domenica, ottobre 27, 2019

LA FOTO DELLA SETTIMANA


Les éblouis/Dazzled di Sarah Suco, miglior film ad Alice nella Città 2019

XIV FESTA DEL CINEMA DI ROMA. ANTIGONE


Antigone
di, Sophie Deraspe
con Hakim Brahimi, Rawad El-Zein, Nahéma Ricci
Canada, 2019
genere, drammatico
durata, 109'




Si dice sovente che nella maggior parte dei casi il cinema non inventi più nulla e che quindi ciò che vediamo siano per lo più calchi di matrici già note. Se, stante questa realtà, la settima arte continua a proporci opere alle quali continuiamo a guardare con stupita ammirazione, possiamo  allora aggiungere senza ombra di smentita che in tale contesto a fare la differenza è la maniera in cui questi film vengono fatti. Sotto questo profilo il nuovo film di Nahéma Ricci appena presentato alla Festa del cinema di Roma offre l’occasione di constatare quanto è stato appena detto. In effetti, come suggerisce il titolo, il lungometraggio in questione riprende l’omonima tragedia del grande drammaturgo greco, trasfigurando la Grecia di Sofocle nella Montreal dei nostri giorni e quindi aggiornando il canovaccio con i fatti e i temi più controversi e dibattuti della nostra epoca. Anche qui, tanto per cambiare, l’autrice canadese non si inventa nulla di nuovo, se è vero che nella trasfigurazione dei personaggi da ieri a oggi a prendere il posto del sodalizio originale è una famiglia di immigrati mediorientali costretta a espatriare in Canada dopo l’uccisione dei genitori, con ciò che ne consegue in termini di difficoltà d’integrazione nel mondo occidentale da parte dei nuovi arrivati. Manco a farlo apposta a capitalizzare le fortune narrative del film è uno degli schemi più utilizzati (e talvolta abusati) dal cinema contemporaneo, ovvero il rapporto di causa-effetto tra la mancata integrazione degli immigrati e gli episodi di radicalismo islamico a essa collegati. Di quest’ultimi sono accusati, in un rapido rovesciamento di fronte, i fratelli di Antigone, il maggiore dei quali viene ucciso dai colpi della polizia “assassina”, mentre il secondo scatena la pietra dello scandalo nel momento in cui Antigone, grazie a un’abile travestimento, lo fa evadere dal carcere sostituendosi a lui.

Dunque Antigone parte da una doppia riconoscibilità che, da una parte richiama l’aderenza della storia al contesto sociale, politico e culturale dei nostri giorni e alle sue dinamiche, dall’altra si rifà a una delle tragedie classiche più note dell’universo ellenico. Succede però che invece di enfatizzare l’appartenenza dei contenuti alle fonti appena citate, Antigone fa di tutto per rivendicare un’autonomia di sguardo che lavora contemporaneamente in due direzioni. Quella più interessante riguarda la forma e, in particolare, la decisione non scontata a questi livelli di trasgredire la filologia in maniera da riproporne di certo lo spirito di responsabilità della protagonista, evitando però di cadere nella declamazione del testo e della cronologia degli avvenimenti che, quando presenti,  vengono mimetizzati all’interno di un plot centrato sull’ostinazione della protagonista nel tenere fede alla responsabilità assunta nei confronti della propria famiglia, ovvero alla risoluzione di addossarsi fino all’ultimo le colpe del propio atto di fronte alla legge. 


E poi il fatto di far coincidere la ribellione al sistema di Antigone e dei coetanei che a macchia d’olio decidono di sostenerne la causa con la soprastia mancanza di rispetto nei confronti del testo originale e della sua filologia. Ma il cuore del film, quello che alla fine fa palpitare lo spettatore coinvolgendolo anima e corpo nella vicenda della protagonista è l’appassionata arringa con cui Antigone giustifica il proprio operato. A portala avanti sono le continue astrazione dell’autrice, soprattutto quando si tratta di dare conto della reazione del mondo giovanile agli appelli della protagonista, risolti nel rap visivo di fotografie, video e animazione e sopratutto la struggente interpretazione di Nahéma Ricci, capace di trascendere la tecnica per offrirsi alla mdp nella volitiva disperazione di chi è disposta a sacrificarsi per la vita degli altri. Lo slogan “me lo ha detto il cuore e non la ragione” (cioè le regole dettate dall’autorità),  pronunciato dalla ragazza è incarna nel migliore dei modi  di quella presa di coscienza delle nuove generazioni  in atto in ogni parte del mondo.
Carlo Cerofolini
(pubblicato su ondacinema.it)

