venerdì, novembre 30, 2018

BOHEMIAN RAPSODY


Bohemian Rapsody

di Dexter Fletcher, Bryan Singer
con Rami Malek, Mike Myers, Aidan Giller
UK, USA, 2017
genere, biografico, drammatico, musicale
durata, 105'



Il film tanto atteso sulla nascita e formazione dello storico gruppo dei “Queen” e soprattutto sulla vita del carismatico front man della band, Freddie Mercury, non è stato pienamente apprezzato dalla critica. Certo, portare sullo schermo tutte le sfaccettature di un personaggio del calibro di Freddie Mercury era tutt’altro che semplice.

Il film inizia mostrandoci quello che precede l’entrata del fatidico concerto umanitario, Live Aid, con lo scopo di ricavare fondi da destinare alle popolazioni dell’Etiopia, colpite da una grave carestia. A questo concerto, al quale parteciparono gli artisti internazionali più importanti, furono presenti anche i Queen, esibitisi al Wembley Stadium di Londra. Ma prima di mostrarci l’esibizione della band, il film ci invita a ripercorrere tutta la storia di questi quattro giovani ragazzi, con focus, naturalmente, sul leader e il modo e il motivo che li hanno portati a diventare delle star internazionali. Veniamo, quindi, catapultati nel 1970 dove incontriamo un Freddie, addetto a sistemare dei bagagli in aeroporto, ma che inizia già a nutrire un interesse e una passione particolare per la musica. Gli si presenta l’occasione quando, in occasione di un concerto di una band in un locale, si propone a due membri del gruppo (batterista e chitarrista), dopo che questi ultimi sono stati scaricati dal cantante. I due membri altri non sono che Brian May e Roger Taylor, ai quali, dopo poco, si unisce il bassista John Deacon. I quattro cominciano la loro scalata verso il successo, grazie soprattutto al grande talento di Freddie. La storia della formazione della band e della nascita delle varie canzoni diventate dei veri e propri must è intervallata dalla storia personale del leader. Una vita ben più che particolare la sua e vissuta intensamente fino alla fine, ma che viene, in parte, attenuata dal film (che si ferma prima della sua morte). Inizialmente il cantante, prima ancora di raggiungere la notorietà, incontra Mary, una giovane ragazza alla quale chiede addirittura, dopo poco, di sposarla. Matrimonio destinato, però, a non avere luogo dal momento che Freddie comincia a nutrire dubbi sulla sua sessualità e li rivela alla giovane, la quale, nonostante tutto, decide comunque di stargli accanto per tutto il resto della sua vita.

In parte grazie alla notorietà ottenuta, in parte grazie al suo innato carisma, Mercury comincia ad attirare le attenzioni di molti, tra questi anche quella del suo manager personale, Paul, che lo porterà a prendere delle decisioni importanti.

Se, come già anticipato precedentemente, riuscire a riprodurre fedelmente tutte le sfaccettature di un personaggio carismatico ed esuberante come il leader dei Queen è quasi praticamente impossibile, si può, però, affermare che Rami Malek, con la sua interpretazione, cerca di fare il possibile per avvicinarsi al cantante e al suo strabiliante modo di porsi nei confronti degli altri e del pubblico.

Un’impresa non da poco, quindi, quella affrontata e portata a termine dai due registi, Bryan Singer e Dexter Fletcher (due perché la fase di produzione di questo film ha vissuto alcune “avventure”) che, sicuramente per chi non conosce i Queen, o sa davvero poco di loro, è una guida ben riuscita. Il film invoglia, senza ombra di dubbio, l’ascolto di tutte quelle hit che hanno fatto la storia della musica. Il poter contare, infatti, su delle canzoni del genere come base di appoggio è, sicuramente, un punto di partenza più che ottimo, sapientemente sfruttato in fase di realizzazione del lungometraggio.

Al di là delle critiche mosse da molti, sia per la non totale aderenza alla realtà dei fatti sia per il non aver scavato a fondo nei personaggi (Freddie in primis), forse ciò che manca maggiormente al film è quel “quid” in più che ha caratterizzato non soltanto la vita del solista o quello della band, ma la vera energia che ha circondato tutto quel periodo che loro hanno reso d’oro. Qualche guizzo in più e qualche eccesso per descrivere il “supereroe” Mercury e la sua “famiglia” non avrebbe guastato.
Veronica Ranocchi

giovedì, novembre 29, 2018

TRA ARTE E SPETTACOLO: IL ROMANZO DELLA VITA NE L'AMICA GENIALE DI SAVERIO COSTANZO DAL FENOMENO EDITORIALE DI ELENA FERRANTE


L'amica geniale
di Saverio Costanzo
genere, serie tv
Italia, 2018
durata, 480'


Che Saverio Costanzo sia uno sperimentatore di linguaggi ne sono testimoni i suoi film, ognuno dei quali è stato pronto a lasciarsi indietro il passato per guardare a nuove forme di espressione e di formato. Se in questo contesto non è il caso di ricordarne i vari passaggi, torna utile citare almeno quello relativo a La solitudine dei numeri primi, in cui la notorietà della fonte letteraria non impedì a Costanzo di tradirne l’ortodossia con una rivisitazione della vicende del romanzo che richiamava non solo il cinema di genere – in particolare quello di matrice horror – ma si nutriva di una sfrenata fantasia citazionista e cinefila. Con un altro film (Hungry Hearts) e una serie televisiva sulle spalle (In Treatment), la direzione de L’amica geniale rappresentava per Costanzo un ulteriore passo in avanti in termini di conoscenza cinematografica, poiché si trattava non solo di confrontarsi con i meccanismi di una produzione ad altissimo budget che, oltre a Wildeside, Fandango, TIMvsion e soprattutto RAI, prevedeva il coinvolgimento di un colosso mediatico come la HBO, in vista della distribuzione della serie, ma anche di individuare gli equilibri che consentono a un autore di ricreare l’opera altrui secondo il proprio occhio, senza metterne a rischio la riconoscibilità presso il suo pubblico di riferimento e, in questo frangente, dei milioni di lettori sparsi in tutto il mondo in qualche modo desiderosi di ritrovare sullo schermo le pagine del libro della Ferrante.


