venerdì, febbraio 23, 2024

ROMEO È GIULIETTA

Romeo è Giulietta

di Giovanni Veronesi

con Pilar Fogliati, Sergio Castellitto, Maurizio Lombardi

Italia, 2024

genere: commedia

durata: 112’

Un’ottima base di partenza e un sodalizio sempre più affermato quello tra Giovanni Veronesi e Pilar Fogliati che non è più solo un “caso”, ma una collaborazione vincente e riuscita.

A dimostrarlo, per l’ennesima volta, è il film “Romeo è Giulietta”, una commedia che si distacca da quelle che hanno consacrato l’autore toscano e che cerca di affacciarsi nel non semplice mondo del dramma (contemporaneo).

“Romeo è Giulietta” è il tentativo di mettere in scena la celebre opera di Shakespeare da parte dell’acclamato regista Landi Porrini (un Sergio Castellitto in stato di grazia). A mettergli i bastoni tra le ruote c’è però Vittoria (l’ormai lanciata e affermata Pilar Fogliati), aspirante attrice (ostacolata da un’accusa di plagio mossale in passato) che, con il fidanzato, anch’egli alla ricerca di un ruolo nello spettacolo, si dimostrerà una vera e propria spina nel fianco del regista tanto acclamato quanto incapace di vedere oltre il suo naso.

Una storia che sa di moderno o che almeno tenta di far respirare una ventata di freschezza al pubblico, partendo da basi che ricalcano l’attualità, strizzando l’occhio al politicamente corretto, all’accettazione e alla differenza di genere.

Le premesse ci sono tutte e la base di partenza è innovativa a tal punto da poter permettere al regista e agli attori di giocare con qualcosa che rappresenta la classicità per eccellenza.

Quando si pensa a Shakespeare, e a “Romeo e Giulietta” in particolare, si pensa inevitabilmente a qualcosa di “tradizionale”, ma anche di statico e intoccabile. Veronesi, invece, con la sua commedia ci dimostra il contrario; ci dimostra che si può giocare, scherzare e plasmare anche un’opera classica come questa se si toccano gli elementi (e le corde) giusti. Si comprendono le scelte e le motivazioni che portano i personaggi ad agire in quel determinato modo.

Risulta difficile empatizzare con la follia del regista interpretato da Castellitto, ma è semplice capire la sua voglia di dimostrare al mondo che, nonostante tutto e nonostante tutti, è ancora in grado di trasmettere emozioni nuove, seppur attraverso “materiale più datato”.

Se, quindi, il personaggio di Sergio Castellitto, anche fin troppo sopra le righe, contribuisce sicuramente alla buona riuscita del film, insieme a una sempre più affermata (e poliedrica) Pilar Fogliati, ci sono anche elementi che fanno da contraltare.

L’aver calcato la mano su tutto ciò che contribuisce a rendere la pellicola “politicamente corretta” se da una parte può strizzare l’occhio positivamente a tutti coloro che ci vedono un’apertura e lo considerano come un ulteriore passo avanti, dall’altra sembra “stereotipizzare” fin troppo il tutto, tanto da rendere quasi surreale l’incontro tra tutti questi personaggi e questi elementi.

L’elogio al teatro e il porlo al centro della scena (anche con l’intervento, seppur breve, di una “nonna” Margherita Buy letale) è indubbiamente un punto a favore del regista pratese che, così facendo, dimostra anche una maturazione dietro la macchina da presa. Ma questo basta per far decollare davvero una commedia come questa? Forse si sarebbe potuto osare (e sviluppare) di più determinati aspetti. Come le divertenti incursioni di Geppi Cucciari nei panni di una truccatrice in cerca di una rivalsa, o anche quelle delle due metà dei protagonisti: da una parte Maurizio Lombardi, che interpreta un riuscito Lori, storico compagno del regista Landi Porrini, e dall’altra Domenico Diele, fidanzato di Vittoria, con il sogno da sempre di interpretare Romeo. Tutti personaggi destinati a sfumare, inglobati dai protagonisti e dal cercare di andare oltre una barriera che, però, si fatica a scavalcare subito completamente.

La chiave c’è, adesso va solo inserita correttamente nella toppa e fatta girare, così come gira il misterioso Otto Novembre.


Veronica Ranocchi

venerdì, febbraio 16, 2024

DIECI MINUTI

Dieci minuti

di Maria Sole Tognazzi

con Barbara Ronchi, Margherita Buy, Fotinì Peluso,

Italia, 2024

genere: drammatico

durata: 122’

In uno dei momenti più critici del suo disagio esistenziale Bianca (Barbara Ronchi) si sente rivolgere una frase che le suona come una rivelazione. All’apparenza banale e un po' scontata la presa di coscienza che la solitudine non appartenga solo a lei, ma che sia qualcosa che accomuna l’intero genere umano non è solo un punto di svolta narrativo del film e, in particolare, del percorso di consapevolezza intrapreso dalla protagonista per reagire alla paura di vivere, ma riguarda anche una delle caratteristiche più lampanti del nuovo lungometraggio di Maria Sole Tognazzi, quella di parlare di un sentimento umano che tutti prima o poi ci siamo trovati a sperimentare.

Che poi “Dieci minuti” decida di declinarne le conseguenze prendendo in esame per la quasi totalità figure femminili non esenta la controparte da speciale immunità se è vero che pur addebitando il tracollo della protagonista all’abbandono da parte del proprio partner, il film evita l’alzata di scudi contro la categoria maschile e dunque la litania di cliché e stereotipi a cui ci ha abituato il cinema del #MeToo, presentandoci un quadro piuttosto variegato di torti e di ragioni equamente distribuiti tra le parti in causa.

Ma c’è di più perché prendendo in prestito il metodo curativo della dottoressa Brabanti (Margherita Buy), la psicoterapeuta da cui Bianca è in cura, “Dieci minuti” evita di piangersi troppo addosso preferendo l’azione alla commiserazione. Così succede che, pur non lesinando la dose di dolore e di apatia che accompagna le giornate della protagonista, mostrandoci anche in flashback le varie fasi del suo calvario, a fare da motore alla storia è la pars construens della vicenda, quella della politica dei piccoli passi in cui la “paziente” in prima persona - e senza scuse - si fa garante della propria guarigione.

Nella sceneggiatura scritta dalla Tognazzi assieme a Francesca Archibugi e ispirata al libro - “Per dieci minuti” - di Chiara Gamberale, la ricetta salvifica assume le forme a cui alludono i dieci minuti del titolo, con la serie di esperienze “iniziatiche”, brevi ma intense, fatte apposta per abituare Bianca a uscire fuori dalla propria confort zone, permettendole di guardare in faccia i fantasmi che le condizionano la vita.

