giovedì, agosto 31, 2017

WAR MACHINE

War machine
di David Michôd
con: Brad Pitt, A.Hayes, T.Grace, Anthony Michael Hall, Tilda .Swinton, Ben Kingsley, Emory Cohen
USA 2017
genere. drammatico, commedia, guerra
durata, 120’


Guerra per prevenire le insidie. Guerra per eliminarle. Guerra per ristabilire la pace. Guerra per mantenerla. Detta così, somiglia a una specie di ronda futurista (laddove la predetta aveva almeno dalla sua, oltre lo slancio augurale di tempi nuovi, il parossismo brutale ma autentico d’un’insofferenza adolescente), non fosse che, indipendentemente dall’ovvio sfasamento dei giorni, ciò che ci siamo abituati a constatare è stato - ed è - un molto più mesto, ragionieristico e indifferente utilizzo dell’opzione armata come riflesso condizionato nei riguardi d’una realtà - umana, culturale, sociale - che non sappiamo (o addirittura vogliamo) più sforzarci di comprendere, prima ancora chegestire. Tale consuetudine lascia ampi spazi alla deformazione e al grottesco, se ha ancora un senso (a questo punto chissà quanto solo ammonitore o invero scopertamente inquietante) l’assunto a più riprese ricordato per cui ciò che si compie la prima volta come tragedia, tende a riproporsi come farsa. Argomento caustico e scivoloso, a ben vedere, ancora di più se travasato sugli scenari geo-politici contemporanei, essendo questi in fieri, ossia punteggiati di lati troppo ambigui e/o oscuri per essere con adeguatezza inseriti in una giusta prospettiva, come caratterizzati non di rado da orrori dimenticati o sottaciuti (“2001: aggressione all’Afghanistan. Le vittime civili non sono calcolabili perché non sono mai state calcolate. Gli afghani hanno infatti il grave torto di non essere né arabi, né cristiani, né ebrei e di loro si può fare carne di porco. Stime a braccio danno le vittime civili tra le 200 e le 300 mila - M.Fini, Il Fatto Quotidiano 23/08/17 -) o da contrappunti beffardi che attengono a un territorio forse vergine situato sullo spartiacque tra la fantascienza e il demenziale (pensiamo al recentissimo affaire portato alla ribalta dal Washington Post inerente le vicende di 9 pregiate capre italiane tradotte sul suolo afghano per dare vita a un ipotetico allevamento finalizzato alla produzione di una variante del cachemire e risoltosi in un fallimento - i bovidi si sono via via ammalati per poi morire - addebitato, ci mancherebbe, al contribuente, nel caso americano, per un conto complessivo di 6 milioni di $. E tralasciando, si fa per dire, gli 8 e passa miliardi di $ spesi per estirpare in via definitiva la coltivazione di papavero da oppio, a oggi mai così fiorente…). Proprio in quest’ultima categoria, di fatto strano ibrido in orbita attorno a due mondi bizzarri, ha provato a collocarsi un certo Cinema (si prenda in considerazione, per esempio, “L’uomo che fissa le capre”, sebbene il film di Heslov rimonti al 2009 e si riferisca a un altro ambito, quello iracheno), allo scopo di ritagliarsi punti di vista eccentrico-sarcastici, in coraggiosa ma affannata rincorsa d’una prassi che, come visto, sembra non smarrire mai la capacità d’estrarre assi nuovi dal mazzo.


E’ la contraddizione che in parte sconta anche il “War machine” di David Michôd (autore aussiei mpostosi dopo alcuni cortometraggi con opere interessanti come “Animal kingdom”, 2010 e “The rover”, 2014), recente produzione Netflix in collaborazione con la Plan B del divo Pitt - pure protagonista - alle prese con la campagna trionfale che avrebbe dovuto accompagnare il trasferimento del Gen. G. McMahon/(Pitt, appunto) sull’estenuante fronte afghano (ricordiamo, en passant, di essere giunti al sedicesimo anno consecutivo di una contesa inconcludente oltreché fondata su motivazioni oramai ampiamente insostenibili), a rimorchio del vecchio cripto-superomismo a-stelle-e-strisce per cui “bisogna portare a termine un lavoro”. Ispirato alla figura del Gen. Stanley A. McChrystal, comandante in loco dal 2009 e successivamente rimosso dalla presidenza Obama a seguito d’un reportage/intervista pubblicato da Rolling Stones in cui l’alto ufficiale esprimeva riserve circa i metodi impiegati per condurre in porto la coriacea magagna - e restituito da Pitt con una prova a volte quasi cartoonesca, a metà fra un Popeye perplesso e un burattino mosso da fili dispettosi (irresistibile e un tanto sinistra la sua sessione quotidiana di corsa in t-shirt grigia, pantaloncini scuri e andatura rigida da tacchino appena spennato) - il film di Michôd si muove con una qual cautela ed equidistanza tra le impellenze inderogabili di un uomo tutto d’un pezzo fino alla più smaccata caricatura e un ambiente - quello della routine della guerra, ovvero quello delle infinite mediazioni palesi e occulte, dei lunghissimi momenti morti, delle svolte decisive sempre di là da venire - che, mano mano, ha fatto proprio della caricatura della sua ragion d’essere una delle giustificazioni della permanenza in un luogo da sempre dichiaratamente e pervicacemente ostile a qualsivoglia ingerenza (“Andate via. Tutti. Andatevene”, rispondono gli afghani se interpellati dalle forze d’occupazione aduse oramai quasi solo alla battaglia dei cuori e delle menti, succedaneo volontaristico di ciò che sul campo non si riesce a ottenere e, in genere, anticamera d’ogni disfatta).