Nel passaggio da un cinema privato e confidenziale a un altro mondano ed esibito, fatto di grandi numeri (150 attori, 5000 comparse, sono quelli che riguardano il cast), oltre che di grandi professionalità, Costanzo adotta una regia attenta a valorizzare lo sforzo scenografico che ha permesso di ricostruire ex novo (ad opera di Giancarlo Basili) il rione della Napoli anni ’50 in cui vivono Lila ed Elena, grazie anche alla fotografia di Fabio Cianchetti, destinato a diventare il grande protagonista di questa prima serie e, più in generale, a fare de L’amica geniale una sorta di ambasciatore di quell’artigianato italiano che in casi come questo coincide con l’arte, anche quando si tratta di montaggio (Francesca Calvelli) e, soprattutto, del casting (Laura Muccino, Sara Casani), cui spettava il non facile compito di dare volto e corpo alle giovanissime protagoniste, impresa riuscita nella maniera in cui il pubblico avrà presto modo di vedere. Una macchina da cinema – perché di questo si tratta, anche se lo si vedrà in televisione – a cui Costanzo conferisce anima e forma esplorando i chiaroscuri dell’animo umano dei suoi personaggi e regalandoci un come eravamo che rende omaggio all’iconografia del neorealismo italiano di cui non mancano omaggi espliciti, come quello che rivisita la scena clou del rosselliniano Roma città aperta. Se anche il giudizio su L’amica geniale non può essere definitivo, perché basato sulle prime tre puntate presentate in anteprima alla stampa, ciò che abbiamo visto fino a questo punto sembra confermare la volontà della rete nazionale di elevare la qualità delle sue produzioni. Da questo osservatorio i lavori sembravo arrivati a buon punto.
Carlo Cerofolini
(pubblicato su taxidrivelrs.it)

martedì, novembre 27, 2018

TROPPA GRAZIA

Troppa grazia
di Gianni Zanasi
con Alba Rohrwacher, Elio Germano, Giuseppe Battiston, Carlotta Natoli
Italia, Grecia, Spagna, 2018
genere, drammatico
durata, 110'


Che Gianni Zanasi sia regista fuori dal comune è un fatto assodato ma che lo siano anche i film da lui realizzati è tutto un altro paio di maniche. Un po' come i personaggi dei suoi lavori il regista di Vignola è abituato a parlare poco e a comparire ancora meno, preferendo che a farlo sia il risultato del suo lavoro e cioè i suoi film, anche questi, come si conviene, centellinati con il contagocce: appena cinque in oltre venti anni di carriera sono un record di parsimonia che per l'appunto fanno di ogni uscita una specie di piccolo grande evento. In realtà, rispetto alle usanze, "Troppa grazia" rappresenta un'eccezione visto che il film arriva sugli schermi italiani dopo essere passato (e aver vinto un premio) alla Quinzaine des Réalisateurs dell'ultimo festival di Cannes e quindi, una volta tanto, facendo leva su un ritorno pubblicitario che in questo caso trova terreno fertile in una materia come quella delle apparizioni mariane antropologicamente connaturate alla natura della nostra storia.

In realtà, pur nel suo tratto distintivo, "Troppa grazia" sembra la naturale prosecuzione del film che lo ha preceduto a cominciare dal titolo - "La felicità è un sistema complesso", il cui significato si addice come meglio non si potrebbe al percorso esistenziale di Lucia (a cui presta corpo e voce una effervescente Alba Rohrwacher), madre di una figlia adolescente e geometra specializzata in rilevamenti catastali, impegnata a barcamenarsi tra la fine della relazione con Arturo (Elio Germano) e i rimorsi di coscienza dovuti alla possibilità di nascondere - per bisogno di soldi - le anomalie presenti sul terreno nel quale dovrà nascere un importante polo immobiliare. A conti fatti, più o meno ciò che capitava all'Enrico Giusti di "La felicità è un sistema complesso", alle prese con una altrettanto dolorosa consapevolezza sulle implicazioni negative poste in essere dalle risultanze del proprio lavoro. E come nel lavoro del 2015, attraversato da un'anarchia che in entrambi i casi si manifesta, da una parte, come critica fatta a se stessi prima ancora che agli altri, rispetto all'accettazione passiva delle storture del sistema capitalistico, una volta di più combattuto anteponendo a quest'ultimo il primato dell'ambiente e la sua salvaguardia; dall'altra, orientandosi a combinare gli aspetti teorici e pratici della questione con una "chiamata alle armi" che nel caso di Lucia - e come vedremo anche di Arturo - si profila come una svolta personale, indispensabile a farle riprendere in mano la propria vita e quella della sua famiglia.


"Troppa grazia" però ha dalla sua il fatto di portare a compimento alcune delle peculiarità emerse in maniera embrionale nell'ultima produzione del regista a partire da una certa propensione al metafisico che, se altrove era stata affrontata più sul piano teorico che materiale (e comunque segnalata dalla presenza di distorsioni visive e accentuazioni cromatiche), qui diventa addirittura apoteosi mistica nel momento in cui il risveglio di Lucia avviene per il tramite della Vergine Maria (la Hadas Yaron di "La sposa promessa" e dello stesso "La felicità è un sistema complesso"), disposta a tutto, anche alle maniere forti (in una delle scene più esilaranti sembra di essere nel bel mezzo del "Fight Club" fincheriano), pur di convincere la donna a contrastare le speculazioni economiche dei suoi datori di lavoro.