XIV FESTA DEL CINEMA DI ROMA. WAVES


Waves
di Trey Edward Shults
con Taylor Russell, Lucas Hedges, Kelvin Harrison Jr
USA, 2019
genere, drammatico
durata, 135'



Forse perché la sua origine non è afroamericana o in virtù dell’indipendenza artistica e lavorativa sta di fatto che Trey Edward Shults riesce ancora una volta a spiazzare lo spettatore con un film che nessuno si aspetterebbe di vedere a certe latitudini. Raccontando la dispersione di una famiglia di colore a seguito di un tragico fatto di sangue si era portati a credere che il fattore scatenate la tragedia potesse essere ancora una volta la matrice razzista insita nella società americana e dunque che il protagonista del lungometraggio vi figurasse come  agnello sacrificale di una società iniqua e discriminatoria. Al contrario Shults sceglie di ignorare il canovaccio utilizzato da registi come Barry Jenkins (“Se la strada potesse parlare”) e Ryan Coogler (“Fruitvale Station”) e dunque di abbandonare l’aspetto militante caro ai seguaci di Spike Lee per immergerci nel contesto borghese e benestante di una famiglia americana del tutto inserita all’interno degli schermi socio culturali del modello dominante, con Tyler studente bello, fidanzato e vincente alla pari degli altri famigliari, ognuno dei quali, nei rispettivi ambiti, impegnato a consolidare l’agognato e raggiunto status quo.

Ciò detto, se la bontà di "Waves" dipendesse dalla sua storia sarebbe poca cosa, descrivendo la parabola del protagonista e il disfacimento del suo nucleo famigliare senza alcuna variazioni rispetto alla classicità della sua componente melò, esaltata dal groviglio di sensi di colpa e dallo spaesamento con cui i personaggi reagiscono all’incidente mortale che condanna Tyler alla lunga pena detentiva. A fare la differenza in una maniera che negli ultimi tempi di rado abbiamo trovato così efficace  è lo stile è soprattutto la forma con cui Shults mette sullo schermo l’energia, il senso di lutto e infine la speranza che accompagna la via crucis dei personaggi.

A meravigliare di più è l’apertura del film, in cui il regista si prende la briga di fare il punto sulla vita di Tyler, facendo di tutto per restituire il qui e ora del protagonista, impegnato a  confermare le aspettative famigliari e dunque a primeggiare tanto nel privato (attraverso la relazione con una delle ragazze più carine della scuola) che nel pubblico, militando nella squadra di wrestling di cui Tyler e atleta di punta. Affastellate da un montaggio intenzionato a non perdere nulla delle giornate del ragazzo, le sequenze in questione regalano allo spettatore il ritratto di una società basata sul l’apparenza e sull’affermazione personale. In tal senso la bulimia della visione trova corrispondenza nella volontà di mettere lo spettatore nella condizione di vivere la dimensione "consumistica" del protagonista: dunque, di approcciarsi alle sequenze in questione senza avere la possibilità di approfondirle ma al contrario di viverle in superficie, apprezzandone la bellezza estetica, il virtuosismo tecnico (fatto di una serie ravvicinata di piani sequenza) e la continua spinta in avanti (segno che più di altri definisce l’importanza della performance), aiutata dal ritmo del montaggio come pure dai decibel della colonna musicale (opera di due campioni quali Trent Reznor e Atticus Ross).