Senza dubbio Michôd in questa prima trasferta americana dimostra di trovarsi ancora nel giardino di casa australe quando osserva e analizza (come in “Animal kingdom”) le interrelazioni e i rapporti di forza - non necessariamente e non solo gerarchici - d’un gruppo di persone (nel caso, lo staff ristretto del Generale, là la famiglia criminale allargata) costretto a reagire in un contesto ambiguo e pericoloso, o si sofferma, con un certo gusto per la dilatazione temporale e per l’attenzione ai dettagli materiali e psicologici (come in “The rover”), qui rappresentati di preferenza nella loro declinazione a volte ironica, altre ai limiti del surreale e del patologico, su ciò che alligna al di sotto delle convenzioni e dei rituali consolidati, sia che si tratti di strategie militari, di piani da eseguire (“Animal kingdom”) o di spietate prese di posizione per assicurarsi la sopravvivenza (“The rover”). Al contrario, appare titubante e come sacrificato, quindi, cinematograficamente parlando, più corrivo e prevedibile, al momento di tratteggiare i risvolti della war machine propriamente detta, che non è solo l’elemento prevalente della personalità di un soldato condannato a vincere, con tutto ciò che di schizofrenico e paradossale tale spada di Damocle implica (contribuendo, tra l’altro e con merito, a ricollocare la mimica esagerata di Pitt in un alveo metaforico più vasto e altrettanto pittorescamente frequentato che, almeno da Stranamore in poi, ha tentato di somatizzare per immagini l’impatto fisico, psichico ed emotivo della guerra sugli uomini che presumono di condurla) ma anche e, con ogni probabilità per la gran parte, il gigantesco apparato propagandistico (al di sotto del quale, non dimentichiamolo, brulicano quello tecnico e quello affaristico) chiamato a reggere il gioco della mobilitazione bellica spesso oltre qualunque evidenza di successo, per finalità alla lunga talmente intricate o addirittura contraddittorie da risultare, qualora giunte al senso comune, incomprensibili se non, semplicemente, insensate. Su questa direttrice più squisitamente politica il lavoro di Michôd risulta tanto corretto quanto poco incisivo e, a conti fatti, convenzionale, con l’indomito Generale chiamato sovente a ponderare cautele, a dilatare i tempi d’intervento, a considerare e riconsiderare le conseguenze d’un eventuale attacco su vasta scala, dall’onnipresente e variopinta accolta di sedicenti mistagoghi del potere, esperti di relazioni internazionali, solerti addetti stampa, litigiosi membri di agenzie governative tra loro concorrenti, et., in un andirivieni di mezze promesse e sibillini inviti alla precauzione che va ad affiancarsi senza troppe varianti al sottofondo genericamente polemico-esplicativo di tante pellicole simili.
Nel complesso e in ogni caso, ciò non esclude ma anzi a tratti esalta quel sentore - ahinoi, divenuto fin troppo familiare - d’estenuata inutilità e arresa colliquazione che esala prima o poi da ogni piaga aperta della Storia.
TFK

mercoledì, agosto 30, 2017

DUNKIRK: PRIME IMPRESSIONI A PROPOSITO DI UN CAPOLAVORO

Dunkirk
di Christopher Nolan
con Tom Hardy, Fione WhiteHead, Cillian Murphy, Kenneth Branagh
UK, USA, Francia, Belgio
genere, drammatico, guerra, storico
durata, 106'



Christopher Nolan toglie le parole alla guerra a cui è lasciato solo il rumore della morte e il suo sgomento. Fenomenale il sound design, strepitosa la colonna sonora, potenti le immagini. Lavorando sul tempo e sullo spazio nella maniera in cui Nolan ci ha abituato fin dal suo primo film, "Dunkirk" soffia sul collo dello spettatore dal primo all'ultimo minuto, impedendogli di riprendersi dal succedersi degli eventi. E' compatto, molto tosto e per niente retorico, riuscendo nel miracolo di rendere la guerra grande protagonista senza togliere dignità a chi ne prende parte. Insomma un Nolan all'ennesima potenza e senza i difetti dell'ultima produzione americana. Per chi scrive un grande film, forse il migliore e più maturo del regista inglese al punto che davanti a un'opera del genere non si capisce come mai nessuno dei grandi festival si sia fatto avanti per averlo nel suo cartellone. Ne riparleremo ma intanto sappiate che questo entra di diritto tra i grandi film della stagione. Da non perdere e da vedere assolutamente proiettato sul grande schermo.

ASPETTANDO DUNKIRK

Aspettando "Dunkirk"


E' noto: la storia tende a inverarsi come tragedia e a ripetersi come farsa. Regola aurea in rare circostanze infranta da accadimenti che per la loro inusuale natura e per la particolarità del frangente in cui si consumano, finiscono per contemplare sfaccettature d'entrambi gli spettri emotivi, coinvolgendo anche la loro posteriore rappresentazione. Uno di questi è per certo il singolare concorso di eventi che tra la fine di Maggio e i primi di Giugno del 1940 ebbe come risultato il rimpatrio - forzato, rocambolesco e sanguinoso - di ciò che restava delle truppe alleate (in maggioranza britanniche), impegnate duramente sul fronte nord-orientale francese, presso Dunkerque (per corrispondenza geografica conserviamo la forma originaria locale) e che fanno da sfondo alle vicende narrate per immagini dall'ultima opera di C.Nolan, "Dunkirk" (dizione anglosassone), appunto.


In quella tarda primavera del '40 la II Guerra Mondiale non aveva nemmeno compiuto un anno e il disegno - militarmente prodigioso quanto nei suoi presupposti politici ed egemonici, folle - di occupazione sistematica dell'Europa da parte del Terzo Reich secondo lo schema del Blitzkrieg (concertazione armonica dell'impiego di forze aeree e terrestri - in specie corazzate - in vista della realizzazione sullo scacchiere bellico di movimenti repentini e avvolgenti in grado di aprire varchi nei punti deboli delle linee nemiche allo scopo di penetrarne in profondità il territorio), sembrava a portata di mano, tanto da far esprimere al Generale E.Rommel, soldato esperto quindi in genere poco incline ai trionfalismi, in una corrispondenza con la moglie relativa a quel periodo fatale, valutazioni ottimistiche del tipo: Giornata di fuoco, come sempre. Ma, a mio parere, la guerra sarà vinta in quindici giorni. Entusiasmo condiviso dallo stesso Hitler se è vero che, visitando il quartier generale di K.R.G. von Rundstedt, pare abbia predetto che il conflitto si sarebbe risolto in sei settimane.