Detto che quella di Zanasi non è la manifestazione di una professione religiosa bensì l'ammissione di una religiosità laica (testimoniata dall'umanità anche sgraziata di cui la Vergine si fa portatrice come pure della prosaicità del contesto nel quale Zanasi ce la propone) applicata alla bellezza del creato e, nel caso di Lucia, delle sue creature, "Troppa grazia" legittima la pregnante spiritualità dei personaggi zanasiani, i quali, almeno sul versante dei protagonisti, ci appaiono svuotati dei loro bisogni organici (non a caso, qui come altrove la sessualità è assente anche nel fuori campo) e, sulla scia del modello mariano, rivestiti di pura anima. Una mancanza di fisicità, questa, compensata da un surplus emotivo e sentimentale di cui l'espediente del film è materializzazione drammaturgica e insieme narrativa. In tal senso. la scelta della Rohrwacher appare più che azzeccata non solo per la bravura dell'attrice ma anche per l'eccezionalità di un ruolo che, andando contro l'immaginario dei personaggi da lei interpretati, rende ancora più forte lo straniamento della "commedia" surreale in cui la vediamo coinvolta. La debolezza di qualche nesso logico relativo alle motivazioni della protagonista e, in particolare, di quello che dovrebbe giustificare lo scarto tra l'iniziale scetticismo di Lucia e la successiva adesione alle volontà del sua interlocutrice così come una certa tendenza a divagare nella parte conclusiva della vicenda non diminuiscono la bontà del risultato né l'originalità del cinema di Zanasi.

IL VIZIO DELLA SPERANZA


Il vizio della speranza
di Edoardo De Angelis 
con Pina Turco, Massimiliano Rossi, Marina Confalone
Italia, 2018
genere, drammatico
durata, 90’



Maria ha un cane e una vita travagliata. Ripescata in mare come un rifiuto, è cresciuta segnata da un abuso sessuale che le ha scalfito il volto e privato il ventre della capacità di generare. Figlia di una madre alienata e braccio destro di una protettrice tossicomane, Maria traghetta povere anime sul Volturno, prostitute nigeriane che affittano l'utero per sopravvivere e ingrassare la loro miserabile padrona. Un giorno la fuga di Fatima, che vuole tenere per sé il suo bambino, e la scoperta di una gravidanza inattesa, scuotono Maria dal profondo. 
A Castel Volturno non ci sono più i nomi delle vie. Le targhe sono state cancellate, le strade dissestate, le case sventrate. In questa stazione balneare fantasma, a nord di Napoli, da troppo tempo nessuno raccoglie più la spazzatura, la posta è chiusa, la scuola, la chiesa e il commissariato pure.
A Castel Volturno non c'è più il diritto, non c'è lo Stato. La metà degli abitanti sono clandestini africani che occupano stabilimenti degradati in cui prospera, col traffico di cocaina e la prostituzione, una nuova schiavitù: la maternità surrogata. Una gestazione per altri che mutua le donne in contenitori, privandole della dignità, della libertà, della maternità. 
In questo luogo moribondo, bagnato dal Volturno e infestato da orrore ordinario, Edoardo De Angelis pianta come un fiore la speranza. Al cuore di un décor crudo e dentro giorni che si avvicendano e si assomigliano, c'è Maria, colpevole, complice, vittima. Infinitamente sola, Maria è una marginale, sociale ed esistenziale, che non persegue nessuno progetto di felicità fino al giorno in cui trova nella fuga di una ragazza più disgraziata di lei e nell'incontro con un giostraio l'occasione e l'opportunità di osservare le cose della vita da un angolo diverso. La prospettiva dell'umanità. 


Maria si scopre improvvisamente incinta e sente crescere col ventre il bisogno di essere migliore, di cercare una forma di moralità. Con pudore e discrezione, De Angelis fruga sul volto della sua protagonista, che ha la solidità terrena di Pina Turco e porta a galla la sua anima senza bisogno di ricorrere a colpi di scena, a sentimenti divoranti, a trucchi drammaturgici sfacciati.
Tutto nel film si ripete, come in un giro di giostra, i viaggi, i silenzi, le attese, le angosce, i dialoghi. Non si va mai da nessuna parte ne “Il vizio della speranza”. Si gira a vuoto, scivolando lungo un fiume che sembra essere la cifra stilistica dell'autore e alzare la portata del suo cinema. Un cinema che scorre tra il Volturno (“Indivisibili”, “Il vizio della speranza”), rapido, profondo e torbido e il Sebeto (“Perez”), nascosto, indisturbato, ingoiato dalle viscere. 

