lunedì, ottobre 30, 2017

FESTA DEL CINEMA DI ROMA: LAST FLAG FLYING


Last Flag Flying
di Richard Liklater
con Steve Carell, Bryan Cranston e Laurence Fishburne
USA, 2017
genere, drammatico
durata, 124'


La notizia non era tanto di sapere che Richard Linklater sarebbe tornato sul set quanto piuttosto che "Last Flag Flying" avrebbe rappresentato il seguito de "L'ultima corveè", film simbolo della Nuova Hollywood diretto dal grande e molto compianto Hal Ashby A confermare le indiscrezioni c'era soprattutto il fatto che la sceneggiatura scritta dallo stesso regista era stata ispirata dall'omonimo libro di quel Darryl Ponicsan che aveva fornito il testo letterario utilizzato a suo tempo da Ashby. Al termine della proiezione possiamo dire che le anticipazioni sono state confermate solo a metà. "Last Flag Flying", infatti, non riprende né gli avvenimenti né i personaggi incarnati da Jack Nicholson, Otis Young e Randy Quaid. Allo stesso tempo le biografie di quelli interpretati da Steve Carell, Bryan Cranston e Laurence Fishburne, il loro modo di relazionarsi e soprattuto la circostanze che li costringono a stare assieme sono molto simili al film del 1973. Anche in questo caso infatti c'è di mezzo l'esercito e la sua sporca guerra (allora era il Vietnam, qui l'Iraq) e come allora è un viaggio senza ritorno a mettere in circolo il mix di dramma e commedia che scandisce il rendez-vous degli ex marine. Le continuità appena colte non impediscono però al film di Linklater di ritagliarsi la propria identità e di assumere toni più drammatici che camerateschi, derivati dal fatto che Larry "Doc" Shepherd (Carrell), l'ex marine Sal Nealon (Cranston) e il Reverendo Richard Mueller (Fishburne) si ritrovano a fare i conti con la morte del figlio di Doc, caduto sul campo battaglia e scortato dai tre uomini che si preoccupano di accompagnarne le spoglie fino al luogo dove si svolgerà il funerale. 

Senza contare che "Last Flag Flying" consente a Linklater di aggiornare la propria cinematografia che mai come in questo caso si era trovata ad affrontare cosi da vicino il tema della morte. Inoltre dopo una carriera volta a definire gli orizzonti esistenziali delle generazioni più giovani questa volta la regia del cineasta texano si produce in uno scarto anagrafico che seppur operante in una dimensione ancora una volta intima e personale lascia campo libero a una visione più matura e politica della vita, in cui il bisogno di riconoscimento e le grandi passioni artistiche e sentimentali vengono sostituite dall'urgenza del consuntivo esistenziale effettuato in una dimensione da grande freddo cinematografico. Alla lunga però il cambio di passo finisce per inceppare il meccanismo narrativo di Linklater, alterandolo laddove normalmente questo è capace di fare la differenza e cioè la fluidità dei dialoghi che, privati della consueta giocosità e leggerezza procedono con fatica, dando l'impressione di parlarsi addosso.
Carlo Cerofolini
(pubblicato su ondacinema.it)

LA RAGAZZA NELLA NEBBIA

La ragazza nella nebbia
di Donato Carrisi 
con Toni Servillo, Alessio Boni, Lorenzo Richelmy
Italia, 2017
genere, thriller
durata, 127’

La sedicenne Anna Lou, brava ragazza dai lunghi capelli rossi, appartenente ad una confraternita religiosa molto conservatrice, scompare dal paesino montano di Avechot. A interessarsi del caso è l'ispettore Vogel, che ha una reputazione professionale da salvare e una propensione a fare leva sui mass media. Considerato che ad Avechot si è appena trasferito un professore di liceo con moglie e figlia, chi meglio di un estraneo alla comunità può candidarsi come principale sospettato?
Donato Carrisi esordisce alla regia con l'adattamento di uno dei suoi romanzi di maggiore successo, “La ragazza nella nebbia”, firmandone anche la sceneggiatura, e fa dire al professore che "la prima regola di un grande romanziere è copiare".
Fedele al suo motto, procede ad attingere a piene mani da molto del cinema che l'ha preceduto e in particolare da alcuni autori di culto: da David Lynch, innumerevoli i riferimenti a “Twin Peaks”, al David Fincher di “L'amore bugiardo” e di “Seven”, passando per il Giuseppe Tornatore di “Una pura formalità” e Tomas Alfredsion, cui lo accomuna la difficoltà di portare sul grande schermo un noir di successo. “L'uomo di neve” e “La ragazza nella nebbia”, infatti, si somigliano non solo per atmosfere e inquadrature nordiche, ma anche per l'affastellamento delle trame e sottotrame e l'eccessiva sottolineatura esplicativa della vicenda nelle sequenze finali.
Carrisi cita anche molte serie televisive recenti, a cominciare da “Fargo”, e struttura la sua narrazione più secondo le regole del piccolo che del grande schermo, inserendo dettagli didascalici, come le locandine che denunciano la scomparsa di Anna Lou. Anche la scelta delle inquadrature, spesso dall'alto, con inserto di diorama, cerca di dare un'impostazione insolita all'insieme, rivelando, però, il punto debole dell'intera operazione, ovvero la mancanza di originalità autoriale.

Anche la trama è inutilmente contorta, invece di svilupparsi rapidamente, si perde in ridondanze ed eccessi che tolgono potenza narrativa, e il montaggio in flashback e flash forward confonde anziché depistare e, alla fine, chiarire. La narrazione abbandona bruscamente i personaggi, per poi riprenderli e riaccantonarli di nuovo, disturbando il racconto e non creando suspense, col risultato che alcuni personaggi restano fortemente sottosviluppati e altri macchiettistici. Il regista perde, così, l'occasione di esplorare uno dei temi più interessanti della sua storia, ovvero l'interferenza mediatica nella vita delle piccole comunità: e sarebbe stato il primo a farlo in forma drammatica compiuta, dopo la lettura comica di “Omicidio all'italiana” e “Chi m'ha visto?”.