In effetti, la nuova strategia tedesca, il cui principale artefice era il Generale H.W. Guderian (teorico ed esecutore di una visione del combattimento basata sull'impiego massiccio e sincronizzato di forze corazzate e motorizzate - Panzer Division - manovrate in modo da agire velocemente e indipendentemente al fine di portare a termine incursioni imprevedibili e di vaste proporzioni nello spazio nemico, ben al di là del margine del fronte) e di cui s'era avuta - tra le numerose - tragica testimonianza d'efficacia nei giorni precedenti durante gli scontri sulla Mosa, intorno Sedan, autorizzava la persistenza dei più perversi sogni di dominio da parte del dittatore tedesco. Proprio in riferimento a un contesto del genere, negli anni successivi al conflitto, a lungo s'è discusso, circa le reali motivazioni che avevano indotto in quei momenti gli Alti Comandi germanici a interrompere le operazioni nonostante condizioni materiali morali così favorevoli. Secondo alcuni, le assicurazioni fornite da H.Göring a Hitler riguardo l'impossibilità di una evacuazione delle truppe in ripiegamento (come detto, per lo più inglesi), in virtù d'un eventuale immediato intervento della sua Luftwaffe, giocarono sicuramente un ruolo. D'altro canto, è anche vero che l'ordine impartito alla IV Armata da von Rundstedt inerente al fermarsi l'indomani (leggi il 24 Maggio) con il fine di rifiatare e riorganizzarsi in vista delle missioni successive, si basava su un dettaglio che la micidiale ingegnosità dimostrata dalle tattiche gemelle di Rommel e Guderian aveva ben dissimulato: ovvero la relativa esiguità numerica della compagine tedesca a cui i due generali avevano in parte sopperito traendo il massimo vantaggio dalle opportunità contingenti in un continuo gioco al rialzo di rischi calcolati, al successo dei quali aveva pure concorso la più o meno grande inconsistenza delle contromosse organizzate dagli Alleati (in particolare quelli transalpini). 


Allo stesso tempo, non è campato in aria sostenere l'esistenza di un coacervo di ragioni oltreché geo-politiche e militari, anche psicologiche e, se vogliamo, emotive, caratteristiche compresenti nell'ambiguo sentimento di amore/odio che Hitler in persona nutriva verso l'Inghilterra, per cui a un'intenzione volta alla definitiva dissoluzione del suo esercito sul campo contrapponeva, in un caleidoscopio di vagheggiamenti contraddittori, idee e progetti di accordi bilaterali destinati al futuro riconoscimento dell'importanza e della posizione preminente della Germania nel corpo del vecchio continente, al punto da non escludere la ratificazione di una vera e propria pace con la rivale, compatibilmente a condizioni giudicate degne dell'onor patrio. Risulta, a questo proposito, di un certo interesse la valutazione dello studioso di strategia B.H.Liddell Hart, secondo cuiIl carattere di Hitler era di una tale complessità che qualsiasi spiegazione troppo semplice ha poche probabilità di essere vera. E' molto più plausibile che la sua decisione fosse frutto di un complesso intreccio di motivi diversi. Tre sono abbastanza evidenti: il desiderio di mantenere in buone condizioni le sue forze corazzate per il colpo successivo; il timore che aveva sempre suscitato in lui l'idea d'avventurarsi nella paludosa regione delle Fiandre e la richiesta di Göring che alla Luftwaffe fosse assegnato un ruolo di primo piano. Ma è anche molto verosimile che alcuni motivi politici s'intrecciassero a quelli militari nel cervello di un uomo che aveva una grande inclinazione alla strategia politica e tante storture nella mente.

Fatto sta che tra il 24/05 e il 02/06/di quel 1940, in uno scenario (ovviamente) tutt'altro che pacificato, navi militari con il non secondario apporto d'imbarcazioni mercantili riuscirono a sottrarre a una più che probabile completa eliminazione quasi 339mila uomini - col sacrificio, comunque, di circa 34mila unità nelle vesti di prigionieri di guerra - contribuendo così a materializzare una nuova e più promettente direzione per le sorti dell'intera contesa.
Ora non resta che vedere come ha immaginato la partita Nolan.
TFK

martedì, agosto 29, 2017

NEVE NERA

Neve Nera
di Martin Hodara
con Leonardo Sbaraglia, Riccardo Darin, Laia Costa
Spagna, Argentina, 2017
genere, thriller, noir, drammatico
durata, 90'


Agosto è un mese favorevole alla distribuzione dei lungometraggi di provenienza argentina. Se, l'anno scorso, era stato "Il clan" di Paolo Trapero a trovare posto nello smagrito cartellone delle uscite agostane, questa volta tocca a Martin Hodara e al suo "Neve Nera" dare un contributo a quella che potrebbe diventare una vera e propria tendenza. Le coincidenze però non si fermano qui, poiché i film appena citati non sono solo opere che pescano buona parte del loro repertorio da codici appartenenti a prodotti di genere, ma che, in un modo o nell'altro, si preoccupano di mettere sotto accusa la famiglia e i rapporti che la regolano. Determinato a lasciarsi indietro gli anni più bui della sua storia, e quindi, a dedicarsi a progetti finalmente svincolati dalla necessità di rielaborare gli avvenimenti più tragici della cronaca nazionale, il cinema argentino si è affermato in tempi recenti, investendo i propri talenti in produzioni non per forza legate al blasone dei suoi autori (viene in mente Lucrecia Martel) ma per lo più caratterizzate da una drammaturgia accattivante e allo stesso tempo tragica ("Il segreto dei suoi occhi", 2009), in cui suspence e mistero la fanno da padrone. "Neve nera" rientra a pieno titolo all'interno di questa linea narrativa, raccontando la diaspora famigliare che coinvolge Marcos e Salvador (Riccardo Darin), costretti a ritrovarsi per diversi l'eredità del padre venuto improvvisamente a mancare. Segnata dalla scomparsa del fratello minore, verificatasi durante una battuta di caccia in circostanze mai del tutto chiarite, l'esistenza di Marcos e di sua moglie Laura (Laia Costa, già vista in "Victoria") entra in conflitto con quella di Salvador, il quale, addossatasi la responsabilità dell'incidente, vive da recluso negli stessi luoghi che tempo addietro sono stati testimoni del doloroso evento.