Non è un film perfetto, ostinato a sancire come miracolo il mistero della vita. L'epilogo e la chiosa in fondo ai titoli di coda esagerano il concepimento prodigioso di Maria e risultano forzatamente solenni rispetto alle premesse: come se il soggetto imponesse la ridondanza, come se nello sguardo di Maria non ci fosse già tutto il senso del sacro, l'interrogazione e l'umiltà, l'attesa e la disponibilità. La sua ambiguità accentua da sola il carattere potenzialmente spirituale del personaggio senza bisogno di ridursi a riti esteriori. 
L'essenziale non passa per la parola ma per le immagini, che De Angelis bagna di una luce crepuscolare, una penombra fisica e morale che domina il film. Un mondo tra ombra e luce, tra Gaeta e Napoli, indistinto e ritirato in se stesso. Spicchio di America partenopea e utopistica riviera rovesciata in ghetto per gli espulsi della metropoli napoletana, il litorale domizio, già battuto in “Indivisibili”, diventa uno degli elementi essenziali dell'universo figurativo di De Angelis. Una geografia ideale che coglie i cambiamenti più significativi del paesaggio antropologico italiano, sotto un cielo basso e la partitura africana di Enzo Avitabile, che canta l'integrazione e la solidarietà per gli oppressi.
Riccardo Supino

venerdì, novembre 23, 2018

LA BALLATA DI BUSTER SCRUGGS


La ballata di Buster Scruggs
di fratelli Coen
con Tim Blake Nelson, James Franco, Liam Neeson e Tom Waits, 
USA, 2018
genere, western
durata, 132'


Premio Osella alla miglior sceneggiatura alla Mostra del Cinema di Venezia per il nuovo film dei fratelli Coen, “La ballata di Buster Scruggs”.

Si tratta di una sorta di western rivisitato che, più che un film, si potrebbe definire l’insieme di episodi di una serie. Più o meno con ambientazioni simili (che rimandano al contesto western, appunto), ma con personaggi e situazioni completamente diverse. Dal canterino, quanto abile, Buster Scruggs del primo “episodio”, al ladro sfortunato e maldestro del secondo, per passare ad una sorta di cantastorie, a un cercatore d’oro, a una giovane donna in viaggio in una carovana e a cinque uomini a bordo di una diligenza, tutti personaggi tratteggiati abilmente in pochi minuti.

Le vicende sono legate tra loro, oltre che dal filo conduttore del western, dalle pagine di un libro. Una mano sfoglia le pagine di un tomo, dalle quali si vedono delle immagini a colori che prendono vita e delle frasi che cercano, in qualche modo, di riassumere e presentare quello che aspetta il pubblico.

Un film, nel complesso, abbastanza leggero, nel quale aleggiano i caratteri tipici dei due fratelli registi, che si immergono in un contesto diverso dal solito, quello, cioè degli episodi.

Se con i primi due l’intento principale appare forse quello di far sorridere lo spettatore (perché ci sono momenti di vere e proprie risate), con il proseguire della narrazione, questo tipo di atteggiamento va scemando sempre più fino a portare ad una riflessione e a un sorriso amaro. Oltre ad essere una sorta di critica a quello che era (ed è) il genere western e a come le sorti dei vari protagonisti potevano cambiare da un momento all’altro per il più sciocco dei motivi, con “La ballata di Buster Scruggs” si ha quasi l’impressione di essere di fronte a un viaggio nel cinema, specificatamente nel genere sopra citato. Non mancano mai, dall’inizio alla fine della narrazione, elementi che richiamano a determinati autori o a determinati sottogeneri (dallo spaghetti western alla diligenza che rimanda alle opere di Ford, per citarne solo alcuni).


Da evidenziare, poi, anche il particolare titolo scelto dai due registi. “La ballata di Buster Scruggs” fa riferimento solo ed esclusivamente al primo episodio, nel quale, effettivamente, il protagonista è Buster Scruggs, un cowboy canterino che sembra quasi inscenare una sorta di ballata perché, ovunque si trovi, inizia a cantare e giocare con le persone con le quali ha a che fare. Il suo modo di porsi, così canzonatorio, non deve, però, far pensare a un personaggio frivolo e incompetente, anzi. Buster Scruggs si rivela essere, fin da subito, molto abile con le armi che ha a disposizione e, quindi, molto temuto da chiunque. La scelta del titolo probabilmente, però, è legata ad un fattore: quello di fare da collant tra le varie storie presentate. Come in una ballata dell’epoca, quello che ci propongono i Coen è un racconto di vari personaggi con un punto di partenza comune che, però, decidono di cambiare lungo la strada e prendere, di conseguenza, strade diverse.

Dei riusciti spaccati western tragicomici che invitano lo spettatore a interrogarsi soprattutto sulla precarietà della vita. Ultimo appunto da fare, più che al film in sé, è quello relativo alla distribuzione. I Coen hanno scelto Netflix come piattaforma esclusiva, almeno per il momento, per mostrare al grande pubblico il loro prodotto. Scelta azzardata? Uscirà anche nelle sale cinematografiche? Ancora non ci è dato saperlo.
Veronica Ranocchi



mercoledì, novembre 21, 2018

A PRIVATE WAR


A Private War
di Matthew Heineman
con Rosamund Pilker, Jamie Dornan, Stanley Tucci
Gran Bretagna, USA, 2018
genere, biografico, drammatico
durata, 110'


Come esasperazione di partiti contrapposti le guerre sono per forza di cosa destinate  a generare  esempi di segno opposto che non riguardano solo la divisione tra vittime e  carnefici ma anche quella tra coloro che sono pronti a dare la vita per un bene più alto e chi invece è mosso solo dal proprio istinto di sopravvivenza. Affamato di storie fuori dall’ordinario, è scontato che il cinema sia interessato ai primi soprattutto quando la vicende della loro vite assumono le sembianze di un vero e proprio martirologio. Inevitabile dunque che l’arco esistenziale di una figura esemplare come quella della corrispondente di guerra del Sundays Times Marie Colvin non arrivasse prima o poi sullo schermo. 

