giovedì, novembre 30, 2017

RICCARDO VA ALL'INFERNO


Riccardo va all'inferno
di Roberta Torre
con Massimo Ranieri, Sonia Bergamasco
Italia, 2017
genere, drammatico, musicale
durata, 

Che quella di “Riccardo va all’inferno” sia una rivisitazione molto personale del celebre  monarca shakesperiano lo si vede già dalla scelta del titolo in cui Roberta Torre dimostra di volere fare suo il testo, riscrivendolo secondo nuove coordinate narrative. Ma non finisce qui, perché suggerendo lo spirito ludico che attraverserà la tragedia del protagonista la Torre arriva al paradosso, lasciando presuppone che la destinazione finale di Riccardo Mancini (un irriconoscibile Massimo Ranieri) sia diversa da quella di partenza, e quindi che il suo passaggio dalla vita alla morte sia il confronto di due antipodi esistenziali e non la certificazione di uno stato di fatto che in realtà non è mai cambiato. Così se il movimento c’è all’interno del film non è certo quello del personaggio interpretato da Massimo Ranieri, condannato fin dalla fanciullezza a un trapasso che dapprima assume le sembianze del riformatorio in cui è rinchiuso per una delitto mai commesso e poi si materializza con le segrete dove una volta libero viene ricacciato dalla dispotica regina madre. Una condizione, questa, non estranea al resto dei personaggi il cui decadimento fisico è possibile cogliere attraverso la staticità motoria dei loro corpi e la rigidità delle maschere che ne stravolgono la faccia. 



Tutto è già morto in “Riccardo va all’inferno” tranne la sua forma, ancora più dei precedenti(“Riccardo III” diretto da Richard Loncraine), mutuata mettendo insieme tradizione e modernità, teatro e cinema in un orizzonte cinematografico che al solito la regista costruisce su opposti culturali e sull’importanza della musica chiamata anche qui -  grazie alle musiche di Amedeo Pagani e alla voce di Massimo Ranieri - a fare da traino al carosello di colori, costumi ed eccentriche trasfigurazioni pensate dall’autrice. 


La quale, mettendo alla berlina il potere e i suoi lacchè (vedasi la scena della parata in cui a sfilare sono tra gli altri i capi stato delle maggiori super potenze), grottescamente rappresentati dal fantastico regno della famiglia Mancini, ubicato dalle parti del tiburtino terzo, quartiere periferico della città capitolina, altro non fa che esorcizzare la paura contemporanea nei confronti di chi amministra le nostre vite. Detto che Roberta Torre propone soluzioni visive e una confezione visiva davvero rare nel panorama del nostro cinema e che le performance musicali di Pagani e Ranieri costituiscono un unicum artistico difficilmente replicabile, ciò che difetta in “Riccardo va all’inferno” è la tendenza a specchiarsi nella propria bellezza estetica, dimenticandosi che oltre agli occhi esiste anche il cuore. Pur non avendo le competenze specifiche per provarlo azzardiamo che una delle ragioni potrebbe risiedere nella scelta di sporcare il testo shakesperiano con espressioni gergali tratte dal linguaggio contemporaneo che finiscono per disinnescarne la forza.    
Carlo Cerofolini

LA LUCIDA FOLLIA DI MARCO FERRERI

La lucida follia di Marco Ferreri
di Anselma Dell'Olio
Italia, 2017
genere, documentario
durata, 77'


Non è un caso se Marco Ferreri nell’ultima parte della sua esistenza avesse deciso di abitare a Parigi, lontano dal paese nel quale era nato e a stretto contatto con quella che, nel corso degli anni, era diventata la sua famiglia cinematografica. Non era un tipo facile il regista milanese e non lo erano neanche i suoi film, sempre avanti rispetto ai tempi, e, di conseguenza, sempre oggetto di fraintendimento e di scandalo.

Al contrario, come spesso succede ai grandi irregolari, Ferreri era capito e stimato come pochi da chi, per lavoro, lo aveva conosciuto da vicino, apprezzandone le qualità artistiche e anche umane. Quindi da quegli attori, soprattutto stranieri che frequentarono i set dei suoi film più famosi e contestati, quale fu quello de  “La grande abbuffata”, in cui il regista riunì attorno a se il gruppo di fedelissimi costituito da Marcello Mastroianni, Michel Piccoli, Philippe Noiret e Ugo Tognazzi, vertice di un pantheon attoriale dove più tardi trovarono posto tra gli altri, Isabelle Huppert, Hanna Shygulla, è ancora, tra gli italiani, Roberto Benigni e Sergio Castellitto, cavalli di razza disposti a tutto pur di condividere l’universo filmico del corpacciuto regista. 


Bene ha fatto Anselma Dell’Olio che, nel mettersi sulle tracce del cineasta lombardo, ha dato vita a una sorta di transfert cinematografico capace di restituire Ferreri con sguardo quantomai fedele ai tratti più comuni della sua personalità. Assecondando tale punto di vista “La lucida follia di Marco Ferreri” risulta un’opera più cosmopolita che italiana, occupata per la maggior parte da conversazioni effettuate in lingua francese, e intesa soprattutto a riscoprire - attraverso una selezione ragionata di materiale d’archivio e spezzoni dei suoi film - Ferreri e la sua opera, al di fuori della cornice critico celebrativa normalmente presente in questo tipo di operazioni. In tal senso il film della Dell’Olio si mantiene in linea con il temperamento del regista, il quale - come si vede negli inserti delle rare interviste rilasciate- poco amava le  speculazioni riservate ai suoi lavori da parte dei critici di professione, non per niente rappresentati nel film dal solo Serge Toubiana, estimatore ante litteram del nostro. Rispettandone la riservatezza e senza oltrepassare la soglia che trasforma la Storia in aneddoto “La lucida follia di Marco Ferreri” restituisce la complessità di Ferreri e della sua opera con una competenza che in parte gli deriva dal valore delle voci messe in campo, in parte, dal rigore del dispositivo messo a punto dalla Dell’Olio. Insomma un occasione da non perdere, soprattutto per i giovani appassionati ai quali non farebbe male scoprire la filmografia del cineasta lombardo. 
Carlo Cerofolini

