martedì, luglio 31, 2018

HEREDITARY - LE RADICI DEL MALE

Hereditary- Le radici del male
di Ari Aster
con Tony Colette, Alex Wolff, Gabriel Byrne
USA, 0218
genere, thriller, horror
durata, 126'


Per essere un horror "Hereditary - Le radici del male" è un film in cui la presenza della mdp è resa in maniera più evidente di quanto ci hanno abituato le produzioni americane. Nella sequenza introduttiva, per esempio, partendo da un'inquadratura fissa su una casupola di legno posta sulla sommità di un albero antistante alla casa dalla quale avviene l'osservazione, la telecamera si rivolge verso l'habitat della stanza che ne ospita il punto di vista per avanzare fino a dove gli è possibile, soffermandosi sui diversi modellini che riproducono - in scala - gli interni della dimora in questione e le repliche dei suoi abitanti. Quello che a prima vista sembrerebbe l'espediente per innescare l'escamotage narrativo è invece il modo con cui il regista ci mette in guardia rispetto ai livelli di realtà di cui si compongono le immagini del suo lavoro. Se mai ce ne fosse bisogno, la conferma di quanto appena detto arriva subito dopo, con la soluzione di far partire la storia dall'animazione delle stesse miniature, destinate, come d'incanto, ad assurgere al corrispettivo in carne e ossa dei personaggi. Detto che il film tornerà più volte su questo leit-motiv, approfittando del fatto che l'artefice dei plastici è la stessa protagonista, Annie Graham/Toni Collette, incaricata di realizzarli per conto di una importante galleria d'arte, ciò che importa nell'economia complessiva è il risultato prodotto da questo cortocircuito iniziale.

Le reazioni di Annie, del marito e dei suoi due figli di fronte alla scomparsa della madre della donna e, soprattutto, alle sconcertanti scoperte sul misterioso passato della defunta fanno infatti da apripista a una tipologia di messinscena che, emulando il rapporto tra realtà e rappresentazione messo in campo dalla sequenza iniziale, depotenzia le caratteristiche fenomenologiche degli avvenimenti, per favorire una visione autoreferenziale degli stessi nella quale ciò che accade potrebbe essere riferito a dati oggettivi, esterni alla coscienza degli interessati (l'inquadratura fissa sulla casupola), oppure a una proiezione mentale degli stessi (gli ambienti della casa) e delle loro distorsioni (i modellini a cui si faceva riferimento sopra). Un'impostazione, questa, tanto più efficace nella considerazione che si sta parlando di un film a basso budget e di un genere, da sempre abituato (anche per questioni economiche) a lavorare sul fuori campo, lasciando al "particolare" - concentrato in poche location (in questo caso gli interni delle abitazioni) - il compito di evocare quel "tutto", normalmente emarginato fuori dal quadro anche per l'impossibilità di ricrearne - visivamente e per mancanza di soldi - la complessità. E, ancora, in ragione di una prospettiva che, almeno nella prima parte, bandisce quasi del tutto l'azione, preferendo ad essa un passo più contemplativo e un approfondimento di tipo esistenziale degli sconvolgimenti provocati dai lutti che colpiscono la famiglia di Annie. Non è dunque un caso se quella che dovrebbe essere la classica storia di possessione e di sette sataniche si trasforma in vero e proprio cinema d'autore, con movimenti avvolgenti della mdp, carrellate dal sapore metafisico (dei corridoi, destinati a diventare recessi della mente) e campi lunghi che, azzerando la profondità degli spazi e rendendo incerta la loro perimetrazione (di fatto inesistente), sembrano rimandare direttamente all'artificialità dei modellini iniziali, facendo del non luogo il territorio principe degli eventi descritti nel film.

Se clima e contesto evocano il David Lynch di "Eraserhead - La mente che cancella" accade che, mentre l'autore di "Twin Peaks" è disinteressato a qualunque spiegazione, preferendo ad esse le fantasie surreali escogitate dal suo estro, Aster, al contrario, non si limita a far sentire la follia dei personaggi ma decide pure di raccontarla con una coerenza che purtroppo non riesce ad avere la stessa efficacia di ciò che l'ha preceduto. Forzando la logica di certi passaggi (come quello relativo ai poteri da medium di Annie) e palesando piccole ma evidenti incertezze nella costruzione della trama, "Hereditary" retrocede a lavoro di seconda fascia, pur mantenendo inalterata l'eccellenza della confezione, valorizzata dalla fotografia iperreale di Pawel Pogorzelski.
A vantaggio del lavoro svolto dal regista, preme comunque sottolineare l'eccellente resa di "Hereditary", al top degli incassi tra gli indipendenti della stagione americana - con un utile di 70 milioni di dollari d'incasso a fronte di un budget di 7 - che lo pone ai vertici, non solo nell'alveo della propria categoria. Che abbia un seguito è più che scontato.
Carlo Cerofolini
(pubblicato su ondacinema.it)

domenica, luglio 29, 2018

SENZA SANTI IN PARADISO

Senza santi in Paradiso
di David Lowery
con Rooney Mara, Ben Foster, Casey Affleck, Keith Carradine
Usa, 2013
genere, drammatico
durata, 105’

La Fondazione Cineteca Italiana ha presentato dal 24 al 30 luglio 2018 due inediti in Italia del giovane regista americano David Lowery: “Senza santi in Paradiso” e “A Ghost Story”. https://www.cinetecamilano.it/rassegna/david-lowery