"Waves" però si supera quando, alla prima parte del film, quella occupata dalle vicende di Tyler, ne fa subentrare una seconda in cui a diventare protagonista è la sorella del ragazzo che in qualche modo di sente responsabile per non aver impedito al fratello di compiere il folle gesto. Avendo a che fare con il carattere introverso e con il senso di colpa di Emily il film cambia forma, diventando all’opposto introspettivo e meditato, quasi fenomenologico nel rappresentare il doloroso percorso di ricostruzione del sodalizio famigliare. Testimonianza, questa, di un apparato estetico visuale mai fine a se stesso ma organico alla storia e al carattere dei personaggi, dei quali assorbe e poi raffigura  umori e stati d’animo. Se i rimandi possibili del Korine di "Spring Breakers - Una vacanza da sballo" (nella prima sezione) e dello stesso Jenkins (nella seconda), rimane il fatto che il cinema di Shults dimostra di essere mai uguale e in continua evoluzione se non fosse per il nucleo centrale della sua poetica che, a fronte della varietà dei generi fin qui affrontati (il drammatico "Krishna", l’orrorifico e sottovalutato "It Comes at Night"), mantiene costante l'attenzione rispetto alle "onde" anomale che minano l’unità della famiglia americana. Presentato con successo al Festival di Toronto e prima ancora a quello di Telluride, "Waves" è stato selezionato dalla Festa del cinema di Roma. Se ci fosse un premio il film di Shults sarebbe tra i candidati alla vittoria finale.
Carlo Cerofolini
(pubblicato su ondacinema.it)





XIV FESTA DEL CINEMA DI ROMA. THE IRISHMAN


The Irishman
di Martin Scorsese
con Robert De Niro, Al Pacino, Joe Pesci, Harvey Keitel, Bobby Cannavale
USA, 2019
genere, drammatico
durata, 210



"The Irishman", ovvero e volendo "l’uomo che uccise Jimmy Hoffa". Il sottotitolo inventato per l'occasione potrebbe cioè fare da utile vademecum allo spettatore che si appresta a vedere il nuovo film di Martin Scorsese, il quale ispirandosi al libro di Charles Brandt - "I Heard You Paint Houses" - racconta cinquant'anni di storia americana attraverso la vicenda di Frank Sheehan/De Niro, veterano di guerra assoldato dalla mafia nel ruolo di sicario e diventato nel corso degli anni uno degli uomini fidati dell’organizzazione, come pure stretto sodale del celebre sindacalista Jimmy Hoffa/Pacino, al quale viene avvicinato da Russel Bufalino/Pesci, boss di Chicago e grande mediatore tra le famiglie dell’organizzazione.

Come già si vede da queste prime note il regista newyorkese non fa sconti né a se stesso - a dire, al suo cinema - né al pubblico, portando sullo schermo, allo stesso tempo, la storia privata di un gruppo di uomini uniti dal patto criminale e il grande affresco di una società, quella americana, in cui i valori, le dinamiche e i rapporti sono subordinati alle logiche stringenti del capitale e - perché no - all’avidità del singolo. Se a prima vista tutto questo potrebbe sembrare esagerato, essendo il film in questione prima di tutto un mob movie, in realtà la grande ambizione di Scorsese è stata, e non da ora, non quella di confinare il microcosmo criminale, in particolare quello italoamericano, all’interno di un genere, quanto di fare dello stesso l’epitome di un sistema assai più stratificato e pervasivo coincidente non solo con la stessa società a stelle e strisce, ma addirittura con quella dell’intero mondo occidentale.


Così facendo, e questa volta ancora di più, "The Irishman" si occupa di illustrare le vicende interne all’unione criminale, sviluppandole attraverso una serie di personaggi di eguale importanza e nel contempo di rappresentare la cronaca del mondo con cui essa si confronta, e dunque, nel caso specifico, con la politica anticastrista dei fratelli Kennedy, come pure con i contrastati legami stretti con la mafia da Jimmy Hoffa, leader del comitato sindacale degli autotrasportatori e, attraverso questo, gestore di un ingente fondo pensionistico pressoché al di fuori di ogni controllo. Considerando poi la lunghezza fuori dalla norma (210’), era nella volontà del regista quello di dare spazio a ognuno dei molti filoni narrativi che emergono dal resoconto sceneggiato da Steven Zaillian, in cui quello dedicato al rapporto tra Hoffa e Sheeran è solo uno dei tanti, certamente quello che nell’ambito del film riveste il peso drammaturgico maggiore ma, ad esempio, non quello a cui Scorsese affida le battute migliori, diluite nel corso della storia attraverso gli assoli, i confronti e la dialettica tra i vari fuoriclasse messi in campo.

