sabato, agosto 31, 2013

Apache

Apache
di Thierry de Peretti
con François-joseph Cullioli, Aziz El Hadachi, Hamza Mezziani, Joseph-marie Ebrard
Francia, 2013
genere drammatico
durata. 82'

Two Tribes, due tribù. In prima fila sotto la luce dei riflettori quattro ragazzi sottratti temporaneamente all'oblio di una sconfitta senza speranza; poco più indietro il rumore assordante dei vincitori portati in trionfo. A tenerli separati una terra di nessuno in cui l'esistenza si decide secondo la legge del più forte. Il far west di cowboy ed apache applicato all'immaginario idilliaco e incontaminato della Corsica costituisce il corpo contundente che fa da scenario alla storia di ordinaria follia raccontata da Thierry de Peretti nel suo "Apache", titolo che allude all'alienazione dei giovani protagonisti, pied noirs senza il bisogno di mostrarlo con il colore della pelle (Jo è di origine italiana ma fa lo stesso), ma anche all'indifferenza di quelli che li guardano senza vederli: dai connazionali vacanzieri disprezzati con toni duri - "francesi di merda" è l'epiteto loro affibbiato - ai Corsi, i nuovi padroni decisi a far rispettare lo status quo confinando quel che resta in una "riserva" di miseria ed anonimato. 


Senza dimenticare noi, testimoni asettici di una tragedia da cui vorremmo distogliere lo sguardo per la violenza insostenibile delle sue conseguenze. Perché rispetto al desiderio d'emancipazione di François-Joseph, Aziz e Hamza Thierry il regista si posiziona esattamente al centro senza fare sconti a nessuno. Equidistante non in termini di interesse - il film legge la vicenda attraverso le azioni dei piu deboli - ma dal punto di vista dello sguardo, Peretti non si preoccupa di acquietare la coscienza con giustificazioni e ordini di merito - il rampollo che si preoccupa della carrozzeria della macchina mentre decide il destino della sua vittima fa il paio con la distaccata manualità con cui, dalla parte opposta, ci si occupa di occultare i resti di un cadavere ancora caldo - ma preferisce puntare l'obiettivo sulle liturgie di una socialità ferina, in grado di trasformare il male in una manifestazione di quotidiana banalità. Condividendo l'incipit con un altro film proveniente dall'edizione 2013 del festival di Cannes ("Bling Ring" di Sofia Coppola) il film di Peretti inizia come un gioco ma si trasforma in qualcosa di più serio quando Aziz deve affrontare le conseguenze di un furto compiuto con la complicità degli amici con cui si è introdotto nella villa dove il padre lavora come custode. Spaventato dalle minaccie dei proprietari che vorrebbero recuperare la refurtiva, Aziz, in preda alla disperazione e non sapendo cosa fare, inizia a girovagare per la città in cerca di una soluzione.

 

Girato in digitale e interpretato nei ruoli più importanti da attori non professionisti "Apache" è il frutto di una sinergia che interessa tanto l'aspetto narrativo, sviluppato con una "vertigine" da cinema noir - la fuoriuscita dei protagonisti dal proprio territorio sarà pagato a caro prezzo - quanto quello dei contenuti, per una volta capaci di superare il tema della mancata integrazione per fare i conti con la desertificazione morale e fisica della nostra contemporaneità. Peretti realizza un film duro, e nella terribile scena dell'omicidio, addirittura scandaloso. La sua bravura sta soprattutto nell'impedire di farsi sfuggire di mano una materia incandescente, raggelata dalla continua presenza di campi lunghi che sembrano ricercare la "giusta distanza", e nello stesso tempo sostanziano l'importanza dell'ambiente, determinante nello stabilire una supremazia - dei corsi sui magrebini - che al di fuori di quel territorio cesserebbe di esistere per il sentimento di estraneità che accomuna le due comunità rispetto al resto del paese. Peccato quindi che "Apache" si perda sul più bello, quando, dovendo motivare la spirale di violenza, sensi di colpa e successivi ripensamenti, si limiti a prenderne atto senza leggittimarli con la dovuta accuratezza psicologica. In questo modo il film perde la compattezza della prima parte, avvicinando un'inconsistenza che in qualche modo attenua l'entusiasmo per un esordio comunque degno di nota. 
(pubblicato su ondacinema.it)

venerdì, agosto 30, 2013

DOSSIER - INDAGINE SU UN CITTADINO AL DI SOPRA DI OGNI SOSPETTO

INDAGINE SU UN CITTADINO AL DI SOPRA DI OGNI SOSPETTO
(Ita 1970)
Regia: Elio Petri
Cast: Gian Maria Volontè ( Il dottore) Florinda Bolkan (Augusta Terzi ) Orazio Orlando ( Biglia ) Salvo Randone ( Idraulico ) Gianni Santuccio ( Questore) Sergio Tramonti ( Antonio Pace) Arturo Dominici (Mangani) Massimo Foschi (Ex marito Augusta Terzi) Aldo Rendine (Panunzio) Fulvio Grimaldi (Patanè) Vincenzo Falanga (Pallottella) Aleka Paizy (Cameriera dottore)
Soggetto: Ugo Pirro- Elio Petri
Sceneggiatura: Ugo Pirro- Elio Petri
Montaggio: Ruggero Mastroianni
Fotografia: Luigi Kuiveller
Musica: Ennio Morricone
Costumi: Angela Sammaciccia
Produzione: Vera Film
Distribuzione: Euro International Film
Durata: 112 min.
Visto censura: 55475 del 6 febbraio 1970
Premi principali: Oscar miglior film straniero - Gran premio della giuria festival di Cannes


Trama: Poche ora prima del suo insediamento a capo dell'ufficio politico della questura di Roma, il capo della squadra omicidi (Volontè) uccide, dopo un gioco erotico, Augusta Terzi (Bolkan).
L'alto dirigente si prodiga a seminare ovunque le prove della propria colpevolezza. Vuole dimostrare a se stesso, ai propri colleghi e ai superiori che, in quanto rappresentante del potere, egli è al di sopra di ogni sospetto e di ogni possibile incriminazione.

Parlare di "Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto" è esercizio difficile, specie se si decide di trattarlo tramite un blog.
Questo accade per diversi motivi: innanzi tutto perchè su "Indagine" sono stati già versati fiumi di inchiostro; e poi perché "Indagine" è stato studiato, commentato, vivisezionato ecc..
Perché allora imbarcarsi in tale difficile avventura? Sicuramente non perché chi scrive si senta custode di verità mai rivelate, o ancor peggio perché  ha la presunzione di poter offrire nuove intrpretazioni o letture del film di Elio Petri.
Scopo di questo scritto è quello di evidenziare alcuni aspetti che a mio parere, contribuiscono in maniera determinante a fare di "Indagine" un capolavoro e di fornire delle piccole conoscenze in merito al cinema politico italiano, con particolare riferimento al cinema di Elio Petri.
Il tutto, nonostante le inevitabili lungaggini (il cortese lettore mi scuserà), cercherò di farlo nella maniera più sintetica possibile.


Il Cinema di Elio Petri. Strano destino quello riservato al cinema di Elio Petri. Autore di alcuni tra i film più noti e rappresentativi del filone politico (A ciascuno il suo 1967 - La classe operaia va in paradiso 1971- Todo Modo 1976) è stato da sempre bersaglio di feroci critiche, spesso ingiustificate o quantomeno discutibili.
A Petri, secondo me, da parte di molta critica, non veniva perdonato il fatto di riscuotere un indiscutibile successo, e ciò era ritenuto "antirivoluzionario" dalla critica più militante, che attaccava il cinema di Petri muovendo rilievi politici. Questo tipo di attacchi  si basavano quasi esclusivamente sulla spettacolarizzazione della lotta di classe.
In poche parole, a Petri veniva rimproverato di non curarsi troppo delle vere atrocità che i militanti subivano durante i fermi, gli interrogatori, gli scontri di piazza, e di darne una rappresentazione edulcorata e facilmente fruibile.
Dall'altra parte della sponda, si attaccava Petri accusandolo di confezionare film su misura per il pubblico di sinistra non propriamente militante, ma che guardava con attenzione e simpatia ai vari movimenti rivoluzionari.
Rarissimi, invece, sono gli attacchi prettamente riguardanti la cifra cinematografica del regista romano.
Questo ostracismo della critica dell'epoca ha portato, a torto o a ragione, a collocare Petri in quella categoria di registi politici alla quale veniva riconosciuto un certo merito autoriale (Damiani, Rosi, Lizzani, Wertmuller) ma che veniva puntualmente esclusa dalla ristretta cerchia dei grandi autori (Antonioni, Bertolucci e in parte anche Ferreri).

Il cinema politico italiano. Questo tipo di cinema può essere catalogato in quattro grandi tipologie;
1) Politico-militante: legato alle istanze dei movimenti di protesta studenteschi o operai. Spesso questo tipo di cinema aveva taglio documentaristico come  Battipaglia, autoanalisi di una rivolta (Perelli 1970);
2) Politico-inchiesta: quello, per capirci, che si rifà a film come Il caso Mattei (Rosi 1972);
3) Politico-storico dove si effettua una critica o si offre una diversa lettura storica di particolari eventi come in Uomini contro (Rosi 1970);
4) Politico-denuncia: che si occupa di evidenziare corruzione o malaffare come Le mani sulla città (Rosi 1963) o ingiustizie subite dai cittadini causati da un esercizio poco democratico del potere, come ad esempio L'istruttoria è chiusa: dimentichi (Damiani 1971) o anche, con i dovuti distinguo, Detenuto in attesa di giudizio (Loy 1971).

Questa suddivisione tiene conto esclusivamente delle tematiche e dello sviluppo del racconto, ma le categorie citate si differenziavano anche per modalità e tecnica di ripresa; uso del sonoro ecc...

Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto. Dal punto di vista del racconto "Indagine" si snoda come un giallo al rovescio: invece di procedere come un'inchiesta che porta alla scoperta del colpevole, la sceneggiatura prevede che lo spettatore venga subito messo a conoscenza dell'identità dell'assassino, riuscendo comunque a non fiaccare l'attenzione dello spettatore per diversi motivi:
1) Vero scopo di Petri è quello di descrivere l'uso del potere (della polizia) e l'omicidio è solo un pretesto;
2) Non si conosce il movente dell'omicidio, che viene svelato lentamente;
3) Seguendo l'insegnamento Hitchcockiano, Petri distriubuisce le conoscenze in maniera diseguale, cioè lo spettatore conosce fatti che i personaggi in scena non conoscono. 

All'interno del cinema politico si è quasi sempre intrapreso un discorso didattico, indicando con precisione tutti gli elementi necessari per far giungere allo spettatore l'immancabile messaggio. Elio Petri, sceglie un percorso diverso, ricorre all'invenzione brechtiana e al grottesco, si muove in direzione dell'onirico e fa sbandare con immersioni kafkiane.
Ma la vera forza commerciale di "Indagine" si deve a cose piuttosto semplici, come la solidità narrativa; le straordinarie interpretazioni (Volontè su tutti, bravissimi Dominici e Rendine, senza dimenticare Salvo Randone); il vincolo tra sesso, politica e potere; e non ultimo il fatto che "Indagine" contiene i diversi codici che caratterizzano le varie tipologie di cinema politico, alleggeriti dall'obbligo di trasmettere il messaggio con modalità militanti.  

Il successo-Fattori esterni. L'affermazione al botteghino (oltre a quella nei Festival) di "Indagine", oltre ovviamente alla indiscutibile bellezza della pellicola, è dovuta anche ad alcuni fattori esterni e coincidenze storiche.
Il film fu scritto nel 1968 e girato nel 1969. L'arrivo in sala nel 1970 è preceduto dalla strage di Piazza Fontana a cui seguirà la morte dell'anarchico Pinelli. Dopo queste tristi vicende fu inevitabile l'inasprisrsi degli scontri di piazza ai quali seguì una feroce repressione da parte dello Stato.

E' in questo clima politico che "Indagine " arriva in sala e sfrutta al botteghino l'indignazione dei cittadini-spettatori che trovano la pellicola ispirata a quanto accadeva nel Paese in quei mesi anche se l'effetto di sovrapposizione è del tutto casuale.
Il fatto che il film fosse in odor di sequestro alimenta ancor di più la curiosità del pubblico come conferma lo sceneggiatore Ugo Pirro "in attesa della decisione del magistrato che pochi pronosticavano a noi favorevole, la ressa ai botteghini aumentò..." (Il cinema della nostra vita - 2001).

Gian Maria Volontè. Perché un interpretazione perennemente sopra le righe di un un personaggio tipicizzato secondo i canoni della commedia è unanimemente considerata la più grande prova attoriale dell'immenso Gian Maria Volontè?
E' presto detto. Volontè non interpreta il dottore, Volontè diventa il dottore. Lo diventa e lo (re)inventa, coniando un modo di parlare (torneremo su questo argomento), di gesticolare, di sorridere, di pettinarsi che
richiamano alla memoria il classico funzionario ministeriale del sud italia che all'epoca affollava questure, prefetture, segreterie di ministri e direttori generali, molto spesso servo anestetizzato e cieco dello Stato che garantiva carriera, stipendio e come in questo caso, anche potere.

"Il personaggio del dottore assurge a dimensioni quasi metafisiche e finisce per assumere nel ghigno del sorriso, nello sprezzo dello sguardo, nella sicumera dell'incedere, nella violenza del gestire, nella sinuosità del persuadere, un significato più universale di quello che a prima vista potrebbe apparire.....Poche volte nel cinema recente abbiamo visto un attore plasmarsi alle necessità di un personaggio con tanta flessibilità mimetica e vocale" (Lino Micciché - Il cinerma italiano degli anni '70 - Marsilio Editore 1980).

Il dottore-Volontè è meridionale, ma in tutto il film non vi è chiara traccia della sua provenienza. L'unico, impalpabile, quasi invisibile indizio ci viene offerto a pochi minuti dalla fine del film, quando il protagonista è intento a preparare la valigia, sul muro alle sue spalle sono appesi in bella mostra dei tioli di studio. Su uno di questi attestati, per una frazione di secondo è possibile intravedere il nome della città di Messina, che potrebbe essere la sede universitaria o la città di nascita (molto più probabile la prima ipotesi).
Per questo motivo il lavoro sull'accento meridionale del protagonista è straordinario. Volontè inventa un accento che non esiste (il termine "marxista" diventa "marchesista"), che può essere classificato come accento meridionale, ma non riscontrabile nella realtà linguistica italiana.

Nella interpretazione di Volonté possiamo distinguere diversi livelli di recitazione:

1) Quando è protagonista assoluto della sequenza (discorso di insediamento - quando chiede informazioni su Antonio Pace), la voce è alta, decisa, il ghigno feroce, cattivo: "al gabbio, io ce lo mando!";
2) Quando impersonifica la faccia ipocrita e amichevole del potere: "Una bottiglia la facciamo aprire al dottor Panunzio"; Qui la maschera è completamente falsa e Volonté si impegna a farlo capire allo spettatore, le parole sono confidenziali, ma l'aria che si respira è piuttosto pesante;
3) Quando finge umiltà: "con modestia, con modestia...al lavoro, al lavoro", Qui il tono si fa meno impostato, la parola non è mai scandita, l'espressione è sommessa;
4) Quando viene toccato sul nervo scoperto. "rilasciatelo, rilasciatelo..non è niente, rilasciatelo" - " E non mettermi le mani addosso..non mettermi le mani addosso"  urla, isterismo, ripetizione della frase, l'uomo che si fa bambino, il potere sottratto.

Esempio lampante di quanto sopra descritto è la sequenza dell'interrogatorio all'ex marito della Terzi: "per me è innocente...per me è innocente", la prima volta pronunciato con tono ironico accompagnato da un sorriso e con il gesto di sistemarsi i capelli, come a voler imitare il sospettato ricchione (nel film, con realistico linguaggio questurino non è mai omosessuale, è sempre frocio o ricchione), la seconda pronunciata con fermezza e con una espressione che gela il sangue ai colleghi e che oltre a dare la soluzione agli "esperti" della omicidi, è nel contempo, disprezzo assoluto verso la loro incapacità di gestire un interrogatorio e giungere rapidamente ad una conclusione. Tutto questo avviene in meno di un secondo. Volonté cambia tono, espressione, si fa maschera, il gesto e la parola vengono spinti all'estremo.
In definitiva si può affermare che la prova di Volonté in "Indagine" è praticamente perfetta, grazie alla propria bravura riesce a rendere credibile quello che credibile non è, mettendo in scena una "perversa caricatura del meridionalismo funzionariale dell'amministrazione dello Stato" (cit. Petri).

Le parole.  Trovo particolarmente interessante analizzare alcuni passaggi del film attraverso le parole pronunciate dai personaggi, per cercare di spiegare alcuni meccanismi che la pellicola di Petri innesca quasi sottovoce, portando (a mio parere) lo spettatore in certi casi ad abbracciare alcune posizioni, in altri a comprendere aspetti non proprio chiarissimi riguardanti le dinamiche all'interno della questura, quanto del movimento studentesco.

1) Il dottore interroga l'ex marito della vittima, di professione architetto: "Lei ha arredato casa Moroni, ne ho sentito parlare, ci sono delle soluzioni interessanti"
Questa frase, pronunciata dal personaggio interpretato da Volontè, dovrebbe suonare piuttosto strana.
Infatti, mentre il dottore vive in una casa moderna, delimitata da ampie vetrate e dall'arredamento scarno, l'architetto invece è noto per la propria ecletticità e le soluzioni azzardate (questo pensiero è indotto dall'omosessualità dell'ex marito della Terzi).
Da questa frase si possono trarre due conclusioni: che il poliziotto conosce molto bene i meccanismi mentali dell'interrogato e cerca di conquistarne la simpatia, e in questo caso poco aggiunge alla conoscenza dello spettatore, che a questo punto del film ha già capito bene quanto preparato professionalmente sia il dottore-Volontè oppure, in contrasto con l'arredamento di casa propria evidenzia una preparazione in materia che poco si addice ad un grigio funzionario dello Stato, alimentando la voglia dello spettatore di scoprire altri aspetti del dottore-Volontè. 


2) Dopo una retata decine di giovani militanti sono rinchiusi nelle celle sotterranee della questura, il dottore si reca in  visita accompagnato da un funzionario che dice: "Vede dottore, nemmeno la galera li unisce. in due ore si sono già spaccati in quattro gruppetti..." Questa frase, pronunciata fuori campo e con un sottofondo di urla, quindi con il concreto rischio di essere snobbata dallo spettatore, ha un doppio compito: il primo è quello di evidenziare come all'interno del movimento rivoluzionario ci siano diverse fazioni, che ne minerebbero la presunta unità (questo particolare non credo fosse chiarissimo al cittadino medio, spettatore del notiziario rai), il secondo rappresenta un grido d'allarme da parte di chi il movimento deve affrontarlo per le strade e nelle università e combatterlo, in quanto una vera unità di intenti del movimento renderebbe difficilissimo se non impossibile il lavoro delle forze di polizia.


3) Passiamo ora ad analizzare il chirurgico discorso di insediamento a capo dell'ufficio politico del dottore-Volontè.