Seguendo gli alti e bassi del suo personaggio, “Dieci minuti” si divide tra momenti di intensità drammatica, in cui afflizione e sfiducia la fanno da padrone, ad altri, quelli dedicati alla terapia, dove l’improbabilità delle situazioni scelte dalla donna fanno prevalere una dimensione più lieve e persino divertente: con Barbara Ronchi bravissima nel fare tesoro del suo eclettismo cinematografico (prova ne sia nel 2023 il successo ottenuto con due film diversissimi come “Settembre” di Giulia Steigerwalt e “Rapito” di Marco Bellocchio) e dunque a padroneggiare al meglio le variazioni della partitura drammaturgica, duettando con un' interprete di gran classe come Margherita Buy, perfetta in un ruolo in controtendenza rispetto a quelli che l’anno resa famosa, e con Fotinì Peluso (“Cosa sarà”, “Tutto chiede salvezza”), qui nel ruolo della sorella di Bianca, oramai pronta per un ruolo da protagonista.

Fedele alla matrice intimista del suo cinema, Maria Sole Tognazzi ancora una volta mette in scena una metamorfosi femminile tormentata e dolorosa in cui la rinuncia alle certezze del quotidiano diventano il modo per abbracciare la libertà di una nuova vita. “Dieci minuti” non fa deroghe, suggellando la rinascita personale della sua protagonista attraverso una sequenza - quella della panoramica conclusiva che ci mostra Bianca tuffarsi nel mare e prendere il largo - in cui l’eccezionalità della ripresa (rispetto alla scelta di utilizzare campi limitati in coerenza con le chiusure psicologiche della protagonista) fa il paio con la valenza metaforica della scena.

Nel mettersi a disposizione della storia e dei suoi personaggi la Tognazzi si rende artefice di una regia invisibile che produce senso lavorando sulla composizione interna dell’immagine, sui colori e sulla fotografia più che sui movimenti di macchina. Così è il rosa della casa bunker, sintesi efficace del mondo ideale in cui Bianca si è inconsapevolmente reclusa; così è la dominante blu degli interni, nel momento di massima disperazione ripresi come fossero una sorta di obitorio. La sensazione generale è però quella di una direzione che sembra farsi carico della condizione della protagonista, e dunque che si accontenta di portare a casa il risultato senza rischiare nulla. A differenza di Bianca, “Dieci minuti” non riesce a scrollarsi di dosso una prevedibilità che non lo rende terapeutico per l’esperienza dello spettatore.


Carlo Cerofolini

giovedì, febbraio 15, 2024

PAST LIVES

Past Lives

di Celine Song

con Greta Lee, Teo Yoo, John Magaro

USA, 2023

genere: drammatico, sentimentale

durata: 106’

Sembra proprio sia ancora possibile raccontare grandi storie con pochi elementi e con grande semplicità. Perché è questa la vera e forse più importante lezione da apprendere dopo la visione di “Past Lives” di Celine Song.

L’esordio alla regia di questa regista coreana, che ormai vive in America, è forse il film che più di tutti elogia la semplicità, la quotidianità e la normalità (sulla scia del recente “Perfect Days”).

La protagonista della vicenda è Nora (il cui nome di battesimo coreano è Na Young) che all’età di 12 anni deve trasferirsi insieme alla famiglia (la madre scrittrice, il padre regista e la sorellina) dalla Corea all’America. Nel paese natio deve lasciare, quindi, la sua vecchia vita e soprattutto il suo primo amore (Hae Sung) con il quale, però, riesce a mettersi nuovamente in contatto dall’America 12 anni dopo, salvo poi bloccare le comunicazioni perché troppo distanti e probabilmente senza futuro. Nel giro di poco tempo in una residenza per artisti (a New York Nora è una sceneggiatrice) la protagonista incontra Arthur del quale si innamora. I due si sposano, ma cosa succederà quando dopo altri 12 anni Nora incontrerà nuovamente sulla sua strada il suo primo amore?

Un film nel quale, come “spiegato” nel titolo, si intersecano vite passate (o presunte tali) con un presente e un ipotetico futuro, andando a scavare nelle profondità dell’animo di ognuno di noi.

Quante volte è capitato di dire o di pensare “e se fosse andata diversamente?”. Ecco, “Past Lives” mette sullo schermo la risposta (e le tante ulteriori domande che ne derivano) a questo quesito quasi impossibile.

Ma a colpire, al di là della visione alla “Sliding Doors”, sono la semplicità e la delicatezza, a volte anche crudele, con le quali Celine Song mette in scena la vita di Nora. Continuamente di fronte a bivi, dualismi e contrasti, Nora deve sempre cercare la soluzione che non è quasi mai quella semplice o quella che vuole/vorrebbe.

A incarnare, anche visivamente, queste scelte obbligate ci pensa anche la messa in scena sempre attenta a creare una sorta di contrapposizione. Dagli elementi fisici, che sembrano frapporsi tra i protagonisti, alle dinamiche umane. Perché se le scale rappresentano metaforicamente la scalata sociale (e non solo) compiuta da Nora, sono le sue affermazioni e il suo modo (semplice) di vedere la vita, le persone e i rapporti umani a decretarne il successo.

Celine Song parla di assenza di supereroi in una storia semplice che elogia la semplicità attraverso personaggi che potrebbero essere chiunque. Ma forse è proprio questa la magia di una storia comunque unica perché “personale”.

Bivi e scale sono solo la rappresentazione fisica delle difficoltà alle quali andrà incontro Nora nella propria vita. Difficoltà che si iniziano a presentare fin dall’infanzia e che andranno ad aumentare con l’andare avanti del tempo, messe in evidenza dalla saggia decisione di ricorrere non soltanto a una barriera linguistica, ma anche a una barriera reale e ancora più difficile da superare: la distanza. Una distanza che, grazie al progresso e alla modernità, può essere scavalcata tramite alcuni mezzi, ma solo in parte. Il filtro dello schermo, infatti, è solo un esempio. Un esempio concretizzato poi dalle differenze linguistiche e di usi e costumi. E non è un caso che la storia inizi da una situazione ben precisa che viene scardinata, mostrata ed elaborata tornando indietro di diversi anni. La primissima scena mette in evidenza tutte queste differenze e lo fa senza dare spiegazioni. Le voci fuori campo commentano quello che vedono come farebbe qualsiasi spettatore. Le differenze sono tante e fin troppo evidenti e l’obiettivo diventa quindi quello di scardinarle. Cos’è che è “troppo coreano” come Nora tenta di spiegare al marito? E cosa non lo è? Come ci si avvicina (o allontana) da una cultura, da un modo di vivere e di essere? Lo si può fare davvero?