Preceduto dall'attesa mediatica di appassionati e addetti ai lavori, come si poteva prevedere "The Irishman" non sposta di una virgola quello che fin qui è stato detto a proposito del cinema di Scorsese, più o meno uguale alle coordinate di sempre anche quando, come stavolta, il destinatario non sarà il pubblico della sale ma quello - casalingo - di Netflix, la piattaforma che ha prodotto il film e nella quale sarà possibile vederlo a partire dal mese di Novembre dopo un rapido passaggio nelle sale a cura dalla cineteca di Bologna. Detto questo, lo sguardo di Scorsese sembra fare suo il passo dei protagonisti adeguandosi all’incombente senilità di un immaginario arrivato alla fine della sua parabola di cui "The Irishman" rappresenta probabilmente l'ultimo atto, come testimonia peraltro la scelta di chiamare a raccolta per un'ultima passerella (vista l'età) tutti gli attori che a partire dagli esordi fino a oggi hanno avuto modo di essere a turno icone del suo cinema. Le conseguenze dal punto di vista stilistico saltano infatti all’occhio e riguardano non tanto l'inalterata grandeur cinefila, come sempre mirata a un personalissimo manierismo, o un montaggio - affidato alla fida Thelma Schoonmaker - capace di sintetizzare con massima fluidità le oltre tre ore di minutaggio, quanto la presenza di una macchina da presa che rinuncia in parte all'energia dei dolly e delle carrellate preferendo riprese più statiche, quasi compassate, in perfetta sintonia con la souplesse dei consumati protagonisti e, in fondo, della storia stessa. Con questo non si vuole dire che "The Irishman" sia un film rinunciatario rispetto alle tensione cinematografiche che lo percorrono (anche se è vero che il tasso ematico resta al di sotto del livello di guardia): è pero innegabile che la bravura di Scorsese in questo caso privilegi quella che potremmo definire una dimensione orizzontale, tanto cara al pubblico più giovane (snodi lineari e consequenziali; immagini esplicite; dialoghi alimentati da un cinismo ai limiti del non senso) assestandosi, di fatto, nella categoria dei film che faticano a entrare sotto la pelle. A restare invece saranno di sicuro le interpretazioni degli storici campioni scorsesiani ai quali De Niro, Pacino e, per chi scrive, un inarrivabile Joe Pesci, offrono il manifesto trasversale del celebre metodo. Questo sì degno di essere studiato nelle scuole e magari riscoperto.   
Carlo Cerofolini
(pubblicato ondacinema.it)

sabato, ottobre 19, 2019

WEATHERING WITH YOU

Weathering with you
di Makoto Shinkai
genere. animazione
Giappone, 2019
durata, 114'




Nuovo film di Makoto Shinkai che in patria ha riscosso un enorme successo, tanto da essere il film più visto del 2019. Dopo il trionfo di “Your name”, il regista giapponese torna ad affrontare la tematica del legame in generale e, attraverso esso, anche quello dell’amore.
Hodaka è uno studente liceale di 16 anni che, fuggito di casa, tenta la fortuna a Tokyo. Qui, dopo aver vissuto per un po’ in strada senza cibo, né un conforto, decide di rivolgersi ad un uomo che lo aveva aiutato durante il tragitto. Questi decide di assumerlo come stagista, fornendogli anche vitto e alloggio in cambio dell’ottenimento di particolari notizie, come, ad esempio, quelle che riguardano le cosiddette “portatrici di sereno”. Ed è proprio una portatrice di sereno quella che Hodaka incontra un giorno: la giovane Hina che vive sola con suo fratello Nagi e che ha il potere di fermare le piogge, sempre più frequenti a Tokyo, e portare il bel tempo.
Oltre all’onnipresente tema del legame (e se si vuole anche del destino), l’altro interessante aspetto affrontato da Shinkai è quello del clima. In un momento storico nel quale le problematiche legate al riscaldamento globale e le proteste per permettere un miglioramento delle condizioni sono sempre più frequenti e sentite, “Weathering with you” cerca di inserirsi e dire la sua. La Tokyo sempre più piovosa che i due protagonisti vivono è destinata, proprio a causa di questo evento meteorologico, a modificarsi nel tempo. Chiaramente il regista giapponese dà una motivazione legata alla sua storia e più “fantasiosa” rispetto a quella effettivamente reale, ma riesce comunque a rendere attuale una storia che non ha una collocazione temporale precisa.
Tornando, invece, al tema del destino esso è ben radicato fin dai primi minuti del film, quando Hodaka esce ad ammirare un temporale tutt’altro che “naturale” che, in qualche modo, lo lega inevitabilmente a Hina.


