire il ritmo filmico e procedere a destabilizzare la situazione,
destabilizzandone anche la messa in scena: gli esterni si colorano di ardesia e
amaranto, gli interni virano verso il più caldo color crema rendendo l’ambiente
accogliente, pur nella sua aggressività.


Alessandro Sisti

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