Alla fine la lingua diventa solo un pretesto per avvicinarsi o allontanarsi e, nel caso di “Past Lives”, per far (ri)vivere a Nora qualcosa che forse, nonostante tutto, non potrà più vivere.

Un dualismo continuo e perenne che si evolve e si intreccia attraverso la figura di Nora che cerca, per quanto possibile, di far avvicinare due persone, due culture, due lingue, due mondi diversi ricorrendo comunque, anche se involontariamente, a situazioni diverse e contrapposte. Cosa è giusto e cosa sbagliato? Per chi fare il tifo? Non ci sono schieramenti in “Past Lives”, ma solo grande consapevolezza. Di ognuno di noi e del mondo che ci circonda.


Veronica Ranocchi

venerdì, febbraio 02, 2024

THE HOLDOVERS - LEZIONI DI VITA

The Holdovers – Lezioni di vita

di Alexander Payne

con Paul Giamatti, Dominic Sessa, Da’Vine Joy Randolph

USA, 2023

genere: commedia, drammatico

durata: 133’

Una piacevole carezza in mezzo a una marea di prodotti che sembrano ormai sempre più standardizzati o creati solo per sorprendere con effetti speciali e colpi di scena uno spettatore che ormai ha visto tutto. Questo è quello che rappresenta il nuovo film di Alexander Payne. A differenza della “massa” proposta sul grande (e piccolo) schermo, “The holdovers” è in grado di rilassare il pubblico attraverso la sua semplicità e dolcezza, senza esagerare o strafare in niente.

Uscito rigenerato dalla visione, lo spettatore avrà anche appreso alcune importanti “lezioni di vita”, come recita il sottotitolo della versione italiana, anche grazie alle più che convincenti interpretazioni degli attori, da Paul Giamatti e Dominic Sessa passando anche per Da’Vine Joy Randolph.

Tutto inizia nel più classico dei modi: siamo nel New England del 1970, precisamente alla Barton Academy, un collegio maschile. Durante le vacanze di Natale quattro studenti, ognuno per ragioni diverse, non fanno rientro a casa dalle proprie famiglie e, per sorvegliarli, viene scelto Paul Hunham, impopolare insegnante di lettere classiche con il quale né studenti né colleghi vogliono avere a che fare. A farci i conti da vicino, nonostante le premesse, sarà, però, soltanto Angus Tully, unico studente costretto a rimanere bloccato a scuola causa irreperibilità della madre che avrebbe potuto acconsentire a mandarlo in vacanza con la famiglia di uno degli altri tre studenti. Per causa di forza maggiore, quindi, Angus e Paul si ritroveranno costretti a “convivere” per cercare di passare al meglio il Natale e i giorni di festa.

Un film di Natale un po’ anomalo. Un film sull’adolescenza e sulla presa di coscienza di sé altrettanto fuori dai comuni standard. Insomma “The holdovers” è tutto tranne che semplice e banale pur apparendo come tale. Ebbene sì, perché la storia è “classica”, pensiamo di averla già vista con il memorabile “L’attimo fuggente”, tanto per citarne uno, ma bisogna andare oltre le apparenze e arrivare a capire che in questi tre personaggi così diversi tra loro c’è molto da cui trarre spunto per una riflessione.

Senza cadere in pietismi e sentimentalismi Alexander Payne riesce a dare voce a quelli che normalmente sono gli “emarginati”, innalzandoli a un ruolo di prestigio e permettendo loro di essere portatori di valori e tematiche attuali nonostante la storia sia ambientata nel 1970. La guerra che si mescola al lutto e all’elaborazione di una perdita importante sono solo la base di partenza per un film che arriva a toccare le corde dell’anima trattando un tema come la depressione, il tutto condito dalle sane e spesso ironiche divergenze generazionali incarnate perfettamente dai due protagonisti sovente redarguiti, per questo, dalla cuoca Mary (Da’Vine Joy Randolph) sui quali il regista gioca alimentandone le caratteristiche: lo studio della letteratura antica per l’insegnante è l’emblema di una classicità, di una staticità e di un voler rimanere ancorati a un passato destinato invece a evolversi grazie all’intraprendenza e, a tratti, strafottenza tipica dei più giovani.

Un contrasto e una dicotomia resi alla perfezione anche dall’ambiente circostante, dal suo utilizzo e dalla sua trasformazione. Se all’inizio siamo inchiodati e “braccati”, come Angus, all’interno di uno spazio chiuso e angusto, appunto, dal quale non è possibile evadere neanche con la mente, col passare del tempo, imparando a conoscere i personaggi e la loro indole, riusciamo a fuggire e lo facciamo, prima, con la breve visita all’ospedale e, dopo, con il viaggio a Boston.

Spazio e tempo si dilatano in questo modo come l’animo e il carattere dei due personaggi così diversi eppure così “funzionanti” (e funzionali) insieme.

Continuamente e perfettamente in bilico tra dramma e commedia in un modo in cui ad Alexander Payne riesce particolarmente bene “The holdovers” consegna una serie di lezioni di vita. Non solo ai due protagonisti, in grado adesso di guardare sé stessi e gli altri con occhi diversi, ma anche e soprattutto a noi spettatori.


Veronica Ranocchi

giovedì, febbraio 01, 2024

PARE PARECCHIO PARIGI

Pare parecchio Parigi

di Leonardo Pieraccioni

con Leonardo Pieraccioni, Chiara Francini, Giulia Bevilacqua

Italia, 2023

genere: commedia

durata: 96’

Una ripetizione o un’allitterazione? Con questa domanda può iniziare l’approccio al nuovo film di (e con) Leonardo Pieraccioni. Già da questo “inciampo”, voluto, nel titolo si intuisce la direzione del film. “Pare parecchio Parigi”, così come la storia vera dalla quale prende spunto, nonostante le buone intenzioni e delle trovate sempre efficaci, ha il difetto di girare su sé stesso senza uscire da dei veri e reali confini, siano essi quelli del territorio, quelli del gergo o quelli delle battute toscane.

Una storia vera ai limiti dell’incredibile quella dalla quale parte il regista e attore fiorentino. Gli ingredienti sono semplici: un padre malato (e quasi cieco) e tre fratelli, Bernardo, Giovanna e Ivana (Pieraccioni, Chiara Francini e Giulia Bevilacqua), che si sono persi di vista e che non vogliono avere a che fare con gli ultimi giorni di vita del genitore. Messi insieme e mescolati ben bene rappresentano la classica base di partenza per una storia che, in questo caso, si trasforma in un qualcosa a metà strada tra commedia e dramma, a differenza delle precedenti opere dello stesso Pieraccioni, intento solitamente (ed esclusivamente) a divertire.