Più che riuscita la decisione di inserire, all’interno della narrazione, chiari ed evidenti riferimenti all’opera precedente di Makoto Shinkai, “Your name”, della quale si possono comunque riconoscere in primis le ambientazioni, ma anche, ovviamente, i tratti. L’aver, però, inserito proprio i due protagonisti della pellicola precedente che mantengono i loro nomi è il vero colpo di genio. Addirittura i due si trovano ad interloquire con il nuovo protagonista in situazioni che sembrano richiamare il successo dello scorso film: Taki che si prende cura della nonna e dà consigli a Hodaka su come comportarsi, così come li avrebbe voluti lui, e Mitsuha che, invece, aiuta il giovane nell’acquisto di un regalo, parlando del destino e della vita in generale.
L’aspetto fantasy della storia, sicuramente ben più evidente rispetto al passato, permette, in maniera paradossale, di dare spiegazioni più plausibili a ciò che viene mostrato proprio perché la soluzione è da ricercarsi nell’assurdo. Un fantasy che comunque, seppur in minima parte, era presente anche nel precedente lavoro del regista, ma in modo più sottile, e che qui rischia di sortire l’effetto contrario, fornendo fin troppe spiegazioni e troppe risposte allo spettatore abituato ad essere sorpreso dal visionario regista giapponese. Qui il pubblico, a parte forse i primi minuti, riesce a comprendere e seguire tutti i drammi che si susseguono e che colpiscono (o hanno colpito) tutti i personaggi coinvolti, nessuno escluso, senza porsi troppi interrogativi. E forse vuole essere proprio questa la caratteristica principale dell’opera: essere più immediata e lineare anche e soprattutto per un pubblico occidentale.
Veronica Ranocchi

IL PICCOLO YETI

Il piccolo yeti
di Jill Culton e Todd Wilderman
Stati Uniti, 2019
genere: animazione
durata,: 97’


Nuovo film d’animazione della Dreamworks, “Il piccolo yeti” è la storia del viaggio di Yi e del suo nuovo e improvviso amico che ribattezza Everest. La giovanissima, costantemente impegnata in qualsiasi tipo di attività, sia per guadagnare denaro sia per non pensare alla recente perdita del padre, si ritrova una sera con uno yeti sul tetto della propria  casa, fuggito, all’inizio del film, da un laboratorio. Yi decide fin da subito di aiutarlo e riportarlo a casa sul monte Everest. Ad accompagnarla in questo viaggio e nelle mille peripezie che naturalmente ne seguiranno ci sono, involontariamente, anche l’amico di sempre Jin e il cugino di quest’ultimo, Peng che abitano nella stessa palazzina della protagonista. I tre ragazzini vivranno una serie di avventure insieme al loro nuovo e improbabile amico, ai limiti dell’assurdo scoprendo doti particolari dello yeti, ma anche mostrandosi finalmente per quello che sono realmente.
Mai arrendersi e mai perdersi d’animo sembra suggerirci la pellicola, con una protagonista che anche nelle situazioni più disperate non si arrende, ma si rialza sempre guardando avanti.
Lo yeti è, in realtà, la metafora della piccola Yi che deve cercare di ritrovare la sua famiglia, ricucendo i rapporti, che si stanno deteriorando, con la madre e la nonna, a seguito del grave lutto subito in famiglia. La giovane si è chiusa in se stessa, non trascorre molto tempo in casa e mente costantemente ai suoi cari. Allo stesso modo anche lo yeti deve ritrovare la sua famiglia che lo aspetta sulla cima dell’Everest dove è giusto che viva, lontano dalla civiltà che può solo nuocergli.
La storia, di per sé già vista, ha comunque una propria originalità nel modo in cui viene mostrata e presentata. Tante le citazioni, più o meno volute, che si possono cogliere soprattutto dall’universo dell’animazione, ma non solo.
E interessante anche l’aspetto dell’antagonista, ben celato all’interno della storia e pronto a uscire allo scoperto nel momento più inaspettato.
La vera protagonista della storia è, però, la natura e la sua capacità di aiutare chi si affida a lei. I vasti paesaggi che ci vengono mostrati non fanno solamente da cornice all’intera vicenda, ma ne costituiscono un elemento fondamentale.
Veronica Ranocchi