Ciò che è apprezzabile è la buona capacità compositiva delle inquadrature e la recitazione di alcuni membri del cast, in particolare Alessio Boni, Lucrezia Guidone nel ruolo di sua moglie e Daniela Piazza e Thierry Toscan nei panni dei genitori di Anna Lou. Toni Servillo è eccessivamente manierato, e Jean Reno ha un ruolo troppo poco sviluppato per consentirgli l'interpretazione stratificata che il personaggio richiederebbe.
Riccardo Supino

sabato, ottobre 28, 2017

FESTA DEL CINEMA DI ROMA: UNA QUESTIONE PRIVATA

Una questione privata
di Paolo Taviani
con Luca Marinelli, Valentina Bellè, Lorenzo Richelmy
Italia, 2017
genere, drammatico
durata, 84'

Non è la prima volta che i fratelli Taviani si ispirano a un'opera letteraria, ma "Una questione privata", tratto dall'omonimo romanzo di Beppe Fenoglio, si colora di una spregiudicatezza che non passa inosservata. Se la storia del triangolo sentimentale che vede due amici innamorarsi della stessa ragazza ripropone una delle situazioni più classiche tanto nel cinema quanto nella letteratura, a fare la differenza nel libro dello scrittore piemontese è il fatto che lo scenario dove si svolge la vicenda è quello della resistenza partigiana impegnata a contrastare le azioni del regime fascista. Fino a qui nulla di male, se non fosse che, alla pari del testo scritto, pure in quello filmico succede che i fantasmi dell'amore abbiano un peso eguale se non superiore a quelli generati dalle conseguenze delle guerra. Invece di normalizzare il contesto, Paolo e Vittorio Taviani si adoperano per costruire un dispositivo in grado di aumentare il senso di straniamento insito nelle premesse del film, adottando una messinscena antinaturalistica e teatrale in cui tutto - a partire dalla nebbia che avvolge Milton e i suoi compagni per la maggior parte delle scene, per proseguire con la recitazione anaffettiva degli attori - rimanda a una dimensione più metafisica che reale. Di fronte a tanta modernità è davvero un peccato che a mancare sia la capacità di entrare in sintonia con lo spettatore, quasi sempre escluso dal tormento emotivo che scuote i personaggi.
Carlo Cerofolini
(pubblicata su ondacinema.it)

venerdì, ottobre 27, 2017

FESTA DEL CINEMA DI ROMA - DREAMS BY THE SEA

Dreams by the sea
di, Sakaris Stora
con, Juliett Nattestad, Helena He∂insdottir
Far Øer, Dan 2017
genere, drammatico
durata, 80'


La rabbia è giovane per definizione. In particolare, non conosce latitudini, né separazioni d'etnia o di censo. Non sorprende, allora, ritrovare le medesime pulsioni, gli stessi disincanti, le numerose e sovrapponibili irrequietezze, su una minuscola crosta di terra persa da qualche parte nell'Atlantico del Nord (si tratta, presumibilmente, d'un isola dell'arcipelago danese delle Far Øer), cucite addosso come una seconda pelle a due adolescenti diverse ma complementari - Ester, ragazzina educata e in apparenza adagiata sulla rispettosa esecuzione degli edificanti dettami genitoriali; Ragna, quasi coetanea, solitaria e scostante, dedita, al tempo, alla cura del fratello minore, alla gestione di un minuscolo diner e al tentativo di recupero d'una madre stanca e disattenta, avvezza all'alcool e alle amicizie occasionali - Il quasi inevitabile incontro tra loro, in un universo tanto limitato, segnerà le tappe delle rispettive formazioni alla vita attraverso l'emergere doloroso di quella certezza che spinge a non cedere alle lusinghe del cinismo e della rassegnazione.

Girato nei luoghi autentici delle vicende, "Dreams by the sea", s'avvale del fascino astratto e primordiale dei paesaggi nordici, imprevedibili nella loro aspra mutevolezza eppure come impassibili, distanti, capaci, in virtù di questa irriducibile antinomia, d'imprimersi a fondo nei gesti e nell'intimo delle persone che li abitano, al punto d'influenzarne scelte e stati d'animo. Non a caso Ester e Ragna raccolgono i frutti dei rispettivi monotoni affanni privati e dei fugaci attimi d'esaltazione di fronte all'immensità fredda dell'Oceano, stringendosi l'un l'altra e urlando il proprio dissenso a un mondo che, contrariamente a quello degli uomini, forse ne serberà almeno l'eco a titolo di monito futuro.

Strutturato secondo una lineare e scarna consequenzialità che alterna sequenze di raccordo in piani di media ampiezza a ripetute inquadrature strette, indagatrici delle sfumature emotive delle protagoniste, il film recupera parte della propria prevedibile scansione narrativa e meccanicità di snodi nell'adesione nervosa dei corpi e dei volti di Ester e di Ragna a un destino di solitudine e privazione che solo il tempo e la proverbiale tenacia femminile saprà volgere in un più equilibrato e promettente braccio di ferro.
TFK             

giovedì, ottobre 26, 2017

FESTA DEL CINEMA DI ROMA 2017: THE BREADWINNER

The Breadwinner
di Nora Towney
Canada, Irlanda, Lussemburgo 2017
genere, animazione
durata, 94'