Se il punto di partenza, come detto, risulta fin da subito efficace non lo è altrettanto lo sviluppo che rimane fin troppo in superficie, salvo poi arrivare all’ovvia riconciliazione che mette in mezzo, tra una gag e l’altra, e alcuni omaggi più o meno voluti, anche tematiche attuali (dal toyboy all’accettazione di sé e degli altri, tanto per citarne due).

Ma la solita verve comica del regista e attore qui tenta di fare un passo più lungo della gamba tanto da rimanere, per certi versi, ancorata al passato. Non a caso, infatti, si possono individuare elementi caratterizzanti i titoli che avevano e che hanno consacrato l’autore toscano: dalla scelta di alcuni interpreti ricorrenti, anche per brevi o brevissime apparizioni, al ruolo, sempre centrale, della famiglia, ogni volta sviscerato in maniera diversa, di pari passo con l’evoluzione umana del regista stesso. Ma non bastano per rendere “Pare parecchio Parigi” una commedia allo stesso livello delle precedenti. Forse è vero che si nota una sorta di punto di svolta, almeno negli intenti, da parte del regista, ma sono intenti opachi e appannati che, con l’andare avanti dei chilometri, si fanno sempre più pesanti e privi di una via d’uscita all’altezza delle premesse.

Ed è un peccato perché è indubbiamente un’ottima base quella di giocare su un viaggio immaginario contornato dalle fugaci ma divertenti incursioni di alcune comparse appositamente istruite da una delle figlie. Ma è un viaggio che sembra girare intorno e girare su sé stesso al pari del camper che ospita la strampalata e ritrovata famiglia. Da Nino Frassica, in un ruolo alternativo di padre burbero forse non troppo nelle sue corde, a un’esplosiva Chiara Francini, probabilmente la figura che emerge più di tutte, tra battute già memorabili e una cadenza unica. Passando per una Giulia Bevilacqua alla quale spetta il compito di riportare serietà e “rigore” al quartetto e alla storia in generale e per un Massimo Ceccherini nel ruolo del cattivo e maligno per eccellenza accompagnato da una bravissima Gianna Giachetti nel ruolo della madre, purtroppo entrambi troppo relegati e marginali.

Il tutto, come nella migliore delle tradizioni dei film di Pieraccioni, è contornato da una parentesi che serve al regista e attore per introdurre e contestualizzare, seppur in maniera alternativa, la sua tanto amata e usata voce narrante. Una voce narrante che, però, non riesce a destare troppo lo spettatore incastrato in un camper, o meglio in un maneggio, dal quale risulta difficile evadere per vedere Parigi.


Veronica Ranocchi 

domenica, gennaio 14, 2024

PERFECT DAYS

Perfect days

di Wim Wenders

con Kōji Yakusho, Tokio Emoto

Giappone, Germania, 2023

genere: drammatico

durata: 123’

Tutti abbiamo un giorno preferito. Un momento della giornata, della settimana, del mese che prediligiamo e che riteniamo, almeno ai nostri occhi, “perfetto”. Ecco, per Hirayama questo accade ogni giorno.

Infatti i “Perfect Days”, presentati da Wim Wenders, prima a Cannes e poi nelle sale italiane non altro che lo scovare la novità e l’entusiasmo anche nella più classica e monotona routine.

“Perfect days” avrebbe potuto essere un documentario, ma la scelta di renderlo un film di finzione incredibilmente vero e vicino alla realtà di chiunque conferisce al titolo un grande merito: quello di aver reso straordinario anche il più semplice, quotidiano e umile gesto.

“Quanto vorrei che tutto restasse com’è” è quello che dice la ristoratrice di uno dei luoghi abitualmente frequentati da Hirayama al termine del suo lavoro. Ed è anche quello che il protagonista sembra voler perseguire ogni giorno ripetendo incessantemente le stesse cose. Ma si tratta di una routine che non è fine a sé stessa, anzi. Hirayama è consapevole di ripetere continuamente le stesse azioni, ma sa anche che questa apparente monotonia non potrà durare per sempre perché tutto è destinato a cambiare.

E ne sono una chiara dimostrazione gli “imprevisti” che gli accadono nonostante il ripetersi di gesti e azioni. Dal collega strampalato alla nipote, passando addirittura per una strana e originale comunicazione con qualche sconosciuto, probabilmente silenzioso come lui. Perché se c’è un elemento che caratterizza il protagonista (e il film) è proprio il silenzio. Sono poche le parole che pronuncia e mai superflue. È come se fosse stato estrapolato da un’altra epoca e si fosse ritrovato a vivere nella Tokyo del 2023 con le abitudini che, però, hanno caratterizzato probabilmente la sua giovinezza e la sua infanzia.

Ogni mattina si alza presto, ripiega minuziosamente il proprio letto, si prende cura delle proprie piante, esce di casa, prende un caffè e sale sul suo furgoncino pronto per una nuova giornata di lavoro, non prima di aver scelto accuratamente la giusta musicassetta da ascoltare durante il tragitto. E poi passa in rassegna tutti i bagni pubblici di Tokyo per pulirli, come la scritta sulla sua tuta “The Tokyo Toilet” aveva anticipato all’inizio del film.

Una routine che, seppur in silenzio da solo, non è sinonimo di solitudine, ma anzi dimostra proprio il contrario. “Perfect days” invita a guardare il mondo da un’altra prospettiva, accogliendo la novità, qualunque essa sia, sempre nel migliore dei modi, considerandola come qualcosa che può solo migliorare la situazione attuale. E infatti Hirayama accoglie le piccole novità che la sua routine gli presenta involontariamente in maniera positiva. Dall’arrivo della nipote che, rompendo gli schemi e gli equilibri, gli impone non soltanto un dialogo, ma anche una riflessione sulla vita e dei consigli al banale tris che trova scritto in un foglio solo apparentemente dimenticato in uno dei tanti bagni.

Un elemento su tutti, però, in grado di distogliere l’attenzione dello spettatore e dello stesso Hirayama da quella che può sembrare una continua monotonia è la fotografia. Perché nella vita di quel lavoratore silenzioso non ci sono solo le piante di cui si prende cura e la lettura ogni sera di un volume diverso. C’è anche l’osservare la realtà che lo circonda, anche quella più silenziosa, come le fronde degli alberi e le foglie che si muovono al vento e che nascondo a tratti la luce del sole. Quelle foglie che lui ama osservare e immortalare perché emblema perfetto della sua vita terrena. E non è un caso che l’immagine si blocchi proprio nell’istante dello scatto, come un monito, come a ricordare il valore di un momento, di un giorno davvero perfetto. 


