lunedì, dicembre 31, 2018

BLACK MIRROR - BANDERSNATCH


Black Mirror - Bandersnatch
di David Slade
con Fionn Whitehead e Will Poulter
USA, 2018
Fantascienza
durata, variabile ma intorno ai 90'


Black Mirror ci ha sempre abituati a qualcosa di nuovo, ma questa volta Charlie Brooker (autore e padre spirituale del franchise) si è superato. Normalmente ogni volta che si preme il tasto “play” prima di un nuovo episodio di questa serie ci si aspetta di vedere uno spaccato – amplificato ma realistico – sulle debolezze dell’uomo e sulle conseguenze dannose che le stesse hanno sul genere umano, o magari una piccola anticipazione di un futuro distopico - non troppo lontano - verso cui il mondo sta andando alla deriva.
Questa volta però è diverso, almeno per tre motivi: in primis perché non si tratta di una nuova stagione ma di uno speciale (nello stesso stile in cui gli autori lanciarono nel 2014 lo speciale di Natale ansiogeno “White Christmas”); in secondo luogo perché è un film-episodio che guarda al passato più che al futuro; ma soprattutto perché quella che si ha di fronte non è un’unica opera, ma almeno 5 differenti pellicole che lo spettatore può mixare a piacimento giocando a fare Dio o il regista (la differenza in questo caso è quanto mai sottile) per qualche momento.

Detta così può sembrare incomprensibile come cosa, per cui va subito precisato che “Bandersnatch” è a tutti gli effetti il primo film interattivo della piattaforma Netflix…e se non è un momento epico questo, poco ci manca.
Interattività in questo caso significa potere decisionale: lo spettatore infatti, grazie all’ausilio del pc o di altri strumenti con il touch pad, può decidere quali scelte il protagonista deve compiere, quali oggetti prendere o ancora quali azioni compiere. La linea temporale a volte è confusa, ma regole del gioco sono semplici e riassumibili in “ogni scelta è diversa ma tutte sono si influenzano reciprocamente”. 

Immaginate quindi ad esempio di essere davanti a Morpheus di Matrix – a cui questo speciale sembra ispirarsi molto – e di avere l’opportunità di scegliere se prendere la pillola rossa e scoprire così quant’è profonda la tana del bianconiglio, o prendere la pillola blu e vedere cosa sarebbe accaduto a Zion se Neo non avesse preso quella decisione. O ancora: chissà quante volte durante un film horror avete urlato allo schermo “no, non entrare!” sperando che il malcapitato vi sentisse.
Bene, “Bandersnatch” è tutto questo e molto di più: è libero arbitrio (anche se in alcuni scelte è soltanto apparente), è tornare indietro nel tempo e vedere dove ti porta la scelta sbagliata, è prendere 10 volte la stessa strada sapendo che facilmente durante il percorso incontrerai nuovi sentieri che ti condurranno ad altri scenari.

Il protagonista di questo speciale di Black Mirror è Stefan Butler, un giovane adolescente degli anni 90 in fissa con i videogiochi e la programmazione che decide di sottoporre alla software house “Tuckersoft” la propria idea per un nuovo gioco ispirato al libro-avventura della madre “Bandersnatch”. Esattamente come questo episodio, il libro (e conseguentemente il gioco) è stato scritto in modo tale che lo spettatore/lettore/giocatore possa decidere in maniera autonoma – o averne l’illusione – verso quale direzione veicolare la narrazione.

Ad attenderlo alla Tuckersoft c’è il suo idolo di sempre, il famoso programmatore di videogame Colin Ritman, il quale in tutto e per tutto ricorda la figura di Tyler Durden di “Fight Club”, facendo di fatti dubitare più volte il sottoscritto che vi scrive sulla sua reale esistenza.
Da questo momento in poi e da questo preciso incontro, dopo che lo spettatore verrà chiamato a prendere un paio di decisioni ininfluenti per la storia (diciamo di riscaldamento per capire come funziona questa nuova interattività), inizia il vero labirinto narrativo. 
Diverse saranno le scelte da compiere, diversi ed esponenziali gli scenari che si aprono dopo ogni decisione, e diverse le conseguenze che tali azioni avranno sui vari livelli temporali della storia. Perché se c’è una cosa che deve essere chiara a chi si approccia a questo nuovo episodio è che non è solo il futuro che può essere riscritto, ma anche il passato che ti sembrava di aver già vissuto.
Sono 5 i finali alternativi previsti verso cui lo spettatore verrà indirizzato in base alle strade che ha deciso di percorrere durante il cammino, per un totale di circa 90 minuti previsti per una narrazione completa standard, ma che saranno sicuramente molti di più qualora vogliate stravolgere le vostre scelte già compiute e tornare sui vostri passi per conoscere lo scenario alternativo.
Gli amanti di Black Mirror inoltre potranno riconoscere nei vari filoni narrativi i tanti Easter Eggs presenti (più o meno esplicitamente) dei precedenti episodi della serie: da “Metalhead” a “White Bear” passando per “San Junipero”.