Ambientato nell'inverno di una Patagonia mai così respingente, "Neve Nera" si dipana tra il passato e il presente dei personaggi nel tentativo di fare luce sul reale svolgimento dei fatti attraverso un'indagine esistenziale che un poco alla volta riesce a portare a galla le ragioni dell'ostilità di Salvador nei confronti di Marcos. Invece di frammentare la narrazione con i flashback relativi alla giovinezza dei personaggi, quelli volti a ripercorrere gli avvenimenti culminanti nella circostanza delittuosa, il regista opta per una soluzione in cui le diverse scansioni temporali arrivano a convivere nella stessa inquadratura. Una scelta che permette a Hodara di rendere più fluida la progressione narrativa, regalandogli, nel contempo, la possibilità di intercettare la natura fantasmatica di una vicenda in cui ad un certo punto i protagonisti diventano i testimoni (oculari) di una sorta di seduta spiritica, dove, al centro della scena, ci sono le loro versioni giovanili, colte nell'esperienza che di lì a poco li riporterà sul luogo del delitto. L'efficacia di questo espediente non deve però ingannare sulla qualità complessiva della messinscena che rimane piuttosto dimessa e al di sotto della media per un prodotto di questo tipo. A pesare sul risultato finale è la piattezza delle immagini, incapaci di tradurre sul piano visivo lo scavo psicologico sostenuto dalla sceneggiatura. Ma più di tutto a mancare è un punto di vista sul paesaggio sudamericano, mai in grado di diventare protagonista della storia e di rappresentare quell'altrove che invece vorrebbe essere. Se poi aggiungiamo la decisione di ingaggiare un attore del calibro di Ricardo Darin per poi relegarlo in un ruolo che non gli consente di ripagare la fiducia accordatagli, il dado è tratto. Per sua fortuna, però, l'interesse nei confronti di "Neve nera" non si esaurisce con ciò che vediamo sullo schermo ma prosegue sul piano della realtà. Il ricorso a una "Storia ufficiale", usata per coprire d'onorabilità la lunga serie di misfatti di cui ci si è macchiati, il passato come strumento di conoscenza e luogo privilegiato della rappresentazione, le contraddizioni e la fragilità del consesso famigliare, trasformato in un laboratorio dove a essere verificata è la tenuta della coesione nazionale, sono costanti del cinema argentino contemporaneo di cui anche "Neve nera" si serve per mettere in scena il subconscio collettivo del paese.
Carlo Cerofolini
(pubblicata su ondacinema.it)


domenica, agosto 27, 2017

LA FOTO DELLA SETTIMANA

Poltergeist - Demoniache presenze di Tobe Hooper (USA, 1982)

ANNABELLE 2: CREATION

Annabelle 2
di David F. Sandberg 
con Stephanie Sigman, Talitha Bateman, Lulu Wilson
USA, 2017
genere, thriller
durata, 109’ 


Samuel Mullins è un abile costruttore di bambole che vive con la moglie Esther e la figlioletta Bee. Ha appena finito di creare un nuovo modello di bambola quando, di ritorno dalla Messa, Bee è vittima di un tragico incidente stradale. Dodici anni dopo, i Mullins aprono la loro grande casa a suor Charlotte e a un gruppo di giovani ragazze e bambine orfane, in modo da dare loro un posto dove vivere in comunità. Tra le bambine ci sono Janice, cui la polio ha lasciato delle difficoltà nel camminare, e la sua inseparabile amica Linda: hanno giurato che staranno sempre insieme e si faranno adottare dalla stessa famiglia, in modo da diventare sorelle. Samuel Mullins è cooperativo, ma taciturno e provato dai dolori dell'esistenza, mentre sua moglie vive confinata in una stanza, impossibilitata a muoversi e con una maschera che le copre una parte del viso. Il signor Mullins spiega che c'è una stanza, quella di Bee, nella quale nessuno deve entrare. Ma, attirata da misteriosi bigliettini, una notte Janice trova la porta della stanza non chiusa a chiave e ci entra. Dentro si imbatte in una meravigliosa casa di bambole e poi trova, chiusa in un armadio, una strana bambola, quella che noi conosciamo come Annabelle. Quando lo viene a sapere, suor Charlotte ordina a Janice di non trasgredire mai più le regole di quella casa perché potrebbe mettere in pericolo l'avvenire suo e delle compagne. Janice promette, ma le cose vanno diversamente. La bambola conserva un terribile segreto che i Mullins conoscono e i guai cominciano in serie. Seguito di “Annabelle”, spin-off di “L'evocazione - The conjuring”, il film riporta al centro dell'attenzione la malefica bambola già protagonista del primo film della serie e con essa rinvigorisce un sottogenere, quello delle evil dolls, che vanta nella storia del cinema horror illustri precedenti. In realtà, più che un seguito, questo è un prequel perché racconta non ciò che è successo dopo il primo film, ma ciò che è successo prima. Generalmente i prequel soffrono per il fatto di raccontare avvenimenti che in qualche modo sono noti o possono essere intuiti. In questo caso, l'esito è sorprendentemente buono. La storia, nelle sue linee generali, è abbastanza semplice e prevedibile, pur riportando con sagacia narrativa le cose sino a un rapido ed efficace collegamento con l'inizio del film precedente. È il modo in cui la storia è raccontata a fare la differenza. 



L'esordio di David F. Sandberg alla regia di un lungometraggio era stato un horror interessante come “Lights Out - Terrore nel buio”. Qui Sandberg conferma le sue doti di efficace interprete della paura e di abile orchestratore di spaventi, riuscendo a trarre, probabilmente, il massimo dalla storia. I personaggi sono descritti in modo semplice ma efficace, soprattutto per quel che riguarda la protagonista, Janice, di cui viene mostrata con sensibilità la natura fragile e ferita, alla ricerca di un'impossibile ancoraggio di stabilità nell'amicizia con Linda, la sua amica del cuore, inerme come lei. L'ambientazione rétro conferisce un contesto suggestivo e malinconico nel quale il dramma si mantiene credibile e avvincente. La prima apparizione della bambola è gestita con grande capacità di creare tensione con sapiente uso delle ombre e con parsimonia di effetti. Sandberg mantiene per gran parte del film questa abilità nella messa in scena, sfruttando immagini e suoni per creare un'uniforme aura di macabra incertezza. Quando, in un flashback esplicativo, viene svelato il segreto della bambola, le cose diventano un po' prosaiche e banali, ma è un peccato veniale e probabilmente necessario sotto il profilo narrativo: la concitata parte finale del film perde di compattezza e coerenza, ma si mantiene interessante e vivace. La pellicola cattura sin dall'inizio e non molla la presa sullo spettatore, rivelandosi uno dei non frequenti casi di seguito superiore al capostipite. Notevole il cast, nel quale spicca la presenza del grande caratterista Anthony LaPaglia, che offre un’interpretazione di grande efficacia e sensibilità, sapientemente tenuta sotto le righe. Tra le giovani attrici si rivede Lulu Wilson, già fattasi notare in “Ouija - L'origine del male”, ma la miglior figura la fa Talitha Bateman, molto convincente in un ruolo a due facce di non facile resa.
Riccardo Supino 

venerdì, agosto 25, 2017

SETTE GIORNI

Sette giorni
di Rolando Colla
con Bruno Todeschini, Alessia Barela
Italia, Svizzera, 2017
genere, drammatico
durata, 115'