Veronica Ranocchi

mercoledì, gennaio 10, 2024

IL RAGAZZO E L'AIRONE

Il ragazzo e l’airone

di Hayao Miyazaki

Giappone, 2023

genere: animazione, fantastico

durata: 124’

Una favola. L’ennesima favola di Hayao Miyazaki.

Anche a 83 anni il regista giapponese, fondatore dello studio Ghibli, continua a impressionare e affascinare il suo pubblico. Stavolta con una storia semplice e complessa al tempo stesso.

Nella Tokyo del 1943 assistiamo, attraverso immagini e richiami alla Guerra del Pacifico. In quel periodo il dodicenne Mahito Maki perde la madre durante l’incendio di un ospedale. L’anno successivo il padre del ragazzo si risposa con Natsuko e si trasferisce in campagna, nella tenuta della donna anche per allontanarsi dalla guerra. Qui Mahito fa fatica ad ambientarsi e soffre per questo nuovo legame tra il padre e la donna, in dolce attesa. Tutto cambia quando, un giorno, decide di inseguire un misterioso airone che lo porta vicino alle rovine di una torre abbandonata che, in seguito ad altre vicissitudini, lo farà entrare in contatto con un mondo e con persone in grado di aiutarlo a guardare la realtà da un’altra prospettiva.

Cercare di spiegare il film di Miyazaki non è semplice, senza contare che troppe informazioni andrebbero a intaccare la poesia (visiva e non) del maestro dell’animazione giapponese che ognuno, invece, dovrebbe leggere e interpretare come meglio crede.

Se da una parte le simbologie e le metafore sono, ancora una volta, la base dalla quale partire, dall’altra parte “Il ragazzo e l’airone” si può definire come il titolo forse più autobiografico in assoluto tra quelli realizzati nel corso degli anni da uno dei fondatori dello Studio Ghibli.

La guerra, che anche l’autore ha vissuto, è il perno attorno al quale ruota la vicenda. Una guerra che Miyazaki mostra, cercando di nasconderla, o meglio di trasformarla e riadattarla in chiave più magica. E poi la possibilità di fuggire, ma non soltanto fisicamente, anche metaforicamente, per rifugiarsi in un luogo che, anche se irreale, è l’unico in grado di accogliere chiunque senza chiedere niente in cambio, senza incutere terrore e senza che paura, distruzione e morte possano avvicinarsi.

Accompagnato dall’airone cenerino, per i giapponesi simbolo portafortuna e di longevità, Mahito affronterà un viaggio ben più grande di lui e delle sue aspettative.

Una mescolanza di colori, personaggi e sfumature che si intersecano tra loro così come si intrecciano mondo reale e mondo fantastico.

C’è un solo elemento a unire i due mondi e Mahito, come il più classico degli eroi, è l’unico a poterlo attraversare superando ostacoli che lo forgeranno e lo aiuteranno a capire sé stesso e ciò che lo circonda. Con l’energia e la tenacia che lo caratterizzano, il giovane dimostra di essere all’altezza del ruolo di rappresentante perfetto all’interno sia di un mondo terreno che di un mondo ultraterreno. Perché di mondo ultraterreno si parla quando, insieme a lui, anche lo spettatore si immerge in una realtà altra, anche rispetto al film stesso già di per sé magico. Un mondo che ha richiami più o meno evidenti con vari elementi. Uno su tutti il parallelismo con la “Divina Commedia”. Da Kiriko nei panni di un Virgilio con il compito di proteggere e soprattutto guidare Mahito al culmine del suo viaggio, al Re Parrocchetto che, invece, sembra avere le sembianze di Caronte, traghettatore di vere e proprie anime alla ricerca del proprio posto nel mondo.

Ma sono anche tante altre le chiavi di lettura di un film che viaggia su piani diversi e presenta tanti richiami e tanti modi di vedere una stessa cosa.

“E voi come vivrete?” è il titolo del libro che Mahito ritrova improvvisamente e che forse era appartenuto alla madre che avrebbe voluto mostrarlo al figlio da grande, ma è anche una domanda che lo stesso Miyazaki sembra fare al suo pubblico e a sé stesso. Una domanda tutt’altro che semplice come tutt’altro che semplice è l’opera del maestro giapponese che realizza un film nel quale non esiste e non può esistere una visione univoca. E lui, oltre che inserire richiami, più o meno espliciti, alle sue opere passate, ricalcando, ma allo stesso tempo anche ampliando, alcune tematiche, arriva addirittura a inserirsi all’interno del racconto, come un perfetto deus ex machina che muove i fili della storia e della vita.

“E voi come vivrete?” sembra, perciò, quasi un monito. Una volta vista questa opera, siamo in grado di mettere insieme i pezzi per creare il migliore dei mondi possibili? Lui i pezzi, nel corso della sua vita e del suo cinema, li ha sicuramente messi insieme alla perfezione. Mancava solo un Golden Globe che, preciso e puntuale, come il volo di un airone, si è posato alla sua finestra.


Veronica Ranocchi

martedì, gennaio 09, 2024

LE CLASSIFICHE DE I CINEMANIACI 2023

 Le classifiche de I cinemaniaci 2023

Carlo Cerofolini


1.         Decision to Leave (Park Chan-wook)

2.         Pacifiction - Un mondo sommerso (Albert Serra)

3.         Il maestro giardiniere (Paul Schrader)

4.         Aftersun (Charlotte Wells)

5.         Gigi la legge (Alessandro Comodin)

6.         Animali selvatici (Cristian Mungiu)

7.         L’ultima notte di Amore (Andrea Di Stefano)

8.         La chimera (Alice Rohrwacher)

9.         Reptile (Grant Singer)

10.       Disco Boy (Giacomo Abbruzzese)


-Miglior regia: Park Chan-wook ("Decision to Leave")

-Miglior attore: Benicio Del Toro ("Reptile")

-Miglior attrice: Paola Cortellesi ("C'è ancora domani")

-Miglior sceneggiatura: Paul Schrader ("Il maestro giardiniere")

-Miglior fotografia: Artur Tort ("Pacifiction")

-Miglior montaggio: Jennifer Lame ("Oppenheimer")

-Miglior colonna sonora: Vitalic ("Disco Boy")

-Rivelazione dell'anno: Cailee Spaeny ("Priscilla")

-Miglior opera prima: "Aftersun" di Charlotte Wells


Veronica Ranocchi



1.         Aftersun (Charlotte Wells)

2.         Gli spiriti dell'isola (Martin McDonagh)

3.         Rapito (Marco Bellocchio)

4.         Babylon (Damien Chazelle)

5.         As Bestas (Rodrigo Sorogoyen)

6.         Mixed by Erry (Sydney Sibilia)

7.         La chimera (Alice Rohrwacher)

8.         Decision to Leave (Park Chan-wook)

9.         Oppenheimer (Christopher Nolan)

10.       L’ultima notte di Amore (Andrea Di Stefano)


-Miglior regia: Park Chan-wook ("Decision to Leave")