Quello che si avverte quando si conclude la visione di tutti i finali è un senso di completezza e perfezione che quasi dà fastidio considerando la cura dei dettagli e la correlata imprevedibilità della storia. Sicuramente c’è aria di premi per la sceneggiatura (Charlie Brooker) e per la regia (David Slade, lo stesso di “The Twilight Saga: Eclipse” e di varie episodi di serie come “Breaking Bad” e “Hannibal”), entrambe sensazionali ed avveniristiche. Perché la storia può sicuramente piacere o non piacere (forse un po' piatta rispetto al passato), ma dopo la delusione della 4° stagione ecco finalmente un titolo per Black Mirror che riporta lustro e rende onore ai capolavori degli anni precedenti
Lorenzo Governatori

domenica, dicembre 30, 2018

BIRD BOX


Bird box
di Susanne Bier
con Sandra Bullock e John Malkovich
USA, 2018
Horror – Fantascienza
durata, 117'


Maloire (Sandra Bullock) è una giovane donna incinta che vive in una piccola cittadina americana di periferia. La sua esistenza, pacata e abbastanza tranquilla circondata da arte e quadri, viene stravolta dall’arrivo anche negli Stati Uniti di quello che sembra essere in prima battuta un’epidemia virale che attacca il sistema nervoso e spinge gli individui a suicidarsi. In realtà si scoprirà in seguito che le morti non sono causate da un virus, ma dalla presenza di un demone/fantasma la cui visione ipnotizza immediatamente il malcapitato e lo costringe al gesto estremo. L’unico modo per sopravvivere è fuggire, fare provviste, barricare la casa o il rifugio scelto, e soprattutto non aprire mai gli occhi o guardare aldilà del portone che separa i fuggitivi dal mondo esterno.
Maloire sarà chiamata a gestire la difficile situazione e a compiere finalmente il passo decisivo di accettare la gravidanza e diventare quindi la madre di cui suo figlio (e non solo) ha bisogno per sopravvivere.

“Bird Box” è un thriller / horror tratto dall’omonimo romanzo di Josh Malerman del 2014; una pellicola piatta, che non lascia nulla allo spettatore, senza colpi di scena e che francamente annoia anche. Il problema infatti non è il cast, comunque abbastanza ricco con figure di spicco come Sandra Bullock e John Malkovich, ma bensì la trama: poco energica, poco chiara, poco coinvolgente. Difficile cavarsela quindi con la sola bella idea delle bende puntando tutto sull’effetto ansia del “ti avverto ma non ti posso vedere” se chi osserva la pellicola non riesce ad immedesimarsi quasi mai nel personaggio o ad immergersi nella narrazione.
Un progetto forse incompiuto, un’indecisione fra essere un horror ansiogeno ed un thriller fantascientifico che costa cara alla regista danese Susanne Bier (già vista sul grande schermo alle prese con il film “In un mondo migliore”, vincitore del Golden Globe e del premio oscar come miglior film straniero nel 2011).
Lorenzo Goverrnatori

venerdì, dicembre 28, 2018

INVISIBILI: BEAST

Beast
di, Michael Pierce
con, Jessie Buckley, Johnny Flynn, Geraldine James, Trystan Gravelle, Shannon Tarbet
GB, 2017 
genere, drammatico
durata, 105’

I got a secrets in my garden shed
I got a scar where all my urges bled…
I got a place where all my dreams are dead…
- Porcupine Tree -

Neanche l’amore redime. Perlomeno, non sempre. Esistono, cioè, creature che in esso, oltre all’ipotesi di un momentaneo abbandono e ristoro, fiutano il fetore della trappola. E reagiscono.

Uno di questi esseri irrequieti è di sicuro Moll Hantford/(una nervosa e seducente) Buckley, riccioli color del rame e sguardi affilati (sovente scrutati dalla mdp) al di sotto dei quali ribolle un’insopprimibile tristezza venata di rabbia. Giovane ma non più giovanissima donna, con apparente docilità avvezza a una consuetudine nei suoi aspetti materiali confortevole, adegua sforzi e aspettative al ritmo di un piccolo mondo-a-parte rappresentato da un villaggio rurale sull’isola di Jersey (scherzo tettonico a più o meno un centinaio di miglia a SO delle coste britanniche percorso da dolci orografie contrappuntate da vigneti, aree agricole, boschi, distese verdeggianti atte alle inurbazioni residenziali, qualche picco e splendide scogliere affacciate sulle acque della Manica). Non fosse che il tempo, il suo riproporsi immancabilmente nelle stesse fogge - Moll tira a campare per mezzo d’un lavoro temporaneo come guida turistica; accudisce il padre vulnerato dalla demenza e patisce l’asfissiante sollecitudine della madre/James, direttrice del coro della chiesa (del quale Moll stessa fa parte), inquisitiva e beghina - alla lunga e in silenzio prepara il campo a un’insofferenza che prenderà forma e si farà oggetto allorché le circostanze la condurranno, piantato in asso il ricevimento allestito per il suo compleanno (“Mi stavo annoiando. Volevo solo andare a ballare”, dirà alla madre, prevedibilmente contrariata, il giorno dopo) di fronte a Pascal Renouf/Flynn, taciturno coetaneo di probabile retaggio normanno, quotidiano spartito tra lavoretti manuali e bracconaggio, che la sottrae alle insistenze di uno smargiasso - rimasuglio fastidioso della notte di festa spesa a bere - e la riporta a casa. Di colpo, il mondo pare assumere un sapore diverso. Le giornate diventano febbrili nell’attesa di ritrovare, con l’incontro, con la conoscenza reciproca e travolgente dei corpi e della chimica delle affinità e dei contrasti (“Hai appena detto che mi ami. Perché ?”; “Non lo so. E’… capitato”), la possibilità di una magia che l’indolente evidenza di un presente impassibile fotocopia di sé stesso ha di continuo negato. Come e fin dove, però, protrarre l’incanto, quando i cadaveri di alcune ragazze riemergono dalla terra e tra i principali sospettati figura proprio l’ambiguo Pascal ?