LE ANTEPRIME DE ICINEMANIACI: HAPPY END DI MICHAEL HANEKE

Happy End
di Michael Haneke
con Jean louis Trintignant, Isabelle Huppert, Mathieu Kassovitz, Fantine Hardoui
Francia, 2017
genere, drammatico
durata, 110'


In un’epoca in cui le visioni cinematografiche si susseguono senza lasciare spazio a un minimo di riflessione i film di Michael Haneke mantengono intatti i riti collettivi collegati alla usufruizione dell’opera filmica. Quasi che l’austerità e il rigore del regista austriaco finisse per spaventare lo spettatore, obbligandolo a uniformarsi alle tempistiche del suo cinema. Le quali in “Happy End” non riguardano solamente il rapporto tra tempo e immagine ma contemplano pure la relazione tra l’intreccio e la sua logica, quest’ultima ricercata quando si tratta, come in questo caso, di trovare un denominatore alle azioni poste in essere dai molti personaggi che entrano ed escono dalle inquadrature. 


A tal proposito possiamo aggiungere che la frammentazione narrativa è ciò di cui si accorge primariamente lo spettatore di “Happy End”, sbalzato com’è da un personaggio all’altro e soprattutto da un’ azione all’altra secondo un disegno che Haneke si premura di nascondere sotto la quotidianità decadente e banale di una facoltosa famiglia della borghesia francese di stanza a Calais. Se l’andamento continuamente interrotto e il carosello dei punti di vista agevola il depistaggio del regista, la discontinuità con cui procede il film potrebbe essere il modo - invero efficace - con cui l’autore fa “a pezzi”  i legami famigliari e il bon ton attraverso il quale soprattutto gli adulti cercano di coprire egoismo e anaffettività. La cattiveria si fa strada con il passare dei minuti alla pari delle rivelazioni che portano a galla inquietanti segreti ma a differenza di altre volte la violenza - più psicologica che materiale - assume toni beffardi per arrivare al concitato finale in cui la drammaticità del momento è resa con pose da slapstick comedy. Più che una svolta nel cinema di Haneke “Happy End” potrebbe esserne al massimo una variazione sul tema, tanto più rinnovata è la fede nell’apparato teorico che lo sostiene e, nella fattispecie, nella capacità delle immagini di portare a galla menzogne e infingimenti (attraverso il cellulare della giovane Eve e nel pc di suo padre, interpretato da Mathieu Kassovits). 


Haneke continua a dirci che è lì e non agli uomini che bisogna rivolgersi se si vuole guardare in faccia la verità del mondo. Questa volta però l’affermazione non riesce come altre volte a entrare in dialettica con il fuori campo rappresentato dagli immigrati dei campi profughi di Calais, chiamati con la loro problematica esistenza a fare da contraltare a quella piena di possibilità che viene  offerta al consesso famigliare guidato da un disincantato e stanco J Louis Trintignant, patriarca dell’inquietante sodalizio. I discorsi sull’Europa in via d’estinzione - superata dal coraggioso vitalismo dei più bisognosi - sono supportati da figure simboliche (per esempio il contrappasso della scena finale in cui il mare diventa testimone e insieme presagio di ciò che verrà) non così efficaci nel trasfigurare la contingenza delle immagini. Da qui la sensazione di aver assistito a un episodio meno nobile della straordinaria filmografia del grande cineasta. 

mercoledì, novembre 29, 2017

HOME VIDEO - SPIDERMAN: HOMECOMING



Finalmente in Digital HD dal 31 Ottobre 2017
Da domani in DVD, Blu-ray, Blu-ray 3D e 4K Ultra HD   
con Universal Pictures Home Entertainment Italia

Con oltre 60 minuti di fantastici contenuti extra, tra cui scene eliminate, blooper e featurette dietro-le-quinte!

Spiderman: homecoming 
di Jon Watts
con Tom Holland, Marisa Tomei, Zendaya Coleman
USA, 2017 
genere, fantastico
durata: 133’ 

Peter Parker non riesce a scrollarsi di dosso la forte emozione provata nella sua esperienza con gli Avengers in Captain America: Civil War, l'aver conosciuto Tony Stark e avere mantenuto con lui un rapporto speciale, tanto da avere un contatto diretto attraverso il suo assistente Happy Hogan e da aver ricevuto in dono un super-costume. Peter è così innamorato dell'idea di diventare un Avenger da lasciar scivolare in secondo piano anche la ragazza che gli fa battere il cuore, la bella Liz, per andare dietro ai criminali e mostrarsi pronto per la posizione in squadra. Le cose però non vanno come previsto, perché il suo avversario, l'Avvoltoio, una squadra ce l'ha e opera in modo organizzato e all'occorrenza spietato, motivato dalla rabbia per un grande e onesto affare che proprio gli Avengers gli hanno "sottratto". L'entusiasmo di Peter Parker per il suo ruolo da Spider-Man è contagioso grazie al trasporto di Tom Holland e al contrasto tra la sua vita in costume e la routine scolastica, ma la smania di crescere porta spesso a commettere degli errori. Una morale semplice, che ha il pregio di riportare con i piedi per terra il Marvel Cinematic Universe dove tra dei, re, androidi e avventurieri dello spazio si scivola di film in film nel più puro escapismo. Jon Watts, regista e sceneggiatore, guarda dichiaratamente alle commedie liceali anni 80 di John Hughes: l'Homecoming è infatti una festa americana che, nella sua declinazione scolastica, celebra il ritorno, per esempio, da una trasferta sportiva. In questo caso si tratta di un decathlon culturale, cui partecipa una squadra della scuola di Peter, che dal Queens viaggia fino a Washington. 