Inizialmente è una rotta tracciata su una cartina geografica, poi diventa il punto di vista di Chiara, ripreso dalla soggettiva che ci mostra la conclusione del suo viaggio e l'approdo nell'isola siciliana (di Levanzo) dove Ivan, l'altro protagonista del film l'attende per organizzare il matrimonio del fratello con l'amica di lei. Come spesso succede nei buoni film le sequenze introduttive oltre a disbrigare i compiti legati agli aspetti artistici e produttivi dell'operazione - riassunti dall'incarico e dal nome e cognome dei partecipanti - hanno lo scopo di dettare le linee guida della storia, di stabilire gli ambiti entro cui si svolgerà il racconto e di fornire un'idea di come il regista ha deciso di mostrarcelo. Una partitura filmica di breve durata ma pronta a caricarsi di senso quando si tratta di dare conto del (non) luogo dell'azione, definito dalle caratteristiche di un territorio che nella sua selvatichezza e per il fatto di essere isolato dal resto dell'ecumene diventa l'occasione per spogliarsi delle rispettive maschere e fare i conti con se stessi, dimenticando per un momento i lasciti delle rispettive vite. E, ancora, di segnalare la compresenza di due diverse prospettive: quella sostanziale e pragmatica - peraltro simboleggiata dalle rotte tracciate sulla carta nautica - chiamata a "riempire" la trama con la geografia del paesaggio e con le cose da fare (i preparativi a cui si dedicano Ivan e Chiara); quella interiore, anticipata dalla scelta di sostituire il primo piano della protagonista con il punto di vista "interno" al personaggio, riassunto dalla scelta di celare il volto della donna dietro la soggettiva piazzata in apertura del film.



"Sette giorni" è dunque un viaggio sentimentale che si compie sulla superficie del visibile e sotto ciò che appare; attraverso gli splendidi scorci dell'isola siciliana, riprodotta dalla mdp con la volontà di restituire senza alterazioni la bellezza ancestrale di un'area miracolosamente incontaminata, e nella fisicità dei personaggi, le cui nudità sono destinate a fare da specchio alla consistente essenzialità della natura che le ospita. Se la traiettoria finale dell'indagine, volta a far uscire allo scoperto i reali propositi dell'uomo e della donna, si rivela - agli occhi delle parti in causa - come la possibilità di una rinascita personale (la presenza dell'acqua e le scene in subacquea dei corpi che vi nuotano dentro è tutt'altro che casuale) e quale ipotesi di un punto di partenza che per essere tale deve fare i conti con il dolore prodotto dalle conseguenze di quell'amore clandestino, "Sette giorni" ci dice anche altro. A cominciare dall'urgenza di un regista, l'elvetico Rolando Colla, che dopo "Giochi d'estate", ambientato nella costiera Toscana torna a girare in Italia per mettere sullo schermo la trasfigurazione di un nostos che lo riporta nelle terre dei suoi genitori (Svizzero di nascita Colla è figlio di immigrati italiani) e che l'autore mette in scena prestando alla storia stati d'animo e liturgie che gli derivano dai suoi natali. 


Da quelle terre viene lo spirito apolide e la predisposizione alla mobilità che impronta le vicenda del film, come pure l'attenzione al sociale che "Sette giorni" fa trasparire negli accenni al percorso terapeutico seguito da alcuni dei personaggi per cercare di vincere la dipendenza dalle droghe. E, ancora, il richiamo al cinema e, nella fattispecie, al festival di Locarno, punto di aggregazione e catalizzatore culturale dell'intera nazione, al quale ad un certo punto Colla rende omaggio nella sequenza dei fotogrammi proiettati sulle mura di un antico palazzo siciliano, alla pari di quanto accade su quelli ubicati nella Piazza grande della città lacustre che prima della visione si tappezzano dei momenti più evocativi della settimana arte.



Alternando fenomenologia e introspezione, sempre supportate da immagini che non perdono di vista la loro funzione narrativa, e che da sole avrebbero fatto meglio della sceneggiatura, un po' impacciata quando si tratta di dare voce alle ragioni che portano allo scoperto le intenzioni di Ivan nei confronti di Chiara, "Sette giorni" si costruisce le proprie credenziali facendo leva sulla capacità degli attori di scomparire dentro i rispettivi ruoli - con una menzione particolare per la brava e coraggiosa Alessia Barela, in grado di tenere testa e anche di più al collaudato Bruno Todeschini - e nel riuscito tentativo di rapportarsi al mondo circostante senza la volontà di volerlo spiegare, ma dando l'impressione di farlo vivere davanti ai nostri occhi.
Carlo Cerofolini
(pubblicata su ondacinema.it)

mercoledì, agosto 23, 2017

ANTONIA

Antonia
di, Ferdinando Cito Filomarino

con, Linda Caridi, Filippo Dini, Alessio Praticò

Italia,  2015
genere, biografico

durata,95’


Dolcemente guardinga Antonia Pozzi/Linda Caridi, liceale al Manzoni di Milano agli albori del Novecento, assieme all’amica del cuore osserva un paio di compagni impegnati in esercizi di lotta libera durante l’ora di ginnastica. E’ più o meno in questo attrito disciplinato tra corpo e ragione, tra impeto e discernimento, che si svolge la vicenda umana (e cinematografica) d’un artista tanto avvertito quanto precoce, in relazione al quale, nonostante tutto, la proverbiale ottusità accademica non riuscirà nello scopo di piegarne l’indole originale allo scoraggiamento.

Giovane membro della buona borghesia meneghina - padre avvocato, madre discendente da una famiglia di nobile lignaggio - gli echi contorti della dittatura fascista ancora attutiti dalle distanze confortevoli del rango sociale e del privilegio (ma probabilmente più insidiosi perché destinati a lavorare sul profondo, forse fino all’irreparabile), Antonia con l’approssimarsi della fine degli studi (la sua tesi del ’35 riguarderà La formazione letteraria di Gustave Flaubert), precisa il proprio slancio poetico costituito di fondo da una schietta irruenza (dentro i labbri di tutte le ferite/io stagnerò il tuo sangue/fra le ciglia di ognuno che si strazia/asciugherò il tuo pianto), da una vulnerabile irrequietezza (Stanotte un sussultante cielo/malato di nuvole nere/acuisce a sprazzi vividi/il mio desiderio insonne/e lo fa duro e lucente/ come una lama d’acciaio), come da un acerbo ma persistente presagio della Fine (Sola mi rannicchio/sopra il mio magro corpo. Non m’accorgo/che, invece di una fronte indolenzita/io sto baciando come una demente/la pelle tesa delle mie ginocchia). Filomarino (all’esordio), sulla scorta delle luci morbide ma contrastate di Mukdeeprom, racconta e insegue Antonia affidandosi a un duplice registro. Il primo genericamente naturalistico - di gran lunga il più riuscito - ritrae la protagonista in scene lineari e concise, poco o punto dialogate, lungo un itinerario che interseca gli sforzi per acquisire una personale voce letteraria; la crescente incompatibilità con l’ambiente familiare e sociale: gli amori impossibili o stolidamente non corrisposti. L’altro, nei presupposti simbolico, indulge di preferenza in sospensioni, sequenze volutamente non risolte o prolungate, attenzione evocativa su certi dettagli, azzardi espressivi (uno splendido nudo di Antonia/Caridi riversa sul letto a mo’ di Danaide di Rodin stranito dalle note anacronistiche di Va di Ciampi), a sottolineare un lodevole ma come sovente accade frustrante e, alla fine, insoddisfacente intento di rendere visibile o quantomeno percepibile un sentire intorno alla realtà in costante e contraddittoria formazione.