"Tra i reati comuni e i rati politici sempre più si assottigliano le distinzioni, che tendono addirittura a scomparire. Sotto ogni criminale può nascondersi un sovversivo, sotto ogni sovversivo può nascondersi un criminale. nella città che ci è stata affidata in custodia, sovversivi e criminali hanno già steso i loro fili invisibili che spetta a noi di recidere. Che differenza passa tra una banda di rapinatori che assaltano un istituto bancario e la sovversione organizzata, istituzionalizzata, legalizzata. Nessuna. le due azioni tendono allo stesso obbiettivo sia pure con mezzi diversi, e cioè al rovesciamento dell'attuale ordine sociale"

In questa parte del discorso troviamo il ribaltamento del modo di vedere e interpretare l'azione illegale propria dei movimenti rivoluzionari.
Mentre per i militanti di organizzazioni extraparlamentari, anarchici, che aderiscono senza dubbio alcuno alle teorie complottistiche, l'azione illegale, qualunque essa sia anche quella etichettabile come reato comune, ha una valenza politica, dal discorso del dottore-Volontè emerge che, al contrario, ogni azione terroristica o dalla portata sovversiva va trattata come un "semplice" gesto criminale.
Questo concetto ha il doppio scopo di depotenziare la propaganda militante e allo stesso tempo invitare i colleghi funzionari di polizia a non riconoscere nessuna dignità politica al militante rivoluzionario, riservando loro lo stesso trattamento riservato ai delinquenti comuni. Un discorso che nell'economia del film ha il subdolo scopo di umiliare i colleghi, (che il dottore-Volontè ritiene non degni di rappresentare lo Stato come evidenzia in altre parti del film; "burocrati" "questurini") servendo loro un piano di semplice applicazione, ma del quale non sono capaci di comprendere le finalità politiche.

"L'uso della libertà minaccia da tutte le parti i poteri tradizionali, le autorità costituite. l'uso della libertà che tende a fare di qualsiasi cittadino un giudice, che ci impedisce di esercitare le nostre sacrosante funzioni. Noi siamo a guardia della legge, che vogliamo immutabile, scolpita nel tempo. Il popolo è minorenne, la città è malata, ad altri spetta il compito di curare  e di educare, a noi, il dovere di reprimere. la repressione è il nostro vaccino. Repressione e civiltà".

La seconda parte del discorso ha lo scopo (nel film) di riconoscere ai subalterni un ruolo determinante che in realtà non hanno.
L'uso del plurale e di termini come "altri" e "qualsiasi" sono il veicolo che il dottore-Volontè utilizza per compattare le proprie fila ed infatti il discorso termina con applausi e urla di approvazione.
Nel rivolgersi al pubblico, invece, un discorso di tale violenza reazionaria, (non è un caso che nel discorso faccia capolino un perentorio "A Noi") non può che scatenare indignazione, e quindi in un momento cruciale della pellicola sposta le simpatie del pubblico verso il giovane sospettato dell'omicidio.

Il grottesco. Che "Indagine" sia un film che vira sul grottesco e sull'onirico non vi è dubbio e lo abbiamo già detto.

L'intrpretazione perennemente sopra le righe di Volontè, alcuni meccanismi da commedia, situazioni kafkiane (l'idraulico in questura), il finale aperto, ne sono marchio indelebile.
C'è però del grottesco poco palpabile che riguarda arredamento ed ambienti.


Casa della vittima. L'appartamento è situato a piano terra, a livello della strada, ci si aspetta che da un momento all'altro qualcuno dalla strada guardi all'interno.
Eppure nell'appartamento si consuma un feroce delitto, si susseguono giochi erotici, falsi interrogatori a voce alta, percosse, come se si trattasse della più riservata delle case.
Qualcosa non torna.


Ufficio del Questore. L'eccessiva luce, l'ambiente rarefatto già nella sala d'attesa è un chiaro messaggio del regista: si sta per accedere nella stanza del potere inattaccabile, nella stanza di "dio", ed infatti prima dell'ingresso del dottore-Volontè, ne esce un prelato.
L'ufficio è immenso, chiaro, lindo, eccessivamente luminoso, i quadri alle pareti non hanno cornice e non hanno nulla di ufficio ministeriale, sembrano provenire da una collezione privata.
In fondo alla stanza una grande scrivania dove troneggia il Questore, alla propria sinistra, come un pugno in un occhio, una teca con vasi antichi degna di un museo. Anche qui, l'incongruenza è evidente.

Pace Antonio. Il personaggio del rivoluzionario amante della Signora Terzi è stato spesso sottovalutato.
L'omicidio ha un chiaro elemento scatenante: "si prendeva gioco di me".
Come? Probabilmente anche tramite la contemporanea relazione con il giovane Pace.
Ad una prima lettura si  potrebbe ridurre tutto allo scontro politico poliziotto-rivoluzionario, ma non è cosi.


Sono altri i terreni di scontro tra i due antagonisti.


Esiste lo scontro in campo sessuale; non solo dovuto alla differenza di età, ma anche sul diverso modo di interpretare il sesso: "fai l'amore come un bambino" dice la Terzi-Bolkan rivolgendosi al dottore-Volontè, mentre il giovane Pace incarna la virilità rivoluzionaria e il vigore della gioventù.


Esiste lo scontro in campo sociale; il dottore è espressione della piccola borghesia meridionale che in quegli anni rimpolpava i ministeri che offrivano possibilità di carriera insperate per chi proveniva da una porzione di Italia priva di industrie o imprenditoria di grande livello. Pace invece, non solo è settentrionale (Ravenna) ma incarna sino in fondo lo spirito avventuristico e la speranza di un futuro migliore (ha abbandonato gli studi universitari e punta tutto sulla rivoluzione che cambierà le cose). La sicurezza ecconomica e il potere conferito dallo Stato contrapposta a chi lo Stato lo vuole abbattere.

Il finale. Il film si chiude con una serranda che si abbassa, la mdp è fuori dall'appartamento e non potrà mai raccontarci quello che accadrà all'interno.
Quello che si è visto è accaduto davvero?
Si tratta di realtà o di un sogno?
Come andrà a finire?
Il finale aperto di "Indagine" è la mazzata definitiva che Petri infligge allo spettatore, facendolo precipitare nello sconforto, paventando l'ipotesi che oltre la serranda, al chiuso di quella stanza, il potere si autoassolva.

Fabrizio Luperto

Elysium

Elysium
di Neil Blomkamp
con Matt Damon, Jodie Foster
Usa 2013
Genere fantascienza
durata, 109'

Dopo una lunga fase di embargo che lo avevano quasi fatto dimenticare, "Elysium" riappare improvvisamente nella galassia dell'universo hollywoodiano portandosi dietro le attese nei confronti del suo regista, chiamato alla prova del nove dopo la notorietà ed il successo di "District 9", uno dei pochi film di fantascienza capace di concedere ai suoi spettatori sprazzi ai autentica vionarietà. Ed è proprio su quella che punta Neil Blomkamp che firma la sceneggiatura del suo primo film americano ambientato in un futuro in cui la terra si è trasformata in un'immensa discarica, e dove gli abitanti più facoltosi si sono trasferiti su una stazione spaziale lussuosa ed esclusiva chiamata Elysium. La sua elite governata dal segretario di stato Rodhes (una cattivissima Jodie Foster) respinge con violenza ogni possibilità di ricongiungimento da parte dei "terrestri", motivato più che altro dalla possibilità di usufruire dei vantaggi di una macchina in grado di far guarire da ogni male.  Ed è per questo ragione che Max, ammalatosi mortalmente lavorando come operaio in una fabbrica/prigione decide di rischiare il tutto per tutto nel tentativo di poterne usufruire. Per riuscirci si farà impiantare un esoscheletro che lo trasformerà in un soldato bionico e gli permetterà di affrontare il pericoloso mercenario di cui Rodhes si serve per gestire le operazioni sulla terra. Rifacendosi al suo film precedente Blomkamp trasferisce a Los Angeles il suo immaginario apocalittico e terzo mondista per costruire una condizione esistenziale che sembra il risultato delle più nefaste proiezioni sociologiche.Da una parte cieli grigi ed un urbanistica fatiscente, dall'altra la versione pop del paradiso terrestre, con emozioni edulcorate dal lusso asettico ed artificiale del paesaggio e degli ambienti. Ma a discapito di una storia che vorrebbe coinvolgere attraverso la sottotrama amorosa e sacrificale che vede Max impegnato a salvare la figlia della donna che ha sempre amato facendola arrivare sana e salva sul "pianeta proibito", "Elysium" esaurisce i suoi sforzi nella credibilità dell'universo che porta in scena. Quando poi si tratta di dargli vita subentrano i difetti di scrittura che riducono il film ad un far west di esplosioni, sparatorie ed inverosimili resurrezioni. A mancare è soprattutto la capacità di sviluppare i personaggi (quello di Jodie Foster rimane è abbozzato), di dargli uno spessore che vada oltre la fisicità white trash che Matt Damon si porta addosso per l'intera durata del film. Sarebbe forse il caso di ricordare  che i soldi non sono tutto e che le idee contano ancora qualcosa.

giovedì, agosto 29, 2013

TERRE DI CINEMA: INCONTRI INTERNAZIONALI SULLA FOTOGRAFIA CINEMATOGRAFICA

Scrivere con la luce trasformando l'idea del regista nella visione dell'opera cinematografica. Con questa consapevolezza il direttore della fotografia ha smesso di considerarsi un sublime tecnico per trasformarsi in un poeta dell'immagine, capace di cogliere l'essenza ultima dell'opera filmica. E' con queste premesse che nasce il "Terre di cinema", raro e forse unico esempio di festival dedicato ai direttori della fotografia in programma dal 1° al 10 settembre 2013 a Terro Agro in provincia di Messina. 