Al calendario scolastico, con feste, lezioni e gite, si alternano e a volte si sovrappongono le sue avventure da Spider-Man, che prendono una piega pericolosa quando il giovane eroe si imbatte in alcuni ladri dotati di tecnologia aliena. Cercando di risalire alla fonte e fermare il problema finisce dritto tra gli artigli dell'Avvoltoio, interpretato da Michael Keaton. Un cattivo tra i più riusciti visti finora nei film Marvel, anche se non arriva alla grandezza del Dr. Octopus di Spider-Man 2, perché la trama deve coprire troppe situazioni e scene d'azione e non gli dà modo di essere approfondito a dovere. Ciò nonostante è facile simpatizzare con le ragioni per cui si è dato al crimine e lo stesso vale per i suoi aiutanti, solo abbozzati nella personalità ma che si sono trovati ingiustamente disoccupati da un giorno all'altro. Watts ha fatto l'impossibile per mettere Spider-Man in situazioni in cui non l'abbiamo mai visto, evitando categoricamente i grattacieli di Manhattan e facendolo correre tra i parchi e le villette dei sobborghi, oppure costringendolo a scalare una struttura solitaria come l'obelisco di Washington, o ancora facendolo combattere su un grande traghetto in mezzo al mare o addirittura ad alta quota, su un aereo. 



Soprattutto però “Spider-Man: Homecoming”, come tipico dei titoli Marvel-Disney, è un film di scrittura, che all'azione fonde, e spesso preferisce, la commedia: anche qui Watts fa un ottimo lavoro sui tempi comici e la direzione dei giovani attori. Oltre a Tom Holland, abbiamo Jacob Batalon nei panni di Ned, l'amico nerd, Laura Harrier in quelli di Liz e Zendaya nelle vesti trasandate dell'eccentrica e intelligente Michelle, che ha alcune delle battute più divertenti. Ovviamente poi Robert Downey Jr. è assoluto mattatore, con l'istrionismo e l'energia che hanno fatto di Tony Stark uno dei personaggi cinematografici più amati dell'ultimo decennio. Un po' sacrificata, invece, Marisa Tomei nei panni di Zia May, ma il finale promette di darle un ruolo più attivo nei prossimi film. Tutto questo fa di “Spider-Man: Homecoming” un film indubbiamente riuscito, divertente e capace di dare un senso al terzo rilancio del personaggio, in cui l'unica nota che lascia un retrogusto spiacevole è il legame con il resto del Marvel Universe. Per quanto sia bene integrata, la fascinazione per gli Avengers finisce per sembrare una sorta di spot per gli altri film Marvel. Inoltre, dare a Spider-Man un costume con tanto di intelligenza artificiale e infiniti gadget è, da un canto, un modo per rinfrescare il personaggio, dall'altro, però, porta via tempo prezioso, che avrebbe potuto valorizzare il cuore umano della vicenda. Il finale evita uno dei difetti di molti Marvel movies e la scena dopo i titoli di coda, sulla musica dei Ramones, gioca di autoironia, strappando un'ultima risata prima che si accendano le luci. 
Riccardo Supino

ASSASSINIO SULL'ORIENT EXPRESS

Assassinio sull’Orient Express
di, Kenneth Branagh
con, Johnny Depp, Michelle Pfeiffer, Judi Dench, Josh Gad, William Dafoe, Kenneth Branagh, Penelope Cruz
USA, 2017
genere, Thriller
durata, 114’

Non chiamatelo Poirot. Del resto Kenneth Branagh forse lo sapeva che, per superare il confronto con il film diretto nel 1974 da Sidney Lumet e con l’immagine del Poirot per eccellenza incarnata successivamente da David Suchet, doveva portate sul piatto del cinema qualcosa di nuovo.
Il suo “Assassinio sull’Orient Express” ripercorre l’indagine più famosa del detective belga nato dalla penna di Agatha Christie in un modo che, nonostante l’ambientazione, appare inequivocabilmente contemporaneo.
L’investigatore grassoccio dall’indimenticabile testa a uovo lascia il posto a un Hercule Poirot (Kenneth Branagh) atletico e piacente che, se non fosse per gli enormi baffi, sembra strizzare l’occhio più a Sherlock Holmes che al personaggio della scrittrice britannica.
Branagh è consapevole di non poter privare il suo detective del sagace umorismo e dell’acuta genialità con cui la Christie lo aveva dipinto, ma ne fa un personaggio più vicino all’uomo comune. Ne fa un genio stanco che si sente obbligato a non gettare la spugna ma che, allo stesso tempo, vacilla di fronte a ciò che vive e muta le proprie convinzioni. Il mondo smette di essere ai suoi occhi irrimediabilmente diviso tra bianco o nero. Poirot e noi insieme a lui scopriamo quella temibile zona grigia dove il confine tra bene e male si fa labile e dove i valori di giusto e sbagliato non sono più così definiti. Questo fa del detective un personaggio in divenire distante da quell’ometto iconico che tutti conosciamo.