Il giovane regista David Lowery è conosciuto in Italia solo dai cinefili, visto che i suoi film hanno avuto una pessima distribuzione in Italia. Autore di innumerevoli cortometraggi, cresciuto professionalmente in Texas (dove si è trasferito con la famiglia fin dall’infanzia), ha diretto solo quattro lungometraggi: “St. Nick”, proiettato solo in qualche festival americano; “Senza santi in Paradiso” che ha avuto il suo debutto alSundance Festival e distribuito in Italia direttamente in home video; “Il drago invisibile”, unico film uscito nelle sale nazionali; e, infine, “A Ghost Story” che ha avuto la stessa sorte della sua seconda opera. Nel frattempo, Lowery ha terminato di girare “The Old Man & the Gun” con Robert Redford che uscirà nelle sale statunitensi nell’autunno di quest’anno.
“Senza santi in paradiso” narra la storia d’amore di due giovani, Ruth Guthrie (Rooney Mara) e Bob Mooldon (Casey Affleck) piccoli rapinatori che dopo un colpo finito male e una sparatoria finita nel sangue vede Bob imprigionato, mentre Ruth, incinta, viene discolpata dal suo compagno, pur avendo ferito un vicesceriffo.
Lowery oltre a dirigere, scrive e a volte monta le sue opere, facendone un autore a tutto tondo con una sua specifica poetica estetica e contenutistica. Si circonda sempre dei soliti collaboratori e utilizza, quando può, anche gli stessi attori: infatti, la coppia di “Senza santi in Paradiso” è anche protagonista in “A Ghost Story” e Ben Affleck partecipa anche all’ultimo film di Lowery.
Le tematiche di Lowery convergono sulla narrazione di piccoli personaggi, per lo più giovani, della loro ricerca di un mondo migliore, di un loro posto nella vita, nella ricerca di una felicità fatta di momenti dove l’amore tra uomo e donna trascendono lo spazio e il tempo. Il ricordo di una vita migliore (im)possibile a ogni costo si frantuma contro un destino ineluttabile che termina o inizia con la morte di un personaggio principale.


Stilisticamente, Lowery ama riprendere i propri personaggi in primi pianti intensi, prediligendo i long take per bloccare il tempo all’interno dell’immagine filmica, dove la macchina da presa diventa testimone di eventi ineluttabili, con l’utilizzo di flash back e flash forward sempre in forma diegetica e mai narrativa, facendone opere completamente postmoderne.
“Senza santi in Paradiso” risente dell’influenza del grande regista texano Terrence Malick, in particolare “La rabbia giovane” e “I giorni del cielo”, non solo per la storia narrata, ma anche per l’utilizzo di una fotografia dai colori desaturati, da una luce naturale che pervade i corpi e gli oggetti, avvolgendoli in un alone di indeterminatezza temporale ed emotiva.


Pur essendo ancora un’opera che derivativa, Lowery dà prova di avere una capacità della messa in scena fuori dal comune e una chiara ricerca personale che lo porterà a prove più originali e autonome (come “A Ghost Story”). “Senza santi in Paradiso” si avvale poi di interpretazioni partecipate e piene da parte di Ben Affleck e di Rooney Mara che danno valore aggiunto. Ma anche gli attori comprimari come Ben Foster (il vicesceriffo che si innamora di Ruth) e di Keith Carradine (il tutore dei ragazzi) recitano in modo essenziale, per sottrazione, più con lo sguardo e i gesti delle mani e del corpo, provando una capacità innata da parte di Lowery nella direzione degli attori.
“Senza santi in Paradiso” rivela un autore da seguire con attenzione e ci auguriamo che in futuro abbia maggiore fortuna nella distribuzione nelle nostre sale per un pubblico che si merita di vedere bei film.

Antonio Pettierre

SKYSCRAPER


Skyscraper
di Rawson Marshall Thurber
con Dwayne Johnson, Neve Campbell
USA, 2018
genere: azione
durata, 102’



Will Sawyer, veterano di guerra e agente dell'FBI, perde una gamba in un'operazione per liberare gli ostaggi. Dieci anni dopo, ha una moglie e due figli che contano su di lui e vivono con lui ai piani alti di un grattacielo avveniristico, costruito a Hong Kong da un miliardario cinese megalomane. Appena il protagonista viene nominato responsabile della sicurezza della struttura, il grattacielo più alto e più sicuro del mondo prende improvvisamente fuoco. Dell'incendio viene accusato a torto Will. Ma lui non ci sta. Considerato fuggitivo dalla polizia cinese, non gli resta che trovare i veri colpevoli, riabilitare la propria reputazione e salvare la sua famiglia, intrappolata all'interno e al di sopra del livello del fuoco.
Sospeso tra film d'azione e film catastrofico, “Skyscraper” riposa sul carisma della sua stella e frequenta senza imbarazzo tutti i cliché dei generi, prendendosi molto sul serio.
Rawson Marshall Thurber assolda Dwayne Johnson per recuperare il piacere un po' vintage di un eroe senza poteri sovrumani, che non ha altro da offrire se non lo spettacolo del suo corpo in azione. All'architettura infernale del grattacielo del titolo, il regista oppone la muscolatura sostenibile di The Rock, 120 chili di muscoli pronti a tendersi al servizio di questa o quella causa. Questa volta è la famiglia dell'eroe l'obiettivo da raggiungere e salvare, sollevando pesi, saltando in corsa da una gru e lanciandosi nel vuoto, suscitando l'incredulità dello spettatore. 