In un contesto tale, di asciutta sebbene didattica perseveranza, si distingue comunque la febbrile e vana applicazione amanuense di Antonia (la futura riconosciuta poetessa durante la breve vita non vedrà mai pubblicato nulla di suo) - quaderni pieni di annotazioni, brandelli di versi, minute di lettere, appunti sparsi, traduzioni, brani da rifinire - nonché, più in generale, il suo pellegrinaggio attento e nervoso, schivo ma partecipe, attraverso le cose d’un mondo (l’Italia della seconda metà degli anni Trenta) lanciato sulla china dell’ennesimo immane disastro, sempre col fare presago (quindi modernissimo) di una coscienza tesa a reperire un senso ultimativo che non si limiti alla rielaborazione teorica dell’esistente ma pretenda - attraverso comprensibili abbandoni e ritrosie - di raggiungerlo e d’imprimerlo nel proprio tempo in virtù di una mediazione esperienziale prima di tutto fisica (Antonia affronta, non di rado sola, le asprezze silenziose e le dolcezze elusive delle montagne - qui i rilievi della Valsassina -; frequenta pensierosa la calma antica della campagna lombarda: non considera la contemporaneità, per quanto retriva, ostacolo a una sessualità discreta ma libera perché curiosa e immune dai pregiudizi - Oggi, m’inarco nuda, nel nitore/del bagno bianco e m’inarcherò nuda/domani sopra un letto, se qualcuno/mi prenderà -). Aspetti d’un carattere vitale e complicato che il film accarezza a tratti, complice discreto e quasi involontario d’un mistero dolceamaro fatalmente inespresso che si compie ai primi di Febbraio del ’38, quando decide di sottrarsi per sempre al respiro dei giorni (nel frattempo divenuti oltremodo grevi), nemmeno ventisette anni dopo averne ricevuto il primo assaggio.
TFK

BABY DRIVER - IL GENIO DELLA FUGA. INCONTRO CON KEVIN SPACEY

La promozione italiana di “Baby Driver” è l’occasione per incontrare l’attore americano Kevin Spacey che nel lungometraggio di Edgar Wright interpreta il ruolo di Doc, capo banda del sodalizio criminale in cui milita Ansel Elgort, il protagonista del film. Poco propenso a prendersi sul serio, Spacey ha risposto di buon grado alle domande dei presenti, tornando spesso sul suo rapporto con il mestiere dell’attore.


Qualche tempo fa aveva dichiarato che non avrebbe più interpretato i ruoli che l’avevano fatto diventare famoso. E’ ancora di questa idea.
La risposta a quella domanda derivava dal contesto in cui mi era stata rivolta. In quel momento della mia carriera avevo bisogno di fare cambiare perché come artista  sentivo il bisogno di crescere . Ora quegli stessi ruoli li potrei di nuovo interpretare perché sono interessato a ricostruire la mia carriera d’attore e a farmi di nuovo conoscere ad Hollywood dopo l’assenza conseguente ai miei impegni con il teatro Old Vic di Londra. In generale, oggi mi interessa partecipare a una storia in cui il mio personaggio abbia una parte significativa.

Come il Doc di “Baby Driver”. 
Ho accettato di fare “Baby Driver” perché trovo che Edgar Wright sia un regista brillante e divertente, e per il fatto che mi aveva offerto una parte a cui non potevo dire di no.

Il fatto che lei abbia spesso interpretato il ruolo del bad guy riscuotendo grande successo è forse il segno che il pubblico non ama più un certo tipo di buonismo. 
E’ lei a definirli bad guys. Io non giudico i miei caratteri ma mi limito a interpretarli. Fare una distinzione tra bene e male non appartiene al mio processo interpretativo, perché ogni volta che sono coinvolto in un film l’unico obiettivo è quello di far vivere il mio personaggio come fosse una persona reale. Poi è vero quello che dice, e cioè che da vent’anni a questa parte il pubblico si sia affezionato ai cosiddetti anti eroi. Direi che questo fenomeno è diventato rilevante a partire dalla serie de  “I Soprano”. 


Quali sono stati i suoi modelli d’attore e quelli della sua vita privata.
Per ciò che riguarda gli attori la lista è lunga. Ho avuto la fortuna di avere una madre che amando il teatro e il cinema mi ha fatto conoscere la bravura di artisti come Henry Fonda e Katherine Hepburn e ancora Spencer Tracy , James Stewart e Betty Davis. Parlando invece delle persone capaci di influenzare la  mia vita, dico Jack Lemmon, che mi è stato vicino quando ero giovane, e poi Alan J Pakula, uno dei primi registi che si è battuto per me. 



Quali sono i ruoli che non accetterebbe mai.
Le uniche parti che non accetto sono quelle scritte male. Sono molto aperto a qualsiasi tipo di ruolo. La gente crede che noi attori possiamo scegliere le parti che vogliamo, invece succede che fai quelle che ti offrono o quelle che puoi fare se sei libero da altri impegni. L’unica cosa che mi spaventa è la stupidità. 

E’ vero che in “Baby Driver” avete recitato a tempo di musica?
Si. Wright è arrivato alle prove con la colonna sonora già assemblata e   mentre leggevamo il testo c’è la faceva sentire. La cosa ha conferito alle prove un andamento molto sexy e pieno di ritmo. Sul set avevamo delle cuffiette che ci permettevano di muoverci a ritmo di musica fino a quando non subentravano i dialoghi. E così per tutta la durata delle riprese


Lei si è dedicato molto alla produzione di opere altrui. Ci può dire qualcosa di più a proposito di questa attività.
Come produttore mi piace essere un facilitatore, colui che mette insieme le persone giuste per un determinato progetto. Cerco di scegliere l’attore e il regista migliore, gli do fiducia e poi li lascio andare, rimanendo a osservare in che maniera le cose prendono forma. Ho fatto così per molti anni quando ero direttore dell’Old Vic Theatre. 

