venerdì, febbraio 23, 2024

ROMEO È GIULIETTA

Romeo è Giulietta

di Giovanni Veronesi

con Pilar Fogliati, Sergio Castellitto, Maurizio Lombardi

Italia, 2024

genere: commedia

durata: 112’

Un’ottima base di partenza e un sodalizio sempre più affermato quello tra Giovanni Veronesi e Pilar Fogliati che non è più solo un “caso”, ma una collaborazione vincente e riuscita.

A dimostrarlo, per l’ennesima volta, è il film “Romeo è Giulietta”, una commedia che si distacca da quelle che hanno consacrato l’autore toscano e che cerca di affacciarsi nel non semplice mondo del dramma (contemporaneo).

“Romeo è Giulietta” è il tentativo di mettere in scena la celebre opera di Shakespeare da parte dell’acclamato regista Landi Porrini (un Sergio Castellitto in stato di grazia). A mettergli i bastoni tra le ruote c’è però Vittoria (l’ormai lanciata e affermata Pilar Fogliati), aspirante attrice (ostacolata da un’accusa di plagio mossale in passato) che, con il fidanzato, anch’egli alla ricerca di un ruolo nello spettacolo, si dimostrerà una vera e propria spina nel fianco del regista tanto acclamato quanto incapace di vedere oltre il suo naso.

Una storia che sa di moderno o che almeno tenta di far respirare una ventata di freschezza al pubblico, partendo da basi che ricalcano l’attualità, strizzando l’occhio al politicamente corretto, all’accettazione e alla differenza di genere.

Le premesse ci sono tutte e la base di partenza è innovativa a tal punto da poter permettere al regista e agli attori di giocare con qualcosa che rappresenta la classicità per eccellenza.

Quando si pensa a Shakespeare, e a “Romeo e Giulietta” in particolare, si pensa inevitabilmente a qualcosa di “tradizionale”, ma anche di statico e intoccabile. Veronesi, invece, con la sua commedia ci dimostra il contrario; ci dimostra che si può giocare, scherzare e plasmare anche un’opera classica come questa se si toccano gli elementi (e le corde) giusti. Si comprendono le scelte e le motivazioni che portano i personaggi ad agire in quel determinato modo.

Risulta difficile empatizzare con la follia del regista interpretato da Castellitto, ma è semplice capire la sua voglia di dimostrare al mondo che, nonostante tutto e nonostante tutti, è ancora in grado di trasmettere emozioni nuove, seppur attraverso “materiale più datato”.

Se, quindi, il personaggio di Sergio Castellitto, anche fin troppo sopra le righe, contribuisce sicuramente alla buona riuscita del film, insieme a una sempre più affermata (e poliedrica) Pilar Fogliati, ci sono anche elementi che fanno da contraltare.

L’aver calcato la mano su tutto ciò che contribuisce a rendere la pellicola “politicamente corretta” se da una parte può strizzare l’occhio positivamente a tutti coloro che ci vedono un’apertura e lo considerano come un ulteriore passo avanti, dall’altra sembra “stereotipizzare” fin troppo il tutto, tanto da rendere quasi surreale l’incontro tra tutti questi personaggi e questi elementi.

L’elogio al teatro e il porlo al centro della scena (anche con l’intervento, seppur breve, di una “nonna” Margherita Buy letale) è indubbiamente un punto a favore del regista pratese che, così facendo, dimostra anche una maturazione dietro la macchina da presa. Ma questo basta per far decollare davvero una commedia come questa? Forse si sarebbe potuto osare (e sviluppare) di più determinati aspetti. Come le divertenti incursioni di Geppi Cucciari nei panni di una truccatrice in cerca di una rivalsa, o anche quelle delle due metà dei protagonisti: da una parte Maurizio Lombardi, che interpreta un riuscito Lori, storico compagno del regista Landi Porrini, e dall’altra Domenico Diele, fidanzato di Vittoria, con il sogno da sempre di interpretare Romeo. Tutti personaggi destinati a sfumare, inglobati dai protagonisti e dal cercare di andare oltre una barriera che, però, si fatica a scavalcare subito completamente.

La chiave c’è, adesso va solo inserita correttamente nella toppa e fatta girare, così come gira il misterioso Otto Novembre.