Appeso al 96° piano e usando la sua gamba artificiale come arresto per le porte, il nostro abbatterà i cattivi, in un film che assomiglia a “Trappola di cristallo”, ma che non arriva nemmeno al primo piano dei suoi modelli, quali “L'inferno di cristallo”. Se le stazioni di Bruce Willis contavano sulla messa in scena virtuosa e la filmografia virile di John McTiernan, Johnson è accompagnato nella scalata da Rawson Marshall Thurber, il cui solo fatto d'armi è una commedia demenziale (“Palle al balzo”). 
Con la sua storia di un eroe nelle grinfie di un gruppo di terroristi che prendono il controllo di un edificio impressionante, “Skyscraper” gioca sulla verticalità di un building-mondo che si staglia nel cielo e ha come controcampo ai suoi piedi una folla di gente esaltata dalle acrobazie di un impiegato fuori norma.
Magnificare la Cina ultramoderna e il corpo di Dwayne Johnson, gigante affabile che protegge Chicago da un attacco di mostri giganti (“Rampage - Furia animale”) o impedisce il collasso di un grattacielo in fiamme a Hong Kong coi soli bicipiti, sono le ragioni di un film che incontra le convenzioni del catastrofico e assume l'estetica dell'animazione. Abituato a battere l'apocalisse a braccio di ferro, per Dwayne Johnson neutralizzare terroristi e dominare incendi sono pure formalità, all’interno di un film politicamente corretto e con qualche bell'effetto di prospettiva.
Riccardo Supino

sabato, luglio 28, 2018

IO, DIO E BIN LADEN


Io, Dio e Bin Laden
di Larry Charles
con Nicolas Cage
USA, 2016
genere, commedia
durata, 92'



Dipenderà dalla lentezza della nostra distribuzione, che ha deciso di farlo uscire a due anni di distanza da quella americana (peraltro avvenuta direttamente su piattaforme on demand), sta di fatto che "Io, Dio e Bin Laden", diretto da Larry Charles, appare un film sorpassato dagli eventi che, nel frattempo, sono intercorsi dai tempi della sua realizzazione. A cominciare dal contesto, di certo alterato rispetto alla realtà dei fatti, ma comunque riferibile alla vera storia di Gary Faulkner, ex detenuto disoccupato e in missione “per conto di Dio” dal giorno in cui lo stesso gli comanda di mettersi alla ricerca di Osama Bin Laden e di catturarlo (in Pakistan, dove Faulkner si recò ben 11 volte). C’è poi il fatto che a interpretare il ruolo del protagonista sia Nicolas Cage, ex divo hollywoodiano che ai tempi del film godeva di un margine di credibilità oramai consumata dall’anonimato delle ultime scelte. A completare il quadro la presenza occulta (perché nascosta tra i tanti nomi elencati nei titoli di coda) dei “famigerati” fratelli Weinstein, non si sa in che termini coinvolti nella produzione del lungometraggio.


Fin qui autore di biografie “inventate” (Borat, Bruno), Charles si cimenta per la prima volta nella messinscena di una persona realmente esistita mantenendo invariate le coordinate di un cinema che non riesce a prendersi sul serio anche quando si parla di Dio e Bin Laden, entrambi declassati a macchiette. In un simile scenario non stupisce ritrovare un attore come Cage, da sempre a proprio agio quando si tratta di procedere a briglia sciolta. Dello sgangherato carrozzone messo in piedi dal regista è certamente il mattatore, come sempre sopra le righe, ma mai come questa volta in maniera appropriata alla situazione. Visto con gli occhi del suo personaggio si riesce quasi a credere che qualcosa di simile possa essere davvero accaduto. Non è poco!
Carlo Cerofolini
(pubblicata su taxidrivers.it)

domenica, luglio 22, 2018

UNA LUNA CHIAMATA EUROPA


Una luna chiamata Europa
di Kornel Mundruzco.
con Merab Ninidze, Zsombor Jéger, György Cserhalmi
Ungheria, Germania 2017
genere, drammatico
durata. 100'




Una delle conseguenze più evidenti prodotte dalla cosiddetta civiltà dell’immagine è l’abitudine a un determinato numero di canoni visivi al di fuori dei quali ogni rappresentazione non appare altrettanto veritiera. Nel cinema, tale assuefazione diventa limite allorquando sia registi che pubblico si convincono che esista un solo modo di raccontare e che, per esempio, a una questione di scottante attualità come quella dei flussi migratori debbano per forza corrispondere impianti ad alto tasso di realismo. Fin qui nulla di sbagliato, se è vero che ogni scelta è lecita e che a contare alla fine è la bontà del risultato. Ciò che non torna è, invece, la diffidenza e i dubbi con cui vengono accolti i lavori di coloro che si incamminano su strade meno battute e al di fuori della norma. È ancora vivo il ricordo dello sconcerto di fronte a sequenze come quella di "Nuovomondo" di Emanuele Crialese, nel quale il senso di perdita legato alla ricerca di una nuova patria trovava conforto nell’oceano di latte in cui a un certo punto si ritrovano a galleggiare i protagonisti, oppure al presagio sulla fine della civiltà europea, preannunciata dalla simbolica presenza dei campi profughi nei pressi della cittadina dove vive la famiglia raccontata da Michael Haneke in "Happy End".