A portarcela sono in ordine di importanza l’ex documentarista americano Matthew Heineman  e l’attrice inglese Rosamund Pilke, garanti il primo per formazione, la seconda per natura, della caratteristica del film che è quella di non cedere alla convenzionalità di un genere tendente a “santificare” i propri beniamini. Prima di arrivare al momento della dipartita, avvenuta a Homs, la città messa sotto scacco dalle forze dell’Isis “A Private War” ci racconta la Colvin nella sua impossibilità di separare la vita dal lavoro e quindi mostrandola inseguita da un inquietudine che non le dava tregua sia nella vita privata che in quella pubblica, quest’ultima spesa a raccontare i conflitti dalla parte dei più deboli e contro i potenti. Come per i super eroi dei fumetti anche qui a fare la differenza sono le proprie ossessioni e il senso di responsabilità derivato da un grande potere che per la Colvin era quello di mostrare al mondo la guerra nella speranza di riuscire a fermarla. Che non ci sia riuscita è solo un dettaglio, per “A Private War” quello che conta è dare conto della tensione che la spingeva a farlo. 
Carlo Cerofolini 


martedì, novembre 20, 2018

WIDOWS


Widows
di Steve McQueen
con Viola Davis, Michele Rodriguez, Elizabeth Debicki
Gran Bretagna, 2018
genere: thriller - drammatico
durata, 128’



Veronica Rawlins ha una relazione appassionata e sensuale con Harry, che però muore durante un agguato perpetrato ai danni del gangster nero Jamal Manning, che sta cercando di entrare in politica. Jamal vuole soffiare il distretto di Chicago in cui vive alla famiglia Mulligan, la quale lo controlla da sempre; commette, però, un errore: candida il meno esperto Jack, dopo che alcune accuse e l'età hanno reso impresentabile il suo oppressivo padre Tom. Il colpo di Harry finisce non solo in una strage in cui muore tutta la sua banda, ma pure in un incendio che brucia il denaro, tanto che Jamal decide di chiedere un risarcimento a Veronica, cui il marito ha lasciato una bella auto e un lussuoso loft, oltre a una cassetta di sicurezza in cui è nascosto il suo quaderno degli appunti su un prossimo colpo. Veronica decide di realizzare quella rapina e cerca di convincere le altre vedove della banda, Linda Perelli e Alice Gunner, a essere sue complici.

Colmo di intrighi politici e drammi personali, “Widows” ha ricchezza e profondità drammaturgica oltre a uno sguardo spiccatamente autoriale come quello di Steve McQueen, che lascia in più punti le proprie tracce.

Per esempio, già l'incipit giustappone in montaggio alternato la ferocia del colpo, con tanto di sparatoria e corpi crivellati, alla passione a letto tra Veronica e Harry. C'è poi un lungo piano sequenza in cui la macchina da presa è fissata sul cofano dell'auto di Jack Mulligan e si guarda intorno nel passaggio da una zona dismessa di Chicago alla ricca villa di lui, mentre ascoltiamo il dialogo tra Jack e la sua assistente che rimangono però nascosti dietro un vetro nero. Una rappresentazione molto evocativa dell'urbanistica del distretto in cui ha luogo la vicenda. 

Notevoli i primi piani sul predicatore nero, geniale imbonitore di folle interpretato con rara intensità da Jon Michael Hill. Anche nelle scene di violenza, perpetrate per lo più dal fratello di Jamal, il feroce e psicopatico Jatemme, c'è un'esibizione di sadismo raggelante, 

Tratto da una miniserie televisiva inglese di Lynda La Plante del 1983, “Widows” è ricco di materiale narrativo, tanto da reggere senza problemi le oltre due ore di durata. L'adattamento è firmato da Gillian Flynn, scrittrice ora ricercatissima a Hollywood che aveva adattato per David Fincher il proprio romanzo “L'amore bugiardo - Gone Girl” e ha firmato il libro da cui è stata tratta la miniserie “Sharp Objects”. L'azione viene spostata da Londra a Chicago e il cast si fa etnicamente molto più diversificato, tanto che l'unica a restare bianca tra le vedove è Alice, che comunque qui è figlia di un'immigrata. Linda è diventata latina e Veronica è nera con tanto di taglio di capelli afro, così come l'autista del gruppo che era l'unica nera anche nella miniserie originale. 

L'etnia ha un ruolo importante perché “Widows” lentamente si rivela essere un film sulla convivenza impossibile tra gruppi di persone che sono trattate in modo radicalmente diverso dal sistema. È dunque un'opera fortemente politica, oltre che di genere, d'autore e d'intrattenimento al tempo stesso.
McQueen fa un ottimo lavoro nella direzione del cast, tanto che tutti, dalle tre protagoniste fino agli ultimi comprimari, risultano umani e credibili, delineati anche se presenti in pochissime scene, come nel caso della quarta vedova, interpretata da Carrie Coon, o il vecchio Tom Mulligan, feroce e razzista, con il volto del grande Robert Duvall. Interessante, poi, il controcasting di Michelle Rodriguez, che veste i panni della vedova che non sa sparare e guida come una donna normale, mentre la delicata Alicia (Elizabeth Debicki) attraversa una radicale trasformazione, divenendo vera e propria pari della dura Veronica, la carismatica Viola Davis. Incredibilmente incisiva è poi Cynthia Erivo nei panni di Belle, sorta di working class anti-hero, indomabile e agile come una pantera, lascia il segno e la si sarebbe voluta vedere di più. 
McQueen imbastisce con dovizia di dettagli un intrigo tra crimine e politica, congiungendo questi elementi lentamente ma in modo credibile e articolato; inoltre, pur incorporando il colpo di scena più eccessivo della miniserie originale, trova il modo di dargli un senso e farne il momento catartico della sua protagonista.
Riccardo Supino

domenica, novembre 18, 2018

NON DIMENTICARMI - DON'T FORGET ME


Non dimenticarmi
di Ram Nehari.
con Moon Shavit e Nitai Gvirtz
Israele, 2017
Drammatico
durata, 87'