martedì, ottobre 15, 2019

AT THE MATINEE. CONVERSAZIONE CON GIANGIACOMO DE STEFANO



Con At the matinée di Giangiacomo De Stefano torniamo ai tempi del CBGB, celebre ritrovo sulla Bowery snodo cruciale della scena hardcore di New York a metà degli anni Ottanta, crocevia dei fermenti musicali, delle aspirazioni e dei progetti che animavano il mondo giovanile del periodo




E’ uno dei rari luoghi comuni non così stucchevoli quello in base al quale la musica abbatte le barriere. Nel tuo lavoro tale assunto emerge inquadratura dopo inquadratura. E a maggior ragione, verrebbe da dire, l’energia indomabile della scena hardcore che hai deciso di descrivere - quella della New York di metà anni ’80 - ribadisce e rivendica quella che potremmo definire una schietta indole proletaria, peculiarità già vista, tra le altre, in un’opera come About the young idea di Smeaton, circa la parabola dei britannici Jam. Cosa ne pensi ?

Sono d’accordo. L’hardcore di New York è uno di quei pochi filoni di questo genere che ha avuto una genesi prevalentemente proletaria. Ci sono state eccezioni come per i membri dei Beastie Boys, ma non si può non sottolineare come la maggior parte dei componenti della prima scena newyorkese provenga decisamente dalla strada. Nelle vicine Washington o Boston le cose sono andate in modo diverso: i ragazzi qui provenivano da ambienti dell’alta borghesia. Questo peccato originale l’hardcore di New York se lo è portato addosso sempre. Anche nel periodo d’oro dei matinée, dove ai concerti andavano persone di ogni ceto sociale, in buona parte provenienti dal Queens, le stigmate poco rassicuranti di chi ha dato vita a quella scena sono state un marchio di fabbrica indelebile.


Il CBGB (Country Blues Grass Blues), sulla Bowery nel Lower East Side, è il locale centro catalizzatore di questa - soprattutto se ricordiamo i tempi - non marginale epopea artistica dal basso. Con pochi soldi e un po’ di idee, cioè, era possibile esprimersi pressoché senza filtri ma più di tutto incontrarsi, scambiarsi suggestioni e propositi.

Il CBGB è stato un luogo unico. Probabilmente il più famoso rock club al mondo. In At the matinée abbiamo sfruttato e fatto nostra questa fama e il valore iconico del club, ma allo stesso tempo credo che si debba essere onesti quando si afferma che non tutto quello che è passato al suo interno ha avuto la stessa rilevanza del punk degli anni 70 o della scena hardcore. Quando nel ’93 andai per la prima volta al CBGB, vidi un gruppo abbastanza anonimo chiamato Falafel Mafia suonare di fronte a, forse, una decina di persone. Insomma, non certo una serata interessante. Nonostante questo mio approccio decisamente dissacratorio, penso che il CBGB abbia incarnato la creatività malata del rock che è stato generato a New York per quasi due decadi. La sua sporcizia, pericolosità ed energia, ha svelato e dato spazio a grandissime forme di arte e musica.