Nell’accezione della lingua anglosassone il termine breadwinner ha una valenza che rimanda all’importanza del capo famiglia come procacciatore del benessere necessario a soddisfare i bisogni del resto del gruppo. Un ruolo che, nell’Afghanistan dell’ortodossia Talebana (siamo nel 2011 alla vigilia dell’entrata in guerra con la coalizione occidentale) spetta all’undicenne Paryana, la quale, dopo l’incarcerazione del padre, è costretta a fingersi un maschio per poter guadagnare quel pane essenziale alla sopravvivenza di madre sorella e fratellino. Assistente di Tomm Moore nella regia de “The Secret of Kells” e  “La canzone del mare”, l’irlandese Nora Towney riprende le estetiche del suo maestro per raccontare una storia d’amore e di amicizia sullo sfondo di uno dei momenti più bui della storia dell’uomo. Costruendo una trama che - nel rispetto della cultura afghana - si sviluppa attraverso la moltiplicazione dei segmenti narrativi, alternando il filone principale, costituito dagli sforzi della bambina per tenere insieme la sua famiglia con l’altro, costituito dalle favole che Parvena racconta al fratellino, “The Breadwinner” prende le distanze dalla verosimiglianza dell’animazione aericana, scegliendo una stilizzazione (pittorica) delle figure e degli ambienti in grado di donare ai personaggi il surplus d’umanità e di poesia. Regalo per grandi e piccini “The Breadwinner” inaugura al meglio la sezione Alice nelle città 2017. 
Carlo Cerofolini
(pubblicato su ondacinema.it)


GOOD TIME

Good Time
dei fratelli Safdie
con Robert Pattison, Ben Safdie, Jennifer Jason Leigh
USA, 2017
genere, drammatico
durata, 99'


Guardando il nuovo film dei fratelli Safdie, non si può fare a meno di pensare a Martin Scorsese, e a come il suo cinema abbia contribuito a formare l’immaginario cinematografico della città di New York. Come succedeva in “Taxi Driver” anche la grande mela ritratta dai due registi è una specie di far west metropolitano in cui ogni uomo è lupo all’altro uomo e dove, alla stregua di quanto accadeva a Travis Bickle, anche il personaggio interpretato da Robert Pattison si ritrova insonne e solitario a girovagare per le strade di una città ombrosa e ostile. Rispetto ad altre rappresentazioni della realtà newyorkese quella di “Good Time” mantiene un rapporto con il proprio entroterra (urbano) simile a quello del capolavoro scorsesiano: i Safdie, infatti, filmano la città con la stessa dedizione che si riserva all’oggetto amato senza impedirsi di trasferire sullo schermo la rabbia e la repulsione per il degrado umano del contesto umano e relazionale. Ad essere aggiornato è semmai l’attitudine delle persone ed i ritmi (frenetici) che scandiscono le giornate, e soprattutto, le notti americane. Così, se Bickle, dall'alto dei suoi principi moralizzatori finiva comunque per funzionare come principio ordinatore di una società caotica e corrotta, il rapinatore interpretato da Pattison ne diventa al contrario il detonatore pronto a farla esplodere. Movimentata dai sintetizzatori di Oneohtrix Point Never e sporcata dalle luci psichedeliche di Sean Price Williams la New York dei fratelli Safdie  è una gabbia fisica e mentale che bracca i personaggi, colorandone i corpi e le facce con le colpe dei suoi peccati peggiori. Senza un attimo di tregua, “Good Time” arriva alla fine consegnando allo spettatore uno dei film più belli della stagione e un Robert Pattinson al meglio delle sue possibilità. 
Carlo Cerofolini

mercoledì, ottobre 25, 2017

VIA DELLA FELICITA'

Via della felicità
di Martina Di Tommaso
Italia, 2017
genere, documentario
durata, 68'


In uno dei suoi film più belli e toccanti Gianni Amelio ci metteva in guardia sulla presunzione di considerarci diversi dalle migliaia di immigrati che all’inizio degli anni novanta lasciavano l’Albania per sbarcare sulle coste pugliesi. Profetico nel considerare il problema dell’immigrazione centrale per le sorti del nostro paese, Lamerica (1994) aveva il merito tra le tante cose di ricordarci come non meno di novant’anni prima i nostri antenati facessero la stessa cosa, imbarcandosi alla volta degli Stati Uniti.


A distanza di quasi trent’anni Via della felicità, di Martina Di Tommaso, sembra chiudere il cerchio della profezia di Amelio, proponendoci la vicenda di Emma, madre single decisa a trasferirsi in Germania insieme ai propri figli, nella speranza di trovare una vita migliore di quella lasciata in Italia. Trattandosi di una storia vera e di personaggi che partecipano al progetto nella parte di se stessi, quello di Di Tommaso è un documentario che mescola realtà e finzione, ove per quest’ultima si intende non la messa in discussione dell’autenticità di ciò che vediamo sullo schermo, quanto un’idea di regia capace di ordinare il materiale raccolto dall’autrice all’interno di una cornice narrativa logica e coerente. In questa maniera, l’energia vitale di Elisa, disposta a non arrendersi anche di fronte alle difficoltà di ambientamento – la necessità di imparare una nuova lingua e il dovere di inventarsi un mestiere – trova corrispondenza in un viaggio di formazione che, prendendo atto in corso d’opera delle trasformazioni sociali del paese, analizza il problema da un punto di vista nuovo e in qualche modo più vicino allo spettatore.


Con il carico d’umanità conseguente alla contagiosa determinazione che ne scandisce l’azione, la figura di Elisa sfugge agli stereotipi di certa italianità, proponendosi nell’esemplare forza d’animo e per la capacità di rimandare al mittente l’indulgenza e il pietismo che normalmente fanno da corollario al tipo di difficoltà affrontate dalla donna. A Di Tommaso il plauso di averle raccontate senza retorica e con l’equilibrio che deve avere una storia dove privato e politico si contendono l’attenzione della macchina da presa.  Proiettato in anteprima mondiale a Firenze, in concorso al 58° Festival dei Popoli.
Carlo Cerofolini
(pubblicata su taxidrivers.it)