Un personaggio dinamico.  Come dinamico è il motore registico.
Le indagini seguono puntualmente la trama originale, ma Branagh ci introduce alla storia con un episodio inedito. Sfrutta il valore aggiunto di un cast di rispetto che vede viaggiare sui vagoni del treno Penelope Cruz, Willem Dafoe, Judi Dench, Johnny Depp, Michelle Pfeiffer, Daisy Ridley e Josh Gad. Sceglie di dare ampio respiro all’ambientazione, stemperando il senso di asfissia delle cabine dell’Orient Express con ampie riprese panoramiche che seguono il treno nel suo viaggio in mezzo ai paesaggi di una natura mozzafiato. 
Alla fine della corsa, si ha la certezza di quanto si era immaginato fin dalla prima scena: e cioè di essere davanti a un “Assassinio sull’Orient-Express” diverso dal passato. Il film di Branagh omaggia una storia intramontabile e, insieme, se ne allontana. Il suo Poirot guarda alle origini di uno degli investigatori più famosi dell’immaginario collettivo e, allo stesso tempo (un po’ a malincuore per gli amanti del personaggio originale), ne rappresenta una nuova immagine in linea con i tempi.
Forse proprio per questo sapore di novità “Assassinio sull’Orient-Express”, se anche non ha saputo dar vita a un capolavoro, è una pellicola capace di regalare momenti di intrattenimento leggero che, senza pretese, si lascia guardare con piacere.
Valeria Gaetano

martedì, novembre 28, 2017

DO IT RIGHT

Do it right
regia di Chad Chenouga
con Yolande Moreau, Jisca Kalvanda, Khaled Alouach, Laurent Xu, 
Francia 2017
genere, drammatico
durata 98'


‘’De toutes mes forces’’ (titolo originale) racconta la triste adolescenza di Nassim un ragazzo di 16 anni. Le prime scene del film mostrano il protagonista sereno e spensierato come tutti i suoi coetanei, infatti, Nassim frequenta, con una buona media voti, un liceo privato parigino avente un’ottima reputazione e ha amici molto benestanti all’apparenza cordiali e simpatici. Il ragazzo, però, al rientro di un felice weekend trascorso con i compagni di scuola è funestato dalla precoce morte della madre. La mamma soffriva di una grave forma di depressione, derivata in parte dalla tossicodipendenza che ormai da anni la coinvolgeva. La vita ricca, gioiosa e felice di Nassim viene stravolta e poiché non conosce suo padre e non ha alcun tipo di rapporto con i parenti più intimi è affidato a una casa famiglia gestita da Madame Cousin. Le giornate in comunità trascorrono, in maniera, assai differente rispetto ai giorni a cui era abituato Nassim, la struttura, difatti, ospita, soprattutto, ragazzi di periferia, che hanno un passato criminale difficile e, in un primo tempo, denigrano atrocemente il protagonista. Nassim, inizialmente, cerca di nascondere il suo enorme dolore fingendo con gli amici che dopo la morte della madre non sia cambiato nulla e tende a rifiutare l’aiuto dei conoscenti. Tuttavia le settimane trascorrono e quel lutto così insormontabile fa cambiare il carattere di Nassim. Infatti, inizia a diventare amico dei ragazzi che abitano con lui nella casa famiglia e si distacca lentamente dal gruppo di compagni di scuola, arrivando, persino, ad incendiare l’ufficio della comunità che conteneva il fascicolo con il triste trascorso della madre. 

Il protagonista è, quindi, diviso tra due vite: quella vecchia nella quale sono presenti i compagni di scuola, l’importante liceo e l’abitazione in centro città e quella nuova composta da amici delinquenti e dai rischi che la periferia sa procurare. ‘’Do it right’’ ha meritato numerosi premi e, ultimamente, è stato vincitore della sezione +16 al Giffoni Film Festival. Il regista Chad Chenouga, in occasione della presentazione ha rivelato che il film è autobiografico e infine, in maniera commovente, ha dedicato la pellicola alla madre. Ho apprezzato, molto questo film, poiché è in grado di emozionare lo spettatore in maniera profonda e duratura. La compostezza di Nassim nell’affrontare il dolore richiama l’attenzione più di qualsiasi pianto trascendentale. Chenouga, infatti, non mostrando scene patetiche o eccessivamente drammatiche riesce a mostrare egregiamente la disarmante tristezza che prova il cuore del protagonista. Il film cela in sé anche una morale giusta e vera, infatti, insegna al telespettatore che basta un solo istante fatale per stravolgere la nostra vita, ciò nonostante, riusciamo in parte ad essere solo noi gli artefici del nostro destino. ‘’Do it right’’, a mio parere, è una pellicola ottimamente riuscita anche sotto l’aspetto tecnico, poiché il regista aiutato da un bravo direttore della fotografia (Thomas Bataille) regala stupende inquadrature di diverse categorie, dai primi piani ai particolari, dai piani americani alle figure intere, anche i campi sono stupefacenti, ho apprezzato, in particolare, quelli medi e i lunghi, ho anche gradito molto le inquadrature soggettive.

Lucrezia Romussi

lunedì, novembre 27, 2017

GLI SDRAIATI

Gli sdraiati 
di Francesca Archibugi
con Claudio Bisio, Gaddo Bacchini, Cochi Ponzoni
Italia, 2017
genere, commedia
durata, 103’

Il libro di Michele Serra non era uno sguardo sprezzante e semplicistico su una generazione vista dall'alto di un pigro imborghesimento, al contrario era un figlio che parlava con sincerità un po' spiazzante e un po' commovente dell'essere padre, del senso di impotenza e di inadeguatezza di fronte al ruolo paterno di una generazione che ha lottato contro i propri genitori, contro le loro regole, ma anche contro il loro mondo. Senza sapere, però, sostituirle con altre altrettanto valide, nell'illusione che la pedagogia democratica fatta di dialogo e psicologi potesse sostituire in tutto e per tutto l'autorità e qualche sberla ben assestata al momento giusto, e lasciando in eredità ai figli un mondo complicato e privo di riferimenti, che i ragazzi affrontano come meglio possono.
Era, insomma, non un atto d'accusa, ma una sorta di ironica e leggera autoanalisi da parte di chi si trova di fronte a quella soglia sempre un po' inquietante che, superata, farà abbandonare per sempre l'illusione della giovinezza eterna e addentrare nell'irto bosco della vecchiaia.

Chiunque abbia letto il libro, avrà capito, forse, che per Francesca Archibugi e il suo co-sceneggiatore Francesco Piccolo non sarebbe stato affatto facile tradurre tutto questo in immagini, in una storia tradizionale; tanto più che quello di Serra è un volumetto di poco più di cento pagine, scritto come una sorta di monologo interiore. Non sorprende, quindi, che "Gli sdraiati" al cinema si sia arricchito di personaggi, situazioni e punti di vista: senza per fortuna tradire mai quello del libro, che è rimasto centrale.