A reazioni analoghe potrebbe dare luogo Una luna chiamata Europa (Juppiter Moon) diretto da Kornel Mundruzco. nel quale la chiusura delle frontiere disposta dal governo ungherese per evitare l’afflusso nel paese di cittadini extracomunitari viene trasfigurata nella vicenda di Aryan, profugo siriano in fuga dalla polizia che lo vuole arrestare per un reato mai commesso, e del dottor Stern (l’ottimo Merab Ninidze), il medico intenzionato a sfruttare la facoltà del ragazzo di librarsi in aria e di sorvolare il cielo a proprio piacimento. Non è la prima volta che Mundruzco utilizza il fantastico e il soprannaturale, avendovi fatto ricorso nel precedente White God: questa volta, però, l’impiego che ne fa risulta a dir poco straniante, poiché la forza d’astrazione insita nella materia in questione viene messa a servizio di una narrazione ampiamente radicata nell’immaginario dello spettatore, per l’abitudine con la quale giornali e televisioni si occupano del fenomeno dell’immigrazione. Calato nella realtà dei nostri giorni, riconoscibile dalla famigliarità delle architetture metropolitane e nell’anonimato delle tendopoli abitate dai poveri malcapitati, cionondimeno Una luna chiamata Europa si spoglia di riferimenti geografici e temporali per diventare sineddoche dell’intera compagine continentale. Ne città, né nazione, lo spazio in cui si intreccia il rapporto tra Aryan e  Stern, sconfina in una vera e propria interzone nella quale l’assenza dell’utopia distopica su cui si fondavano film come Blade Runner è pareggiata dall’esistenza di uno scenario apocalittico simile a quello del lungometraggio appena menzionato.

In questo contesto Mundruzco conferma la capacità del cinema ungherese di entrare nella mente e nel cuore dello spettatore attraverso la rigorosa bellezza delle sue composizioni. Una luna chiamata Europa ne usufruisce non solo quando si tratta di filmare le scene più ardite, quelle in cui l’assenza di gravità permette ad Aryan di alzarsi al cielo, liberandosi dalle grinfie dei suoi persecutori, ma anche laddove si tratta di raffigurare situazioni più ordinarie, nelle quali i movimenti della mdp esprimono l’irrequietezza dei personaggi, senza venir meno ai principi di equilibrio e compostezza dell’impianto. Un’istanza che l’elemento narrativo non riesce sempre a perseguire per lo scarto esistente tra la semplicità dell’assunto, caratterizzato dalla volontà della polizia di catturare Aryan (e di quest’ultimo di ritrovare il padre) e i significati sin troppo scoperti dell’apparato metaforico: così appare il discorso relativo alla purificazione dello sguardo e l’invito a giudicare le cose attraverso una diversa prospettiva, che il regista affida alle immagini in cui vediamo le persone con lo sguardo rivolto al cielo per osservare il volo del protagonista; così sono i riferimenti cristologici attribuiti alla figura del giovane fuggiasco, destinati a rivelarsi in un ambito povero degradato come lo era quello descritto nella novella evangelica. Ma la qualità di un film come Una luna chiamata Europa non risiede nella logica dei suoi contenuti quanto piuttosto nella sua capacità d’osare e nel superare i propri difetti con il coraggio e la fantasia con cui mette in scena la sua ipotesi di universo. Questo basta a farne un’opera interessante e di valore.
Carlo Cerofolini
(pubblicato su taxidriver.it)





LA FOTO DELLA SETTIMANA

Un mercoledì da leoni di John Milius (USA, 1978)

giovedì, luglio 19, 2018

1978/2018, UN'ONDA LUNGA QUARANT'ANNI: UN MERCOLEDI DA LEONI


"1978/2018, un'onda lunga quarant'anni: Un mercoledì da leoni"
di, John Milius
USA, 1978
genere, drammatico
con Jean Michael.Vincent, William Katt, Garey Busey,
durata, 120’


Se la vicenda umana è terribile anche perché tende a ripetersi con una misteriosa quanto inesorabile propensione al peggio, allora forse non resta che stringere i denti e misurarsi, scuotere la volontà e mettersi faccia a faccia con le forze più arcaiche e più esigenti - quelle della Natura - che da un lato consentono la nostra esistenza e dall'altro la vincolano entro limiti invalicabili. Affrontare i rischi, dunque, a occhi aperti, e alla fine raccogliere ciò che resta senza guardarsi indietro. Questo - a spanne - lo spirito della presaga elegia narrata da J.Milius nel 1978 in "Big wednsday"/"Un mercoledì da leoni”.

Segnato dallo svolgersi delle stagioni e contrappuntato da quattro grandi mareggiate (pilastri temporali nemmeno troppo metaforici relativi a quattro momenti importanti della storia americana: estate del ’62/già in bilico sul tragico piano inclinato al punto più basso del quale si sarebbe aperta la voragine dell’assassinio di Kennedy; autunno del '65/escalation della guerra in Vietnam con intensificazione dei bombardamenti e invio di fanteria e truppe aviotrasportate; inverno del '68/l'offensiva del Tet - il nuovo anno lunare vietnamita - e la sanguinosa battaglia di Hue; primavera del '74/lo scandalo Watergate e le dimissioni del presidente Nixon), il film racconta, a partire dai primi anni '60, le vite di tre amici californiani campioni di surf, Matt/J-M.Vincent, Jack/W.Katt e Leroy/G.Busey, che crescendo insieme condividono tutte le esperienze fondamentali preludio per il passaggio all'età adulta. Come i pari età, infatti, sono pieni di energia, sono stupidi, confusi, con idee vaghe sulla vita e sul resto. Anche loro sono certi che la gioventù non finirà mai, che l'estate durerà per sempre regalandogli, prima o poi - così, per niente - l'illusione più grande: intrappolare l'incanto selvaggio delle cose, renderlo tutt'uno con i muscoli scattanti, le onde morbide e insidiose e il sorriso delle ragazze.