martedì, ottobre 24, 2017

ALLA FESTA DEL CINEMA DI ROMA IL CINEMA E' ANCHE FUORI DALLE SALE


Se è vero che tutte le strade portano a Roma il celebre adagio assume una valenza più specifica nella settimana entrante perché dal 26 ottobre al 5 novembre si svolgerà a Roma l’edizione 2017 della Festa del Cinema diretta da Antonio Monda. Al terzo anno di direttorato Monda mantiene inalterata l'idea di una manifestazione che, attraverso il cinema e i prestigiosi eventi ad esso collegati, faccia da vetrina per la città, rilanciandone l’immagine internazionale. In questo contesto appare azzeccata l'iniziativa di Italo, la compagnia ferroviaria privata che, approfittando dell’evento romano, ha lanciato l'idea di un tour nei luoghi cult dei film ambientati a Roma. Un’idea utile a convogliare la curiosità dei milioni di visitatori che ogni giorno si riversano per le strade della metropoli ma che serve anche per stimolare la curiosità di chi è abituato a considerare la bellezza a portata di mano e che invece si ritrova davanti a un tesoro ancora inesplorato e di cui può usufruire senza spendere una lira. Per chi ne volesse tenere conto conviene dare un’occhiata all’infografica contenente le sei tappe per diventare cineturista per un giorno, tra colossal hollywoodiani, film d’autore e premi Oscar.



Se volete andare a Roma in treno, magari proprio nei giorni della Festa del Cinema, Italo propone numerose offerte low cost da valutare ovviamente in base alla data e alla città di partenza. Oltre al cineturismo, poi, ci sono tante altre idee alternative per visitare Roma lontano dai consueti itinerari: ad esempio avete mai visitato il quartiere Coppedè o i mercati di Monti e Porta Portese? Sono da provare. La città eterna è sempre una scoperta!





MANIFESTO


Manifesto 
di Julian Rosefeldt
con Cate Blanchett
Austria, Germania, 2017
genere, sperimentale
durata, 94'


Che a Cate Blanchett piaccia far perdere le proprie tracce, scomparendo all’interno dei personaggi che interpreta non è un mistero. A farcelo rilevare è la riservatezza di un carattere gentile ma schivo, e soprattutto le tappe di una carriera in cui a creare lo scarto tra performance di egual pregio sono proprio quei film (“Elizabeth” e Io non sono qui”) in cui l’attrice australiana porta alle estreme conseguenze il trasformismo di cui è capace, apparendo dapprima nelle vesti (regali) della regina d’Inghilterra più nota della storia, e poi nei panni (maschili) del famoso menestrello del rock. Maschere più che persone, i caratteri impersonati dalla Blanchett sono il frutto di un lavoro d’astrazione volto a restituirne più l’idea che le sembianze fisiche. Sotto questo profilo la presenza dell’attrice in un film come quello diretto dal connazionale Julian Rosefeldt appare un approdo naturale, avendo “Manifesto”, come presupposto, quello di enunciare i contenuti di diversi manifesti artistici e ideologici (da quelli dei surrealisti e futuristi al Dogma di Lars von Triers la lista è davvero lunga), mettendoli in scena attraverso la presenza di 13 diversi personaggi. Nato come istallazione museale e trasformatosi solo in un secondo momento in lungometraggio cinematografico, “Manifesto” si gioca le proprie chance di successo sulla capacita di riuscire a rendere interessante uno spettacolo privo di storia, e in cui i dialoghi altro non sono che i monologhi pronunciati dalla crew femminile messa insieme dall’incontenibile fregolismo della bionda fuoriclasse. Trasformando la sua metropoli in un gigantesco non luogo, e trasmettendo l'idea del logos che si fa carne e del pensiero che si fa azione attraverso brevi introduzioni fornite da piani sequenza che cominciano in cielo e finisco per le strade e nelle abitazioni dei protagonisti, "Manifesto" fa dello straniamento prodotto dall'inusualita' del contesto il proprio punto di forza. Il tutto senza perdere neanche per un momento il taglio elitario di un’operazione che poco si concede e molto vuole. 
Carlo Cerofolini

lunedì, ottobre 23, 2017

UNA DONNA FANTASTICA

Una donna fantastica
di Sebastian Lelio
con Daniela Vega, Francesco Reyes, Luis Gnecco
Cile - Germania, 2017
genere, drammatico
durata: 104’

A Santiago del Cile Orlando, un imprenditore tessile ultracinquantenne, ha una soddisfacente relazione con Marina e intende festeggiarne il compleanno con un viaggio alle cascate di Iguazu. La sera della ricorrenza ha un malore, in seguito al quale cade dalle scale di casa. Marina lo porta all'ospedale e avvisa il fratello che sopraggiunge. Orlando è deceduto e Marina viene invitata dalla ex moglie a tenersi lontana dalle esequie e dalla sua famiglia, non perché sia l'amante, ma perché è un transgender.
Produttore di questo film è Pablo Larrain, un regista da sempre attento alle tematiche sociali, che questa volta decide di spezzare una lancia in favore dei diritti di chi, secondo i benpensanti, non dovrebbe averne alcuno.
Quello che emerge da ciò che deve subire Marina è uno scenario di quotidiana grettezza in cui i protagonisti non vedono o, meglio, fingono di non vedere la realtà. Marina è donna nel profondo e nella relazione che ha iniziato con Orlando non è contemplata alcuna forzatura né da una parte né dall'altra. La società invece le cerca anche quando non ci sono. Ecco allora che, pur con tutte le cautele, la responsabile del servizio di tutela dei minori cerca tracce di colluttazione tra i due partner, pur sapendo che Marina è maggiorenne e potendo constatare con facilità le circostanze che hanno visto Orlando cadere per le scale e causarsi ferite ed ematomi. La ex moglie si erge a sua volta a difesa del coniuge e dell'onore della famiglia, quasi che all'uomo spettasse la medaglia dell'innocente irretito nel gorgo della perversione. L'unico in grado di comprendere la situazione, ma impossibilitato ad andare oltre le convenzioni, è il fratello del defunto. 
Film come questo ci ricordano che, al di là delle esasperazioni da cui non sono esenti anche alcuni sostenitori del transgender, esistono dei diritti umani che debbono essere rispettati e tutelati.