La kermesse  propone un approccio articolato per soddisfare le curiosità del grande pubblico, le domande degli appassionati, così come le approfondite conoscenze dei più esperti: 7 masterclass tenute da alcuni fra i nuovi talenti della fotografia cinematografica internazionale, proiezioni, incontri aperti con registi e cast, una rassegna competitiva, workshop tecnici con le più importanti aziende del settore, anteprime nazionali e omaggi ai grandi maestri. Insomma un evento da non perdere che abbiamo il piacere di segnalarvi.  

lunedì, agosto 26, 2013

L'evocazione - The Conjuring

L'evocazione - The Conjuring
di James Wan
con Patrick Wilson, Vera Farmiga
Usa 2013
Genere, horror
durata, 112'



Il nemico si nasconde dove meno te lo aspetti. Nel cinema americano l'ubicazione preferita è quella degli interni di lussuosi appartamenti e di ville isolate, scelte non a caso per rappresentare la quintessenza di un benessere familiare e borghese che potrebbe estendersi con un pizzico di fantasia a quello di una nazione ossessionata dalla paura di perdere i propri privilegi. Se è chiara quindi la simmetria tra le storie di famiglie minacciate da un nemico occulto, e l'escalation geopolitico che ha colpito il cuore della Nazione con terribili attentati, e di conseguenza il successo commerciale ed anche critico di film apparentemente innocui al di fuori di quel contesto, questo non toglie nulla ad un fenomeno cinematografico che riesce a coinvolgere ripetendo sempre lo stesso schema narrativo. E' così nell'economia di un'annata che aveva già timbrato il cartellino con i prodotti della Blumhouse (da Paranormal Activity 4 a Sinister solo per dirne due), e che proprio in questo scorcio di stagione aveva mostrato sorprendente capacità di variazione, trasformando il diavolo in una nuova "arancia meccanica" nel cult La notte del giudizio, tocca ora a James Wan ed al suo "L'evocazione - The Conjuring" tenere alto il vessillo del cinema horror rafforzando il primato di un genere che non accenna a diminuire il suo indice di gradimento.

Certamente l'abbondanza produttiva così come il consenso al botteghino non sono di per requisito di sicura qualità, anzi. Ma nel caso del regista malese e del suo film conviene soffermarsi con attenzione perchè il virgulto dopo un periodo di appannamento conciso con lo sconfinamento in territori altrui - parliamo di "Death Sentence"(2007) epigono della serie del giustiziere di Charles Bronson - sembra aver ritrovato l'ispirazione degli inizi ("Saw", 2004) e soprattutto i favori degli studios, decisi ad affidargli le redini del prossimo "Fast and Furious 7". Diciamo innanzitutto che Wan lavora su forme cinematografiche ampiamente consolidate, e se vogliamo anche convenzionali, perché la storia della famiglia (Perron) che si trasferisce nella casa dei sogni senza sapere che la stessa è infestata da presenze demoniache, ed anche le modalità del loro salvataggio, realizzato grazie all'intervento di una coppia di indagatori dell'incubo che rispondono al nome di Ed (Patrick Wilson) e Lorraine Warren (Vera Farmiga) risalgono alla notte dei tempi. Dagli haunted house movie ("Amityville Horror", 1979) a capolavori come L'esorcista ma anche Sleepy Hollow, presente nel tentativo d'ingabbiare l'irrazionale con i parametri della scienza e della logica. Ma più degli altri Wan cita se stesso ed il suo penultimo lavoro - Insidious (2010)- di cui "The conjuring" sembra non il seguito ma la versione sofisticata e più teorica del precedente.


Partendo dallo stesso argomento - la parabola di una possessione che si trasforma in un'epopea del bene contro il male - e da situazioni pressoché identiche - senza elencarle tutte basta ricordare il misto di fede e ragione messo in mostra da coloro che si incaricheranno di salvare i malcapitati di turno - "The conjuring" se ne distacca sia dal punto di vista formale che dei contenuti. Innanzitutto per la decisione di collocare la vicenda negli anni '70, che, al di là delle presunte ragioni filologiche è un modo per mantenersi lontano dalla sbornia di realismo found footage nel nuovo cinema horror.
Wan per contro torna all'antico nel vero senso della parola, con una messa in scena che diventa evidente (nei colori, nelle scenografie, nei costumi), citazionistica (proprio alla fine degli anni 70 il filone cinematografico relativo alle case infestate ebbe il suo rilancio dopo i prodotti della Hammer di Roger Corman) e pure demodè. Una scelta che si confà ad una capacità di raccontare alimentata da una fantasia che in questo caso trova sfogo nel parallelismo tra le due famiglie della storia, quella dei Perron, spaventata ed in pericolo, e quella dei Warren, antitetica alla prima ma allo stesso tempo simile. Un dualismo usato per allargare i punti di vista del racconto ed offrire alla vicenda un respiro più ampio (succedeva anche in Insidious con l'espediente del viaggio nell'"altrove") capace di evitare sviluppi monotematici. Passando ai contenuti "The conjuring" dapprima li teorizza sotto mentite spoglie, enunciando la struttura del film attraverso le lezioni universitarie tenute dai Warren ("Infestazione", "Oppressione" e "Possessione" sono insieme l'argomento di studio per chi ascolta, ed insieme i capisaldi attraverso cui si sviluppa la storia del film) e poi li manifesta dando per scontato l'esistenza di una dimensione metafisica e quindi del male, qui depurato dagli scetticismi normalmente usati per costruire la drammaturgia necessaria ad enfatizzare la successiva presa di coscienza. Ma il film è anche in grado di assimilare lo spirito dei tempi, ed in particolare la sfiducia nella chiesa e nei suoi strumenti di intervento, giudicati tardivi ed inefficaci - vedi il caso degli scandali di pedofilia della curia americana - e per questo giubilati a favore di un interventismo tutto laico, presente in "The conjuring" nella consapevolezza di cui Ed e Lorainne fin dal primo momento si fanno pragmaticamente portatori.
Il cinema di Wan non riflette sul male e neanche si preoccupa di costruire impalcature intellettuali per cercare di comprenderlo. Il dato di fatto diventa allora la giustificazione per articolare un intrattenimento fatto di tensione e coinvolgimento, spettacolarità ed identificazione. In questo senso la faccia monoespressiva di Patrick Wilson, attore feticcio del regista, diventa funzionale ad un meccanismo che si spiega da solo, ed in cui c'è bisogno solamente di qualcuno che abbia voglia di tirarsi su le maniche.(pubblicato su ondacinema.it)

70 Mostra d'arte cinematografica: immaginario festivaliero

William Friedkin, regista americano
Leone d'oro alla carriera













Da artista scomodo e mal sopportato a guru osannato ed imprescindibile. Per William Friedkin i tempi de "L'esorcista" e di "Cruising" sembrano lontanissimi rispetto ad un attualità ricca di premi e di consensi ad oltranza. Never Say Never

70 Mostra internazionale d'arte cinematografica: immaginario festivaliero

Under the Skin
di Jonathan Glazer
con Scarlett Johansson
Venezia 70
 




  



 Per Jonathan Glazer sarà una sexy aliena in giro per la Scozia. A Venezia  i fan l'aspettano impazienti

sabato, agosto 24, 2013

Drift - Cavalca l'onda

Drift-Cavalca l'onda
di Ben Nott, Morgan O'Neill      
con Sam Worthington, Xavier Samuel, Lesley Ann Brandt
Australia 2013
genere, drammatico
durata, 120' 


L'Australia come l'America, una striscia di costa trasformata in un paesaggio californiano e dentro il mare, con le onde alte come Godzilla un pupullare di "cowboy" del mare pronti a cavalcarle. E' questo lo scenario di "Drift cavalca l'onda" ultima versione del grande prototipo girato da John Milius. In realtà le similitudini con "Un mercoledì da Leoni" rimangono in superficie perchè oltre allo sfondo storico in via di trasformazione (gli anni 70, la guerra in vietnam, le grandi rivolte sociali) a mancare è anche il tessuno di quella controcultura che il surf  in qualche modo ha rappresentato all'interno del contesto americano. Ad essere importante è invece il sogno di una famiglia come tante, ed il suo tentativo di migliorarsi attraverso la costruzione e la vendita di tavole, costumi ed altri accessori indispensabili a quell'attività. E poi le complicazioni - qui rappresentate da un poco di buono e dalla sua banda - che come sempre scandiscono il cammino di tutti gli uomini di buona volontà.

Pur con molti clichè, il più evidente è quello del personaggio interpretato da Sam Worthington ("Avatar", 2009), una specie di guru che nelle intenzioni della storia dovrebbe condensare la visione alternativa ed il contraltare rispetto al conformismo degli altri protagonisti, "Drift" si mantiene concreto evitando le solite riprese relative ai virtuosismi dei campioni acquatici ma preferendo concentrarsi sul legame tra Andy e Jimmy i due protagonisti del film, descritto mediante differenze generazionali e caratteriali, ed attraversato dalla presenza di una donna della quale entrambi finiranno per innamorarsi. Il risultato è coinvolgente come un prodotto televisivo di buona fattura e, considerata la stagione, sufficientemente adatto a rappresentare il giusto passatempo per serate senza meta.


venerdì, agosto 23, 2013

Insidious

Insidious
di James Wan
con Patrick Wilson, Rosa Byrne
Stati Uniti, 2010
genere, horror
durata, 98
 
 
Prima de "L'evocazione - The Conjuring" (2013) e dopo "The Saw" (2004) il regista James Wan è alla ricerca di una storia in grado di conferire nuovo smalto d una carriera diventata improvvisamente incerta, smarrita nel tentativo di trovare nuove forme capaci di raccontare la dimensione del male, il tema che da sempre caratterizza i lavori del regista di origini malesi. Così dopo il passo falso di "Death Sentence" (2007), con Kevin Bacon a rifare fuori tempo massimo il giustiziere di Charles Bronson, Wan si decide a fare il salto strappando il sipario che riveste il quotidiano per andare a guardare cosa si nasconde dietro quella facciata. Per farlo immagina una famiglia felice sconvolta dal dramma di un figlio caduto in coma senza apparente motivo, e successivamente terrorizzata dalla comparsa di inquietanti presenze. All'incredulità iniziale ed allo scetticismo subentra la paura, ed una medium incaricata di salvare il bambino dalle forze oscure che vogliono impossessarsi del suo corpo.
 