La storia, scritta da Milius con D.Aaberg, segue il processo di progressiva disillusione che porterà i tre e il resto dei loro amici - ma potremmo parlare senza esagerare di un'intera generazione - ad allontanarsi l'uno dall'altro, un tanto ogni giorno, quasi impercettibilmente (qualcuno scompare, qualcuno si sposa, qualcuno va in guerra, qualcuno muore), per ritrovarsi poi un'ultima volta - il mercoledì fatale di una gigantesca mareggiata, appunto - sulle spirali d'acqua dell'oceano che adesso sembrano chiudersi più in fretta, respingere, negare la magia di quell'equilibrio sospeso che faceva scivolare dentro il corpo di un'onda come un abbraccio perfetto, e alla fine, probabilmente, sparire, perché è arrivato il tempo di passare la mano, con lucidità e fermezza, e non perché ciò sia giusto, opportuno o imposto da un'autorità politica o spirituale, ma perché lo vuole la Vita. Milius, in costante simmetria tra epica e lirismo trova, nel ritmo ciclico della narrazione, nella freschezza e leggerezza di riprese ancor oggi strepitose (la fotografia è del leggendario B.Surtees), la chiave per virare uno dei cardini dell'immaginario americano - l'uomo solo di fronte alla natura, quindi di fronte a sé stesso - alla malinconia, alla rinuncia come prova di maturità, alla sconfitta come occasione per leggere il mondo da un altro punto di vista, non necessariamente conciliante.

Incastrato fra due giganti (coevo è "Il cacciatore" di Cimino; del 1979 "Apocalypse now" di Coppola, da Milus stesso sceneggiato) e incautamente accostato al di molto successivo - 1991 - "Point break" della Bigelow, di cui non condivide né il furore adrenalinico della messa in scena, né le suggestioni più o meno filosofiche legate al surf (nel film di Milius il surf è un pretesto per stare con gli amici), tanto meno un certo cinismo di fondo, "Un mercoledì da leoni", nonostante il quasi totale oblio che lo avvolge, s'impone ancora, all'interno di un cinema classico, di alto intrattenimento, come una delle più sentite e a volte struggenti riflessioni sulla giovinezza, sul corpo che materialmente produce la Storia, sul tempo perduto, sull’amicizia.
TFK

EDHEL

Ethel
di Marco Renda
con Gaia Forte, Roberta Mattei, Ernesto Alaimo, Mariano Rigillo
Italia, 2017
genere, drammatico, fantasy
durata. 84'



A forza di farlo notare, qualcosa inizia a muoversi. Accusato di non essere abbastanza coraggioso quando si tratta di uscire fuori dalla propria zona di confort, il cinema italiano ha trovato il modo di cimentarsi in un genere come quello del fantasy che fino a qualche tempo fa gli si credeva precluso per mancanza di mezzi. A tracciare il sentiero è stato soprattutto il successo imprevisto di un film come “Lo chiamavano Jeeg Robot”, che al di là di ogni considerazione è servito a dimostrare come attraverso le idee si possano colmare i limiti imposti dalle ristrettezze finanziarie. E’ con questo principio che Marco Renda ha affrontato il suo esordio cinematografico, nel momento in cui ha deciso di raccontare l’universo di Edhel, la piccola protagonista da cui il film prende nome. Nata con un malformazione che le deforma il padiglione auricolare rendendola simile agli elfi della mitologia nordica e per questo derisa dai compagni di scuola che non perdono occasione per farle notare la sua diversità, la bambina si rifugia presto in un mondo immaginario (in parte derivato dal  canone imposto dal Silmarillion tolkeniano) che a un certo punto sembra però prendere il sopravvento, indirizzando l’opera su un binario che s’adopera per tenersi in equilibrio tra una dimensione ideale dell’esistenza e una più concreta. E’ in questa continua oscillazione fra elementi tratti dalla vita ordinaria - come possono esserlo quelli legati ai problemi dell’infanzia e di una famiglia segnata dalla prematura scomparsa di uno dei genitori, e quelli invece relativi alla presunta natura della protagonista, quale possono essere la presenza di un mondo alternativo, individuato dal bosco situato ai margini del maneggio frequentato dalla bambina e dalla sensibilità preveggente del cavallo da lei montato - che Renda mette in mostra la capacità di saper fare di necessità virtù. Non potendo contare sui budget milionari dei colleghi americani, il regista lascia al fuori campo il compito di evocare l’immaginario che in altri film viene mostrato con le possibilità della CG e che qui, in felice opposizione, è sostituito dalla capacità di incanalare le manifestazioni del fantastico nel tessuto del quotidiano. 