Veronica Ranocchi

venerdì, febbraio 16, 2024

DIECI MINUTI

Dieci minuti

di Maria Sole Tognazzi

con Barbara Ronchi, Margherita Buy, Fotinì Peluso,

Italia, 2024

genere: drammatico

durata: 122’

In uno dei momenti più critici del suo disagio esistenziale Bianca (Barbara Ronchi) si sente rivolgere una frase che le suona come una rivelazione. All’apparenza banale e un po' scontata la presa di coscienza che la solitudine non appartenga solo a lei, ma che sia qualcosa che accomuna l’intero genere umano non è solo un punto di svolta narrativo del film e, in particolare, del percorso di consapevolezza intrapreso dalla protagonista per reagire alla paura di vivere, ma riguarda anche una delle caratteristiche più lampanti del nuovo lungometraggio di Maria Sole Tognazzi, quella di parlare di un sentimento umano che tutti prima o poi ci siamo trovati a sperimentare.

Che poi “Dieci minuti” decida di declinarne le conseguenze prendendo in esame per la quasi totalità figure femminili non esenta la controparte da speciale immunità se è vero che pur addebitando il tracollo della protagonista all’abbandono da parte del proprio partner, il film evita l’alzata di scudi contro la categoria maschile e dunque la litania di cliché e stereotipi a cui ci ha abituato il cinema del #MeToo, presentandoci un quadro piuttosto variegato di torti e di ragioni equamente distribuiti tra le parti in causa.

Ma c’è di più perché prendendo in prestito il metodo curativo della dottoressa Brabanti (Margherita Buy), la psicoterapeuta da cui Bianca è in cura, “Dieci minuti” evita di piangersi troppo addosso preferendo l’azione alla commiserazione. Così succede che, pur non lesinando la dose di dolore e di apatia che accompagna le giornate della protagonista, mostrandoci anche in flashback le varie fasi del suo calvario, a fare da motore alla storia è la pars construens della vicenda, quella della politica dei piccoli passi in cui la “paziente” in prima persona - e senza scuse - si fa garante della propria guarigione.

Nella sceneggiatura scritta dalla Tognazzi assieme a Francesca Archibugi e ispirata al libro - “Per dieci minuti” - di Chiara Gamberale, la ricetta salvifica assume le forme a cui alludono i dieci minuti del titolo, con la serie di esperienze “iniziatiche”, brevi ma intense, fatte apposta per abituare Bianca a uscire fuori dalla propria confort zone, permettendole di guardare in faccia i fantasmi che le condizionano la vita.

Seguendo gli alti e bassi del suo personaggio, “Dieci minuti” si divide tra momenti di intensità drammatica, in cui afflizione e sfiducia la fanno da padrone, ad altri, quelli dedicati alla terapia, dove l’improbabilità delle situazioni scelte dalla donna fanno prevalere una dimensione più lieve e persino divertente: con Barbara Ronchi bravissima nel fare tesoro del suo eclettismo cinematografico (prova ne sia nel 2023 il successo ottenuto con due film diversissimi come “Settembre” di Giulia Steigerwalt e “Rapito” di Marco Bellocchio) e dunque a padroneggiare al meglio le variazioni della partitura drammaturgica, duettando con un' interprete di gran classe come Margherita Buy, perfetta in un ruolo in controtendenza rispetto a quelli che l’anno resa famosa, e con Fotinì Peluso (“Cosa sarà”, “Tutto chiede salvezza”), qui nel ruolo della sorella di Bianca, oramai pronta per un ruolo da protagonista.

Fedele alla matrice intimista del suo cinema, Maria Sole Tognazzi ancora una volta mette in scena una metamorfosi femminile tormentata e dolorosa in cui la rinuncia alle certezze del quotidiano diventano il modo per abbracciare la libertà di una nuova vita. “Dieci minuti” non fa deroghe, suggellando la rinascita personale della sua protagonista attraverso una sequenza - quella della panoramica conclusiva che ci mostra Bianca tuffarsi nel mare e prendere il largo - in cui l’eccezionalità della ripresa (rispetto alla scelta di utilizzare campi limitati in coerenza con le chiusure psicologiche della protagonista) fa il paio con la valenza metaforica della scena.

Nel mettersi a disposizione della storia e dei suoi personaggi la Tognazzi si rende artefice di una regia invisibile che produce senso lavorando sulla composizione interna dell’immagine, sui colori e sulla fotografia più che sui movimenti di macchina. Così è il rosa della casa bunker, sintesi efficace del mondo ideale in cui Bianca si è inconsapevolmente reclusa; così è la dominante blu degli interni, nel momento di massima disperazione ripresi come fossero una sorta di obitorio. La sensazione generale è però quella di una direzione che sembra farsi carico della condizione della protagonista, e dunque che si accontenta di portare a casa il risultato senza rischiare nulla. A differenza di Bianca, “Dieci minuti” non riesce a scrollarsi di dosso una prevedibilità che non lo rende terapeutico per l’esperienza dello spettatore.