Sfogliando il copione di una sceneggiatura che non si allontana da quanto era stato già mostrato in fatto di demoni e possessioni, James Wan ne arricchisce però la messinscena con una personale visione del mondo metafisico raffigurato in maniera teatrale e grottesca, con richiami ad atmosfere lynchiane ed al gran guignol della commedia macabra. Ed in effetti pur restando in un contesto assolutamente drammatico che spinge forte sul pathos genitoriale e sul contrasto tra fede e ragione "Insidious" destabilizza le sue  coordinate con un ghigno ironico ed anche agghiacciante (così era quello del cattivo nel suo lavoro d'esordio) che deriva non solo da raffigurazioni demoniache che che sembrano uscite da un baraccone degli orrori,  ma anche dal team di aiutanti che coadiuva la sensitiva , più simili a Gianni e Pinotto che a Mulder e Scully di "X-Files", nonostante l'apparato tecnologico e le procedure da csi di cui si fanno portatori. Accostando i peregrinaggi extra realtà alla possibilità di "viaggiare" nella forma astrale -  la stessa che permetteva al Dottor Strange di vivere avventure extracorporee in una sorta di dimensione parallela - "Insidious" è girato in maniera classica, con espedienti convezionali come quelli dell'uso del bianco e nero ed in generale delle alterazioni cromatiche per segnalare i cambiamenti spazio temporali, e l'utilizzo di inquadrature che esasperano la profondità al limite della distorsione per enfatizzare l'anormalità di quello che vediamo. Ciò nonostante riesce a coinvolgere per la capacità del regista di raccontare la vicenda con soluzioni plausibili ed una progressione sempre in linea con le logiche della storia. Interpretato tra gli altri da Patrick Wilson destinato a diventare il suo attore feticcio, il film ha già un seguito leggittimato dallo sconcertante finale con "Insidious" si congedava dai suoi spettatori.

66° Film Festival di Locarno: cartolina finale


"Quando giro un film evito qualsiasi tipo di comunicazione. Non parlo con gli attori ed ignoro i tecnici. Da quel momento in poi ogni cosa che faccio dipende da Dio, non da me”. Basterebbero queste parole rilasciate da Albert Serra al termine della proiezione di “ Historia de la meva mort” vincitore del 66 Festival Film di Locarno per capire la consistenza di una scelta, che la giuria capitanata da Lav Diaz ha indirizzato dalle parti di un cinema stravagante e criptico. Individuate come nemico da sconfiggere, comprensibilità ed empatia sono state relegate in secondo piano con il premio alla regia assegnato al coreano Hong Sangsoo per le deliziose schermaglie di “U ri Sunhi”, e quello speciale della giuria andato alla commovente confessione di “E Agora?Lembra – me” percorso autobiografico di malattia ed amicizia realizzato dal portoghese Joaquim Pinto. Ancora più indietro, quasi a cancellarne il tripudio generale dimostrato con l’ovazione di dieci minuti ricevuti dalla platea del festival “Short Term 12” dell’americano Destin Cretton, storia di gioventù bruciate omaggiata dal premio per la migliore attrice assegnato a Brie Larson, meritatamente affiancata al collega Fernando Bacilio ed alla maschera di muta sofferenza  da lui consegnata al protagonista di “El mudo” dei fratelli Vega, thriller esistenziale di una falsa indagine ambientata nel Cile dei nostri giorni. Ignorato dal palmares ufficiale il cinema italiano, a parte la generosa presenza dello splendido sessantenne Sergio Castellitto (sua la Masterclass più bella) ha fatto parlare di se più per le polemiche suscitate dai contenuti che per i meriti comunque presenti nel lavoro di Yanikian/Lucchi e di Pippo Delbono. Riportando a galla alcune delle pagine più violente della nostra storia (il regime fascista e gli anni di piombo) “Pays Barbare” e “Sangue” sono le tracce di un cinema costretto a ricercare altrove (rispettivamente Svizzera e Francia) i finanziamenti necessari a non lasciarsi imbavagliare da luoghi comuni ed ipocrisia, per mostrare le facce (Mussolini e Senzani) di una ferita che continua a sanguinare preamboli di morte. Ma quella di quest’anno è stata anche la prima volta di Carlo Chatrian, direttore minimalista e cinefilo subentrato in corso d’opera, capace di portare a casa il risultato con un’offerta  rivelatasi mediamente buona, ma senza le punte di diamante che ci si poteva aspettare. In un concorso internazionale variegato di generi e formati la selezione ha segnalato il ritorno ad un cinema fatto di storie, pensiamo alle opere provenienti dall’oriente (Tomogui del giapponese Shijno Aoyama è stata una delle sorprese più belle), ma anche a film più tradizionali come “Tonnere” e “Gare du Nord” ed “Une Autre vie” alfieri del cinema francese che qui però non ha particolarmente brillato. Una restaurazione accompagnata dal trionfo dei sentimenti, accolti un po’ ovunque –  tanto dal pubblico generalista della Piazza Grande che da quello militante del concorso e delle sezioni – da un entusiasmo in qualche caso persino eccessivo. Pensiamo all’edulcorato ed inconsistente “Gabrielle” di Louise Archambolt, premiato dal pubblico della Piazza,  ma anche alle storie d’amore di “Mr. Morgan Last Love” con Michael Caine, e di quella fantascientifica e distopica di “Real” dell’altro giapponese Kiyoshi Kurosawa, a riprova che il segno dei tempi per essere tale deve essere espressione di una variabile umana che il cinema farà bene a non dimenticare.
(pubblicato su ondacinema.it/speciale 66° Festival Film Locarno)

giovedì, agosto 22, 2013

Farewells: ELMORE LEONARD (1925 - 2013)



Anche Elmore Leonard se n'è andato... ... Il primo istinto e' quello di tirarsi su, di non farsi cadere le braccia. Pero' spalle e gomiti sono intorpiditi e anche le dita vanno un po' per conto loro...

Dopo la guerra nel Pacifico, Elmore detto "Dutch" era tornato in patria e aveva studiato letteratura. La penna aveva cominciato ad esercitarla alternativamente sul western (ricordiamo tratti da suoi romanzi o racconti "Quel treno per Yuma" del 1957 di Daves e il remake di Mangold del 2007; "Hombre" del 1967; "Io sono Valdez" del 1971; "Joe Kidd" del 1972, solo per citarne alcuni) e nel campo della pubblicità. Con la cosiddetta "crime fiction" comincio' a fare sul serio a sua stessa detta dopo essere stato notevolmente impressionato da "Gli amici di Eddie Coyle" di Higgins, col quale avrebbe condiviso la medesima passione per un linguaggio in apparenza semplice, quasi brutale nella sua immediatezza, invece ricercatissimo e ampiamente stratificato, frutto al tempo di studio, ricerca e vera e propria "prossimità" (Higgins era stato a lungo procuratore distrettuale e giornalista di cronaca nera; Leonard frequentava numerose persone a contatto in modo diretto o indiretto col crimine, come pure poliziotti di lungo corso); prassi che diede ad entrambi la possibilità di avvalersi di una specie di "termometro costante" dello stato della lingua utilizzata in strada, nei locali, in generale nei sobborghi e nei luoghi malfamati delle città (e che, con ogni probabilità, ha dannato più di una generazione di traduttori).

Oltre mezzo secolo di carriera, quarantacinque romanzi - il quarantaseiesimo era in fieri - un gruzzolo di racconti e uno sguardo partecipe quanto ironico sull'acquario criminale - tanto presuntuoso come spesso e volentieri inetto, pasticcione, un piede dentro e l'altro quasi a mollo nel ridicolo - Leonard per "osmosi" venne a contatto col cinema, a cui ben presto fecero gola le sue storie il cui motore era alimentato da un non comune carburante narrativo in grado di coniugare dialoghi serrati e sarcastici con una serie di eventi, di fatti, in apparenza indipendenti ma sotterraneamente intrecciati fra loro: un'unica, energica corrente di parole al lavoro che con una sua caustica inesorabilità correva sicura verso la conclusione, ora beffarda, a volte imprevista, spesso sic et simpliciter inevitabile: e tutto riducendo ad un minimo meno che sindacale descrizioni e spiegazioni (da "Dutch" additate, a cavallo tra gergo, onomatopea e neologismo, col meraviglioso termine "hoooptedoodle"). Annotiamo qui, senza la pretesa di essere esaustivi, "52 gioca o muori" (1986); "Cat chaser" (1989); "Get shorty" (1995); "Jackie Brown" (1997); "Out of sight" (1998); "The big bounce" (2004); "Be cool" (2005).

Amante del ritmo, delle conversazioni più vere del vero ("If it sounds like writing, I rewrite it", diceva), delle vicende che si dipanano in una continua rincorsa alla dissimulazione per cui e' solo a forza di dettagli che emergono gli stati d'animo, le intenzioni anche dei personaggi più marginali, dal momento che il modo migliore di inserirli nel contesto, sbozzarne le psicologie, eventualmente comprenderli e' "aspettare, vedere come vengono fuori e soprattutto farli parlare" - con occhi grati ma aperti rivolti a Steinbeck e a Hemingway - Elmore Leonard ha finito per tratteggiare una commedia umana in nero spassosissima e antieroica, ammorbidita da una punta d'involontario romanticismo, quindi scalcagnata e irriverente, logorroica e salace, iperattiva e pressoche' sempre destinata allo scacco, proprio come non si stanca di essere tante volte la vita. Ed e' soprattuto per questo che ci mancherà.