Difficile descrivere in poche parole che cos’è “Non dimenticarmi”. Un ecosistema che un secondo sembra essere una brillante commedia che affronta con ironia un tema difficile come i disturbi alimentari, mentre il secondo dopo assume tutti i caratteri tipici di un racconto drammatico e malinconico. Gli abitanti di questo mondo sono personaggi ben ideati ed inseriti in un contesto globale dove il confine fra pazzia e una cinica forma di genialità è quanto mai sottile.Pluripremiato al Torino Film Festival lo scorso anno, il film di Ram Nehari è una bomba, una pellicola non convenzionale dove prevedere cosa accadrà nella scena successiva è praticamente impossibile.

Per capire che non sarà il solito racconto bastano giusto un paio di minuti: inquadratura fissa sul corridoio asettico di un centro per i disturbi alimentari, un’inserviente russa che canticchia strani stornelli popolari e che come un sergente alle prese con il proprio plotone entra nelle varie stanze per svegliare le pazienti-detenute, chiedendo loro se nella notte avevano avuto a che fare con disturbi intestinali o con i primi segnali di un ciclo mestruale che mancava ormai da diverso tempo.A risponde “sì” a quest’ultima domanda - unica di tutto il centro - è Tom (Moon Shavit), ragazza in ossessione con la moda e con la linea; per sua stessa ammissione, mangiare è la cosa più schifosa che gli possa capitare durante la giornata.

A stravolgere la monotona routine della giovane è Neil (Nitai Gvirtz), suonatore di Tuba alle prese con qualche disturbo mentale e con un amico musicista dalle poco chiare intenzioni. I due sembrano essere destinati a conoscersi, e quando lui fa visita al centro di lei mentre accompagna la fidanzata del suo amico - attrice impegnata in un evento benefico alla clinica – c’è qualcosa che scatta dentro di loro. Ancora non sanno però che proprio quell’incrocio di sguardi sarà l’inizio del loro viaggio insieme fra evasioni, promesse di matrimonio e sogni infranti.

Un film piacevole dai ritmi ben scanditi, dove è evidente l’ottimo lavoro svolto dal regista e dallo sceneggiatore, capaci di dare la giusta storia ed il giusto spazio ai vari personaggi che compaiono nella pellicola. Le scena finale poi è il successo di quello che è stato il racconto: un uomo che canta a piedi nudi imbracciando la chitarra in un centro di assistenza, ed i protagonisti fermi a pochi centimetri da lui con lo sguardo nel vuoto, isolati dal mondo esterno. Perché infondo, parafrasando le strofe della canzone, “nessuno di noi è un leone…siamo più simili a cavalli zoppi”.
Lorenzo Governatori

RED ZONE - 22 MIGLIA DI FUOCO


Red Zone - 22 miglia di fuoco
di Peter Berg
con Mark Wahlberg, Iko Uwais
USA, 2018
genere, drammatico
durata, 



La Red Zone, una squadra speciale, ha il compito di proteggere un importante informatore in possesso di segreti che potrebbero essere in grado di sventare alcuni attacchi terroristici e, quindi, salvare l’intero globo. Le 22 miglia del titolo rappresentano la distanza che il protagonista, James Silva, agente della CIA, insieme alla sua squadra, deve percorrere per scortare il testimone in questione. Percorrendo queste 22 miglia, il giovane verrà portato all’aeroporto pronto per essere imbarcato e messo al sicuro, insieme alle informazioni che possiede. Chiaramente il viaggio sarà molto più complesso del previsto e gli uomini di Silva dovranno fronteggiare numerose e pericolose insidie che si frappongono tra loro e l’obiettivo finale.

Con quest’opera torna dietro la macchina da presa Peter Berg, regista dedito a film di guerra e d’azione, che realizza un lungometraggio un po’ caotico, con molte informazioni, spesso non adeguatamente connesse tra loro.

Fin dall’inizio lo spettatore si ritrova davanti a fatti compiuti senza comprenderne fino in fondo il motivo. La macchina da presa che si incolla costantemente ai personaggi non permette di entrare in totale sintonia con loro, ma sembra come spiarli, a tal punto che, inizialmente, non si riesce bene a capire da che parte stare. Non c’è solo la telecamera di Berg, ma ci sono anche quelle nascoste dei vari personaggi. E tutto questo coincidere (e non) di punti di vista non fa altro che mescolare le carte in tavola e rendere la comprensione più difficile. Non a caso il regista inserisce una sorta di spiegazione riassuntiva che fa pronunciare al personaggio di John Malkovich per riepilogare quanto mostrato nei minuti precedenti, ma anche questo stratagemma appare frettoloso e non totalmente capace di unire i vari elementi e tirarne le somme. Probabilmente uno dei motivi è l’assenza di qualcosa. Sembra quasi che manchino dei tasselli per permettere allo spettatore di capire a fondo la vicenda e i personaggi stessi, dei quali sappiamo relativamente poco. Appaiono tutti come molto arrabbiati e, talvolta, violenti a causa di un difficile background solamente accennato.

L’intento di Peter Berg è quello di realizzare un film d’azione che tenga il pubblico incollato allo schermo per tutta la durata della vicenda, pur non avendo una solida e consistente trama alle spalle. L’intrattenimento e il puro divertimento nel vedere come avviene questo trasferimento e come i protagonisti cercano di sventare tutti gli ostacoli e i pericoli che si pongono loro davanti è la chiave con la quale approcciarsi a “Red Zone”.