Insieme al personaggio del padre, diventato il giornalista televisivo Giorgio Selva, interpretato da Claudio Bisio, e quello del figlio "sdraiato" Tito, nel film della Archibugi ci sono allora una ex moglie, una ex amante e una, di amante, possibile e futura. Anche un ex suocero che è diventato un amico per Giorgio, ed è un nonno comprensivo e complice per Tito.
Ci sono poi gli amici di Tito, una comitiva legatissima e caotica, che rischia di disgregarsi quando Tito trova nella dark Alice qualcosa di più di una compagna di scuola.

Tanti personaggi, tante storie, tanti temi. Forse troppi. Forse la storyline della ex amante di Giorgio, pur funzionale a ragionamenti sulla paternità e sulla sincerità nella comunicazione, è tirata troppo per i capelli e con un epilogo vagamente mélo che si poteva evitare. Anche la vicenda dell'ex suocero Cochi Ponzoni, a tratti, appare leggermente superflua, mentre troppo poco spazio ha avuto quella della barista della RAI di Barbara Ronchi, molto brava e seducente, che sarebbe la possibile nuova compagna di Giorgio.

In mezzo a tutto questo, a queste piccole diluizioni non sempre riuscite, in mezzo a scelte di regia non sempre azzeccatissime, “Gli sdraiati” regala momenti di grande verità: sia quando a esserne protagonista è Bisio, e allora i temi e le questioni sono quelli di Serra, dei padri che non sanno che pesci pigliare, sospesi tra sensi di colpa e scatti d'ira, sia quando il ritratto è quello dell'adolescenza di Tito, fatta di spine tirate fuori a sproposito, di menefreghismo, ma anche di tanta fragilità e di tanto bisogno di affetto, di primi amori, di gelosie amicali, di equilibri di gruppo difficili da rispettare.

Nella storia di Tito, nella sua lotta contro la sua adolescenza e il resto del mondo, riemerge la Francesca Archibugi di “Mignon”, la sua capacità di lavorare con gli attori: ed è chiaro che, se c'è inevitabilmente lo zampino di Serra in quanto di buono e di vero c'è nel personaggio di Bisio, nei suoi turbamenti la regista e Piccolo danno il meglio di sè.
Riccardo Supino

AMERICAN ASSASSIN

American Assassin
di Michael Cuesta
con Dylan O'Brien, Michael Keaton, Taylor Kitsch
USA, 2017
genere, thriller, azione
durata, 112'


Una delle cose più divertenti da fare quando si guarda un prodotto del cinema mainstream è cercare di cogliere i nessi esistenti tra le pratiche, i valori e, soprattutto, i sentimenti appartenenti a un determinato gruppo sociale, nonché la materia narrativa su cui il film è stato costruito. Detto che, in generale, si tratta di una cosa abbastanza facile da rilevare, a patto di volerci dedicare un minimo di attenzione, la questione diventa interessante quando al centro della scena c'è la trasposizione di uno stato d'animo che risponde ai bisogni di un'intera nazione. "American Assassin" di Michael Cuesta ce ne propone un esempio che potrebbe essere addirittura paradigmatico rispetto alle conseguenze di ciò che è successo in America a partire dalla tragedia dell'11 settembre. A tal proposito, l'incipit del film non lascia dubbi su quale sia il contesto umano e ambientale nel quale si svolgerà il resto della storia, né sulla tipologia del punto di vista con il quale il regista si rivolge alle vicissitudini dei personaggi e, in particolare, a quelle così drammatiche che riguardano il giovane protagonista. Nella prima sequenza - ambientata nella spiaggia di un resort mediorientale - assistiamo dunque all'attentato di un commando di terroristi islamici durante il quale Mitch Rapp è testimone impotente dell'uccisione della fidanzata. In quelle successive, dal tenore fortemente introspettivo, prendiamo atto di come l'elaborazione del lutto abbia trasformato il ragazzo in una sorta di giustiziere determinato a uccidere i responsabili dell'omicidio e pronto a combattere il resto della Jihad.



Alla luce di quanto appena scritto, "American Assassin" non è un semplice revenge movie ma, per il fatto di ricongiungersi - idealmente - al sangue americano versato a Ground Zero, diventa espressione di qualcosa che si colloca a metà strada tra il richiamo ancestrale verso una violenza coincidente con l'atto stesso di fondazione del paese e la necessità di far passare un'idea di sicurezza confermata dall'efficacia con cui Mitch riesce a scovare e poi eliminare i suoi antagonisti. Da questo punto di vista, "American Assassin" conferma i pregiudizi di certa critica che guarda a questo tipo di prodotto come a un'estensione della macchina propagandistica messa in piedi dal governo americano e perciò intriso di una retorica conservatrice. In realtà, pur nella sua propensione a una spettacolarità priva di scrupoli, quando si tratta di utilizzare le persone come sagome per il tiro al bersaglio, Cuesta dà il meglio di sé infilandosi senza indulgenze nelle falle del sistema. Con la variante - rispetto al sottovalutato "Kill the Messenger" - che, operando all'interno di un film destinato al grande pubblico, la messa in discussione dell'integrità morale dell'eroe e di chi gli sta accanto avviene con cautela per non perdere la fiducia dello spettatore. 