Carlo Cerofolini

giovedì, febbraio 15, 2024

PAST LIVES

Past Lives

di Celine Song

con Greta Lee, Teo Yoo, John Magaro

USA, 2023

genere: drammatico, sentimentale

durata: 106’

Sembra proprio sia ancora possibile raccontare grandi storie con pochi elementi e con grande semplicità. Perché è questa la vera e forse più importante lezione da apprendere dopo la visione di “Past Lives” di Celine Song.

L’esordio alla regia di questa regista coreana, che ormai vive in America, è forse il film che più di tutti elogia la semplicità, la quotidianità e la normalità (sulla scia del recente “Perfect Days”).

La protagonista della vicenda è Nora (il cui nome di battesimo coreano è Na Young) che all’età di 12 anni deve trasferirsi insieme alla famiglia (la madre scrittrice, il padre regista e la sorellina) dalla Corea all’America. Nel paese natio deve lasciare, quindi, la sua vecchia vita e soprattutto il suo primo amore (Hae Sung) con il quale, però, riesce a mettersi nuovamente in contatto dall’America 12 anni dopo, salvo poi bloccare le comunicazioni perché troppo distanti e probabilmente senza futuro. Nel giro di poco tempo in una residenza per artisti (a New York Nora è una sceneggiatrice) la protagonista incontra Arthur del quale si innamora. I due si sposano, ma cosa succederà quando dopo altri 12 anni Nora incontrerà nuovamente sulla sua strada il suo primo amore?

Un film nel quale, come “spiegato” nel titolo, si intersecano vite passate (o presunte tali) con un presente e un ipotetico futuro, andando a scavare nelle profondità dell’animo di ognuno di noi.

Quante volte è capitato di dire o di pensare “e se fosse andata diversamente?”. Ecco, “Past Lives” mette sullo schermo la risposta (e le tante ulteriori domande che ne derivano) a questo quesito quasi impossibile.

Ma a colpire, al di là della visione alla “Sliding Doors”, sono la semplicità e la delicatezza, a volte anche crudele, con le quali Celine Song mette in scena la vita di Nora. Continuamente di fronte a bivi, dualismi e contrasti, Nora deve sempre cercare la soluzione che non è quasi mai quella semplice o quella che vuole/vorrebbe.

A incarnare, anche visivamente, queste scelte obbligate ci pensa anche la messa in scena sempre attenta a creare una sorta di contrapposizione. Dagli elementi fisici, che sembrano frapporsi tra i protagonisti, alle dinamiche umane. Perché se le scale rappresentano metaforicamente la scalata sociale (e non solo) compiuta da Nora, sono le sue affermazioni e il suo modo (semplice) di vedere la vita, le persone e i rapporti umani a decretarne il successo.

Celine Song parla di assenza di supereroi in una storia semplice che elogia la semplicità attraverso personaggi che potrebbero essere chiunque. Ma forse è proprio questa la magia di una storia comunque unica perché “personale”.

Bivi e scale sono solo la rappresentazione fisica delle difficoltà alle quali andrà incontro Nora nella propria vita. Difficoltà che si iniziano a presentare fin dall’infanzia e che andranno ad aumentare con l’andare avanti del tempo, messe in evidenza dalla saggia decisione di ricorrere non soltanto a una barriera linguistica, ma anche a una barriera reale e ancora più difficile da superare: la distanza. Una distanza che, grazie al progresso e alla modernità, può essere scavalcata tramite alcuni mezzi, ma solo in parte. Il filtro dello schermo, infatti, è solo un esempio. Un esempio concretizzato poi dalle differenze linguistiche e di usi e costumi. E non è un caso che la storia inizi da una situazione ben precisa che viene scardinata, mostrata ed elaborata tornando indietro di diversi anni. La primissima scena mette in evidenza tutte queste differenze e lo fa senza dare spiegazioni. Le voci fuori campo commentano quello che vedono come farebbe qualsiasi spettatore. Le differenze sono tante e fin troppo evidenti e l’obiettivo diventa quindi quello di scardinarle. Cos’è che è “troppo coreano” come Nora tenta di spiegare al marito? E cosa non lo è? Come ci si avvicina (o allontana) da una cultura, da un modo di vivere e di essere? Lo si può fare davvero?

Alla fine la lingua diventa solo un pretesto per avvicinarsi o allontanarsi e, nel caso di “Past Lives”, per far (ri)vivere a Nora qualcosa che forse, nonostante tutto, non potrà più vivere.