Contrariamente - ed è un pregio - alle aspettative di un pubblico che solo per comodità definiamo medio (qui nell’accezione di aduso a una certa meccanica consequenzialità del principio di causa/effetto), l’esordio di Pierce - passato al Toronto Film Festival - utilizza alcuni stilemi cari alla detection del noir e talaltri tipici delle insidiose sospensioni del thriller solo per imprimere scarti ulteriori e d’immediata immedesimazione (non a caso, la progressione propriamente poliziesca del film si consuma, diciamo così, oltre il margine delle inquadrature, perlopiù attraverso le saltuarie rivelazioni concesse da Clifford/Gravelle - agente del posto, eterno spasimante frustrato di Moll - che mettono al corrente la protagonista degli sviluppi investigativi, alcuni dei quali, peraltro, la riguardano da vicino) al tentativo di approfondire al meglio l’indagine che più lo interessa, quella dell’animo contrastato e irrisolto di Moll. Ossia per tessere la trama contraddittoria, non necessariamente coerente, di certo non edificante, di un dramma realistico intriso di oscuri grovigli psicologici, di rancori mal sopiti, di recriminazioni mute ma persistenti, di cui l’idillio fugace ma caparbio vissuto con Pascal si rivela infine esserne, allo stesso tempo, l’elemento detonante e l’esito più beffardo e tragico, tributo necessario al nucleo più nascosto di una personalità orfana in primis di sé stessa che oramai reclama, contro ogni ordine e decenza, l’affermazione del proprio desiderio.


Nello specifico ma sulla medesima linea, Moll, la sua torbida pazienza, la sua spensieratezza ferina, la sua impazienza di evadere (“Andare via. Via da quest’isola”), partecipa e si dibatte in sintonia acerba e istintiva con un paesaggio quasi intatto, in buona parte ancora non manipolato dall’uomo che, da un lato, l’accoglie e ne riverbera, assecondandole, le pulsioni più autentiche (quando deve lasciarsi alle spalle la rigida cupezza dei dettami sociali; quando necessita di conferme o s’attarda a interrogarsi circa la passione che la spinge verso Pascal, Moll, che a volte si muove con la grazia circospetta di certe ribelli ritrose di Sargent, cerca il mare, il tumulto del vento su uno sperone di roccia, la calma evocativa del bosco); dall’altro, mano mano, ne alimenta la repressa attitudine animale, tanto di auto-conservazione che di sopraffazione (introdotta ai rudimenti della caccia dall’amante, non esita a fracassare la testa di una lepre con il calcio del fucile per finirla; in un sogno-allucinazione assai vivido recita sia il ruolo di vittima che di carnefice di un’aggressione: quindi assaggia con ipnotica voluttà gli attimi che precedono la morte scimmiottando in un lugubre, parziale auto-seppellimento, con tanto di manciate di terra infilate in bocca, il rituale utilizzato nei casi di omicidio che coinvolgono la sua comunità). L’esito, tutt’altro che scontato, è quello di una definitiva e naturale torsione interiore (vittima di bullismo ai tempi della scuola, accusata di replica violenta nei confronti di una compagna, Moll arriva a dire, più come una presa di coscienza che come una confessione: “Non sono chi dico di essere. La ragazza che ho pugnalato… Non fu un incidente. Fu una vendetta. Ho provato a ucciderla. Questa è la parte più nascosta di me”), oltre la quale la rivalsa sul mondo di un essere umano ferito si trasforma nello sguardo libero e imprevedibile - testardamente, terribilmente vivo - di una bestia.
TFK

SPIDER- MAN: UN NUOVO UNIVERSO


Spider-Man: Un nuovo universo
di  Bob Persichetti, Peter Ramsey e Rodney Rothman 
USA, 2018
generi, avventura, animazione, fantasy
durata, 117' 


Dicevamo da altre parti come il confine tra live action e computer graphic sia sempre più labile. I film in uscita nel periodo natalizio ce ne danno esempio attraverso un rimescolamento di generi, tecniche e formati in cui è sempre più difficile fare una distinzione tra gli esiti di una ripresa dal vivo e sequenze che sono frutto di intelligenze “artificiali”. Come in Alpha – Un’amicizia forte come la vita e prossimamente in Acquaman, anche Spider-Man: Un nuovo universo non si lascia sfuggire l’occasione di dimostrare a che punto sia arrivata la verosimiglianza di certi effetti speciali, in grado – per esempio – di annullare le differenze tra film e animazione quando si tratta di far volteggiare il tessiragnatele tra i grattacieli di New York, oppure quando in campo lungo lo vediamo affrontare i nemici di sempre. Una sottolineatura, questa, che non nasce dalla convinzione che al film in questione manchi qualcosa per poter essere all’altezza degli altri capitoli della saga di Spider-Man: al contrario, se c’è una cosa che si può dire del lungometraggio diretto da Bob Persichetti, Peter Ramsey e Rodney Rothman è proprio quella di essere sufficiente a se stesso nel delineare l’universo nel quale si muove il super eroe. Il quale, per il tripudio dei suoi fan, vi appare in tante differenti versioni quante sono le dimensioni che lo contengono. A metterli insieme tutti in una volta ci pensa la sceneggiatura degli scatenati Phil Lord e Chris Miller e l’immaginazione delinquenziale di Kingpin, il re del crimine, che nel tentativo di riportare in vita la moglie defunta provoca un cortocircuito spazio temporale capace di far convergere sullo stesso punto i molteplici universi generati dagli albi a fumetti dell’Uomo Ragno. Quindi non solo Peter Parker, adulto e imbolsito quanto basta per farne un eroe pronto per la pensione (qui sostituito dal teen ager Miles Morales), il “padrone di casa” del film, attraverso il quale la favola dell’uomo qualunque chiamato a nuove responsabilità dall’acquisizione di straordinari poteri viene aggiornata alle istanze degli spettatori più giovani.