-Miglior attore: Cillian Murphy ("Oppenheimer")

-Miglior attrice: Sandra Huller ("Anatomia di una caduta")

-Miglior sceneggiatura: Martin McDonagh ("Gli spiriti dell'isola")

-Miglior fotografia: Paolo Carnera ("Io capitano")

-Miglior montaggio: Blair McClendon ("Aftersun")

-Miglior colonna sonora: Justin Hurwitz ("Babylon")

-Rivelazione dell'anno: Frankie Corio ("Aftersun")

-Miglior opera prima: "Aftersun" di Charlotte Wells/"C'è ancora domani" di Paola Cortellesi

venerdì, dicembre 22, 2023

LA CHIMERA

La chimera

di Alice Rohrwacher

con Josh O’Connor, Isabella Rossellini, Carol Duarte

Italia, Francia, Svizzera, 2023

genere: drammatico

durata: 130’

"Il sole ci segue" dice la giovane donna al protagonista, mentre nella soggettiva che ne incornicia l'ovale la faccia della ragazza appare e scompare davanti ai nostri occhi. Ancora una volta per Alice Rohrwacher il cinematografo è un'autentica epifania: una questione di luce e oscurità, di sogno e realtà, di essere e non essere, come è sempre stato a partire dai fratelli Lumière. L'inizio e la fine delle sue storie sembrano fatte apposta per ricordarcelo, costruite come sono attraverso due movimenti opposti ma coerenti uno con l'altro.

Il primo è quello in cui l'introduzione al racconto coincide con il "venire alla luce" dei personaggi, come accade ne "Le meraviglie" alla famiglia di Gelsomina, colta nel momento del risveglio mattutino, quando ancora la vita è sospesa tra il giorno e la notte, e come succedeva in "Lazzaro felice", laddove il presepe contadino aveva inizio con un bagliore lontano destinato a spezzare il velo della notte.

Il secondo invece, sembra voler tornare alle origini del racconto perchè l'improvvisa assenza dei protagonisti - la casa vuota e disabita de "Le meraviglie", la metempsicosi di "Lazzaro felice" - pare restituirli alla stessa fantasia che li aveva messi al mondo: ancora una volta a quel buio che va oltre la morte, vera o apparente che sia, consegnandoli ai miti dell'immaginario collettivo.

Rispetto ai lungometraggi appena menzionati, "La chimera" si può considerare una sorta di chiusura del cerchio in quanto sintesi di temi (tra cui quello importante, ma sottovalutato dello sradicamento), personaggi, ambienti e forme cinematografiche. Anche qui, come negli altri frangenti, il finale, ricollegandosi alla sequenza d'apertura, ci restituisce l'immagine di un mondo dove tutto è possibile e in cui persino la morte è costretta a fare i conti con la forza delle passioni umane. Nel caso specifico quella di Arthur (Josh O'Connor) nei confronti dell'amata Beniamina (la Yile Yara Vianello di "Corpo celeste").

Se a prima vista gli avvenimenti del racconto si concentrano sulle vicissitudini di Arthur e del gruppo di tombaroli che trafugano con alterna fortuna i siti archeologici etruschi della costa laziale, in realtà "La chimera" altro non è (o è allo stesso tempo), che una storia "d'amor perduto", quello tra Arthur e la fuggiasca Beniamina di cui il ragazzo (e non solo lui) sembra aspettare il ritorno.

Stante le premesse fatte in apertura, e dunque per le caratteristiche intrinseche di tutto il cinema di Alice Rohrwacher, i due piani di lettura si equivalgono e si scambiano spesso le parti (l'Amore così come gli Etruschi sono entrambi affascinanti e misteriosi) nello sviluppo di un racconto in cui i confini tra gli opposti sono spesso labili o inesistenti (onirico e reale hanno lo stesso peso nell'economia del racconto), come lo è la scelta dell'autrice di allentare la consecutio narrativa e la densità dialogica per mettere lo spettatore nella condizione migliore per abbandonarsi alla poesia evocativa delle immagini, capaci come poche di "raccontare ciò che le parole non riescono a dire".

Non è un caso che il punto di svolta del film, quello della consapevolezza di Arthur, coincida con il gesto con cui il ragazzo si disfa della testa della statua etrusca, ovvero di quella parte del corpo in cui lo sguardo si crea per poi essere indirizzato. Così facendo è come se la Rohrwacher, e con lei il suo film, si appellasse a quella purezza di vedute che ne costituisce la visione per invitarci a sgombrare il quadro dal superfluo.

Ecco che allora, la rabdomanzia con cui Arthur individua i tesori nascosti sotto il terreno, e dunque il suo farsi tramite tra ciò che è vivo e ciò che è morto, tra il passato degli Etruschi e il presente del film (collocato negli anni Ottanta), diventa la modalità di una ricerca più importante, quella che deve portarlo a riunirsi con la donna che gli ha rubato il cuore.

Dunque, "La chimera" non deve essere letto in maniera letterale, sperando di trovarne le risposte in una logica narrativa classica, quella in cui i personaggi sono subordinati all'azione e il legame sequenziale retto da un ferreo rapporto di causa effetto. Al contrario, come nella lettura di strofe poetiche lo spettatore di fronte a "La chimera" è chiamato ad aprire il cuore agli infiniti rimandi e alle assonanze di cui sono piene le immagini, considerando che nel suo essere una favola contemporanea il film racconta anche attraverso situazioni ad alta valenza simbolica.

A esserlo sono le sequenze sulla riva del mare, da sempre spazio cerniera tra luoghi reali e immaginari, qui funzionali a esprimere un altro topos del cinema della Rohrwacher, quello della collisione tra società agricola e sistema industriale, individuabile nell'incombenza delle ciminiere sullo scorcio marino in cui si svolge l'ultima parte della storia. E ancora mediante la presenza di abitazioni vetuste e oramai in disuso (la villa in cui abita il personaggio interpretato da una bravissima Isabella Rossellini e la ex stazione ferroviaria in cui a un certo punto ritroviamo l'altrettanto strepitosa Carol Duarte, già protagonista per chi non lo ricordasse de "La vita invisibile di Eurídice Gusmão"), riadattate a spazio di vitalità famigliare, avvalorando in questo ancora una volta l'equazione tra opposti presente in tutto il film.