TFK

lunedì, agosto 19, 2013

Farewells: ADDIO A LUCIANO MARTINO


Mercoledi 14 agosto, in Kenia, mentre veniva trasportato in aereo da Malindi a Nairobi è morto un signore quasi ottantenne che da tempo viveva nel Paese africano occupandosi di fotovoltaico ed edilizia.
Si chiamava Luciano Martino e il suo nome è legato ad oltre un centinaio di film.
Si tratta del più grande produttore di B-movie italiano: peplum, poliziotteschi, gialli e commedie che negli anni '60 e '70 hanno formato l’ossatura industriale del nostro cinema cosidetto minore, quello che consentiva poi di mettere in cantiere opere più impegnate.
Produttore, sceneggiatore e all'occorenza anche regista, inventò la commedia scollacciata in tutte le sue declinazioni: coniugale, scolastica, militare, vacanziera, con protagoniste indiscusse Edwige Fenech ( sua compagna per un decennio), Barbara Bouchet e Gloria Guida.
Luciano Martino ha marchiato a fuoco tutti i filoni del cinema di genere con titoli che spesso rappresentano le colonne portanti del filone di appartenenza.
A questo proposito, lungo e forse noioso sarebbe l'elenco di queste pellicole, ma non ci si può esimere dal citare alcuni titoli, che possiamo definire fondamentali per i rispettivi filoni e sottofiloni.
In ordine cronologico:
Gialli sexy
Lo strano vizio della signora Wardh (1971)
Il tuo vizio è una stanza chiusa e solo io ne ho la chiave (1972)
Poliziotteschi
Milano trema: la polizia vuole giustizia (1973)
Milano odia. la polizia non può sparare (1974)
Commedia sexy
La liceale (1975)
La dottoressa del distretto militare (1976)
Cannibalistico
Mangiati Vivi! (1980)

Non vado oltre, mi fermo qui.
Credo che possa essere sufficiente per capire quanto, intere generazioni di spettatori, frequentatori di cinema di periferia o di provincia, devono all'opera di Luciano Martino. Chi, nelle varie fasi della propria giovinezza, ha prima sognato di avere come compagna di banco l'eterna liceale Gloria Guida; poi di essere sottoposto alla visita di leva dalla dottoressa Fenech, e infine magari di assistere ad un inseguimento con le Alfa Romeo lanciate a folle velocità, deve sapere o almeno ricordare che i propri sogni erano alimentati da Luciano Martino.
Alle sue dipendenze una pattuglia di registi dal sicuro mestiere (Umberto Lenzi, Michele Massimo Tarantini, Mariano Laurenti), che, nonostante i ristrettissimi tempi a disposizione per il confezionamento delle pellicole (era necesario arrivare subito in sala, un filone non durava in eterno), garantivano solidità professionale e buona riuscita. Al resto pensava Luciano Martino che, a seconda della necessità, non esitava a sborsare, senza ripensamenti, i quattrini necessari per mettere a disposizione dei registi dei cast di tutto rispetto, che si trattasse di portare in Italia artisti internazionali (Henry Silva, Richard Conte); di ingaggiare attori al massimo del successo (Tomas Milian, Maurizio Merli, Luc Merenda); o prendere il meglio dei caratteristi dell'epoca (Lino Banfi, Giuseppe Pambieri, Mario Carotenuto).
E pensare che oggi, in Italia non si gira un film se non arriva il contributo statale (tra gli assegnatari del finanziamento per il 2013 figurano Salvatores, Bellocchio e Scola, giusto per intenderci).
"Fammi fare il mio mestiere, che so come si fa" ripeteva Luciano Martino a Edwige Fenech, all'epoca sua fidanzata, quando l'avvenente attrice protestava per l'imposizione di titoli che trovava offensivi per la propria immagine (Quel gran pezzo dell'Ubalda tutta nuda e tutta calda - Giovannona coscialunga disonorata con onore).
Ed è indubbio che il proprio mestiere lo conosceva, così come riusciva a carpire in anticipo rispetto ai suoi colleghi i gusti del pubblico e a mettere sotto contratto quei registi non di primissima fascia che potevano fare bene; basti pensare che per la sua prima produzione, I giganti di Roma (1964), affida la regia al semisconosciuto Antonio Margheriti che aveva appena terminato di girare il cult Danza Macabra. Negli ultimi anni, finita l'epoca d'oro del cinema di genere, Luciano Martino aveva co-prodotto film di alto livello, con titoli come Il regista di matrimoni (M. Bellocchio) e Il mercante di Venezia con Jeremy Irons e Al Pacino.
Inoltre, a lui si deve il debutto dell'allora sconosciuta Nicole Kidman che Martino scelse per il film tv Un'australiana a Roma (1987).
Poi, il buen retiro in Kenya.
A noi piace ricordarlo mentre impartisce al regista disposizioni in merito alla durata della doccia della starlette di turno, che si trattasse di liceale, professoressa o infermiera poco importa.

Fabrizio Luperto

sabato, agosto 17, 2013

Film Telecomandati: HULK


"Hulk"/"The Hulk"
di: A. Lee
con: E. Bana, J. Connelly, S. Elliot, N. Nolte, J. Lucas
- USA 2003 -
138 min

La cupidigia di Hollywood e' pari solo alla sua tracotanza di ragazzina capricciosa. Persuasa - per costituzione ? (e forniamo così, diciamo per lealta' sportiva, un'attenuante generica) - di poter lucrare su tutto, da circa un decennio, per l'ormai cronica mancanza di idee, si e' messa a spremere il mondo dei Supereroi col chiaro intento di passare da un blockbuster all'altro. Dopo gl'iniziali successi (Uomo Ragno e X-men, soprattutto, e restando al comparto Marvel, "casa delle meraviglie", notiamolo di sfuggita, tutt'altro che tetragona di fronte alle lusinghe a sette, otto zeri del grande schermo) dovuti più che alla novità della proposta ad una sorta di ineluttabilità assecondata dal grado di perfezione raggiunto dalla tecnologia di settore, l'inerzia - e la corrente dei dollari - e' un tanto scemata, come diluita, trascinando fra i detriti anche prodotti che avrebbero meritato miglior sorte.

Uno di questi "frantumi" - piuttosto ingombrante, in verità, vista la stazza dell'eroe di cui stiamo parlando - e' proprio "Hulk" affidato (parliamo del 2003) alle mani di un regista come Ang Lee, forse non in grado di regalare chissà quali punti di vista innovativi ma nemmeno tacciabile di corrivita'. Proclive, infatti, ad una messinscena minuziosa ed elegante, ad una certa attenzione per i caratteri, il regista taiwanese trapiantato negli States si e' ben presto dimostrato in grado di svariare tra i generi riuscendo spesso a collocare la propria opera a cavallo di una medieta' dignitosa che al suo meglio si accoda con buona lena al passo dei classici. Riversando tali caratteristiche, tale mondo espressivo, sull'orizzonte di un personaggio dei fumetti, l'ibrido che ne scaturisce rappresenta di per se' una variazione non completamente assimilabile dalla logica azione+effetti speciali. Anche in questo senso, cioè, può essere letto il mezzo fiasco al botteghino ($ 250 mln ca.) patito da un esperimento come quello operato su "Hulk" secondo una formula escogitata da un autore come Ang Lee. (La grinta corrucciata di Miss Hollywood, invece, la possiamo solo immaginare).

La stessa parabola del brillante quanto timido e controverso biotecnologo Bruce Banner che un malaugurato incidente a base di raggi gamma trasforma durante gli accessi d'ira in un colosso verde, reinquadrata secondo parametri che spostano sensibilmente le consolidate direttrici supereroistiche illustra - almeno per un terzo abbondante della sua durata e al netto di debiti "facili" pagati all'estetica di riferimento, tipo l'uso insistito dello split-screen e un cromatismo pop targato anni '60 filologicamente ineccepibile - un vero e proprio viaggio tra scienza, psicanalisi e melodramma nel rapporto faticoso e spesso amaro tra padri e figli/e: il legame interrotto/rimosso che collega Banner/Bana al padre David/Nolte (tutto da vedere il suo insidioso furore), anche lui in qualche maniera illuso/tradito dalla Scienza (Scienza qui doppiamente matrigna in quanto oltre a non fornire risposte e a moltiplicare le domande, letteralmente "genera mostri": sul serio siamo persino oltre l'"instauratio magna" di Bacone per cui "Scientia est potentia") e' con tutta evidenza speculare a quello antagonista e senza reale comunicazione tra Betty/Connelly (vd. profilo) e il di lei genitore, il generale Ross/Elliot, chiuso da una "sordità" di fondo operante nei due sensi prima ancora che dalla più ovvia ragion di stato e di portafoglio (la creatura praticamente indistruttibile generata da uno scherzo del caso, da un "errore" della ragione calcolante, e' si' un problema ma pure l'ipotesi più prossima alla sempre cercata e mai trovata "arma totale"). Allo stesso modo risulta palese la volontà di sottolineare nella "differenza" e in un sentimento di sostanziale marginalità, l'itinerario interiore di esseri umani che cominciano a misurare la consistenza del vuoto che li assedia e li angustia dalla mancanza di affetti sinceri e duraturi, derivandone la consapevolezza dolorosa (ma tardiva) oltreché della propria solitudine, di un mondo costitutivamente ingordo e arido verso cui l'altrettanto "primitiva" risposta di Hulk - gigante sgraziato, seminudo, in grado di emettere solo suoni gutturali - con la sua carica distruttiva senza mediazioni, sembra l'unica via esperibile, solo in parte disinnescata dalla tenacia e dalla passione di Betty - ex fidanzata, amore mai sopito ma più sogno irraggiungibile di pacificazione tout court che agognato approdo dei sensi .

