Considerazioni a margine sull'ultimo film dei fratelli Coen
Nell'ultimo
film dei Fratelli Coen, "A proposito di Davis" le disavventure del
protagonista sembrano fatte apposta per smentire la convinzione che
l'arte sublimi la vita. Se prendiamo in considerazione il
fascino della prima sequenza, con l'atmosfera del locale bohemiene a
rafforzare la perfomance musicale di Llewyn, e la confrontiamo con
quello che viene dopo, il meglio che si può pensare è benedire il fatto
di aver fatto scelte diverse da quelle del protagonista, ridotto allo
stremo da una serie continua di delusioni rispetto alle potenzialità
della propria arte.
L'immagine
dell'artista maledetto e frustrato da un mondo sentito come luogo di
solitudine ed alienazione non è certo nuova, perchè il cinema non ha mai
rinunciato alla proposizione di persolità condannate dal loro stesso
talento. Tanti sono i contribuiti che si potrebbero ricordare: da "Let's
get Lost" di Bruce Webber, documentario incentrato sulla vita del jazzista
Chet Baker, a "Control" di Anton Corbjin, biopic del leader
dei Joy
Division Liam Curtis. Ma ciò che ancora una volta distingue i Coen dal
resto della truppa non è solo di aver raccontato lo struggimento di una
carriera mai iniziata, e quindi in nessuna maniera responsabile di
qualsivoglia ricaduta emotiva (anzi nel film le esibizioni musicali
equivalgono ad un momento di sollievo e di conforto). Il pregio di "A
proposito di Davis" è invece quello di aver reso in maniera così
singolare, e per certi versi crudele, la parabola di un'artista
deducendola dal paesaggio interiore dello sfortunato
personaggio.

Una caratteristica che i due fratelli sono bravi a
depistare collegandone la possibile prova - "Inside
Llewyn Davis" è il titolo più che sibillino a riguardo- non alla
dichiarazione d'intenti che abbiamo appena
illustrato, ma piuttosto all'omonima intestazione del disco che Davis
propone a Bud Grossmann, il produttore che lo dovrebbe ingaggiare. Ed
invece forti di un impianto musicale come al solito curatissimo (T
Bone Burnett alla cabina di comando), i registi del Missesota si divertono a
sabotare i codici del biopic - ed il realismo del racconto prima
di tutto- con una serie di trovate che
appartengono di diritto al linguaggio più intimo dell'animo umano. Come
quella di presentare una fotografia desaturata e poi manipolata al
computer, dominata di neri e di grigi, come nero e
grigio è l'umore di un' esistenza che stenta a sopravvivere. Oppure di
deformare lo spazio che permette di accedere al meritato riposo,
stringendo a piu' non posso i corridoi che consentono a Llewyn di
accedere al meritato riposo nel divano che amici e conoscenti gli
mettono a disposizione, e che nel film diventano la proiezione di una
difficoltà che insegue Davis fin nelle sue più basiche
necessità.
Per non parlare del clima metereologico, freddo ed ostile
come lo sono i rapporti interpersonali che il film mette in scena
attraverso le divergenze sentimentali e lavorative che affliggono il
viaggio esistenziale di Llewyn.
Umanesimo espressionista che dal punto di vista stilistico segna un
ritorno ad un cinema più semplice (Fargo), con movimenti di macchina
quasi
assenti che si giustificano con la stasi psicologica del protagonista, e
virtuosismi azzerati dall'urgenza di concentrare l'attenzione sulla
condizione del personaggio. Un minimalismo che si addice allo
spirito dei tempi, e che restituisce il cinema dei Coen ad un livello di
eccellenza che solo la bontà del cartellone del festival di Cannes
prima, e la
politica industriale dei giurati dell'Accademy poi, ne hanno impedito la giusta celebrazione.
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