Partendo da una visione francescana del paesaggio e delle sue forme di vita "La chimera" così come a suo tempo fecero "Le meraviglie" e "Lazzaro felice" è solo l'ultimo esempio di una volontà di rinnovamento che, pur non rinnegando la tradizione del nostro cinema ma anzi partecipandovi, si fa promotrice di un realismo magico e poetico in fase di riscoperta. Dopo "Nuovomondo" di Emanuele Crialese, "Bella e perduta" di Pietro Marcello, "La grande bellezza" di Paolo Sorrentino, "La chimera" è la conferma di un filone sempre più prolifico di gioielli inaspettati.


Carlo Cerofolini

(recensione pubblicata su ondacinema.it)

giovedì, dicembre 21, 2023

WONKA

Wonka

di Paul King

con Timothée Chalamet, Olivia Colman, Hugh Grant

UK, USA, 2023

genere: fantastico, musicale

durata: 116’

E anche per il 2023 abbiamo il film perfetto per il periodo natalizio, adatto a tutta la famiglia. Non che ci fossero dubbi, viste le premesse: da Roal Dahl come “autore” a Timothée Chalamet come protagonista, passando per la scelta di ricorrere a un musical.

Festa, canzoni e tanto cioccolato sono gli ingredienti perfetti per portare il pubblico al cinema e divertirsi con la simpatica e microscopica versione di Hugh Grant nei panni di un Oompa Loompa.

La storia è quella che tutti conosciamo: Willy Wonka è un mago cioccolatiere con il sogno di aprire un suo negozio, una “fabbrica” di cioccolato, ma per farlo dovrà superare una serie di ostacoli che lo faranno “dubitare” più di una volta. Ad aiutarlo e spronarlo, infatti, sembra non bastare la voce della mamma scomparsa. Wonka ha bisogno anche di aiuti “concreti” che fortunatamente trova dopo essersi imbattuto in un bel guaio.

La piccola Noodle, per certi versi ancora più determinata del protagonista, riuscirà a far leva sui punti di forza del giovane non spegnendo mai del tutto la sua speranza e il suo sogno.

Se il primo punto di forza sono le canzoni, mescolate agli effetti speciali riusciti e mai esagerati, l’altro elemento sul quale il film fa leva è indubbiamente la presenza di un nutrito cast di nomi importanti. Al protagonista Chalamet, perfetto per il ruolo, si affiancano, infatti, il già citato Hugh Grant, ma anche Olivia Colman, Rowan Atkinson, Sally Hawkins, tanto per citarne alcuni.

Una storia che, seppur conosciuta, è apprezzabile in questa nuova chiave, per certi versi, anche più moderna, che, senza cadere in stereotipi e banalità, racconta qualcosa di universale per tempo e spazio. Tematiche anche contemporanee sono affrontate nel giusto modo e con i giusti mezzi in modo da arrivare a grandi e piccoli.

Al centro c’è il sogno e la speranza di un giovane che, pur avendo le qualità e la bravura, non riesce a ottenere ciò che desidera perché la spietata concorrenza non vuole essere sostituita da qualcuno di più capace e competente. A spingere Willy, e di conseguenza l’intera storia, è però una grande forza di volontà.

Nonostante si conosca la storia, visto e considerato che si tratta di un prequel, “Wonka” di Paul King intrattiene e convince lo spettatore ad andare fino in fondo nella visione.

Forse, però, il pubblico al quale intende rivolgersi in maniera prevalente è quello dei bambini, ai quali il film regala magie continue, senza darne una reale spiegazione, come fossero parte integrante della storia (e quasi della realtà). Questo porta anche, inevitabilmente, a una mancanza di spiegazioni e contestualizzazioni legate alla figura di Willy Wonka stesso che, talvolta, sembra vagare privo di una reale meta e di una reale concretezza. Richiami e riferimenti ai suoi ricordi più profondi non bastano a delimitare a 360 gradi un protagonista che, invece, presenta varie sfaccettature e che si presterebbe a un’analisi che potrebbe andare ben al di là della creazione di una semplice tavoletta di cioccolata.

Musiche e magie che suscitano interesse e catturano l’attenzione, ma soprattutto quella dei più piccoli, incantati a osservare un mondo pieno di luccichii, leccornie e dolciumi, intervallati dalla simpatica e alternativa presenza dell’Oompa Loompa.

Un Oompa Loompa che, di fatto, è l’unica presenza cinica della storia. Lasciando da parte gli antagonisti, il personaggio di Hugh Grant è il solo in grado di suscitare emozioni contrastanti. Proprio ciò che manca al Willy Wonka di Chalamet che, fluttuando leggero tra le sue dolci creazioni, sembra animato da un intento e da uno spirito completamente puro e nobile senza nessuna “cattiva” sfumatura, tipica, invece, dell’originale racconto di Dahl.

Eppure è impossibile uscire dalla sala senza avere in testa almeno uno dei motivetti centrali, oltre agli indimenticabili dei film precedenti (“Pure Imagination” e “Oompa Loompa”), e tanta voglia di cioccolato!


Veronica Ranocchi

giovedì, dicembre 14, 2023

LA PASSION DE DODIN BOUFFANT

La passion de Dodin Bouffant

di Trần Anh Hùng

con Juliette Binoche, Benoit Magimel

Francia, 2023

genere: sentimentale

durata: 134’

A proposito di "Norwegian Wood", lo scrittore giapponese Murakami parlò del suo libro come di una storia d’amore molto personale, dedicata agli amici morti e a quelli che restano. Dopo aver visto "La passion de Dodin Bouffant" non si può non ripensare a parole che sembrano fatte apposta per introdurre lo spettatore al nuovo film del regista franco-vietnamita Trần Anh Hùng, che del romanzo di Murakami firmò nel 2010 la versione cinematografica. Che si tratti d'ispirazione artistica o semplicemente di una reminiscenza del passato, fatto sta che "La passion de Dodin Bouffant" prende a prestito la passione culinaria del suo protagonista e della donna che gli sta accanto per raccontare molto di più di un ménage lavorativo.

A dispetto di ciò che descrive il film, ovvero la ventennale collaborazione tra il rinomato chef (Benoît Magimel diventato oramai un attore universale) e la cuoca Eugénie (interpretata da un'incommensurabile Juliette Binoche) capace di vincere il tempo nella Francia del XIX secolo, il lungometraggio in questione diventa fin da subito qualcos’altro rispetto ai film sull’arte culinaria che lo hanno preceduto. Certo è che la lunga introduzione con cui il regista ci porta nel bel mezzo della storia, un "falso" piano sequenza in cui la macchina da presa diventa tutt'uno con la preparazioni di uno dei tanti menù preparati dai protagonisti, risulta fondante nello stabilire l'unità di tempo e di spazio della narrazione, rappresentata appunto dalla casa di Bouffant (con qualche scampolo di ripresa esterna ambientata nel bosco circostante ad essa), come pure la centralità dell’azione, legata alla filiera necessaria alla presentazione in tavola delle varie pietanze ma anche della filosofia che ne determina le scelte.

