Il
tempo che ci vuole
di
Francesca Comencini
con
Fabrizio Gifuni, Romana Maggiora Vergano
Italia,
2024
genere:
drammatico
durata:
110’
Ci
sono diversi modi di realizzare un biopic. Trattandosi di un genere oltremodo
popolare la tendenza generale è quella di affidarsi alla fama del protagonista
attenendosi a un racconto riepilogativo degli eventi più importanti della sua
vita. La mancanza di regole fa si che taluni optino per una rappresentazione
capace di risalire al tutto proponendo una o più fasi della stessa esistenza
come ha fatto Dennis Boyle per “Steve Jobs”. A valorizzare il genere però è
stato più di tutti Christopher Nolan che lo scorso anno ha monopolizzato la
stagione dei premi con un film, “Oppenheimer”, che lavorando sulla forma ha
saputo superare i limiti del conosciuto per raccontare dal di dentro le
contraddizioni del suo personaggio.
Per
competenza argomentativa e soprattutto per la capacità di adottare un punto di
vista intrinseco alla materia narrata “Il tempo che ci vuole” nella sua
natura di biopic anomalo - pronto a trasfigurare il reale in favore di un
racconto emotivo e poetico -, partiva in qualche modo avvantaggiato in virtù
del fatto che a raccontare il rapporto tra Luigi Comencini e sua figlia
Francesca è proprio quest’ultima, ancora una volta dopo il film d’esordio
(“Pianoforte”, 1984) alle prese con un discorso autobiografico che qui si va
completando nel ricordo della figura paterna, approfondita nella sua accezione
salvifica e dunque negli effetti benefici che ebbe la sua vicinanza nel
percorso di guarigione dalla tossicodipendenza.
Se
“Pianoforte” era stato per la Comencini un film girato quasi in diretta,
nell’intento di oggettivare il ritorno alla vita nella necessità di mettersi
alle spalle una volta per tutte l’esperienza più drammatica della propria vita,
“Il tempo che ci vuole” è un’opera che ha dovuto aspettare il tempo necessario
per essere realizzata e che dunque più di altre ha a che fare con l’età matura.
E questo non tanto per il consuntivo esistenziale che il lungometraggio
contiene e neanche, come si potrebbe pensare, per un rapporto, quello tra padre
e figlia che nei fatti costituisce il centro del racconto. Parafrasando il
titolo del film, il tempo che ci vuole è tra le altre cose quello necessario
per fare pace con la generazione dei padri che le generazioni sessantottine
avevano dichiarato di voler uccidere. Se “Colpire al cuore” per essere stato
contiguo agli anni di piombo non poteva far altro che raccontare il rapporto
padre figlio nella sua irresolutezza conflittuale, “Il tempo che ci vuole”
riesce a smarcarsi dal contesto storico che racconta leggendo quella stagione a
distanza di anni e dunque da una prospettiva che gli consente - sotto la spinta
della propria esperienza - di guardare a quel rapporto in maniera conciliante.
Legato
alla Settima arte per forza di cose, “Il tempo che ci vuole” più che sul cinema
e un film sul modo in cui Luigi e Francesca Comencini lo hanno inteso e cioè in
maniera minoritaria rispetto alle priorità della vita. In questo senso partendo
dalla figura paterna, divisa tra la vita e il set, il film fa del cinema e
delle sue incursioni nell’esistenza dei protagonisti una sorta di appendice a
un quotidiano che la Comencini decide di trasfigurare attraverso rimembranze
che si colorano di continua fantasia. Incastonato all’interno di una cornice
che rimanda al sogno e dunque al cinema (ci riferiamo ai frammenti del film in
bianco e nero che aprono e concludono il film, quelli in cui vediamo una
persona addormentarsi e poi destarsi dal sonno), il racconto si mantiene
coerente alla sua premessa prendendo le distanze da qualsiasi naturalismo per
abbracciare una visione ideale che pur facendo riferimento a fatti realmente
accaduti li reinterpreta alla luce del sentimento di affetto e di riconoscenza
della figlia nei confronti del padre.
Raccontando
la propria vita e quella del genitore come non era mai stato fatto,
immaginandola in esclusiva e cioè senza la presenza (visiva e materiale) di
familiari e amici, “Il tempo che ci vuole” adotta un dispositivo che si fa
portatore di un nuovo sguardo sulle persone e sulle cose e con esso di una
buona dose di libertà artistica. Funzionale al discorso privato e dunque alla
volontà di dare conto di un’esperienza eccezionale come lo è stata quella della
Comencini con il padre e mentore, il “metodo” utilizzato dall’autrice si porta
dietro una freschezza che alleggerisce il discorso evitando all’immaginazione
di essere imbrigliata da intellettualismi e autocelebrazioni.
Così facendo ad andare in scena sul grande schermo è una favola nella favola che mescola realtà e finzione nella maniera in cui lo facevano i film di Luigi Comencini, sempre attenti a preservare l’umano dall’invadenza della macchina da presa. “Il tempo che ci vuole” parafrasa il cinema ogni volta che può, talora dando vita a fantasmagorie cinematografiche che rimandano all’universo e alla mitologia condivisa dai due protagonisti (a svettare sono quelle legate al Pinocchio collodiano), altre volte valorizzando attraverso i molti primi piani presenti della seconda parte la forza espressiva degli attori, Fabrizio Gifuni e Romana Maggiora Vergano, bravissimi nel dare conto di gioie e dolori mantenendosi sempre sulla soglia di un'essenzialità che non rinuncia all’emozione. Al contrario dei biopic classici, che rincorrono l’interpretazione mimetica per far parlare di sé, “Il tempo che ci vuole” se ne tiene lontano in maniera coerente affidando agli attori la capacità di suscitare i ricordi senza usurparne l’immagine. Presentato fuori concorso all’81 Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica, per chi scrive “Il tempo che ci vuole” avrebbe meritato una vetrina ancora più prestigiosa.
Carlo Cerofolini
(recensione pubblicata su ondacinema.it)
2 commenti:
Ho visto proprio recentemente questo film e personalmente lo trovo uno dei migliori nel suo genere, perlomeno negli ultimi 10 anni. Andando più indietro nel tempo c’è sicuramente di meglio, ma devo dire che questo mi ha sorpreso positivamente. Complimenti per il blog!
Salve, a quale film di Pubst si riferisce la scena in bianco e nero di una partita a scacchi tra una donna e un uomo? Grazie.
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