Un dualismo continuo e perenne che si evolve e si intreccia attraverso la figura di Nora che cerca, per quanto possibile, di far avvicinare due persone, due culture, due lingue, due mondi diversi ricorrendo comunque, anche se involontariamente, a situazioni diverse e contrapposte. Cosa è giusto e cosa sbagliato? Per chi fare il tifo? Non ci sono schieramenti in “Past Lives”, ma solo grande consapevolezza. Di ognuno di noi e del mondo che ci circonda.


Veronica Ranocchi

venerdì, febbraio 02, 2024

THE HOLDOVERS - LEZIONI DI VITA

The Holdovers – Lezioni di vita

di Alexander Payne

con Paul Giamatti, Dominic Sessa, Da’Vine Joy Randolph

USA, 2023

genere: commedia, drammatico

durata: 133’

Una piacevole carezza in mezzo a una marea di prodotti che sembrano ormai sempre più standardizzati o creati solo per sorprendere con effetti speciali e colpi di scena uno spettatore che ormai ha visto tutto. Questo è quello che rappresenta il nuovo film di Alexander Payne. A differenza della “massa” proposta sul grande (e piccolo) schermo, “The holdovers” è in grado di rilassare il pubblico attraverso la sua semplicità e dolcezza, senza esagerare o strafare in niente.

Uscito rigenerato dalla visione, lo spettatore avrà anche appreso alcune importanti “lezioni di vita”, come recita il sottotitolo della versione italiana, anche grazie alle più che convincenti interpretazioni degli attori, da Paul Giamatti e Dominic Sessa passando anche per Da’Vine Joy Randolph.

Tutto inizia nel più classico dei modi: siamo nel New England del 1970, precisamente alla Barton Academy, un collegio maschile. Durante le vacanze di Natale quattro studenti, ognuno per ragioni diverse, non fanno rientro a casa dalle proprie famiglie e, per sorvegliarli, viene scelto Paul Hunham, impopolare insegnante di lettere classiche con il quale né studenti né colleghi vogliono avere a che fare. A farci i conti da vicino, nonostante le premesse, sarà, però, soltanto Angus Tully, unico studente costretto a rimanere bloccato a scuola causa irreperibilità della madre che avrebbe potuto acconsentire a mandarlo in vacanza con la famiglia di uno degli altri tre studenti. Per causa di forza maggiore, quindi, Angus e Paul si ritroveranno costretti a “convivere” per cercare di passare al meglio il Natale e i giorni di festa.

Un film di Natale un po’ anomalo. Un film sull’adolescenza e sulla presa di coscienza di sé altrettanto fuori dai comuni standard. Insomma “The holdovers” è tutto tranne che semplice e banale pur apparendo come tale. Ebbene sì, perché la storia è “classica”, pensiamo di averla già vista con il memorabile “L’attimo fuggente”, tanto per citarne uno, ma bisogna andare oltre le apparenze e arrivare a capire che in questi tre personaggi così diversi tra loro c’è molto da cui trarre spunto per una riflessione.

Senza cadere in pietismi e sentimentalismi Alexander Payne riesce a dare voce a quelli che normalmente sono gli “emarginati”, innalzandoli a un ruolo di prestigio e permettendo loro di essere portatori di valori e tematiche attuali nonostante la storia sia ambientata nel 1970. La guerra che si mescola al lutto e all’elaborazione di una perdita importante sono solo la base di partenza per un film che arriva a toccare le corde dell’anima trattando un tema come la depressione, il tutto condito dalle sane e spesso ironiche divergenze generazionali incarnate perfettamente dai due protagonisti sovente redarguiti, per questo, dalla cuoca Mary (Da’Vine Joy Randolph) sui quali il regista gioca alimentandone le caratteristiche: lo studio della letteratura antica per l’insegnante è l’emblema di una classicità, di una staticità e di un voler rimanere ancorati a un passato destinato invece a evolversi grazie all’intraprendenza e, a tratti, strafottenza tipica dei più giovani.

Un contrasto e una dicotomia resi alla perfezione anche dall’ambiente circostante, dal suo utilizzo e dalla sua trasformazione. Se all’inizio siamo inchiodati e “braccati”, come Angus, all’interno di uno spazio chiuso e angusto, appunto, dal quale non è possibile evadere neanche con la mente, col passare del tempo, imparando a conoscere i personaggi e la loro indole, riusciamo a fuggire e lo facciamo, prima, con la breve visita all’ospedale e, dopo, con il viaggio a Boston.