Lo sguardo del regista vi torna di continuo, ogni volta aggiungendo un particolare che però non riguarda solo il cibo, anche se così non sembra, ma piuttosto la personalità e i sentimenti di chi lo prepara. Come fosse la sinfonia del Bolero di Ravel, l’eterno ritorno a quella liturgia si colora come per magia di nuovi significati che un poco alla volta operano sulla materia una trasfigurazione capace di cambiarla fino a farla diventare una cosa nuova. Così facendo davanti agli occhi dello spettatore i gesti relativi alla preparazione di cene e pranzi si caricano di ulteriori accezioni, facendo corrispondere i gesti materiali all’afflato del corteggiamento amoroso fra Bouffant e la sua amata. Gli esempi di questo gioco di specchi non si contano, tanta è l’abilità del regista nel saper parlare contemporaneamente alla vista e al cuore.

Il collegamento fra cibo ed eros non è una scoperta dell'ultima ora ma ciò che conta in questo caso è il modo in cui il film è capace di metterlo in scena. Ma non basta, perché come aveva fatto Paul Thomas Anderson ne "Il filo nascosto" anche Trần lavora per astrazioni successive, sublimando la materia in spirito e la passione culinaria in desiderio amoroso. È in questo modo che la consistenza delle materie prime e la perfezione delle pietanze oggetto di una continua valutazione tattile rimandano alla bellezza e all'armonia del corpo femminile, in un gioco che diventa sempre più manifesto, ma, come si conviene al corteggiamento amoroso, mai esplicito. Un'equiparazione attestata da un particolare fugace ma decisivo, in cui l’immagine della pera sciroppata appoggiata sul piatto è seguita senza soluzione di continuità dal corpo nudo di Eugénie poggiata sul letto in una maniera che rimanda senza mezzi termini alla forma di quella precedente. Abituato a circoscrivere le storie in unico ambiente, facendole vivere sostituendo i sensi alle parole ("Il profumo della papaya verde", suo esordio registico, fu il primo esempio), Trần realizza un'opera che fonda la modernità di pensiero alla classicità delle forme. "La Passion de Dodin Bouffaunt" infatti arriva a chiamare in causa a modo suo la famosa mutazione della carne cronenberghiana, con la differenza che alla pari del Bertrand Bonello di "La Bête", anche Trần parla del futuro attraverso il passato, ricordandoci, se mai ce ne fosse bisogno, che il tempo così come lo conosciamo è solo una convenzione umana.


Carlo Cerofolini

(recensione pubblicata su ondacinema.it)

mercoledì, dicembre 13, 2023

DIABOLIK - CHI SEI?

Diabolik - chi sei?

di Marco Manetti, Antonio Manetti

con Giacomo Giannotti, Valerio Mastandrea, Miriam Leone, Monica Bellucci, Lorenzo Zurzolo

Italia, 2023

genere: azione, thriller, giallo

durata: 124’

Smaltita la dipartita artistica di Luca Marinelli, interprete del primo Diabolik e prese le misure a un sostituto, Giacomo Giannotti, forse meno carismatico del suo collega ma più rispondente dal punto vista fisiognomico al personaggio creato dalle sorelle Giussani, la saga dei fratelli Manetti, come suggerisce il titolo, approfitta del vuoto narrativo lasciato aperto dalla misteriosa sparizione del protagonista, per fare luce sulle oscure origini del personaggio. Come negli omologhi prodotti americani la saga si premura di completare il percorso conoscitivo del personaggio. Dopo averne definito il campo d’azione (“Diabolik”) e approfondito la personalità del suo più acerrimo nemico (“Diabolik - Ginko all’attacco”), "Diabolik - Chi sei?" conclude il viaggio del suo antieroe non prima di averne svelato le origini, lasciando intendere come fin da giovane età e ancor prima di diventare il famigerato criminale in calzamaglia, il nostro possedesse l’intelligenza e la mancanza di scrupoli che permettono di trasformare lo svantaggio iniziale in una nuova possibilità di successo.

Sulla scia dell’episodio precedente “Diabolik - Chi sei?” conferma il cambio di rotta spostando definitivamente l’attenzione sulle vite dei personaggi e sulla capacità dei singoli di dominare il caos, dimostrando meno interesse verso quegli aspetti iconografici che nel primo episodio avevano trovato apoteosi nella rappresentazione stilizzata di Clerville, la città che fa da scenario alle imprese di Diabolik, sempre meno protagonista in senso estetico delle avventure del personaggio. Una svolta che riguarda anche una maggiore suddivisione del tempo a disposizione per ciascun personaggio, meno sbilanciato sul singolo anche a costo di dare minor spazio alla figura più riuscita della serie, Eva Kant/Miriam Leone, costretta a dividere la scena femminile con la contessa Altea di Vallenberg/Monica Bellucci.

D’altronde “Diabolik - Chi sei?” conferma la volontà di prendere le distanze dal modello delle sorelle Giussani operandone una rilettura che non mette in discussione la narrazione dei personaggi quanto la loro rappresentazione. In questo senso è come se le immagini si rendessero conto dell’impossibilità di leggere le pagine di quei fumetti come lo facevano le sue creatrici e che per questo decidesse di farlo con gli occhi di oggi. Così facendo i difetti più volte imputati all’intera operazione, e cioè il ritmo compassato dell’azione, la postura legnosa degli attori, la recitazione incerta e persino il trucco posticcio, altro non sarebbero che la reazione alla diversa prospettiva scelta dai registi per guardare alla materia del film. D’altronde per i Manetti il genere è stato sempre utilizzato come uno specchio deformante e divertito con cui rielaborare le coordinate del mondo contemporaneo. Nel bene e nel male, la saga di Diabolik ne ribadisce l’indipendenza artistica, qui mascherata da una produzione che è mainstream solo in apparenza (a cominciare dal budget) e che però conserva lo spirito anarchico delle origini. La prova lampante sta nel fatto di prendere attori di grande impatto e fascino popolare per poi normalizzarne le caratteristiche che li avevano imposti al nostro immaginario. Fatta eccezione per Mirian Leone, uscita rafforzata da un'interpretazione che ne ha levigato il carisma, infatti, gli altri interpreti sono come svuotati del loro armamentario e per questo sono quasi irriconoscibili, alle prese con dei ruoli che sembrano levare a loro e ai rispettivi personaggi l’appeal che il pubblico ha assegnato loro.


Carlo Cerofolini

(recensione pubblicata su ondacinema.it)