Forse il messaggio che il regista vuol far passare (e anche il punto di vista dal quale osservare e analizzare quest’opera) è una sorta di critica a quella che è la società contemporanea, o meglio a quello che si può definire come il nemico di questa stessa società. Un nemico che non è più unico e facilmente individuabile, ma un qualcosa di nascosto, subdolo e camaleontico, impossibile da gestire né tantomeno prevedere e eventualmente tamponare con il dovuto anticipo.
Veronica Ranocchi




LA FOTO DELLA SETTIMANA

Il colonnello Fakhir Berwari in un momento di The Deminer di Hogir Hirori, Shimwar Kamal (co - director)  Svezia, 2018

FESTIVAL DEI POPOLI: THE DEMINER


The Deminer
di Hogir Hirori, Shimwar Kamal (co - director)
Svezia, 2018
genere, drammatico
durata, 83'




La prima giornata della 59esima edizione del Festival dei popoli di Firenze inizia col botto. Quella che a prima vista sembrerebbe un’affermazione scritta per attirare l’attenzione del lettore risulta invero appropriata al protagonista di The Deminer, essendo lo stesso incaricato di disattivare ordigni esplosivi per conto dei contingenti in cui viene impiegato. Il colonnello curdo Fakhir Berwari ne è così esperto da costituire una risorsa per il suo paese e per quelli a esso confinanti. Di supporto alla coalizione internazionale guidata dagli Stati Uniti, Fakhir partecipa dapprima alla guerra del Golfo durante la fase di stabilizzazione seguita alla morte di Saddam Hussein poi, nelle file dell’esercito Peshmerga, alle operazioni contro le forze dell’ISIS di stanza a Mosul. Descritta in questo modo la vicenda del protagonista, per quanto straordinaria, non sarebbe diversa da quella di  milioni di soldati che hanno fatto del cosiddetto “mestiere delle armi” una parte importante della propria vita. E qui veniamo a uno dei motivi di interesse del documentario, conseguente alla maniera in cui Fakhir si pone di fronte alle responsabilità del proprio incarico, assunta fino al punto di mettere a rischio la propria vita per salvare quelle degli altri.


Lo scenario in cui egli opera non è, infatti, quello classico, individuato dall’esibizione di potenza tipica del fronte della battaglia bensì il suo lascito, rappresentato dai luoghi della vita familiare e quotidiana in cui la guerra una volta finita continua a mietere vittime a causa delle mine disseminate nei luoghi di passaggio e dentro le case della popolazione. A colpire, dunque, non è solo lo sprezzo del pericolo con cui il protagonista affronta i rischi connessi alla sue mansioni ma, soprattutto, lo spirito di abnegazione destinato a non venire meno anche di fronte a incidenti e dolorose menomazioni, come la perdita della gamba subita in una dei tanti attentati con cui la parte avversa ha cercato di fermarne l’azione. Se poi, dai contenuti ci si sposta sul piano della resa cinematografica, l’appeal di The Deminer è destinato a salire per la capacità di esprimere ai massimi livelli le possibilità narrative e linguistiche della settima arte. I registi Hogir Hirori e Shinwar Kamal (qui in veste di co-director) si rendono  artefici di un’operazione per certi versi simili a quelle fatte da Herzog in Grizzly Man e da Laura Poitras in Citizen Four: da una parte, infatti, la ricostruzione della vicenda del protagonista avviene attraverso il montaggio della collezione di filmati con cui Berwari riprendeva le sue missioni, dall’altro, la messinscena del materiale audio visivo – integrata da ulteriori riprese effettuate sui luoghi degli eventi e alla famiglia del protagonista – è tale da essere di per sé un vero è proprio war movie, la cui drammaturgia e tensione risultano moltiplicate non solo dal fatto di essere un’esperienza accaduta nella realtà, ma anche per una forma in grado di superare il cinema di finzione nel suo stesso campo, producendo un pathos e un coinvolgimento (dati dal fatto che ogni istante del girato potrebbe risultare l’ultimo per l’esistenza del protagonista) che nessun thriller o action movie sono in grado di raggiungere.

Proprio come capitava con il capodopera della Poitras, dal quale però quello dei registi curdi si distacca per il fatto di rappresentare uno scenario primordiale in cui la “santità” del protagonista è tale da regalare all’orrore della guerra un briciolo di umanità. Le immagini del colonnello pronto a disinnescare gli ordigni utilizzando un paio di pinze da casa e, più in generale, la natura stessa del materiale visivo a lui riferito – caratterizzato da un approccio lontano anni luce dall’esasperazione tecnologica propria del cinema contemporaneo -, risultano tanto più vere quanto più forte lo è stato il rischio corso dagli assistenti del protagonista per realizzarle. Ciò che scorre davanti ai nostri occhi non è solo il resoconto di una vita straordinaria, ma anche l’incontro con una purezza di sguardo che commuove e lascia sgomenti. Onore dunque agli organizzatori del festival che ci hanno permesso di vederlo in una cornice artistica e organizzativa all’altezza della situazione.
Carlo Cerofolini
(pubblicato su taxidrivers.it)

venerdì, novembre 16, 2018

ANIMALI FANTASTICI - I CRIMINI DI GRINDELWALD


Animali fanstici - I crimini di Grindenwald
di David Yates
con  Eddie Redmayne, Katherine Waterston, Dan Fogler, Johnny Depp, Jude Law
Stat Uniti, Regno Unito, 2018
genere, avventura, fantastico
durata, 134'




Che sia vera o meno la notizia per cui la serie di Animali fantastici troverà modo di svilupparsi oltre le puntate di una normale trilogia avvicinando l’epopea potteriana con ben cinque episodi, poco importa. Alla pari delle opere seconde, anche il recente capitolo di questa saga cinematografica si dimostra il più delicato e complesso da gestire vista la responsabilità’ di non alienarsi i favori del pubblico con variazioni tali da cambiare gli ingredienti del prodotto. 