Una della osservazioni a mio avviso dirimenti contenute nel film riporta: “Era (la scena musicale) una affermazione disfunzionale della vita”. Sei d’accordo e, nel dettaglio, come valuti questo pensiero ?

Questa frase di Craig Setari dei Sick of it all spiega benissimo, per chi non ne ha fatto parte, l’essenza dell’hardcore di New York. Un mondo parallelo nel quale crei la tua forma espressiva, la veicoli con i tuo mezzi e alla fine riesci a riconoscerti in una comunità trovando persone che come te sono a loro modo disfunzionali rispetto al mondo che li circonda. Non male se ci pensi.

Tra i riferimenti presenti nel documento troviamo la figura di Walter Schreifels (Youth of TodayGorilla Biscuits), musicista e autore che ha vissuto in prima persona i diversi stadi evolutivi della scena e qui narratore e testimone vivente. Posso chiederti cosa vi ha avvicinato e in base a quale logica avete deciso di collaborare ?

Walter è un musicista di talento che ha avuto e ha ancora un suo percorso anche fuori del punk. Quando la sua esperienza nella scena hardcore si è conclusa all’alba dei ’90, ha continuato a calcare palchi anche più importanti di quelli del CBGB. In tempi relativamente recenti ha scritto un paio di brani sui matinée hardcore e sui suoi protagonisti. Questa visone mi è piaciuta e allora ho chiesto se poteva aiutarmi in questa avventura. Nonostante tutte le difficoltà produttive ce l’abbiamo fatta. Non posso che ringraziarlo ancora.

Mi piacerebbe conoscere il tuo personale rapporto con questo particolare genere musicale: preferenze, idiosincrasie, perplessità, oggi come oggi, volendo, persino nostalgie.

L’hardcore è stato fondamentale per me. Per attitudine e anche dal punto di vista sonoro, lo sento ancora come ciò che mi rappresenta di più musicalmente, nonostante abbia sempre ascoltato tantissimi altri generi. At the matinée è il mio primo lavoro dove davvero racconto una cosa che amo e che è mia sotto molteplici punti di vista. Questo per dire che per quanto mi riguarda c’è stata molta attenzione nel cercare di non scadere nell’autoreferenzialità di chi affronta un lavoro del genere. Spero di esserci riuscito.

Tornando al film, dopo la descrizione di alcune stagioni notevoli per entusiasmo e creatività - teniamo a mente che per il CBGB passano band decisive per la codificazione di uno stile preciso per ciò che attiene l’hardcore, e non solo della costa Est: dai già citati Youth of Today e Gorilla Biscuits, agli Agnostic Front, con il loro fondamentale Victim in pain da te prontamente sottolineato, passando per i Cro-Mags, i Warzone, i Murphy’s Law, solo per citarne alcune - notiamo nello svolgersi delle sequenze che qualcosa comincia a deperire, a incattivirsi, addirittura. Cambiano i tempi, cambia New York. Le immagini da te proposte sembrano adombrare una sorta di combinato disposto tra un progressivo imporsi della cosiddetta gentrificazione (termine che avvilisce solo a pronunciarlo) dei luoghi e una spinta verso un generico ristabilimento dell’ordine perseguito dalle autorità già a partire dall’era Koch, via via fino a Bloomberg. Ce ne vuoi parlare ?

In realtà, ragionandoci con attenzione, la scena si incattivisce quando arrivano altri protagonisti a renderla numericamente più grande. Elementi di scene non strettamente legate al punk che portano nell’hardcore una mentalità diversa e che di fatto scardina da dentro l’equilibrio della scena newyorkese. Nello stesso tempo il terreno sul quale si era poggiata questa scena (una New York pericolosa, ma anche accessibile dal basso) incomincia a mutare: la riqualificazione del Lower East Side e quindi la progressiva cacciata di ciò che non è allineato al nuovo che avanza.

Da un punto di vista strettamente cinematografico At the matinée consta di una mole notevole di materiali disparati: squarci intimi della New York più quotidiana; riprese amatoriali; foto di scena rubate alle esibizioni; gli strepitosi flyers; brevi animazioni, racconti in prima persona tra ricordo e asciutta celebrazione della giovinezza, tutto amalgamato secondo uno spirito prevalentemente orientato alla restituzione di un momento privilegiato, a suo modo irripetibile. Come hai, in concreto, affrontato e quindi sezionato/riorganizzato il problema di costruire le linee guida di una storia dai punti di vista potenzialmente infiniti ?