La novità vera e propria di Spider-Man: Un nuovo universo sta altrove (trattandosi di una riscrittura delle avventure già presenti nei fumetti), vale a dire nella strepitosa fantasia con la quale il film riesce nella messa in scena. Alla pari dello Spielberg di Ready Player One, anche questo film viaggia su due binari, con quello esplicitamente narrativo, legato allo sviluppo del confronto tra bene e male a fare da apripista al postmodernismo del sottotesto, capace di trasformare lo schermo in una sorta di enciclopedia animata del mondo legato alle avventure dell’Uomo ragno. Da questo punto di vista Spider-Man: Un nuovo universo appare in grado di aggiungere qualcosa alla saga, aggiornandola con una chiave pop che privilegia il lato ludico della vicenda e, dal punto di vista cinematografico, assegna alla musica la funzione di raccontare suoni e rumori della modernità. Particolari questi tali da rendere il film in perfetta sintonia con il clima che contraddistingue il periodo natalizio.
Carlo Cerofolini
(pubblicato su taxidrivers.it)

giovedì, dicembre 27, 2018

7 UOMINI A MOLLO


7 uomini a mollo
di Gilles Lellouche
con Mathieu Amalric, Guillaume Canet, Jean-Hugues Anglade, Benoît Poelvoorde, Virginie Efira
Francia, 2018
genere, commedia
durata, 122'



“La Francia è la Francia”, diceva qualche tempo fa Jean-Claude Junker presidente della Commissione europea rispondendo in merito alle presunte agevolazioni nei confronti della manovra di bilancio messa in atto dai cugini d’oltralpe. Se in campo economico un’affermazione del genere non può non far discutere, in quello cinematografico calza a pennello con la diversità di un movimento che, a differenza del nostro (e non solo), può contare su un’industria in grado di supportare e dare lustro tanto ai prodotti commerciali quanto alle espressioni più alte e sofisticate della settima arte senza dimenticare la continua osmosi tra cinema e teatro - altra peculiarità autoctona - con il primo che non smette di attingere dal secondo attori e attrici destinati ad alzare il livello della posta in palio anche nell’ambito di produzioni in apparenza meno ambiziose di altre. A dispetto della nomea di gravità e pesantezza ereditata da un cinema (quello parigino) oramai estinto, la maggior parte dei titoli arrivati sui nostri schermi e, in particolare, i generi meno impegnativi, sono attraversati da un’aria di normalità e da una voglia di non prendersi sul serio che permette loro di affrontare con leggerezza temi anche molto drammatici senza perdere nulla in termini di profondità e riflessione.

Alla categoria in questione appartiene - ultimo in ordine di tempo - “7 uomini a mollo” di Gilles Lellouche, il quale, giunto alla regia del suo terzo film, il primo girato senza essere affiancato da un altro collega, racconta caduta e riscatto di un gruppo di quarantenni afflitti e depressi (ai sette del titolo bisogna aggiungere anche i due personaggi interpretati da Virginie Efira e Marina Foïs, esponenti di una compagine femminile altrettanto giù di corda), che prova a risalire la china entrando a far parte di una squadra di nuoto sincronizzato destinata a rappresentare il paese in un’importante competizione internazionale. La presenza dell’elemento acquatico come simbolo di purificazione e di rinascita si addice con il tema del film ma va detto che Lellouche se ne serve in maniera “passiva”, ovverosia non mettendo mai lo spettatore in condizione di rendersene conto, se non come conseguenza del rapporto di causa-effetto stabilito tra l’apprendimento dello sport e i miglioramenti scaturiti dall’applicazione sistematica dei suoi principi, nonché la progressiva riconquista della propria autostima da parte dei protagonisti. Particolare, questo, indicativo di una regia schematica ma efficace anche quando si tratta di mettere insieme da una parte i codici del cinema sportivo, primo fra tutti quello che fa dei sacrifici e della tenzone agonistica una sorta di palestra della vita e, dall’altra, quelli tipici della commedia in cui, come nelle versioni migliori, comico e drammatico si intrecciano in maniera indissolubile.