Spazio e tempo si dilatano in questo modo come l’animo e il carattere dei due personaggi così diversi eppure così “funzionanti” (e funzionali) insieme.

Continuamente e perfettamente in bilico tra dramma e commedia in un modo in cui ad Alexander Payne riesce particolarmente bene “The holdovers” consegna una serie di lezioni di vita. Non solo ai due protagonisti, in grado adesso di guardare sé stessi e gli altri con occhi diversi, ma anche e soprattutto a noi spettatori.


Veronica Ranocchi

giovedì, febbraio 01, 2024

PARE PARECCHIO PARIGI

Pare parecchio Parigi

di Leonardo Pieraccioni

con Leonardo Pieraccioni, Chiara Francini, Giulia Bevilacqua

Italia, 2023

genere: commedia

durata: 96’

Una ripetizione o un’allitterazione? Con questa domanda può iniziare l’approccio al nuovo film di (e con) Leonardo Pieraccioni. Già da questo “inciampo”, voluto, nel titolo si intuisce la direzione del film. “Pare parecchio Parigi”, così come la storia vera dalla quale prende spunto, nonostante le buone intenzioni e delle trovate sempre efficaci, ha il difetto di girare su sé stesso senza uscire da dei veri e reali confini, siano essi quelli del territorio, quelli del gergo o quelli delle battute toscane.

Una storia vera ai limiti dell’incredibile quella dalla quale parte il regista e attore fiorentino. Gli ingredienti sono semplici: un padre malato (e quasi cieco) e tre fratelli, Bernardo, Giovanna e Ivana (Pieraccioni, Chiara Francini e Giulia Bevilacqua), che si sono persi di vista e che non vogliono avere a che fare con gli ultimi giorni di vita del genitore. Messi insieme e mescolati ben bene rappresentano la classica base di partenza per una storia che, in questo caso, si trasforma in un qualcosa a metà strada tra commedia e dramma, a differenza delle precedenti opere dello stesso Pieraccioni, intento solitamente (ed esclusivamente) a divertire.

Se il punto di partenza, come detto, risulta fin da subito efficace non lo è altrettanto lo sviluppo che rimane fin troppo in superficie, salvo poi arrivare all’ovvia riconciliazione che mette in mezzo, tra una gag e l’altra, e alcuni omaggi più o meno voluti, anche tematiche attuali (dal toyboy all’accettazione di sé e degli altri, tanto per citarne due).

Ma la solita verve comica del regista e attore qui tenta di fare un passo più lungo della gamba tanto da rimanere, per certi versi, ancorata al passato. Non a caso, infatti, si possono individuare elementi caratterizzanti i titoli che avevano e che hanno consacrato l’autore toscano: dalla scelta di alcuni interpreti ricorrenti, anche per brevi o brevissime apparizioni, al ruolo, sempre centrale, della famiglia, ogni volta sviscerato in maniera diversa, di pari passo con l’evoluzione umana del regista stesso. Ma non bastano per rendere “Pare parecchio Parigi” una commedia allo stesso livello delle precedenti. Forse è vero che si nota una sorta di punto di svolta, almeno negli intenti, da parte del regista, ma sono intenti opachi e appannati che, con l’andare avanti dei chilometri, si fanno sempre più pesanti e privi di una via d’uscita all’altezza delle premesse.

Ed è un peccato perché è indubbiamente un’ottima base quella di giocare su un viaggio immaginario contornato dalle fugaci ma divertenti incursioni di alcune comparse appositamente istruite da una delle figlie. Ma è un viaggio che sembra girare intorno e girare su sé stesso al pari del camper che ospita la strampalata e ritrovata famiglia. Da Nino Frassica, in un ruolo alternativo di padre burbero forse non troppo nelle sue corde, a un’esplosiva Chiara Francini, probabilmente la figura che emerge più di tutte, tra battute già memorabili e una cadenza unica. Passando per una Giulia Bevilacqua alla quale spetta il compito di riportare serietà e “rigore” al quartetto e alla storia in generale e per un Massimo Ceccherini nel ruolo del cattivo e maligno per eccellenza accompagnato da una bravissima Gianna Giachetti nel ruolo della madre, purtroppo entrambi troppo relegati e marginali.

Il tutto, come nella migliore delle tradizioni dei film di Pieraccioni, è contornato da una parentesi che serve al regista e attore per introdurre e contestualizzare, seppur in maniera alternativa, la sua tanto amata e usata voce narrante. Una voce narrante che, però, non riesce a destare troppo lo spettatore incastrato in un camper, o meglio in un maneggio, dal quale risulta difficile evadere per vedere Parigi.


Veronica Ranocchi