Così, se da un lato il rapporto tra Mitch e Stan Hurley (Michael Keaton), l'istruttore chiamato ad addestrarlo quando il ragazzo viene reclutato dalla CIA, procede sui binari dell'ordinaria amministrazione cinematografica e sulla reciproca stima (dissimulata a fin di bene dal secondo) tra le parti in causa, dall'altro "American Assassin" mette continuamente a repentaglio il presupposto della violenza giusta e morale che di solito permette ai buoni di essere giustificati anche quando compiono le azioni più efferate. Se si guarda alla motivazione dei vari personaggi, si potrà constatare che al centro della questione non c'è l'amor di patria, né gli ideali di giustizia e libertà altre volte sbandierati, ma ragioni che rispondono a questioni strettamente personali e che, per quanto riguarda Mitch e il suo principale avversario (Ghost, interpretato da Taylor Kitsch), sono la risposta a una devianza di natura patologica. È in questo ribaltamento di prospettive che "American Assassin" riesce a farsi interprete dell'inconscio della nazione e delle sue paure più profonde, mostrandole nelle facce stralunate e nervose degli interpreti e sulla emaciata vulnerabilità di corpi lontani anni luce da quelli anabolizzati in dote alla maggior parte dei loro colleghi. In tal senso, risalta la scelta di un attore come come Dylan O'Brien ("Maze Runner"), coinvolto in prima persona nelle performance ginniche del suo personaggio, eppure capace di conservare lo stupore di chi non riesce a credere a ciò che sta accadendo. Una peculiarità che fa il paio con quella più amena riguardante il dettaglio delle location, e con la scelta di ambientare nel complesso di Corviale a Roma una parte del film, quella in cui a un certo punto ritroviamo il laboratorio dove viene assemblato un potente ordigno nucleare.
Carlo Cerofolini
(pubblicata su ondacinema.it)

sabato, novembre 25, 2017

GRAMIGNA

Gramigna
di Sebastiano Rizzo
con Gianluca Di Gennaro, Teresa Saponangelo, Biagio Izzo
Italia, 2016
genere, drammatico
durata, 93


Non avevamo mancato di farlo notare quando, parlando di Malarazza, sottolineavamo l’esistenza di un cinema che, pur uscito dall’alveo della più  recente crime fiction italiana, si asteneva dalla tentazione di imitarne l’iconografia malavitosa e soprattutto di esaltare lo stile di vita e le azioni dei protagonisti. Analogo discorso può essere fatto per Gramigna, opera seconda di Sebastiano Rizzo che ribalta il darwinismo sociale degli inevitabili modelli di paragone forniti da serie come Gomorra e Suburra, scegliendo di raccontare un percorso umano opposto a quelli tracciati in questo tipo di storie. Il protagonista del film è infatti il figlio di un boss che si rifiuta di seguire le orme del padre, condannato all’ergastolo per i crimini commessi in qualità di capo del sodalizio camorrista. Ispirato a una storia vera, bisogna dire che Gramigna porta avanti il suo assunto con coerenza e senza fare l’errore di mostrare – anche solo come contraltare alle azioni di Luigi – quello che sarebbe il piatto forte di questo genere di film, ovvero la violenza scatenata dalla lotta per la conquista e il mantenimento del potere. Ciò che non succede sul piano dell’action accade in Gramigna dal punto di vista dei sentimenti, laddove a farla da padrone non sono le sparatorie e gli inseguimenti, ma piuttosto i tormenti e le difficoltà legate alla resistenza dell’ambiente rispetto alle scelte del protagonista.


Se la scelta di alternare la detenzione di Luigi – accusato di un reato mai commesso – con i flashback volti a ricostruire il percorso esistenziale che lo ha portato fino a quel punto serve per amplificare le emozioni messe in campo nel corso della vicenda, va da sé che Gramigna si attesti sui toni di un melodramma famigliare in cui i luoghi e le figure tipiche del filone gangsteristico rimangono dietro le quinte, detronizzate dall’accorato e doloroso percorso d’emancipazione del giovane protagonista. Rizzo dirige con un punto di vista esterno alla vicenda, ottenendo il massimo quando si tratta di mettere a punto la cornice del film – non a caso confezionata in modo impeccabile-, perdendo qualcosa, nel momento in cui bisognerebbe entrare dentro la testa dei personaggi per giustificare comportamenti che a volte sembrano scaturire senza gli adeguati presupposti psicologici. Bravi gli attori, tra cui vale la pena citare Teresa Saponangelo, nel ruolo della madre di Luigi, e Gianluca Di Gennaro, in quello del protagonista.
Carlo Cerofolini
(pubblicato su taxidriver.it)

venerdì, novembre 24, 2017

EGON SCHIELE:TOD UND MADCHEN

Egon Schiele: Tod und Mädchen
di, Dieter Berner
con, Noah Saavedra, Maresi Riegner, Valerie Pachner, Marie Jung, Cornelius Obonya, Fanny Berner
Austria, 2016
genere, biograficodurata, 110’