Probabilmente, se fosse stato Larrain stesso a trovarsi dietro la macchina da presa si sarebbero evitate alcune cadute nella retorica più deja vu che non aiutano la causa che il film sostiene. È sufficiente citarne una per far comprendere le ragioni di questa osservazione: mettere come colonna sonora del momento in cui Marina va a consegnare l'auto di Orlando alla ex moglie "Natural Woman" di Carole King appare banale e scontato, anche perché nulla aggiunge alla valida interpretazione della protagonista. 
Riccardo Supino

domenica, ottobre 22, 2017

sabato, ottobre 21, 2017

RITORNO IN BORGOGNA

Ritorno in Borgogna
di Cedric Kaplish
con Pio Marmai, Ana Girardot, Francois Civil
Francia, 2017
genere, commedia, drammatico
durata, 113'


Considerato che, alla pari di altre cinematografie, anche quella francese arriva in Italia con il contagocce e attraverso una selezione che premia soprattutto i prodotti più leggeri, sorprende in positivo il fatto di ritrovare tra le uscite settimanali il nome di Cedric Kaplish, regista transalpino tra i più eclettici della sua generazione per la capacità di muoversi tra generi e produzioni di diverso segno. In questo contesto, “Ritorno in Borgogna” rischia di apparire quasi autobiografico nella carriera del regista poiché il ritorno a casa di Jean, uno dei protagonisti, costretto a lasciare l’Australia per accorre al capezzale del padre morente e, successivamente, per aiutare i fratelli nella conduzione dei vigneti di famiglia, è, allo stesso tempo, anche quello dell’autore, il cui ultimo film, risalente al 2013 (“Rompicapo a New York”), era stato girato - a differenza di questo, - sul suolo americano. 


Sarà stata la lontananza dal set, o forse la presa di coscienza del tempo che passa, fatto sta che “Ritorno in Borgogna”, pur presentando le caratteristiche tipiche dei film di Kaplish, - a cominciare dalla partecipazione corale dei personaggi all’evoluzione della storia - introduce nella filmografia del regista consapevolezze nuove, che riguardano tanto la narrazione, sviluppata con passo da cine romanzo, quanto la drammaturgia dei personaggi che, un po' per il lutto provocato dalla scomparsa del genitore, un po’ per il senso di inadeguatezza che ne contraddistigue le relazioni interpersonali, si colora di sfumature più drammatiche e seriose rispetto a quelle tratteggiate nei lavori precedenti. Ciò non toglie che essendo un film di Kaplish, anche “Ritorno in borgogna” è maggiormente propenso a intrecciare i fili che regolano le esistenze dei personaggi piuttosto che affondare il coltello nei problemi della realtà contemporanea. La quale, pur facendo capolino attraverso gli echi della crisi economica e le problematiche lavorative inerenti alla conduzione dell’azienda vinicola da parte dei tre fratelli, deve comunque sottostare allo swing narrativo del regista, sempre pronto a cambiar musica, alternando senza soluzione di continuità ambienti, situazioni e tipi umani. A venirne fuori è una sorta di soap opera d’autore, in cui Kaplish, senza ruffianeria ma con tanto mestiere, ci coinvolge nelle vicende del film e nelle scelte del sodalizio familiare. Per gli amanti del regista francese “Ritorno in Borgogna” è un film da non mancare.
Carlo Cerofolini

giovedì, ottobre 19, 2017

GLI INEDITI DE ICINEMANIACI: IL LIBRO DI KELLS

Il libro di Kells
(The secret of Kells)
di, Tomm Moore
animazione
Fra, Bel, Irl 2009
durata, 75’

This reminds me of another place
Lonesome wolf
Comes down from the hills
And he’s walking in circles
Howling at the moon
- N.Finn -


Nel Giugno del 793 il Monastero di Lindisfarne (Northumbria, GB) subisce un’incursione da parte vichinga. Rapida e brutale fu l’azione e l’impronta del colonialismo nordico, tale che ambedue si riverbereranno attraverso le testimonianze e la memoria vincendo la polvere dei secoli fino a riemergere, qua e là, ai nostri giorni, sotto forma di sfondo o spunto storico per rappresentazioni più o meno filologicamente precise (vedi la saga norrena di “Vikings”) o a mo’ di mera suggestione. Alla seconda di tali tipologie si può ascrivere la fatica d’esordio dell’irlandese Tomm Moore nel campo dell’animazione a nome (originale) “The secret of Kells”, ispirata all’evangeliario omonimo della fine del secolo VIII, ora conservato al Trinity College di Dublino, consistente in un incunabolo tanto finemente miniato quanto cromaticamente composito.



Trista ventura simile a quella di Lindisfarne sembra dunque aleggiare sulle sorti del villaggio di Kells (Eire), la cui guida spirituale - l’abate Cellach - invita la cittadinanza a serrare i tempi e a completare le opere di fortificazione (a suo giudizio mancano ancora un paio d’anni di lavori) che dovrebbero proteggerlo dalla più che consistente alea d’un attacco. Se il futuro è ammantato di foschi presagi, il quotidiano può ancora prevedere la dolcezza di scoperte e promesse tutte da vivere, a maggior ragione se gli occhi che le cercano e se ne nutrono sono quelli d’un ragazzino sveglio ma ancora digiuno del mondo. Brendan, piccolo novizio orfano - nonché nipote dell’abate - ligio alla regola e agl’insegnamenti dei più che caratteristici fratelli anziani di magistero, diverrà così - tra uno sconforto e un’agnizione, tra un dolore e un incoraggiamento - mezzo d’elezione (col concorso non secondario della magia segreta che lega, come tradizione insegna, in un unico destino ciclico d’armonia e di conflitto le creature viventi e l’universo che le accoglie) atto a rinsaldare il nesso misterioso che dalla notte dei tempi approssima l’irruenza vitalistica della Natura all’inesauribile slancio trascendente della Fede, nella forma d’un messaggio di speranza e riconciliazione.