Senza mai stravolgere del tutto le condizioni di partenza, nel senso che i nostri erano e - nonostante tutto - restano dei nerd anche se in una variante più matura - “7 uomini a mollo” guarda sì al cinema americano (più che a quello di tradizione francese) ma non vi aderisce fino in fondo, soprattutto per quanto riguarda la retorica della vittoria che non rende di colpo i personaggi più accettabili né belli bensì più sicuri di sé stessi e meno vittime della realtà che li circonda. Da questo punto di vista spicca il contrasto tra l’apparato formale costituito da un corredo di hit musicali (a stelle e strisce) energetici e vitali, di quelli normalmente usati dal cinema mainstream per commentare l’eleganza del gesto o la riuscita di imprese epocali, e la prosaicità dei corpi e del contesto ambientale: i primi, ripresi in tutta la loro improbabile decadenza fisica, resa ancora più evidente dal fatto che gli attori sovrappeso e fuori forma sono spesso in costume; il secondo, ridotto a (non)luogo ordinario e anodino, spesso inquadrato per apparire simile a quello di certo cinema exploitation - rivelato dall’uso dello zoom al posto della carrellata in avanti - e a cenni di parossismi tarantiniani,  nella seconda parte, quella dedicata al risveglio dal torpore della routine quotidiana. Tutto ciò nonostante il film rimanga profondamente francese nell’anima dei personaggi, interpretati in modo da restare sempre due passi indietro rispetto ai ritmi dell’esistenza e delle mode e immersi in uno spleen agrodolce a cui si addicono le facce sdrucite di moschettieri del calibro di Mathieu Almaric, Guillaume Canet, Benoît Poelvoorde, Jean-Hugues Anglade. Bastano, infatti, loro a rendere godibile e a giustificare l’intera operazione.
Carlo Cerofolini
(pubblicato su ondacinema.it)

IL RITORNO DI MARY POPPINS

Il ritorno di Mary Poppins
di Rob Marshall
con Emily Blunt, Lin-Manuel Miranda, Ben Wishaw
USA, 2018
genere, musical, sentimentale
durata, 130 minuti


A distanza di poco più di cinquant’anni ecco che torna sul grande schermo l’insuperabile tata Mary Poppins. A vestire i panni dell’imprevedibile e “stupendoso” personaggio in questa nuova versione è una molto efficace Emily Blunt. La storia riparte dalla fine degli  avvenimenti del primo film. Stavolta il periodo è quello tra le due guerre e i piccoli protagonisti sono i figli di Michael Banks, il quale, insieme alla sorellina, aveva affrontato in prima persona tutte le avventure proposte loro da Mary Poppins quando entrambi erano in giovanissima età. Adesso l’uomo, vedovo da un anno, si trova a dover fare i conti con la banca che reclama la sua casa (appartenuta alla sua famiglia) e, intento a trovare tutta la documentazione che lo potrà salvare, non può dedicarsi completamente ai tre figli. Sembra, quindi, il momento perfetto perché Mary Poppins possa arrivare a casa Banks, in viale dei Ciliegi numero 17, direttamente dal cielo aggrappata al suo ombrello, proprio per dedicarsi a tempo pieno ai tre bambini.
La storia è un susseguirsi di avventure e disavventure, tutte peripezie in pieno stile “Mary Poppins”, intervallate da canti e balli ai quali prendono parte tutti i personaggi, nessuno escluso. Il tutto saggiamente condito da un tuffo nel cartone animato, come, del resto, era avvenuto anche in occasione del primo film.

Presentato come sequel dell’opera del 1964 con protagonista Julie Andrews, “Il ritorno di Mary Poppins” andrebbe forse, più giustamente, etichettato come un remake. Tralasciando per un attimo il fatto che, cronologicamente, si collochi dopo e che i protagonisti siano la generazione successiva a quella coinvolta nel primo lungometraggio, tutto quello che vediamo è un puro omaggio a quella che è diventata una delle storie più acclamate del cinema. Anche le canzoni stesse sembrano richiamare quelle di un tempo, sia per le parole che per la musica che per lo stile in generale. I personaggi altri non sono che dei richiami a quelli originali, dal cameo di Meryl Streep, che interpreta la cugina di Mary Poppins e che rimanda evidentemente al personaggio dello zio Albert, al lampionario Jack che sembra essere l’alter ego dello spazzacamino Bert.

Visto in questa chiave, cioè in quella di remake piuttosto che sequel, il film riesce nell’intento di creare una storia particolare e diversa che può essere apprezzata anche e soprattutto dai più giovani, ignari quasi completamente del primo film. Per i più nostalgici, invece, il nuovo film di Rob Marshall è un vero e proprio dialogo con quello di Robert Stevenson.
Chissà se anche in questo caso le melodie rimarranno impresse nella mente degli spettatori e saranno ancora cantate e ricordate per molti anni. La cosa certa è che Marshall merita un applauso per il coraggio di essersi cimentato in un compito tutt’altro che semplice che, però, è riuscito a portare a termine nel migliore dei modi, probabilmente dopo un’analisi accurata e approfondita del film originale, per il quale si può intuire nutre (e ha nutrito) grande interesse e amore, a giudicare dai continui, palesi e più nascosti omaggi che si susseguono all’interno della narrazione.
E un ultimo punto a favore è quello della scelta di inserire un cameo di Angela Lansbury (la nota “Signora in giallo”) che sembra quasi voler strizzare l’occhio al pubblico meno giovane in modo tale che possa apprezzare l’opera a tutto tondo.
Veronica Ranocchi

martedì, dicembre 25, 2018

LA FOTO DELLA SETTIMANA

Sul set di Rosemary's Baby


lunedì, dicembre 24, 2018

TAXIDRIVERS.IT: WORKSHOP MAGAZINE & SEO



Quali sono le basi per aprire un sito web? Come si crea un Magazine? Da dove si comincia per mettere su una Redazione? Come si scrive un articolo e come si condivide? Come si diventa Social Influencer? Come si diventa Editori? Come si diventa Blogger di successo?