Il segmento di tempo racchiuso tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX - cullato dal sogno dolce della Belle Epoque, come a breve turbato dal terribile risveglio nella Prima Guerra Mondiale - ha segnato l’eclisse definitiva dell’Europa come continente faro della Civiltà, crogiolo d’utopie e sperimentazioni, laboratorio per scenari futuri di prosperità e convivenza, consegnandosi alla Storia nella foggia d’una sorta di fantasmagorico cupio dissolvi, di spensierata e poi tetra agonia. Tra i possibili modi d’approssimare le coordinate di questa parentesi tanto febbrile quanto funesta, c’è anche l’azzardo d’identificarne gli estremi (ossia i valori) con due punti precisi nella cronologia del dibattito culturale: il 1872, anno della pubblicazione della Nascita della tragedia di Nietzsche e il 1920, quando appare Al di là del principio di piacere di Freud. Ciò perché tali testi, pur partendo da intuizioni in ambiti diversi, giungono insieme a circostanziare con chiarezza anticipatrice alcuni aspetti fondamentali (e contraddittori) d’un cinquantennio scarso assai gravido di conseguenze, capace cioè d’influenzare nel profondo il percorso esistenziale (e quindi il linguaggio eventualmente utilizzato per esprimerlo) di chi s’è trovato a viverlo non solo come spettatore ignaro. Uno di questi testimoni esemplari chiamato a farsi interprete delle ambiguità implicite in ogni transizione travagliata, nonché esempio vivente delle traiettorie inedite e non di rado sconcertanti tracciate o sottese alle opere sopraccitate (le istanze finalizzate alla ricerca d’un’armonia superiore spesso in dialogo conflittuale con le pulsioni più arcaiche dell’animo che spingono verso un’adesione immediata, cioè priva di filtri, al flusso dell’energia vitale; la consapevolezza - conseguente alla constatazione per cui alla genesi d’ogni atto significativo concorrono spinte e motivazioni di varia natura destinate a rimanere per la gran parte sconosciute - che la personalità è un insieme multiforme e sfumato e perciò stesso grembo ideale per la nevrosi, la cui tendenza a ripetersi e ad amplificarsi nell’esperienza svela via via il lato oscuro del dissidio interiore nel desiderio-di-morte come esortazione irresistibile al ricongiungimento con l’inorganico, et.), è di certo Egon Schiele, pittore originario di Tulln, in Bassa Austria, epitome stessa d’un mondo che, come accennato, sarebbe andato consumando i propri ansiosi entusiasmi (la fascinazione per la macchina, per dire; la malìa esotica del viaggio; la fiducia cieca nel domani immaginato a mo’ di dilatazione esponenziale dell’oggi) con la voluttà morbosa di chi indugia incurante su un abisso.


Ebbene, di questa tensione, certo densa d’implicazioni, non s’avverte che una pallida eco nella presente opera di Berner, concepita come un illustrativo viaggio a ritroso nell’ultimo decennio vissuto dall’artista secondo la rievocazione affidata al racconto della sorella minore Gertrude/Riegner - detta Gertie - e centrata per lo più sul di lui rapporto, ora professionale, ora sentimentale, col variegato universo femminile che ne contrassegnò la vicenda. Nel solco del romanzo Tod und Mädchen: Egon Schiele und die Frauen, di Hilde Berger, da cui il film trae spunto, rimandando a sua volta a una famosa tela del ’15, osserviamo così, al passo d’un incedere tanto diligente quanto prossimo all’inerzia televisiva, l’Egon ventenne/Saavedra, figlio ribelle d’una famiglia borghese ridotta sul lastrico da un gesto irresponsabile del padre funzionario delle regie ferrovie, rifiutare l’accademia e ipotizzare, insieme a uno sparuto gruppo di sodali, nella bohème viennese del tempo, l’avvento di artisti nuovi (il Neukunstgruppe), alternando sedute di pittura (alla cui esecuzione si prestano come modelle spesso senza veli la stessa Gertie e uno stuolo di giovani provenienti dal, all’epoca, fiorente mondo dell’avanspettacolo - contraltare anticonformista e libertino al retrivo codice imperiale -) a soggiorni in bolletta trascorsi a Kurmau o a Neulengbach in cui la mdp tratteggia (introducendo fuggevolmente anche Klimt/Obonya, maestro rispettato ma presto tradito, ma soprattutto Wally Neuzil/Pachner, musa e amante di una vita, figura tragicamente legata a filo doppio agli estri e agli opportunismi di Egon), con una leggerezza sovente simile all’inconsistenza, il carico di suggestioni e d’intuizioni che sarebbero confluiti in una ricerca cromatica e contenutistica volta a cogliere il paesaggio naturale e quello umano (in specie sguardi su paesi e porzioni di città; un certo numero di ritratti nelle celebri pose attorte, entrambi restituiti con linee sottili quanto nervose) in quell’inquieta ambivalenza fra trasporto indifeso, fanciullesco, quasi, nei confronti del mondo e della sua sensualità, e angoscioso sentore d’un’ineluttabile degradazione che già allude, nei toni e nell’accumularsi delle varianti, all’epifania d’una sensibilità compiutamente espressionista. Prevale, in altri termini, la rappresentazione d’una aneddotica del quotidiano utilizzata come palcoscenico principale degli eventi sul quale, di tanto in tanto, far balenare l’urgenza pittorica pronta, in ogni caso, tra gli alti e bassi vissuti con Wally e le subitanee rappacificazioni celebrate con Gertie nel frattempo divenuta giovane sposa, a uscir di scena non appena le esigenze della cronaca impongono l’immediatezza della loro evidenza (pensiamo, e siamo alla primavera del ’12, al processo per molestie e abusi su minori - la quattordicenne Tatiana von Mossig/Berner - dal quale Egon esce con un proscioglimento e una condanna accessoria perviolazione dell’ordine morale - allora stigma non meno infamante - con tanto di distruzione in aula di un disegno osceno).


Altrettanto incerta e come sacrificata a una qual logica catalogatrice e riepilogativa del contesto amoroso (imperniato, peraltro, su una direttrice drammaturgica e psicologica che non si discosta mai troppo dalla dicotomia di base che contrappone ma pure suggerisce affinità tra l’irruenza, la volubilità del genio e l’irriducibile vitalismo femminile) appare la dimensione prettamente artigianale del fare artistico, che passava (e passa tuttora) attraverso la stratificazione di saperi diversi e complementari e qui viene riassunta per brevi sequenze in cui seguiamo Schiele scegliere e ritagliare tessuti per la confezione di abiti da affidare alle modelle e quindi ritrarre o impastare, sciogliere e mescolare grumi e polveri per ottenente gradazioni personalizzate di colore, tralasciando, di conseguenza, in un anodino progredire narrativo, eccezion fatta per sporadiche e protocollari smodatezze, il lato inquieto e introspettivo dell’uomo, il suo disagio (caratteri evidenti tanto nei rari scorci urbani - riflessi diretti, a ben vedere, d’un contrasto intimo mai risolto tra desiderio di stabilità e percezione costante d’un inarrestabile processo di disfacimento - quanto negli atteggiamenti assunti dai soggetti in numerose delle sue proibite fughe in avanti - in genere disegni e acquerelli giocati su ragazzine proletarie colte sul crinale dell’adolescenza che fanno della loro magrezza esibita e un po’ malata la corazza sprezzante da opporre a un’esistenza precocemente ingrata -), in realtà dato privato elevato a cifra stilistica originalissima, leva espressiva che avrebbe concorso, tra l’altro, alla definitiva emancipazione dalla già torbida classicità decorativa klimtiana e avrebbe finito, nella beffarda riscoperta postuma, per identificarlo (Schiele muore durante il propagarsi dell’influenza spagnola in Europa, il 31 Ottobre 1918, otto mesi e passa dopo la scomparsa del vecchio mentore Klimt), col dolente e inascoltato presagio tessuto quadro dopo quadro attorno a una modernità al contrario sempre più persuasa d’aver intrapreso il cammino trionfale verso un’affermazione indiscussa e a suo modo pacificatrice, mentre, in un’acquiescenza pressoché unanime, non faceva che facilitare la perversa inesorabilità ciclica delle tragedie a venire.
TFK