Non c'è da stupirsi, allora, che il taglio impresso da Lee alle vicende del "Golia verde" abbia scontentato i fan ortodossi dei comics-al-cinema come azione pura mescolata alle meraviglie effettistiche e lasciato più o meno perplessi o indifferenti gli altri. Azione e mirabilia ("dulcis in fundo", si potrebbe dire, come pero' altrettanto obiettare "in cauda venenum) che comunque si appropriano della seconda parte del film, snellendolo e velocizzandolo per farlo planare su coordinate già tracciate oltreché ampiamente percorse, riuscendo lo stesso, pero', a realizzare un interessante connubio tra manifestazione di forza e furia devastatrice (calibrata eppure "sofferta" la trasformazione Banner/Hulk con un occhio grato a Jekyll/Hyde e l'altro memore di "Un lupo mannaro americano a Londra", tutto adeguato ai tempi del computer e della grafica digitale, nel caso quella della ILM; davvero prodigiosi i balzi a piedi pari, smisurati e in linea con lo stupore che suscitavano quelli disegnati negli albi; devastante la possanza muscolare dei gesti: paratie divelte a forza di pugni; carri armati sventrati; automezzi scaraventati in aria; elicotteri abbattuti a colpi di macigno o rilanciando missili schivati di un niente) e imprevedibile dolcezza (brevi tregue in cui le esitazioni si colorano di toni infantili; la grossa mano offerta a Betty come sostegno e appoggio, chiaro omaggio alla celeberrima "galanteria" di King Kong nei confronti della sua bionda impossibile e ammicco in filigrana alla fascinazione prepotente e alla sensualità interdetta tra la Bella e la Bestia).

In definitiva, "Hulk" può essere annoverato, usando l'espressione non in senso spregiativo, tra gli "aborti ben riusciti", un'opera, a seconda dell'angolo di osservazione, vittima delle sue ambizioni di rettifica del genere di appartenenza o singolare tentativo di forzatura dei canoni del mainstream fantastico. A giudicare dagli esiti raggiunti dal reboot di Leterrier ("The incredible Hulk/"L'incredibile Hulk", 2008), risulta fin troppo chiaro il giudizio e il punto di fuga prevalente, almeno quello emesso e preteso da Miss Hollywood.

("Hulk", sabato 17/08, Italia 1, ore 20,45 ca.).

TFK

venerdì, agosto 16, 2013

LA NOTTE DEL GIUDIZIO



La Notte del Giudizio / The Purge (Usa 2013)
Regia: James DeMonaco
Cast: Lena Headey- Ethan Hawke- Edwin Hodge- Max Burkholder - Adelaide Kane



Siamo nell'America paranoica del 2022.
La popolazione intera si prepara alla notte dello Sfogo; ovvero un periodo di dodici ore, che capita una volta all'anno, in cui le autorità sospendono le leggi e autorizzano i cittadini a commettere qualunque reato, compreso l'omicidio. In un Paese in cui il crimine è sempre più spietato, l'aver permesso a chiunque di sfogare le proprie pulsioni per una notte ha evitato conseguenze peggiori, riuscendo a ridurre il tasso di criminalità e di disoccupazione.
La famiglia Sandin: papà James e mamma Mary (Ethan Hawke e Lena Heady), con i loro figli Charlie (Max Burkholder) e Zoey (Adelaide Kane) è una tipica famiglia benestante, che vive in una lussuosa casa in un lussuoso quartiere. Il capofamiglia in poco tempo è diventato piuttosto ricco proprio grazie alla notte dello sfogo, vendendo costosissimi sistemi di sicurezza che rendono impenetrabili le case. Non amano la violenza ma non condannano l'annuale mattanza, anzi, sono convinti che sia necessaria per il bene del loro amato Paese. Mai però si sporcherebbero le mani di sangue, sono cose che riguardano gli "altri".
Nelle prime ore della "purga" qualcuno irrompe nella casa dei Sandin, mettendo in pericolo la loro tranquillità e la loro indifferenza. Si tratta di un uomo insanguinato, ferito, probabilmente un senza tetto (Edwin Hodge) braccato da un'orda di assassini.
Che cosa faranno, i civilissimi Sandin? Lo consegneranno ai loro simili buoni cittadini che per una notte l'anno si trasformano in assassini e reclamano la loro preda così come permette la legge? O gli daranno rifugio, rischiando a loro volta di essere massacrati?

Per la gioia di chi non riesce a stare lontano dalla sala cinematografica neanche in agosto, puntuale come ogni estate, arriva dagli Usa la pellicola a basso costo (3 milioni di dollari di budget) destinata a sbancare i botteghini di tutto il mondo.
Il film parte alla grande con i titoli di testa che scorrono sullo schermo insieme alle riprese delle videocamere di sorveglianza che hanno filmato i crimini commessi nelle precedenti edizioni della notte dello sfogo; pestaggi, esecuzioni, incendi, giustizia fai da te. Questi, privati della coreografia cinematografica e della parola, mettono lo spettatore in condizione di calarsi da subito in un'atmosfera angosciante. Si prosegue con gli speaker delle radio che commentano quello che accadrà durante la notte con una terrificante serenità, sequenza che, oltre a farci capire quello che abbiamo appena visto sullo schermo, inizia a farci riflettere su quale sporco mondo potremmo trovarci a vivere. Altro elemento angosciante è che il futuro in cui si svolge l'azione non è poi tanto lontano, siamo nel 2022, e sopratutto viene rappresentato perfettamente uguale al 2013.
In sintesi, una situazione di partenza azzeccata e forte, semplice da capire e quindi efficace.

"The Purge" - purificazione, liberazione, ma anche epurazione ( il titolo originale di "La notte del giudizio") è pellicola interessante che offre parecchi spunti di riflessione. A chi/cosa serve veramente la notte dello sfogo? Perché i nuovi padri costituenti dei nuovi Usa hanno voluto istituzionalizzarla? Come mai una notte di massacri ha permesso la diminuzione della criminalità, della disoccupazione e della spesa sociale. La risposta è agghiacciante: le vittime sono quasi esclusivamente i poveri, i senza dimora, che risultano essere facili prede per giovani borghesi annoiati desiderosi di dare sfogo ai propri istinti più bassi. Una volta eliminati baraccati, poveracci, nullatenenti, tossici, sbandati, cioè coloro che vivono sulle spalle dei contribuenti, ma che nulla danno allo Stato, è automatico che il Paese viva una nuova prosperità economica. In quest'ottica sono illuminanti le parole del capo della banda che dà la caccia all'uomo che si rifugia nella casa dei Sandin, che, reclamandone la consegna, lo bolla come "non contribuente". Insomma, una sorta di versione riveduta e corretta del famigerato T4 di stampo nazista, con particolare riferimento alle giustificazioni emerse dopo lo scoppio della guerra.  I ricchi non corrono alcun rischio, blindati nelle proprie case, grazie a impenetrabili sistemi di sicurezza che li mettono al sicuro da qualsiasi aggressione.
Il bersaglio del regista DeMonaco, sembrano proprio essere i benestanti, la cui mentalità, comportamenti, modi di agire sono racchiusi nella felice famiglia Sandin, i cui componenti, da "buoni" moderati, non si sbilanciano, tanto più che il rispetto della legge gli permette di nascondersi dietro un apparente disinteressese verso la questione (in realtà si sono arricchiti grazie alla carneficina legalizzata) e sopratutto gli consente di non esprimersi su un qualcosa che (almeno il capofamiglia e signora) approvano ed appoggiano. In poche parole, si lavano via ogni responsabilità, salvo trovarsi di fronte ad altri ricchi moderati loro simili che, sfruttando le circostanze cercano di ammazzarli esclusivamente per invidia.

Detto questo, il lettore potrebbe pensare di trovarsi dinanzi alla recensione di un film che mette in scena una feroce critica sociale con sprazzi di anticapitalismo, ma non è del tutto esatto. Quanto sopra descritto, è materia tagliata con l'accetta, trattata in maniera superficiale (sempre film made in Usa è), e che gli sceneggiatori (tra cui lo stesso regista) e produttori ben si guardano dall'approfondire, anzi, lasciano ai borghesi protagonisti possibilità di redenzione sin da subito, quando Charlie, il figlio adolescente, vede dai monitor di controllo, un uomo di colore che chiede disperatamente aiuto poco fuori casa e senza pensarci due volte, disattiva il sistema d'allarme e lo fa entrare. Non è un caso che a mettere nei guai la famiglia sia proprio il più giovane di tutti, cioè il meno anestetizzato e allineato, che ancora prova sentimenti come la pietà, quindi facilmente identificabile come la speranza per un futuro in cui gli uomini saranno migliori.

Attenendoci esclusivamente a quello che vediamo sullo schermo, bisogna evidenziare che alcuni passaggi sono parecchio telefonati; la preda a cui i Sandin danno rifugio è un uomo di colore che tanto ricorda il mitico Ben de La notte dei morti viventi (1968) e se ne deduce, chiaramente, che sarà il "buono" della storia; la cinquantenne vicina di casa ha un volto e uno sguardo che racchiude perfettamente un mix di invidia che copre diverse sfere (economico-sessuale-anagrafico) e non la racconta giusta sin dalla prima inquadratura; infine, ci piacerebbe sapere perché il robottino scova-intrusi fabbricato da Charlie non venga sfasciato alla prima occasione utile.

La notte del giudizio non passerà alla storia come horror/thriller, ma, sebbene la trama è letteralmente assurda, chissà perché, non ci appare poi così inverosimile come dovrebbe. In definitiva, trattasi di un film che si lascia guardare e che fa riflettere.
Qualcosa di commestibile nella pattumiera della programmazione estiva.