Di queste e di altre domande si occuperanno Vincenzo Patané e Giulio Solari nel Workshop  Magazine & SEO organizzato a Berlino il 12 e il 13 gennaio 2019  in cui tra gli altri interverrà anche il sottoscritto in qualità di responsabile del settore interviste di taxidrivers.it.

Il workshop avrá luogo  presso la Scuola di Cinema The Visual House. Per maggiori info: scrivi una email a  direzionetaxidrivers@gmail.com o direttamente su facebook a The Visual House Scuola di Cinema a Berlino.
Carlo Cerofolini


CAPRI-REVOLUTION


Capri-Revolution
di Mario Martone
con Marianna Fontana, Reinout Scholten van Aschat, Antonio Folletto
Italia-Francia, 2018
genere: drammatico
durata, 122

Nel 1914, un gruppo di giovani del nord Europa si unisce in una comunità sull'isola di Capri, avendovi trovato il luogo ideale in cui sperimentare una ricerca sulla vita e sull'espressione artistica. Sull'isola abita con la sua famiglia Lucia, una capraia la cui attenzione viene attratta da questi stranieri, a cui inizia ad avvicinarsi. Al contempo è arrivato un giovane medico condotto, portatore di idee che mettono la scienza e l'interventismo al primo posto.
Mario Martone completa l'ideale trilogia che si è venuta componendo dopo “Noi credevamo” e “Il giovane favoloso” con un film che si muove tra la luce diurna del sole e i fuochi delle danze della notte trovando al proprio centro l'efficacissima interpretazione di Marianna Fontana.
È sua quella che si potrebbe definire l'anima divisa in tre, intorno alla quale si colloca tutta la vicenda. Il passato, con tutto ciò che di positivo ha rappresentato dalla silente figura materna, si concentra nella casa, in cui al padre malato si sostituiscono i fratelli, portatori della difesa di una tradizione che si fa abito sempre più pesante da indossare per la giovane donna. In quegli uomini e donne che scorge per la prima volta nudi su una scogliera vede aprirsi un mondo di opportunità diverse rispetto all'orizzonte chiuso di un mare forse prima di allora mai guardato con occhi nuovi. 
Martone fa esplicito riferimento alla comune che il pittore Karl Diefenbach costituì a Capri agli inizi del Novecento avendo come omologa quella del Monte Verità a Locarno. Vivere insieme, immersi nella Natura, da vegetariani ante-litteram impegnati in una ricerca in cui il corpo stesso si faceva forma d'arte vivente, non impedisce al regista di mettere in luce il nascere di forti contraddizioni all' interno della comunità.

Su questa descrizione crea qualche perplessità la scelta di uomini e donne tutti fisicamente piacenti. Questo però non inficia il confronto che Martone ci propone, narrando il passato con un'attenzione rivolta al presente, tra due modalità di guardare al mondo e alla sua Storia. 
La disputa dialettica tra il medico e il leader della comune espone, con immediatezza unita a rigore, le due posizioni e, ancora una volta, si tiene a distanza da posizioni manichee. Il dottore è al contempo un difensore del progresso legato alle scoperte scientifiche ma anche vittima di quell'idealismo interventista che sfocerà di lì a poco nel fascismo.
È in questa situazione che Lucia si trova a crescere come donna, ad emanciparsi da un maschilismo ancestrale e a comprendere, senza false pacificazioni interiori, quanto in entrambe le nuove proposte di vita c'è di positivo e quanto invece va messo tra parentesi per poter davvero progredire, per uscire da qualsiasi tipo di gabbia ideologica e poter 'sperare' nel futuro. 
Riccardo Supino

domenica, dicembre 23, 2018

COLD WAR

Cold War
di  Pawel Pawlikowski
con Tomasz Kot, Joanna Kulig
Polonia, Francia, UK 2018
genere, drammatico
durata, 88'



In una delle sue molte peregrinazioni capita che Zula/Kulig, costretta dalle circostanze e dalle complicazioni di un carattere non proprio accomodante a rimandare il lieto fine della propria storia d'amore con Wiktor/Kot, si senta dire che "quando si è innamorati il tempo non conta". Arrivati circa a metà del film questa frase è destinata a lasciare il segno non tanto per la verità che contiene, quanto piuttosto per il significato che essa assume rispetto alla sua messinscena. Per raccontare il tormentato legame sentimentale che lega un musicista e una cantante - entrambi polacchi - destinati a fare i conti con le intemperanze dell'amore e con le restrizioni delle libertà personali vigenti nell'Europa dell'est post-bellica, Pawlikowski allestisce uno spettacolo in cui il succedersi dei giorni è invece destinato ad avere un ruolo di primo piano, non solo dal punto di vista drammaturgico, per le implicazioni che la scansione delle ore e la loro apparente caducità ha sullo stato d'animo dei personaggi, ma anche da quello propriamente cronologico, nel senso che la storia del film è suddivisa in diversi quadri (costruito secondo un passo ellittico), ognuno dei quali corrispondenti a un preciso periodo storico (dal 1949 al 1964) che, tra l'altro, ha il compito di ricordare allo spettatore (oltreché ai personaggi) i limiti e le opportunità (quando si trovano al di fuori della cosiddetta cortina di ferro) offerte da opposti sistemi sociali. Ma non basta, poiché se quanto appena detto sarebbe sufficiente a fare di "Cold War" un'opera molto costruita per il segno del suo apparato formale, Pawlikovski decide di girare il film in uno smagliante bianco e nero ma soprattutto di assegnare alla musica la parte della vera protagonista, non tanto per la preponderanza che i brani e le canzoni hanno rispetto ai dialoghi, quanto per il valore narrativo della sua presenza nella vita di Zula e Wiktor.