Anche in questo caso, i produttori per andare sul sicuro mettono in scena un  copione blindato, costruito all’insegna del tanto-rumore-per-nulla in cui basta inserire qualche new entry spendibile sul più bello per far passare in secondo piano l’immobilita delle pedine principali. 
Certo, a essere onesti, qualche cambiamento importante c’e stato, se è vero che, a parte l’acquisto di Jude Law nel ruolo di Albus Silente e di Johnny Depp al posto di Colin Farrell in quello del cattivo Gellert Grindelwald, l’unico in grado di competere per importanza e visibilità con i paladini del bene, per raccontare i “crimini di Grindelwald” il film scava nel passato facendo luce (in parte) sulle origini dei personaggi e sui motivi della loro adesione al bene o al male. A conti fatti, il tutto si rivela poca cosa, e il tratto più sostanzioso della vicenda non sta nella biografia dei personaggi ma nel cambiamento di tono che attutisce gli elementi della commedia per privilegiare accenti più cupi e drammatico, tali da far sembrare Newt Scamander e soci più maturi e meno giocherelloni. E ciò anche per una minore incidenza narrativa della fantastica fauna della serie. La godibiliità del prodotto, unita alla regia conservativa, sono tali da farci credere che al film non mancheranno le conferme dai botteghini dell’interno pianeta.  
Carlo Cerofolini


martedì, novembre 13, 2018

TUTTI LO SANNO


Tutti lo sanno 
di Asghar Farhadi
con Penélope Cruz, 
Spagna-Francia, 2018
Genere: drammatico
durata, 130’

Laura ritorna nel paese della sua infanzia per partecipare al matrimonio della sorella. Lasciata anni prima la Spagna per l'Argentina, si è sposata con un uomo che non ama più e ha due figli che ama sopra ogni cosa. Nella provincia della Rioja, con gli affetti più cari, ritrova Paco, amico di gioventù e compagno per una stagione. L'accoglienza è calorosa, il matrimonio da favola, i festeggiamenti esultanti, i gomiti alzati; la gioia, però, lascia improvvisamente il posto alla disperazione. La figlia di Laura viene rapita. Una sparizione che fa cadere le maschere in famiglia e in piazza, dove 'tutti sanno'.

Cambiamento di lingua (spagnolo), di genere (noir) e di attori (Javier Bardem e Penélope Cruz) per il regista iraniano Asghar Farhadi, che esce dai sentieri battuti, restando, però,  fedele al suo universo e ai suoi temi (il sospetto, la colpa, le crepe familiari).

“Tutti lo sanno” gravita intorno a una relazione privilegiata, consumata in un passato non tanto lontano. Un amore che cova ancora il fuoco, due iniziali incise sul muro di un campanile da due adolescenti persuasi di aver trovato l’anima gemella. Se il campanile è quello hitchcockiano de “La donna che visse due volte”, che evoca un romanticismo inscindibile dal crimine, la relazione mai finita è quella tra Paco e Laura, amici d'infanzia che sono stati innamorati, che sono stati una coppia. 

Concentrati di drammi intimi, i film di Farhadi dimostrano come un evento imprevisto possa rivelare a ciascuno le proprie debolezze, e come, in quella circostanza, le cose non dette, i segreti troppo a lungo custoditi disorientino fino a sconvolgere le relazioni. Nei suoi racconti morali tutti hanno torto e allo stesso tempo ragione. Ciascuno giudica sulla base dei propri criteri personali, gettando sul mondo e sull'altro uno sguardo che resta parziale, soggettivo, ridotto. 

“ Tutti lo sanno” osserva dall'alto di un campanile e di un drone una cascata di menzogne e di piccoli accomodamenti morali, trasformando un décor a cielo aperto in un labirinto angosciante. Nella Spagna rurale e nelle vigne contese tra transazioni sentimentali, giuridiche ed economiche, l'autore dispiega una suspense che indugia su un'importante somma di denaro che deve essere raccolta in poche ore.

Farhadi si prende tutto il tempo per recuperarla e per sviluppare la sua ricerca con scarti un po' forzati e pause esplicative che frequentano i cliché sulla Spagna (sole, vino, fiesta, carattere caliente) che Almodóvar riesce sempre a scansare. Un altro problema è l'esposizione interminabile dei fatti. Tuttavia, a Farhadi, con la complicità dei suoi attori, riescono comunque passaggi di grande cinema, come la disputa esacerbata tra Paco e la sua compagna, alle cui spalle prospera incurante e rigogliosa la vigna per cui si è tanto battuto e che adesso permuta con la vita e con la donna dei suoi sogni. 
Riesce anche a insinuare in uno scambio di sguardi il potenziale avvelenato di una tragedia greca. Ammainando il loro statuto di star, Javier Bardem e Penélope Cruz interpretano febbrilmente tutti i rimorsi, tutto il rammarico, tutte le ombre, i dubbi e l'inquietudine morale dei loro personaggi, sprofondati in una notte senza corrente e dentro un dramma in cui l'eccitazione del ritrovarsi cede il passo alla recrudescenza dei rancori. Secondo esperimento europeo per Asghar Farhadi, dopo la Francia de “Il passato”, che guadagna in competenza tecnica quello che perde in originalità.
Riccardo Supino