Così facendo, disegni, spade di plastica, fumetti e animali, come pure gli esseri umani con le loro contraddizioni, si trasformano all’occhio della telecamera nelle corrispondenti figure buone e cattive delle fiabe tecnologiche. La vera bellezza di “Edhel” sta, così, nel suo essere alieno - nel caso, scientemente minimale - alla maggior parte del fantasy contemporaneo, dal quale si distacca per un ritmo narrativo più intimo e compassato, attento ai segnali psicologici da un lato e alla compostezza bucolica dell’ambiente, dall’altro: in altre parole scevro dai tipici assalti sensoriali a cui da decenni siamo abituati. 

Parliamo, dunque, di un esordio interessante e per lo più esente dalle ingenuità sovente riscontrabili nelle prime volte. Ed è forse proprio tale insolita maturità del dispositivo utilizzato da Renda a creare qualche scompenso quando, ad esempio, si tratta di lasciare andare la recitazione degli attori, qui in qualche modo frenati nella loro naturalezza da un intercalare spesso artificialmente assertivo che ne irrigidisce l’espressività. Una mancanza veniale, che poco toglie alla bontà della loro prova (da segnalare la non comune corrispondenza fotogenica tra la piccola Gaia Forte e Roberta Mattei) e, più in generale, alla riuscita complessiva del film. 
Carlo Cerofolini
(pubblicata su taxidrivers.it)

lunedì, luglio 16, 2018

12 SOLDIERS


12 Soldiers
di Nicolai Fuglsig
con Chris Hemsworth, Michael Shennon, Michael Pena
USA, 2018
genere, azione
durata, 130’


Dopo i fatti dell'11 settembre 2001, il mondo occidentale è sconvolto da quanto avvenuto. L'esercito degli Stati Uniti pensa a una contromossa immediata, che spezzi il dominio di Al-Qaeda in Afghanistan: Mitch Nelson e i suoi uomini si offrono volontari per una missione pericolosa al fianco di Abdul Rashid Dostum, signore della guerra uzbeko, nel tentativo di ricostituire l'Alleanza del Nord in chiave anti-talebana.
Sembrano lontanissimi i tempi in cui ogni giustificazione o celebrazione di un conflitto americano suonava come un atto propagandistico e falso, che mascherava il neocolonialismo sotto i panni dell'esportazione della libertà.
Oggi, nella confusione dell'era Trump, che mescola disordinatamente patriottismo e populismo, il terreno è fertile per una produzione firmata Jerry Bruckheimer che guarda ai “Berretti verdi” di John Wayne come a un modello inarrivabile di war movie didascalico. Quella forma artificiosa, quindi, di simulazione dell'atto bellico, che pone la verosimiglianza in secondo piano rispetto all'intento confortante e celebrativo della rappresentazione. 
Nicolai Fuglsig, regista danese di spot tv, riprende il testo di Doug Stanton e ci riporta da subito alle Torri Gemelle e al trauma con cui ha avuto inizio il terzo millennio, provando a delineare un quadro psicologico dei personaggi che rimarrà solo abbozzato. La strage dell'11 settembre, che colpisce così duramente il mondo occidentale da annullarne le autodifese, trasforma anche gli insospettabili in vendicativi, senza tetto né legge. Si giunge al punto in cui un capitano che non ha mai ucciso un uomo prima d'ora arriva a muovere guerra nel "cimitero degli imperi" e a giustificare sbrigativamente un istantaneo intervento militare, condotto prima di avere prove certe della responsabilità di Osama bin Laden. Difficile, se non impossibile, credere che le cose siano andate come nel racconto di Stanton: dodici cavalieri, non in senso figurato, che compiono l'impresa mentre il mondo si riprende dallo shock, con il capitano Nelson che sviluppa un rapporto di amicizia e rispetto reciproco con il signore della guerra Dostum.

Il rapporto tra soldato e guerriero, centrale nello sviluppo di “12 Soldiers”, è stato giustamente accostato al cinema di John Milius, per la capacità di Dostum di celare in sé il fascino dell'avventuriero navigato e l'ambiguità dell'assassino senza scrupoli. Ancora una volta il corrispettivo reale confligge con la rappresentazione, viste le accuse internazionali mosse al signore della guerra uzbeko. Tuttavia, l'intento ideologico di Fuglsig e Bruckheimer procede indisturbato, fino alla chiusa trionfalistica.
Riccardo Supino

domenica, luglio 15, 2018

venerdì, luglio 13, 2018

INVISIBILI: BEN AND MICKEY VS. THE DEAD / THE BATTERY


Ben and Mickey vs. the dead/The battery
di, Jeremy Gardner
con, Jeremy Gardner, Adam Cronheim, Alana O’Brien, Niels Bolle
genere, horror
USA 2012
durata, 100’


The world drips down like gravy
the thoughts of love so hazy
Everyone’s ideal of fun…
- Dinosaur jr -


Devi rassegnarti al fatto che questa è la tua vita, adesso, dice compassato Ben al più che perplesso Mickey durante un intervallo tra… un’incursione zombie e l’altra. Perché propriamente è questa - al di là della ricerca di un’eventuale originalità stilistica - la cifra espressiva predominante (e per lo più efficace) di un piccolo e, nonostante il tema, scanzonato film come “Ben and Mickey vs. the dead/The battery”, a cura di Jeremy Gardner, regista nonché sceneggiatore e protagonista nei succitati panni di Ben: vale a dire lo studio evenementale ma preciso di particolari aspetti di due caratteri tutt’altro che complementari all’interno di un contesto tanto straordinario quanto in potenza letale, dosando con arguzia e senso dell’umorismo tipicamente yankee registri che contemplano sfumature drammatiche, comiche, intimiste, grottesche, et.