Nella sua carriera ha interpretato personaggi piuttosto complicati da portare sullo schermo. Pensa che sia cosi.
Ho sempre pensato che sia stupido affermare che è stato difficile interpretare una parte. Per me recitare è un immenso divertimento. Svegliarmi e recarmi ogni giorno sul set è un vero piacere. La sintesi di quello che sto dicendo la si trova in un monologo che ho fatto qualche tempo fa. In esso il personaggio ricorda come fosse duro quando il padre lo mandava a lavorare nei campi, e della decisione di fare altro nella vita diventando avvocato, mestiere che rispetto al precedente gli diede la sensazione di non avere più lavorato in vita sua. E’ questa la percezione che ho quando giro un film.
Carlo Cerofolini
(pubblicato su taxidrivers.it)








lunedì, agosto 21, 2017

IL SOGNO AMERICANO DI IVAN SILVESTRINI - INTERVISTA AL REGISTA DI MONOLITH

L'incontro con Ivan Silvestrini, autore di film di genere, ci permette di fare il punto su un cinema che cambia forma senza perdere le proprie peculiarità.



Com’è nato il connubio con Roberto Recchioni, curatore di Dylan Dog e autore della graphic novel, a cui è ispirato il tuo film. 
Lui molti anni fa pubblicò le prime visualizzazioni di Monolith. Io, come molti, ne rimasi affascinato ma non sapevo ancora come sarebbe andata a finire la storia poiché quegli schizzi ne erano soltanto la premessa. Quando i diritti della graphic novel tornarono a essere liberi, dopo il fallimento del primo tentativo di realizzarne un film, la Lock and Valentine, che aveva visto le mie due web series girate in inglese (“Under" e “Stuck”), ha pensato che fossi la persona giusta per dirigere “Monolith”. Ovviamente, quando ne ho letto il soggetto sono impazzito per le potenzialità della storia, e quindi, ho fatto di tutto per diventarne il regista. Con Roberto, che già conoscevo, non c’è stato un rapporto diretto per questo lavoro. Il film e il fumetto hanno la particolarità di essere stati sviluppati in concomitanza, e quindi di essere indipendenti uno dall’altro. Sono due cose diverse che hanno come punto di partenza l’idea di Roberto.

A questo punto mi viene da chiederti se ti piacciono i fumetti e se lo avevi già frequentati come lettore.
Non mi definirei un fumettologo ma comunque li leggo. Ho molti amici in quell’ambiente e ciò che ammiro di loro è la mentalità, forgiata dal fatto che possono pensare alle storie senza condizionamenti di budget, cosa che per me ancora non è possibile. Scrivere di un treno che deraglia o di un dialogo in camera e cucina per loro è stessa cosa in termini di costi. Sono questo tipo di restrizioni che impediscono di concepire una storia come “Monolith”, non costosissima, ma comunque complicata da realizzare, per la libertà d’espressione che c’è dietro. In più, esiste il fatto che come regista di film di genere sei portato a pensare che difficilmente le tue storie ti verrano finanziate. Ciò spiega la ragione per cui certe narrazioni finisci per non pensarle neanche più. 

Mi pare di capire che le tavole della graphic novel non hanno fatto da story board al tuo film. 
No, anzi, il film è stato fatto prima della graphic novel. Di questa esistevano solo le prime venti pagine che erano state preparate in anticipo, e che io avevo visto. Ho però lavorato con Lorenzo Ceccotti che insieme a Mario Uzzeo sono stati gli unici collegamenti tra questi due mondi. Avendo il privilegio di lavorare allo storyboard, con Ceccotti capitava che la notte ci ritrovassimo chiusi in una stanza, con lui pronto a disegnare le situazione immaginate per il film. Magari gli chiedevo un campo lungo della protagonista che camminava nel deserto, e lui, immediatamente, me lo faceva vedere attraverso l’abilità delle sue matite. Chiaramente, avendo vicino un talento come il suo, l’ho incoraggiato a contribuire alla parte grafica del film. E’ ovvio, quindi, che il suo stile molto grafico, abbia piacevolmente contaminato il mio. Poi, se hai visto, soprattutto nella parte finale, ci sono immagini non realizzate dal vivo, in cui la CG, sostituisce, o integra in parte, quelle normali. Anche per questo motivo il lavoro di visualizzazione è stato fondamentale. 


Anche Steven Spielberg, a proposito di “Duel”, - film che ha molte cose in comune con “Monolith” -  parlava dell’importanza di visualizzare la storia mediante l’impiego dello storyboard.
Allora ti dico di più. Il risultato di questa lunga preparazione è stata montata in una time line, diventando un cartone animato, con tanto di voci fornite da attori provvisori. In questa maniera abbiamo capito che certe scene avevano bisogno di essere ampliate con ulteriori inquadrature.

Soprattutto nella seconda parte i campi lunghi e le panoramiche  fanno di “Monolith” un film da vedere in sala, apprezzabile sul grande schermo per la possibilità di restituire le suggestioni del paesaggio, destinato a diventare il protagonista della storia.
Il film è stato girato con tre set di ottiche diverse. Ciò mi ha permesso di utilizzare lenti anamorfiche che amplificano la vastità dell’orizzonte. Abbiamo fatto di tutto per valorizzare lo scenario. In precedenza sono stato criticato perché facevo troppi primi piani ma d'altronde quando hai pochi soldi e giri per il web non hai altra scelta. 


Una costante del tuo cinema è il significato che attribuisci al paesaggio, a  cui spetta il compito di definire e riflettere lo stato d’animo dei personaggi. Qui accade con la natura primordiale e selvaggia del deserto americano che fa da cassa di risonanza alle reazioni emotive di Sandra, la protagonista di “Monolith”.
In “2night” nel suo piccolo, e qui, in dimensioni opposte, il paesaggio e le architetture sono state un’occasione per approfondire la personalità e lo stato d’animo dei personaggi. Se usate nel modo giusto, le ambientazioni, possono diventare una sorta d’astrazione che permette di proiettare verso l’esterno l’interiorità del personaggio. In “Monolith”, ciò è evidente nella seconda parte, poiché vedere il personaggio circondato dalla vastità del deserto americano ne fa sentire ancora di più lo smarrimento.  