giovedì, novembre 23, 2017

DETROIT

Detroit
di Kathryn Bigelow
con Will Poulter, Hannah Murray, Jack Reynor, John Boyega, Anthony Mackie
USA, 2017
genere, storico, drammatico
durata, 143'



Vittima di una stampa avversa che, soprattutto in Europa, non ha perso occasione per criticare il suo cinema, considerato reazionario e in qualche modo vicino, se non fautore, delle politiche della destra repubblicana, il caso Bigelow dimostra come i ricorsi storici servano a poco di fronte alla miopia del pensiero fazioso. In proporzione minore ma con eguale meccanismo, ciò che sta capitando alla regista americana ricorda quanto è successo a Clint Eastwood, riabilitato solo in tarda età dopo anni di ostracismo artistico. Il discorso si capisce meglio dopo aver visto "Detroit", film ispirato alle violente rivolte che sconvolsero la città del Michigan nel 1967, poiché la scelta di portare sullo schermo uno degli episodi più emblematici dell'ingiustizia sociale e della strisciante discriminazione operata nei confronti della comunità afro americana ribalta di colpo gli stereotipi affibbiati alla regista. Al di là di questo, "Detroit" almeno dal punto di vista formale prosegue sulla strada di un cinema che scende in campo e si confronta in un corpo a corpo all'ultimo sangue con la materia del reale. Il prologo della vicenda, oltre a essere una delle parti migliori dell'opera, ci permette di entrare nel dettaglio di un dispositivo che si situa più avanti rispetto a quelli utilizzati prima in "The Hurt Locker" e poi in "Zero Dark Thirty".
Nelle sequenze incriminate, assistiamo in rapida successione al divenire dei fatti che fanno di Detroit lo scenario di una guerriglia urbana senza precedenti, con esercito e forze di polizia impegnate nel tentativo di ristabilire l'ordine. Per raccontare l'antefatto, che porta lo spettatore alla notte del massacro perpetrato da tre agenti nei confronti degli ospiti di un albergo della città nel corso del quale persero la vita tre ragazzi di colore, la Bigelow si affida agli strumenti del cinema documentario, moltiplicando i punti di vista e filmando in prima linea il corso degli eventi. Ma c'è di più, perché radicalizzando il discorso già visto nei due film precedenti la regista sfugge alle regole del cinema classico evitando di fare dei personaggi il centro catalizzatore della vista dello spettatore. Al contrario, in questa prima fase, il film sembra recalcitrare all'idea di fornire informazioni più precise su quelli che saranno le colonne portanti della narrazione, sostituite dall'azione devastante dalle migliaia di sconosciuti che si riversano nelle strade mettendo a ferro e a fuoco la città. Esemplare in questo senso, la sequenza in cui la Bigelow ci mostra l'inseguimento in macchina e poi a piedi (uno dei must della regista americana) di una pattuglia di poliziotti che tenta di fermare uno dei tanti che hanno appena saccheggiato un negozio. 

Dopo una serie di depistaggi, la parentesi concessa al fuggitivo e la presenza di qualche primo piano, si lascia credere - ma non è così - che costui possa essere parte integrante del progetto che invece lascia lo spettatore con un palmo di naso sconfessando le intuizioni che gli aveva suggerito. Una tendenza, questa, che la Bigelow persegue per tutta la durata del film, anche quando il campo d'azione della telecamera smette di rastrellare la topografia della città rinchiudendosi all'interno dell'edificio che ospita il massacro. Un passaggio, quello dei carnefici che approfittano delle circostanze per sfogare i retaggi della propria ignoranza, destinato a costituire la parte centrale della storia, forse la più importante per la maniera con cui l'autrice riesce a conciliare la sua capacità di fare spettacolo con la necessità di rimanere all'interno di un alveo proprio del cinema civile in cui l'esposizione del sangue non deve superare il rispetto dei fatti e delle persone che ne sono state vittime. Ciò detto, "Detroit" rimane comunque - e, diciamo noi, per fortuna - un film della cineasta, e quindi un'opera/prodotto che si presta a una lettura più semplificata, rivolta a quella larga fetta di appassionati abituati ad abbassare le difese della ragione, privilegiando l'adrenalina tipica degli action thriller e, nello stesso tempo, vicina a coloro interessati ai contenuti intesi come chiave di lettura della realtà contemporanea. Destinato ad allungare le fila dei titoli anti-Trump, "Detroit" è il risultato di un lavoro calcolato al millimetro, tale da accontentarsi di una correttezza politica che finisce per amplificare uno stile per certi versi già diventato maniera. Per tale ragione, il rischio o il vantaggio del film sarà quello di essere sopravvalutato o denigrato a seconda dei casi.
Carlo Cerofolini
(pubblicata su ondacinema.it)