Mickey/Cronheim (esterno laterale in una squadra di baseball minore), tipo di fondo introverso, incline all’autocommiserazione, poco comunicativo e ancor meno partecipe (passa buona parte delle giornate con grosse cuffie alle orecchie, alternando in un lettore portatile - da segnalare la colonna sonora a base di inquiete indolenze e calibrate dissonanze opera di Rock Plaza Central, Wise Blood, Sun Hotel, We are Jeneric - CD che mano mano reperta nelle abitazioni evacuate in tutta fretta nell’imminenza del passaggio delle fameliche orde), reagisce all’insolita precarietà del suo quotidiano blindandosi nell’illusorio romanticismo che presume lo leghi ancora all’ultima conoscenza femminile pre-catastrofe (con ogni probabilità travolta dagli eventi), tra l’altro in via ulteriore alimentato (e, tutto sommato, scientemente frainteso) al momento d’intercettare su un canale radio la voce della misteriosa Annie/O’Brien che lo invita invece e in modo nemmeno tanto sibillino a starle alla larga, traslando in tal modo il personale rifiuto di uno stato-delle-cose che, oltre a spaventarlo nell’intimo, riconosce essere al di sopra delle proprie forze e, soprattutto, del proprio temperamento. 


Al contrario, Ben (catcher di riserva nella medesima formazione), corpulento, gran barbone fulvo, beatlesiano di ferro, pistola alla cintola e mazza regolamentare sempre a portata di mano, stipa il suo di zaino di tutto ciò che può essere utile alla sopravvivenza (apriscatole, posate, una torcia, cordame, una coperta, qualche capo di vestiario rimediato, medicinali di primo soccorso, utensili da lavoro, et.) ma sopra ogni altra cosa adatta con apparente disinvoltura comportamento e temperatura emotiva ai codici d’un pragmatismo tassativo in grado da solo di ridurre qualunque rimostranza a zero, dando l’impressione, allo stesso tempo, d’aver circoscritto con lucidità il campo esperienziale da cui attingere risorse utili per ipotizzare un futuro. Non è un caso, infatti, che durante uno dei tanti soggiorni forzati all’aperto - simile in tutto e per tutto alla più classica vacanza-tra-amici-nei-boschi (ci troviamo negli Stati Uniti nord-orientali, da qualche parte del New England), non fosse che a una svolta, ai margini d’una radura, in un angolo di una casa di primo acchito tranquilla, niente esclude possa fare capolino l’andatura sbilenca e il borbottio ringhiante d’un manipolo di strane creature affamate - Ben sottolinei al compagno, con un qual sardonico distacco, l’unico motivo, a suo dire, che ancora li tiene in vita, tra coloro cioè, a ben vedere, che possono ancor permettersi il lusso (vedi Mickey) di fare l’elenco delle stanchezze e delle privazioni che li tormentano: Sai perché gli squali sopravvivono da oltre 400 milioni di anni ? Perché si muovono, non stanno mai fermi. Noi dobbiamo essere come gli squali, se vogliamo sopravvivere. Quindi non chiedermi dove stiamo andando esattamente. Quello che dobbiamo fare è muoverci, come gli squali.


Se il tema del viaggio figura a buon diritto tra gli archetipi dell’immaginario americano, si può dire con ragionevole approssimazione che quello della coabitazione forzata rappresenta uno dei suoi sottoprodotti di lavorazione di più affidabile utilizzo da parte del comparto dei generi, in particolare quello avventuroso. Anche nel nostro caso, i due protagonisti - lo smilzo e il robusto, l’introverso e il quasi ciarliero, l’indeciso e lo spiccio, et. - a riprova della stretta correlazione esistente nel Cinema a stelle e strisce tra ambiente naturale, equilibrio psicologico dei personaggi e modificazione dei reciproci rapporti interpersonali, inscenano, su uno sfondo orrorifico che si sostanzia per l’appunto più per la presenza d’un paesaggio trionfante nella sua ritrovata irriducibilità primigenia (si pensi, per dire, rimanendo in ambiti simili e recenti, alla di lui accezione brutale sottolineata in “Backcountry” di A. MacDonald - 2014 - a quella metaforico-straniata presente in “The strange ones” di C.Radcliffe/L.Wolkstein - 2017 - o, ancora, a quella falsamente idilliaca in “Les affamès” di R.Aubert - 2017 -) per la pressione costante esercitata dall’esposizione a una minaccia imprevedibile che si riversa pressoché intatta nella nervosa ordinarietà di molte linee di dialogo, che per l’effettiva consistenza dell’insidia zombie (ingegnosamente, quantunque più che altro per motivi legati a mezzi risicatissimi, tarata sull’escamotage originario della deambulazione stentata, ossia ricondotta al ruolo di avversario temibile per numero e per l’elemento sorpresa quanto piuttosto facile da abbattere se affrontata a mo’ di singoli faccia a faccia), una sfiziosa variazione all’interno dello schema narrativo del buddy movie, in cui l’eccezionalità delle circostanze origina sia, in superficie, il contraddittorio, con tutte le gradazioni del sarcasmo e del paradossale; sia, a un livello più profondo, il progressivo rivelarsi dell’indole autentica di ciascun elemento della coppia (quasi estranei, quasi amici) una volta messo a confronto con l’istanza primaria dell’autoconservazione, in un saliscendi emotivo genuino e diretto che è la spezia nascosta del lavoro di Gardner, a sua volta resa ancor più sapida dal lungo assedio finale, durante il quale tanto Ben che Mickey sarà costretto a misurare senza più mediazioni i limiti del proprio agire su quello dell’altro.
TFK