Capita infatti che girovagando da una parte all'altra del vecchio continente (nel mappamondo del film oltre alla Polonia ci sono la Francia e la Iugoslavia) a cambiare non sia solo il paesaggio geografico e architettonico (stilizzato dalla fotografia sovente espressionista di Lukasz Zal, già responsabile delle luci di "Ida") ma lo stesso repertorio musicale utilizzato a sua volta dal regista - quando si tratta di commentare le immagini - e dai personaggi - impegnati nelle rispettive performance - per dare vita a una sorta di alfabeto esistenziale capace di assegnare a ognuno dei generi frequentati (musica popolare, rock and roll, jazz e il pop italiano dell'immancabile "24 mila baci") un determinato contesto storico, come pure il corrispettivo diretto a un preciso momento della relazione tra i due amanti, non a caso scandita da un continuo alternarsi di alti e bassi simili alle variazioni possibili su un ideale spartito.

Girato in un formato (4:3) che, nel caso, sembra un modo diverso e più efficace per esaltare l'unicità della storia e dei suoi interpreti, "Cold War" ambisce a essere un melò classico eppure adeguato ai nostri tempi, per l'importanza riconosciuta a ciò che sta davanti alla mdp - la messinscena, gli attori, gli ambienti, la stessa presenza registica - a discapito di quello che vi sta invece dietro - i temi, i presupposti della vicenda, la complessità psicologica -. A fronte di un proposito cosi elevato, i risultati possono dirsi raggiunti solo in parte perché se da un lato la regia - premiata a Cannes 2018 - mostra come al solito una perfezione formale su cui c'è poco da discutere, dall'altro la medesima ricercatezza finisce per rendere l'operazione poco spontanea, viziata da un rigore che spegne il fuoco della passione che vive sì dentro lo schermo, soprattutto per il da farsi che si danno i pur bravi Joanna Kulig e Tomasz Kot, ma fatica a uscire fuori da esso e ad arrivare in platea. Si rimare cioè e in definitiva ammirati dalla bellezza della composizione ma pure scarsamente coinvolti dal gradiente emotivo che ad essa dovrebbe sottendere.
Carlo Cerofolini
(pubblicata su ondacinema.it)

sabato, dicembre 22, 2018

THE OLD MAN AND & THE GUN


The Od Man & The Gun
di David Lowery
con Robert Redford, Sissy Spacek, Casey Affleck
USA, 2018
genere, commedia, drammatico
durata, 93'




Basterebbe il duetto tra Robert Redford e Sissy Spacek all'inizio del film per giustificare le ragioni alla base di un'opera come "The Old Man & the Gun" di David Lowery, che, nella maniera in cui lo sono i grandi lavori cinematografici, non esaurisce le sue qualità nella bravura degli attori. E qui entriamo subito nel dettaglio, perché la sequenza appena citata non è solo un capolavoro di recitazione giocata sull'understatement e la complicità naturale esistente tra i protagonisti: come qualcuno forse ricorderà, Redford e Spacek sono due icone della cosiddetta Nuova Hollywood, espressione di quel cinema americano che negli anni Settanta è stato in grado di farsi promotore di un umanesimo fatto di storie e caratteri che non limitavano le proprie prerogative al fascino delle star di turno, ma erano capaci di regalare tipi umani la cui straordinarietà consisteva nel calarsi nel quotidiano da persone comuni.

È con la stessa filosofia di quegli anni che Lowery mette in scena la storia di "The Old Man & the Gun" incentrata sulla figura (realmente esistita) di Forrest Tucker, un anziano signore che, quasi ottantenne, fu capace di evadere dal carcere e riuscire a svaligiare più banche prima di essere catturato dall'esterrefatta polizia, presa alla sprovvista dal fatto di ritrovarsi tra le mani un, almeno in apparenza, tranquillo pensionato. Detto che, pur avendo la stessa età del protagonista, Redford regge ancora i primi piani come se il tempo fosse scorso più lentamente - per non parlare della Spacek, per certi versi, si passi la licenza, ancora la Holly Sargis de "La rabbia giovane", minuta e magnetica come poche attrici del grande schermo - la versione che ne dà il regista ha più di un punto di contatto con l'universo psicologico e metaforico di quel periodo d'oro del cinema a stelle e strisce: il Tucker di Redford è infatti un ribelle a oltranza come il Sundance Kid di "Butch Cassidy" di George Roy Hill o il Benjamin Braddock de "Il Laureato" e l'Harold del quasi omonimo film di Hal Ashby, nel senso che a prevalere sulla mera trasgressione delle regole è il valore positivo assunto dalla libertà del gesto, allo stesso tempo sberleffo contro il sistema e ridefinizione del concetto di responsabilità secondo i codici di una morale del tutto personale. 