In questa prima opera Moore circoscrive già con coerenza assecondata da artigianale maestria intrecci affabulatori e soluzioni espressive che matureranno in un canone personale nei lavori a venire (“La canzone del mare”, il prossimo “Wolfwalkers”): lo sguardo complice ma inquieto sull’infanzia e la prima giovinezza; la vicinanza innata - quasi una fatalità, si potrebbe dire - di queste con la dimensione incantata e sovrannaturale dell’esistenza. Così il percorso di crescita dei personaggi sovente disseminato di prove da superare, di piccoli e grandi pene da metabolizzare; l’aspro iato che separa l’unisono con l’anima mundi dalla consuetudine adulta, dominio del raziocinio e della consapevolezza, quanto tomba (non solo metaforica) dell’immaginazione e della meraviglia. Grumi narrativi, i suddetti, embricati in un tessuto formale sempre in tensione fra un’essenzialità giocosamente puerile e un’altrettanto ludica esuberanza nella moltiplicazione e stratificazione dei dettagli, qui identificata con il Libro di Kells propriamente detto (alcune pagine del quale vengono riproposte in parallelo ai titoli di coda) e, in diretta corrispondenza, con il lavoro degli Angeli in perigliosa redazione da parte d’un gruppo di temerari della bellezza guidati dall’esperto Fratello Aidan di Iona che lo ha avuto in custodia, attraverso generazioni di sopraffini devoti, da San Columba(no) in persona, miniatore perfetto, e alla quale non sarà estranea l’ars nova di Brendan, prima apprendista e poi co-artefice della pagina gloriosa di Chi-ro, quella in grado di conferire tono e misura a un’universale idea di grandezza nella condivisione.

Particolare merito, per il fascino costante eppure quasi schivo che traspare dall’incedere dei disegni e delle scelte grafiche - alle quali s’integra, tipo basso continuo, il riferimento a un’Irlanda arcaica, lussureggiante, testardamente enigmatica, scrigno di misteri e di prodigi che il tempo non cancella ma sedimenta in un vero e proprio ethos nazionale - è attribuibile al rincorrersi, talvolta placido, talora nervoso, delle tonalità chiare (perlopiù arancio, bianco e verde - il cuore d’Irlanda - a esaltare la ricchezza e il calore intrinseci a uno sforzo conoscitivo e spirituale - quello dell’elevazione conseguente alla stesura d’un testo illuminato - e, chissà quanto di proposito, a ribadire la provenienza da una terra storicamente ribelle e travagliata) e di quelle scure (blu, rosso, grigio e nero, per il respiro tragico sotteso alla manifestazione della malvagità o delle forze che da essa traggono alimento: gl’insidiosi lupi della Foresta; i fissi occhi di bragia degl’invasori; i cieli scostanti a delimitare il sinistro regno di Crom Cruach, l’Oscuro), le quali evocano sensazioni e sentimenti, anticipano o rinviano snodi cruciali, in un pulsante andirivieni entro cui, altresì, le forme e i volumi s’affiancano e/o si sovrappongono a volte in intrichi d’ascendenza escheriana; altrove conservano una sorta di stasi dinamica affine, nella loro giustapposizione orizzontale, a certe idee tarde di Klee. 

Discorso analogo è spendibile nelle sequenze geometriche che alludono all’intenzione d’imprimere movimento autonomo e singolare alle miniature e in quelle più ariose in cui dare spazio ai capricci delle opzioni cromatiche, in specie quelle chiaroscurate sull’arancio e sul giallo degl’interni consacrati alla composizione del fatidico Libro e quelle orchestrate sui più diversi toni del verde per restituire il gioioso piglio a spirale d’enormi alberi klimtiani. In particolare e infine, quest’ultimi intermezzi non avrebbero lo stesso estro a metà fra spensieratezza e lungimirante diffidenza se a incarnarli non fossero state chiamate le figure di Aisling (il cui solo nome è già - e lo è sul serio - un dire poetico inerente il sogno, la visione), Fata della Foresta dai lunghi capelli color ghiaccio e dai grandi occhi intenti al di sotto dei quali insiste un sapere antico e sfuggente, e quella del gatto Pangur Ban, poema vivente la cui eterocromia rimanda, al contempo, all’ambiguità fondamentale d’ogni cosa e alle potenzialità insite nella trasformazione, entrambi solitari spiriti guida dell’ingenuo e parimenti solo Brendan sui sentieri d’una saggezza che egli alla fine imparerà a far sua e a trasmettere come lascito di Civiltà: I’ve seen suffering in the darkness/Yet, I’ve seen beauty thrive in the most fragile places/I’ve seen the Book/The Book that turn darkness into light.

[Tra gli affanni e le tregue, il folk onirico per flutewhistleviolinuillean pipebodhran…].
TFK

mercoledì, ottobre 18, 2017

IT

It
di Andres Muschietti
con Jaden Lieberher, Bill Skarsgard, 
USA, 2016
genere, horror
durata, 135'

Forse i più giovani non lo sanno ma di “It”, il romanzo scritto da Stephen King esiste una prima versione datata  1990 prodotta per la televisione e divisa in due puntate. Da questo punto di vista, pur nella condivisione della medesima fonte letteraria, l’adattamento di Andres Muschietti non può considerarsi ne un sequel ne un remake della serie in questione, optando per una sintesi contenutistica evidente nella scelta di collocare la storia in un unico segmento temporale, anziché (come accadeva nel romanzo e nella fiction diretta da Tommy Lee Wallace) in due epoche distinte e separate, e nel puntare su un’emotività che solo la visione collettiva riesce a valorizzare. Con questo non vogliamo dire che Muschietti privi il suo spettacolo degli ovvi riferimenti a ciò che lo ha preceduto, e che, per esempio, non dialoghi con un immaginario capace di riferirsi tanto al cinema degli anni 80, quanto alle ultime scoperte provenienti dalla serialità televisiva. In questo modo il regista, nel raccontare la storia di un gruppo di ragazzini uniti nel tentativo di contrastare l’entità demoniaca che uccide gli adolescenti di una cittadina della provincia americana,  mette in circolo reminiscenze che vanno dal racconto di formazione sulla falsariga di “Stand by me - ricordo di un’estate” (a sua volta tratto da un altro romanzo di King), a una  serie  come “Stranger Things”, a cui oltre a uno degli interpreti, Muschietti ruba ambientazione, suggestioni e misteri. 