Tra l’altro quando ho letto il soggetto di “Monolith”, una cosa che mi è sembrata subito interessante era quella di far partire la protagonista da una situazione sofisticata e altamente tecnologica - rappresentata appunto dalle caratteristiche futuribili della“Monolith” - per poi calarla in un’avventura da età della pietra. Un salto vertiginoso verso il passato in cui oltre alla salvezza del figlio ci sono di mezzo anche i demoni più atavici della maternità. 

Nella parte della protagonista Katrin Bowden è davvero azzeccata. Come sei arrivato a sceglierla.
Il casting si è svolto tra Los Angeles, New York e Londra. Visto che ci trovavamo nella prima città abbiamo incontrato di persona le candidate, mentre per le altre i colloqui si sono svolti via skype. A due settimane dalla fine ci siamo trovati in mano il provino di Katrin che, tra tutti, ci è sembrato il più convincente. Al di là del suo curriculum (“30 Rock”) ci è piaciuta la capacità di essere, nella prima parte, leggera e poi, nella seconda, di diventare agguerrita e insieme materna. 

Hai lavorato molto per aiutarla a entrare nel personaggio.
In realtà abbiamo fatto poche prove. Lei era già molto preparata e d'altronde il ruolo richiedeva una grande performance fisica. Il punto era capire se avesse l’emotività giusta per interpretare il personaggio. In fase di prova, non aveva senso che gli chiedessi di mostrarmi se sapesse scalare una montagna o saltare sopra il parabrezza di una macchina. Tieni conto che qui parliamo di una categoria di attrici molto professionale. In generale, tendo a provare fino a quando non sono sicuro che gli attori abbiano compreso la parte. Il resto lo lascio al set, e alla possibilità di essere stupito mentre si gira. E’ lì che divento spettatore, sempre in attesa di rimanere meravigliato dalla bravura dei miei attori.


La scorsa volta mi avevi parlato della leggerezza del tuo dispositivo. Con “Monolith” ne dimostri anche la duttilità. Qui emerge il lavoro di un regista eclettico, in grado di adattarsi a uno spazio nuovo senza perdere nulla in termini di efficacia narrativa e capacità delle immagini di raccontare la storia. A questo proposito mi interessava sapere se, prima di iniziare a girare, hai fissato insieme ai tuoi collaboratori quello che sarebbe stato il linguaggio del film,  
Assolutamente si. A parte Lorenzo Ceccotti, è con il direttore della fotografia che ho passato più tempo. Michael Fitz Maurice è autore di famosi spot automobilistici ma è anche uno degli operatori preferiti da Christopher Nolan, per il quale ha  realizzato l’incidente dell’autobus in “The Dark Knight” e la sequenza dei campi di granoturco in “Interstellar”. Con lui abbiamo discusso scena per scena per capire che tipo di estetica volevamo dare al film. A mio vantaggio c’è il fatto di avere una preparazione fotografica che mi permette di essere sempre molto specifico nelle richieste da fare al direttore della fotografia.

Potresti darmi qualche dettaglio tecnico relativo alla vostra collaborazione.
Ti posso dire che abbiamo girato con una Panasonic di ultimissima generazione ,dotata di un dispositivo in grado di girare al buio. Considera che eravamo in una vallata che non poteva essere illuminata, e che quindi la luce che si vede è quella della luna piena. Per questo motivo nelle tre settimane di lavorazione abbiamo fatto coincidere i tempi delle riprese con il periodo in cui la luna si trovava in questa posizione. Per darti un’idea, le sequenze più scure non sono volute, bensì la conseguenza del fatto che la luna era tramontata. Al di là delle scene dedicate alla protagonista, in cui la luce era rafforzata, per le altre, la profondità dello spazio era data dalla presenza della luna. “Monolith” è stato  filmato con tre tipologie di lenti. Avremmo voluto girare tutto in anamorfico, ma, in questo caso, per le riprese all’interno della macchina saremmo andati incontro a problemi ingestibili. Per questo siamo ricorsi all’uso di lenti sferiche, poi sostituite da quelle anamorfiche per gli esterni. Le vintage invece ci sono tornate utili nelle riprese effettuate con la steady-cam, nelle quali mi serviva  un  immagine caratterizzata da una pasta molto sporca.

Tornando all’estetica di “Monolith”, mi accennavi ai film che l’hanno ispirata.
Più che l’estetica, i film che abbiamo visto prima di girare ci sono serviti per costruire la struttura narrativa. Mentre scrivevamo la storia, il nostro faro è stato “Gravity”, per il fatto di raccontare il percorso di una donna coinvolta in un’avventura che diventa anche il modo con cui la protagonista metabolizza il lutto causato dalla morte della figlia. Abbiamo tenuto conto anche di “127 ore” che ha un primo atto da road movie e che poi, dopo l’incidente del protagonista, piomba in una situazione opposta. Poi avevo visto e molto amato “Buried” , anche se stiamo parlando di un film claustrofobico mentre il mio va in direzione opposta. “Locke”, invece, mi ha aiutato a concepire il mondo che ruota attorno alla protagonista, con l’espediente delle telefonate al marito e all’amica da parte di Sandra, simile a quello utilizzato da Steven Knight. 

Il genere è solo uno strumento che utilizzi per raccontare le tue storie oppure il segno del cinema che preferisci.
Amo profondamente il cinema di genere tanto che, se potessi, girerei subito un film di fantascienza, cosa che in Italia è praticamente impossibile. Ciò non vuol dire che non mi piaccia il cinema d’autore e i film di maestri come Kubrick e Lynch,. Però, tanto per dire, l’arte del regista di Twin Peaks”, penso che sia inimitabile, qualcosa a cui è difficile avvicinarsi.

Per concludere volevo chiederti se dopo esserti misurato con le logiche  delle produzioni indipendenti  non ti piacerebbe lavorare in un film con un grosso budget.

In realtà è già successo perché ho finito di girare un lungometraggio dove mi sono potuto sbizzarrire e in cui ho lavorato con Claudio Bisio e altri attori di grande popolarità. Il film è il remake del francese “Les profs”, di Pierre-François Martin-Laval, e racconta di una scuola in cui, per una serie di motivi, in una scuola vengono mandati i professori peggiori d’Italia. L’uscita è prevista all’inizio del prossimo anno.
Carlo Cerofolini
(pubblicata su taxidrivers.it)