Da che parte stia Lowery lo fa intuire la presenza del personaggio di Casey Affleck, il detective John Hunt che, mentre si ritrova alle calcagna dell'imprendibile mascalzone, appare tanto meno convinto dell'utilità del suo lavoro quanto affascinato da uno stile di vita, quello di Tucker, che a lui, sposato con figli, la routine ha inesorabilmente sottratto. Anche qui esemplare risulta la sequenza in cui i due entrano in contatto per la prima volta di persona, con lo sguardo di Hunt, fino a quel momento spento e demotivato, pronto a illuminarsi e a sorridere di fronte a quello che, per paradosso, somiglia più a un interlocutore che a un avversario. D'altronde per la scelta di privilegiare toni intimisti - nostalgici, magari, ma mai lamentosi - e un punto di vista quotidiano sulla realtà, per lunghi tratti "The Old Man & the Gun" più che essere la narrazione di una caccia al ladro tratteggiata con gli stilemi dell'heist movie, si muove lungo le coordinate della commedia malinconica, sopratutto quando si tratta di seguire il corteggiamento di Tucker a Jewel (Spacek).

Ad alimentare questa linea narrativa contribuiscono anche le caratteristiche investigative assegnate al poliziotto di Affleck, la cui riluttanza a portare avanti l'indagine è pari solo alla sua indolenza, sintomo di una depressione da America di provincia a cui anche Tucker appartiene, ma solo come antidoto per poterne uscire. Il quale Affleck conferma anche, in un ruolo che non lo vede assoluto protagonista, una maturazione visibile soprattutto nel fatto di essere riuscito a imporre il suo particolare stile di recitazione solo in apparenza monocorde e invece capace di valorizzare, per successive sottrazioni, un già naturale sottotono. Al di là del suo indubbio valore, "The Old Man & the Gun" è destinato ancora prima della sua visione a passare alla storia avendo Redford annunciato che quella di Tucker sarà la sua ultima interpretazione. In attesa di sapere se il divo manterrà fede al proposito, Lowery organizza già la festa con un pre-finale in cui l'intera filmografia della star viene parafrasata tra il serio e il faceto, permettendo al nostro di uscire di scena senza fare troppi drammi e lasciando intatto l'eco della sua splendida carriera.
Carlo Cerofolini
(pubblicato su ondacinema.it)




COLETTE


Colette
di Wash Westmoreland
con Keira Knightley e Eleanor Tomlinson
USA, 2018
Biografico - Drammatico
durata, 111'


Francia, 1892. A disturbar la quiete di una normale giornata di una normale famiglia della Borgogna arriva la visita di Henry Gauthier-Villars – detto Willy – noto scrittore, critico ed editore parigino; A dir la verità quella di Willy non è che poi fosse una visita così inaspettata; era ormai la terza volta che andava dalla famiglia Sidonie nel giro di poco tempo, e le scuse erano le più disperate: una volta magari per conversare sugli ultimi spettacoli che aveva avuto modo di vedere o per un testo che gli era capitato per le mani di recente, o ancora per portare un omaggio a due vecchi amici che vivevano troppo lontani dagli sfarzi della Parigi dell’epoca.
Sebbene le sue intenzioni apparvero chiare a tutti già dopo poco, quel giorno il letterario bussò alla porta di quella casa immersa nella campagna della Valle della Loria con in mano una palla di vetro della torre Eiffel innovata e con in testa l’obiettivo di portarsi con sé nella capitale la giovane Colette (Keira Knightley).
Da quel mattino e da quel dono parte la storia di Sidonie-Gabrielle Colette.

Lei ragazza acqua e sapone innamorata della scrittura, lui burbero autore sempre in cerca di nuovi romanzi da sottoporre all’editore per racimolare qualche spicciolo e pagare così i suoi scrittori-collaboratori ed i suoi vizi. I due si sposeranno l’anno successivo ed il loro sarà un rapporto contraddistinto da diversi alti e bassi; nonostante tutto la situazione sembra stabilizzarsi, fino a quando un giorno Colette decide di buttar giù una bozza di romanzo da sottoporre al marito…si tratta della prima stesura di “Clodine”.
Se è vero però come dice il marito che “E’ la mano che tiene la penna a scrivere la storia”, seppur sia stata la mano e la mente di lei a dare vita a questo personaggio, il libro esce con il nome di Willy come unico autore. Il successo che arriva di lì a poco è uno tsunami inarrestabile che travolgerà entrambi e che porterà a galla gli aspetti più nascosti delle rispettive personalità.

L’ultimo film della Knightley (regia di Wash Westmoreland, già visto sul grande schermo per “Still Alice”) è quindi un biopic sulla figura di Colette e sul suo tormentato matrimonio con Willy. La scelta di affidare a lei il compito di interpretare la famosa scrittrice che contribuì a rompere alcuni tabù femminili della società francese dell’epoca, è quanto mai azzeccata. Keira è stata in fatti grado di impersonificare nel giusto modo entrambi i lati del carattere della giovane Gabrielle: la semplice ragazza di campagna con la passione per la scrittura, e la Colette grintosa e feroce quando è giunto il momento di smascherare le azioni del marito.
Una pellicola tutto sommato piacevole che descrive in maniera interessante un assaggio di vita di una figura storica molto importante (fu la prima donna nella storia della Repubblica Francese a ricevere funerali di Stato) forse però ancora poco conosciuta ai molti.
Lorenzo Governatori