Sempre sul versante revival l’elenco dei tributi prosegue con due classici come “Greemlins”, da cui “It” prende la scelta di presentare la malvagità attraverso una parvenza di ilarità sardonica e grottesca, e di “A Nightmare on Elm Street”, ripreso quando si tratta di trasformare l’inconscio nello strumento attraverso cui il male riesce a manifestarsi. Se poi si fosse chiamati ad individuare una caratteristica che fa di “It” un film del proprio tempo, allora ci sarebbe da mettere in cima alla lista la cupezza delle atmosfere e il fatto che, a fronte della spensieratezza presente nei modelli d’ispirazione quella di Muschietti è un’adolescenza piena di responsabilità, e  segnata da un peccato originale che impedisce di viverla nei suoi aspetti più lieti. Senza dimenticare che avendo come obiettivo dichiarato, quello di raccontare la paura dei suoi personaggi, “It” la trasmette in un modo così poco addomesticato, da riuscire a spaventare lo spettatore. Una qualità che da sola ripaga il pubblico del prezzo del biglietto.
Carlo Cerofolini

MEDEAS

Medeas
di Andrea Pallaoro
con Catalina Sandino Moreno, Brian F O'Byrne
USA, Messico, 2013
genere, drammatico
durata, 97'


La distribuzione dell’opera prima di Andrea Pallaoro, regista passato alle cronache per aver diretto Charlotte Rampling in Hanna, film che le ha permesso di vincere il Leone d’oro come migliore attrice, ripropone l’annosa questione legata ai problemi legati al circuito cinematografico italiaoa, colpevole di aver ignorato un gioiello come Medeas, esordio del cineasta veneto, passato tre anni fa in una sezione collaterale della Mostra e poi finito nell’oblio. Complimenti, dunque, alla Fondazione Cineteca Italiana che ha deciso di presentarlo a Milano con una serie di anteprime destinate a fare d’apripista per altre visioni in giro per il paese. Un’occasione tanto più preziosa quanto può esserlo quella di recuperare un film davvero ben fatto, e, nondimeno, propedeutico alla visione della trilogia dedicata a personaggi femminili di cui per l’appunto Medeas costituisce il primo atto. Trasferitosi da tempo negli Stati Uniti, il regista decide di debuttare con una storia ambientata in un’America rurale che ricorda da vicino quella attraversata dai personaggi del primo cinema di Terrence Malick. Se ambienti e personaggi risultano perfettamente calati nella realtà della storia, forma e contenuto sono per buona parte di matrice europea. Così è infatti la fonte d’ispirazione, costituita dalla tragedia di Euripide che Pallaoro riprende, facendo del corrispettivo maschile il carnefice e non la vittima, come pure la sostanza di un racconto dove molto è lasciato al non detto, e in cui sono i silenzi dello sguardo a riportare a galla malesseri e incomprensioni e, ancora, dov’è la luce netta e abbacinante dell’estate a illuminare le oscurità di un rancore che un poco alla volta si trasforma in tragedia.




Prima di Hannah e in attesa dell’ultimo capitolo, Medeas conferma (a posteriori) la predilezione di Pallaoro per un tipo di melodramma in cui le pulsioni dei personaggi invece di esplodere nel solito carosello emozionale vengono compresse all’interno di un dispositivo controllato e celebrale che le riporta sullo schermo asciugate da ogni tipo di eccesso e manierismo. Come già in Hannah, Pallaoro dialoga con il fuori campo attraverso una dialettica che, lasciando al non visto gli aspetti più cruenti della vicenda e portandone in primo piano le sole conseguenze, ci presenta la summa di una condizione umana impotente e sconfitta ancora prima di combattere. Come accade sempre più spesso nel cinema indipendente americano, anche Pallaoro propone allo spettatore la visione di un paesaggio naturale la cui edenica bellezza è destinata a fare da contrappunto al caos delle relazioni umane, in una rappresentazione da paradiso perduto che Medeas restituisce con una precisione che in buona parte è dovuta all’efficacia del suo impianto visuale. In questo modo le ferite dell’anima si traducono sullo schermo con inquadrature che separano i protagonisti dal resto del contesto e che tagliandone i corpi, filmati in modo parziale o attraverso semplici dettagli, trasferiscono sul visivo i turbamenti interiori e le pulsioni più nascoste. Si diceva poi del fuori campo, e di come il cinema di Pallaoro fosse in grado a sfruttarne l’utilizzo. Ebbene, è proprio la scelta di stringere la macchina da presa sui personaggi anziché aprirla all’estensione del territorio che circonda il ranch, così come quella di privilegiare una pienezza visiva che in qualche modo si oppone alla rarefazione della prateria americana, a rendere come meglio non si potrebbe il senso d’oppressione derivato da un destino che non lascia scampo ai protagonisti della storia. Il tutto sottolineato da un’afflato lirico – davvero sorprendente in un film così controllato – che rende ancora più struggente l’epilogo finale. Da non perdere.
Carlo Cerofolini
(pubblicata su taxidrivers.it)

martedì, ottobre 17, 2017

L'UOMO DI NEVE

L'uomo di neve
di Tomas Alfredson
con Michael Fassbender, Rebecca Fergusson, Charlotte Gainsbourg
genere, drammatico
Gran Bretagna, 2017
durata, 125'