Fabrizio Luperto

giovedì, agosto 15, 2013

Sangue

Sangue di Pippo Delbono
con Pippo Delbono, Giovanni Senzani, Bobò
Italia/Svizzera
genere, documentario
durata, 89'


Raccontare un film di Pippo Delbono rappresenta una specie di torto nei confronti di un autore che prima nel teatro e più recentemente nel cinema non ha mai perso occasione di esprimere il diritto ad una libertà che prescinde da istanze narrative tradizionali e consolidate, e che, in un'opera come "Amore carne" si era espressa attraverso una produzione operata con mezzi di "fortuna" (quasi tutte le riprese erano state realizzate utilizzando uno smartphone) e strutturata su un impianto formale che procedeva per assonanze poetiche e suggestioni emotive.

Seconda tranche di un diario intimo, come sempre inscindibile dall'humus che lo produce, "Sangue" raggiunge il concorso di Locarno dopo una navigazione funestata dai marosi di un vissuto personale avvenuto nel segno del dolore e del distacco per la perdita di Margherita, madre del regista. In questo senso l'apertura con le immagini dell'Aquila, occupata dalle macerie e seppellita dalle promesse mancate, appare quanto mai azzeccata nell'evocare un sentimento d'abbandono che l'accomuna con quello ancora fresco sopportato da Delbono. Un lutto che il regista trasforma in reazione di segno opposto, che si traduce in un percorso d'incontri umani ed emotivi materializzati nel caso di "Sangue" dalla figura di Giovanni Senzani, capo storico delle brigate tornato libero dopo ventitré anni di carcere. Un'amicizia nata quasi per caso, suscitata dall'interesse di Senzani per il lavoro teatrale di Delbono e rafforzata da un percorso di sofferenza comune che per l'ex brigatista è coincisa con la malattia e la morte della moglie, scomparsa negli stessi giorni della madre di Delbono. Il legame amicale e quello parentale diventano per Delbono l'occasione di raccontare l'Italia con anime diverse e senza conciliazione, in una dimensione in cui privato e pubblico, il particolare e l'universale procedono di pari passo. Ecco allora la professione di Margherita, sorretta fino all'ultimo da una fede incrollabile e dalle parole di San'Agostino lasciate al figlio in una sorta di testamento consegnato sul letto di morte, e la confessione di Giovanni Senzani che rievoca gli ultimi istanti di vita di Fabrizio Peci giustiziato per vendicarsi del fratello, il terrorista pentito Patrizio. Sono questi due momenti, scelti tra i tanti che compongono l'album visivo e musicale di Delbono, a rimanere più impresse e a dividere gli animi. Agli antipodi rispetto al contesto culturale (la madre di Delbono, fervente cattolica, era terrorizzata dai comunisti, mentre Senzani non ha mai smesso di esserlo) e autobiografico che li contiene, entrambi sono capaci di esprimere un climax di assoluta umanità indipendentemente dalla dimensione di vittima o di carnefice che le due figure rappresentano all'interno del film. Una sorta di nuovo vangelo che unisce peccatori e meritevoli e che Delbono, buddhista praticante, legittima attribuendo alla due vicende la medesima importanza emotiva. Che si tratti di un'attribuzione di responsabilità che Senzani si assume con la lucidità e anche la freddezza di un resoconto che, qualcuno potrebbe scambiare per resistenza orgogliosa all'utopia rivoluzionaria e che, invece, costituisce il modo migliore per mantenersi lontano dal voyeurismo e dai facili pietismi dei reality televisivi, oppure del calvario di una madre che sta per lasciare un figlio, "Sangue" è il manifesto di un umanesimo politicamente scorretto, lontano da ideologie e da certe ipocrisie che non mancherà di far discutere.

Arricchito da una colonna sonora che funziona come valvola di sfogo di una tensione che la visione dell'opera non mancherà di suscitare, "Sangue" è un viaggio al termine della notte che colpisce al cuore e divide in fazioni. Un cinema lacerante di ferite ancora sanguinanti. Meno radicale nella forma, ma egualmente anarchico rispetto al lavoro precedente, "Sangue" è impregnato di una concretezza imposta dalla delicatezza della posta in gioco e riesce a prendere tutti in contropiede congedandosi con un messaggio di speranza all'insegna del bene e dell'amore: a conferma, se mai ce n'è fosse bisogno, di un temperamento iconoclasta e al di fuori dagli schemi che, ne siamo sicuri, continuerà a sorprenderci.

Film telecomandati: FLAVIA LA MONACA MUSULMANA

Film Telecomandati
FLAVIA LA MONACA MUSULMANA (1974)
Regia: Gianfranco Mingozzi
Cast:  Florinda Bolkan, Claudio Cassinelli, María Casares.
In onda il 15 agosto alle 23.10 su Iris.


di Fabrizio Luperto

Il film prende spunto dall'invasione Ottomana di Otranto del 1480.

I fatti: il 27 luglio del 1480 l’Impero Ottomano approdò con alcune delle proprie imbarcazioni nei pressi di Roca e il minuscolo esercito otrantino (un manipolo di uomini inviato per l'occasione dal Re Ferrante) uscì dalla città per affrontare i Turchi nei pressi dei Laghi Alimini, distanti circa 35 km da Lecce.
La posizione scelta fu strategica, poiché l’esercito ottomano, non conoscendo la zona e non sapendo come muoversi, fu presto costretto a ritirarsi sulle proprie imbarcazioni dopo una perdita considerevole di uomini.
Dopo questo primo scontro furono inviate due lettere di aiuto da parte della provincia di Otranto, una al Re Ferrante ed una all’arcivescovo Francesco De Arenis, che purtroppo non servirono a nulla.
Gli otrantini furono abbandonati a se stessi e l’esercito turco iniziò ad attaccare la città con una serie di cannonate, avvalendosi di 16.000 uomini, diverse armi da fuoco e 50 imbarcazioni.
La popolazione riuscì a resistere per 14 giorni e l’11 agosto del 1480 i turchi entrarono nella città.
Armata solo degli attrezzi del proprio mestiere e dopo un’ultima battaglia davanti alla cattedrale di Otranto, dovette consegnarsi all'invasore.
I Turchi riuscirono ad impadronirsi della città: tutti i maschi di età superiore ai 15 anni furono uccisi, mentre le donne e i bambini ridotti in schiavitù.
Come testimonianza del disprezzo dell’Impero Ottomano nei confronti della religione cristiana, la cattedrale venne trasformata in stalla per cavalli e il giorno seguente avvenne la più grande delle tragedie. Il 14 agosto i circa 800 sopravvissuti all’eccidio  dopo essersi rifiutati di ripudiare la propria religione e di convertirsi a quella musulmana, furono condotti sul colle della Minerva e decapitati.
Nel settembre dell’anno successivo Otranto fu liberata per mano di Alfonso D’Aragona.

Il Film: Flavia (F. Bolkan), figlia di un potente signorotto è una ragazza che mal sopporta la condizione di donna (nel medioevo) perennemente vittima di soprusi e violenze.
Il suo ribellarsi, la conduce ad essere severamente e costantemente punita, infine, è obbligata dal padre a farsi suora.
In convento Flavia avrà come aiutante Abraham (C. Cassinelli), un giovane schiavo ebreo. I due, dopo aver assistito allo stupro di una contadina da parte di un nobile, decidono di fuggire, ma verranno catturati quasi subito e ricondotti al convento. La presa della città da parte delle truppe musulmane illude Flavia, che cova la speranza di liberazione, la giovane suora si unisce a loro e diventa l’amante del loro capo, il Pascià Achmet.
Tuttavia, le truppe musulmane, una volta presa la città, si distingueranno esclusivamente per le razzie e le devastazioni, portando il padre di Flavia al suicidio e decapitando l’amico Abrahm; tutto questo orrore spingerà Flavia all'ennesima ribellione. Abbandonata dai musulmani, Flavia verrà giudicata da un tribunale ecclesiastico e ....(finale indimenticabile).

Commento: Flavia la monaca musulmana è una riflessione sulla condizione della donna che poggia le sue radici  ne La Taranta/Tarantula (1962) documentario che Mingozzi girò a Galatina (Le), cittadina che in occasione della festa dedicata ai santi Pietro e Paolo vedeva convogliare nei pressi della cattedrale le donne "tarantate" provenienti da tutto il salento per essere guarite dal loro santo protettore (San Paolo).
Un gruppo di "tarantate", fa la propria comparsa nelle prime sequenze di Flavia la monaca musulmana.
Il film di Mingozzi è una produzione piuttosto anomala del panorama erotico-conventuale; fortemente femminista e dall'erotismo blando, questo probabilmente perché il regista tenta di dare spessore storico e sociale alla pellicola, riuscendoci però solo in minima parte.
Grazie alle buone interpetazioni, alla cura delle riprese, alle musiche, ai guizzi autoriali, Flavia la monaca musulmana, da alcuni appassionati  di un certo cinema è considerato un film di categoria "superiore" anche non proprio ben riuscito.
Al contrario, per chi scrive, le rivendicazioni femministe anni '70 catapultate nel medioevo,  il sesso quasi mai conseziente, l'esplicita atrocità di alcune sequenze, che trovano sublimazione nella scena finale,  fanno di Flavia la monaca musulmana, a tutti gli effetti una pellicola  Nunsploitation, sottofilone del Woman in prison, genere che, a pieno titolo appartiene alla sterminata famiglia dell'Exploitation.
Nonostante l'ambientazione salentina, le riprese furono effettuate nel nord della Puglia.
Musiche di Nicola Piovani.

Frase cult: Una monaca anziana si rivolge alla giovane Flavia: "Cosa ci possono fare i musulmani che i cristiani non ci hanno già fatto?"
Flavia la monaca musulmana è film allucinato, malsano e disturbante, succulenta pietanza per gli amanti dell'euro-exploitation, sperando che la versione televisiva non sia eccessivamente sforbiciata.