mercoledì, luglio 11, 2018

UNSANE DI STEVE SODERBERGH, L'ULTIMO SOGNO DI UN GRANDE SPERIMENTATORE





Era chiaro fin da principio che a Steven Soderbergh potesse stare stretto l’appellativo di regista. Lo si vide nel 1989 con la vittoria della Palma d’oro del Festival di Cannes, che aprì le porte dell’Europa cinefila alla moda dell’indie americano. In Unsane l’uomo che ne è protagonista riesce a eccitarsi solamente nell’attimo in cui, mdp in mano, intervista le donne disposte a confessargli la propria vita sessuale. La qualcosa, lungi dall’essere il pretesto per mettere in scena un porno d’autore, è già il segno di un cinema in cui al centro della scena non ci sono i personaggi e le loro vicende personali, tanto meno la scabrosità di un contesto sviscerato senza trascendere dal suo coté intellettuale, bensì lo strumento cinematografico (senza la mdp non ci sono rapporti ne piacere) e la riflessione sulle sue (molte) possibilità applicative. Non è un caso se, in una filmografia costruita all’insegna dell’eterogeneità, in cui le tipologie produttive, l’uso dei generi e la fruibilità del prodotto si sono alternate con valenze di segno opposto, a rimanere costante sia stata, appunto, la centralità del medium e la costanza con la quale Soderbergh si è messo nella condizione di aggiornare l’organizzazione del suo dispositivo, adeguandolo ai cambiamenti del progresso tecnologico e della ricezione del prodotto da parte del consumatore. Una sperimentazione che Soderbergh porta avanti con un’assiduità e una scientificità dalle quali deriva certamente la caratteristica maggiormente rintracciabile nei suoi lavori, che è  quella della presenza di un pensiero altro che attraversa la narrazione e che è dato dal costante ripensamento sul mezzo cinematografico e sulla sua ricollocazione all’interno della sua produzione. Una cerebralità, questa, che si fa visibile tanto sul piano estetico, con la confezione di immagini frutto di una perfezione che sfocia in una bellezza quasi algida, quanto nella drammaturgia, il più della volte priva di una forte temperatura emotiva.


Rispetto al discorso di cui sopra, Unsane è un film perfettamente soderberghiano con delle eccezioni (la presenza di un pathos da altre parti sconosciuto e la perfetta sovrapposizione dei sotto testi socio politici all’impianto thriller) in positivo che ne fanno uno dei migliori, se non il migliore, dell’ultimo scorcio di carriera. Se il fatto di essere interamente girato con un IPhone non è una novità assoluta (prima di lui lo hanno fatto tra gli altri Pippo Del Bono e Sean Backer), ma comunque significativa rispetto alle abitudini di un autore uso a disporre delle risorse del mainstream hollywoodiano, a dare senso a tale scelta è la complementarità tra la dimensione di intimità connessa al mezzo di ripresa – normalmente deputato a filmare oltre la soglia del filmabile – e la questione che è al centro dell’opera, ovvero la follia, vera o presunta, di Sawyer Valentini (Claire Foy), obbligata a un soggiorno forzato all’interno di una struttura di igiene mentale che ne ha certificato la patologia.


Ora, in una storia in cui la questione principale è quella di capire se la protagonista sia davvero pazza, e quindi se ciò che accade (per esempio le persecuzioni da parte di uno stalker che la tormenta anche all’interno della casa di cura) esista solo nella sua testa oppure il contrario, o se l’intera faccenda sia il frutto del complotto organizzato dall’ospedale per ottenere i soldi dell’assicurazione sanitaria, cosa c’è di meglio che utilizzare la telecamera di un cellulare, pensata fin dal principio per annullare la distanza tra chi guarda e chi è guardato e per entrare meglio di qualsiasi altra nella testa delle persone?

Ma non basta, perché se la questione posta in essere nella premessa del film è sviluppata alla maniera dei prison movie, con la messinscena dei tentativi attraverso i quali la donna cerca di riappropriarsi della propria vita, escogitando la strategia necessaria a sottrarla dalle grinfie dei suoi “rapitori”, così Unsane, alla pari di Sesso, bugie e videotape, si svincola dalla contingenza della narrazione per diventare (anche) altro. Le rivendicazioni di Sawyer rispetto al diritto di esercitare la propria volontà, così come la capacità di offrire a chi la ascolta diverse versioni della medesima realtà, diventano non solo il manifesto della libertà artistica e produttiva del regista – il marchio di fabbrica da cui non si può prescindere – ma anche la dimostrazione delle sue abilità di demiurgo in grado, come la protagonista, di giocare con lo spettatore facendogli credere che Unsane sia solo un film commerciale, mentre è in realtà l’ultimo sogno di un grande sperimentatore.
Carlo Cerofolini
(pubblicato su taxidrivers.it)


lunedì, luglio 09, 2018

LA FOTO DELLA SETTIMANA

Marcello Mastroianni, Anouk Aimée e Federico Fellini sul set de La dolce vita