In "Lasciami entrare", i dispiaceri del giovane protagonista erano il frutto delle vessazioni subite da parte dei compagni di scuola, i quali, superiori per numero ed età, non perdevano occasione per metterlo alla berlina; ne "La talpa", invece, le disfunzioni dei servizi segreti britannici derivavano dal tradimento del gruppo di uomini che un tempo li aveva resi famosi e invincibili. In entrambi i casi il male viene da lontano, ed ha a che fare con la violazione di un unione inizialmente sancita dalle regole comuni e da un patto di amicizia fondato sulla reciproca fedeltà della parti. Non sappiamo se sia un semplice coincidenza, o se dietro la scelta di portare sullo schermo la trasposizione dell'omonimo romanzo di Jo Nesbo ci sia, da parte di Tomas Alfredson, il desiderio di continuare a raccontare un certo tipo di storie. Fatto sta, che, anche ne "L'uomo di neve", a fare da motore alle vicende della trama è la necessità di fare i conti con i fantasmi del proprio passato, allo scopo di liberarsene una volta per tutte.
Ne "L'uomo di neve" questo assunto è così importante che il regista decide di piazzarlo all'inizio del film, all'interno della scena che fa da antefatto alle nevrosi del futuro serial killer. Senza scendere nel dettaglio, ciò che interessa al cineasta (anche a costo di giocarsi la possibilità di aumentare il mistero, svelandone le ragioni un poco alla volta) è cristallizzare le caratteristiche di una tragedia che, alla pari degli altri suoi lavori, si colloca all'interno del sodalizio famigliare e in uno spazio-tempo antecedente al presente della storia.
In più, nel corso della vicenda, dominata dalle indagini del detective Harry Hole impegnato in una corsa contro il tempo nel tentativo di scongiurare l'ennesimo delitto, il tema del passato come luogo di tormento del quale disfarsi - anche a costo di spargere altro sangue - è presente, oltre che nel modus operandi dell'assassino, anche in altri rivoli della storia, impressa con il fuoco nelle motivazioni (private) che spingono la recluta interpretata da Rebecca Ferguson a gettarsi a capofitto nella ricerca dello spietato criminale.

La continuità offerta alla cinematografia del regista da un titolo come "L'uomo di neve" non si risolve nella presenza del tema principale ma si estende alle peculiarità produttive, a cominciare dalla scelta di scrivere la sceneggiatura sulla base di un romanzo di consolidato successo, così come nella possibilità di ritornare a girare in Scandinavia, usufruendo del vantaggio di ritrovare atmosfere e paesaggi già incontrati nell'opera d'esordio. E, ancora, di lavorare con una star del calibro di Michael Fassbender che, alla pari dei vari Gary Oldman, Colin Firth e Tom Hardy, dota il film di un surplus di notorietà (e glamour, per la fascinazione del pubblico femminile nei confronti di Fassbender) ancor prima di iniziare a girare. Questo per significare come, arrivati al nastro di partenza, non mancassero al regista gli strumenti - economici ed artistici - per ripetere e, perché no, migliorare il buon esito dei lungometraggi che si era lasciato alle spalle.
A questo proposito bisogna dire che l'intento di incidere sulla materia, elevandola al di sopra della mera routine, è come sempre visibile nel lavoro di Alfredson. Senza smontare i meccanismi del thriller, ne utilizzarli come pretesto per raccontare altro, il regista si rivolge al testo di Nesbo mondato dalle convulsioni e dalla fretta tipica di un certo cinema hollywoodiano.

Ciò si traduce - come già era accaduto per gli altri film - in una narrazione che si prende il tempo necessario per scavare nello stato d'animo dei personaggi, concedendo alle traiettorie esistenziali la stessa importanza di quelle relative alle procedure investigative. Le atmosfere, cupe e depresse, il paesaggio, invernale e gelido come si addice a una storia di amori non corrisposti, passano tutt'altro che inosservati, eppure "L'uomo della neve" non riesce a fare suoi i cliché tipici del genere, lasciando che siano quelli - e non la profondità dello sguardo - a fare la parte del leone. A risentirne sono dunque il pathos e la tensione derivanti dal gioco di scacchi tra bene e male, e l'adrenalina che di solito scaturisce dal fatto di non sapere se il detective riuscirà a leggere le mosse dell'avversario.
Nel caso in questione, il senso dell'imponderabile viene influenzato, e diremmo quasi, sminuito, dalla sensazione di deja vù prodotta dagli elementi che gli fanno da contorno; a partire dal mix di genio e sregolatezza presenti nella personalità di Hole, cane sciolto segnato dai fallimenti sentimentali e fiaccato dalla dipendenza alcolica che lo ha ridotto a una sorta di reietto, e continuando con le attitudini e gli umori di chi ne condivide parte della vita, tutti, nessuno escluso, ingabbiati in una commedia umana dove gli imprevisti dell'esistenza faticano a uscire fuori.

"L'uomo della neve" sembra non accorgersi dei suoi difetti, distratto com'è dalla ricerca di qualità formali e drammaturgiche in grado di legittimarne l'autorialità. Filmato in maniera anti naturalistica e provvisto di alcuni degli stilemi tipici del regista (su tutti le inquadrature con i protagonisti ripresi attraverso le finestre delle loro abitazioni) "L'uomo della neve" punta le sue fiche su un' artificiosità (per esempio quella di alcune riprese montane e delle scene girate a bordo dell'automobile in cui strapiombi e paesaggio sono filmati a parte e integrati in un secondo momento), che vuole essere lo specchio delle distorsioni mentali dell'assassino o, forse, la rappresentazione di un mondo beffardo e grottesco come la faccia del pupazzo di neve che annuncia il compimento dei delitti. Spiace dirlo, ma anche da questo punto di vista il risultato non è all'altezza delle aspettative, frustrate da un'incompiutezza che rasenta la banalità.
A conti fatti, il vero rebus de "L'uomo della neve" non è dato dal tentativo di capire l'identità dell'assassino ma risiede piuttosto nel mistero che ha spinto registi come Martin Scorsese - che avrebbe dovuto girare il film - e Tomas Alfredson a interessarsi al romanzo di Nesbo. Ciò che abbiamo visto non giustifica questo tipo d' attenzione.
Carlo Cerofolini

(pubblicata su ondacinema.it)