mercoledì, luglio 11, 2018

UNSANE DI STEVE SODERBERGH, L'ULTIMO SOGNO DI UN GRANDE SPERIMENTATORE





Era chiaro fin da principio che a Steven Soderbergh potesse stare stretto l’appellativo di regista. Lo si vide nel 1989 con la vittoria della Palma d’oro del Festival di Cannes, che aprì le porte dell’Europa cinefila alla moda dell’indie americano. In Unsane l’uomo che ne è protagonista riesce a eccitarsi solamente nell’attimo in cui, mdp in mano, intervista le donne disposte a confessargli la propria vita sessuale. La qualcosa, lungi dall’essere il pretesto per mettere in scena un porno d’autore, è già il segno di un cinema in cui al centro della scena non ci sono i personaggi e le loro vicende personali, tanto meno la scabrosità di un contesto sviscerato senza trascendere dal suo coté intellettuale, bensì lo strumento cinematografico (senza la mdp non ci sono rapporti ne piacere) e la riflessione sulle sue (molte) possibilità applicative. Non è un caso se, in una filmografia costruita all’insegna dell’eterogeneità, in cui le tipologie produttive, l’uso dei generi e la fruibilità del prodotto si sono alternate con valenze di segno opposto, a rimanere costante sia stata, appunto, la centralità del medium e la costanza con la quale Soderbergh si è messo nella condizione di aggiornare l’organizzazione del suo dispositivo, adeguandolo ai cambiamenti del progresso tecnologico e della ricezione del prodotto da parte del consumatore. Una sperimentazione che Soderbergh porta avanti con un’assiduità e una scientificità dalle quali deriva certamente la caratteristica maggiormente rintracciabile nei suoi lavori, che è  quella della presenza di un pensiero altro che attraversa la narrazione e che è dato dal costante ripensamento sul mezzo cinematografico e sulla sua ricollocazione all’interno della sua produzione. Una cerebralità, questa, che si fa visibile tanto sul piano estetico, con la confezione di immagini frutto di una perfezione che sfocia in una bellezza quasi algida, quanto nella drammaturgia, il più della volte priva di una forte temperatura emotiva.


Rispetto al discorso di cui sopra, Unsane è un film perfettamente soderberghiano con delle eccezioni (la presenza di un pathos da altre parti sconosciuto e la perfetta sovrapposizione dei sotto testi socio politici all’impianto thriller) in positivo che ne fanno uno dei migliori, se non il migliore, dell’ultimo scorcio di carriera. Se il fatto di essere interamente girato con un IPhone non è una novità assoluta (prima di lui lo hanno fatto tra gli altri Pippo Del Bono e Sean Backer), ma comunque significativa rispetto alle abitudini di un autore uso a disporre delle risorse del mainstream hollywoodiano, a dare senso a tale scelta è la complementarità tra la dimensione di intimità connessa al mezzo di ripresa – normalmente deputato a filmare oltre la soglia del filmabile – e la questione che è al centro dell’opera, ovvero la follia, vera o presunta, di Sawyer Valentini (Claire Foy), obbligata a un soggiorno forzato all’interno di una struttura di igiene mentale che ne ha certificato la patologia.


Ora, in una storia in cui la questione principale è quella di capire se la protagonista sia davvero pazza, e quindi se ciò che accade (per esempio le persecuzioni da parte di uno stalker che la tormenta anche all’interno della casa di cura) esista solo nella sua testa oppure il contrario, o se l’intera faccenda sia il frutto del complotto organizzato dall’ospedale per ottenere i soldi dell’assicurazione sanitaria, cosa c’è di meglio che utilizzare la telecamera di un cellulare, pensata fin dal principio per annullare la distanza tra chi guarda e chi è guardato e per entrare meglio di qualsiasi altra nella testa delle persone?

Ma non basta, perché se la questione posta in essere nella premessa del film è sviluppata alla maniera dei prison movie, con la messinscena dei tentativi attraverso i quali la donna cerca di riappropriarsi della propria vita, escogitando la strategia necessaria a sottrarla dalle grinfie dei suoi “rapitori”, così Unsane, alla pari di Sesso, bugie e videotape, si svincola dalla contingenza della narrazione per diventare (anche) altro. Le rivendicazioni di Sawyer rispetto al diritto di esercitare la propria volontà, così come la capacità di offrire a chi la ascolta diverse versioni della medesima realtà, diventano non solo il manifesto della libertà artistica e produttiva del regista – il marchio di fabbrica da cui non si può prescindere – ma anche la dimostrazione delle sue abilità di demiurgo in grado, come la protagonista, di giocare con lo spettatore facendogli credere che Unsane sia solo un film commerciale, mentre è in realtà l’ultimo sogno di un grande sperimentatore.
Carlo Cerofolini
(pubblicato su taxidrivers.it)


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