At the matinée è un documentario che, come regista, mi rappresenta al 100%, ma lasciami dire che con altri mezzi sarebbe stato diverso, Non nei temi, ma sicuramente in ciò che si vede sullo schermo. Questa capacità di sperimentare e inventare con quello che si ha a disposizione però, credo faccia parte dell’essere autore di documentari. Voglio dire: rammendiamo elementi diversi e costruiamo trame narrative attraverso questi. At the matinée racconta una scena musicale, le ragioni della sua ascesa e della sua caduta. Quello che desidero è che piaccia a un pubblico eterogeneo di non appassionati di hardcore.

Ray Barbieri (Warzone), nei suoi non isolati scambi dal palco con il pubblico, ripeteva spesso: “Non è importante perché sei qui. Sei qui”. Cosa resta, oggi, di questo invito alla condivisione, ossia della possibilità di incanalare l’energia vitale in un consapevole e non distruttivo discorso anti-sistema ?

Nel suo caso penso fosse un approccio assolutamente spontaneo. Raybeez è stato un personaggio contraddittorio e da alcuni non molto amato. Quello che dici è comunque vero: quando l’ho conosciuto, all’inizio degli anni ’90 a New York, a me e ai miei amici ci ha quasi adottato e invitato a concerti, indicato posti dove mangiare e presentato la sua crew. La cosa più divertente fu che prima ancora di dirci qualcosa, ci mostrò la sua Bibbia. Il primo approccio con lui fu un po’ strano…
TFK


mercoledì, ottobre 09, 2019

Uscite settimanali: At The Matinée di Giangiacomo De Stefano


Premio del pubblico al Biografilm di Bologna, At The Matinée di Giangiacomo De Stefano sarà in sala per un tour di proiezioni a partire da mercoledì 9 ottobre.

Nel 2006, il CBGB di New York, il più famoso rock club al mondo, chiude le sue porte per
sempre. Tutti lo conoscono per Blondie, The Ramones e Talking Heads, ma nessuno ricorda che ciò che lo rese grande furono i matinée punk hardcore degli anni '80.



Prodotto da La Sarraz Pictures, società di produzione cinematografica nata a Torino nel2004, il tour di At The Matinée nelle sale italiane partirà mercoledì 9 ottobre dal Cinema Boldini di Ferrara, per poi toccare Torino, Roma, Bologna e tante altre città.



Le prime date:



• 09/10/2019 | Cinema Boldini, Ferrara | ore 21.00



alla presenza del regista e di Marco Pecorari (Rumore)



• 12/10/2019 | Cinema Massimo Torino | ore 21.00



alla presenza del regista e Tino Paratore (DNE, C.O.V., Havoc...), in collaborazione con



Seeyousound e Sottodiciotto Film Festival.






IO, LEONARDO


Io, Leonardo
di Jesus Garces Lambert, 
con Luca Argentero, Angela Fontana, Francesco Pannofino
Italia 2019
genere, biografico
durata, 90'


Pensare di fare un film incentrato sulla vita, le opere e la personalità di una figura come Leonardo Da Vinci fa parte di una progettualità che di solito ha più a che vedere con gli aspetti celebrativi e della divulgazione che con quelli afferenti al cinema. Dunque, la scommessa di un’operazione come quella messa in piedi da Sky Arte, con la collaborazione di Lucky Red, si sostanziava nel tentativo di coniugare la realtà dei fatti e la loro esaltazione senza prescindere dalla capacità propria del cinema di reinventare la realtà per arrivare a raccontarla nel modo più veritiero possibile.

In tal senso, il paradosso di un film come Io, Leonardo consiste nel fare della fattualità storica un’opera di fantasia che, senza tradire la biografia del grande personaggio, è in grado di far vedere ciò che è impossibile mostrare. E non parliamo delle opere replicate attraverso immagini che fanno da sfondo a molti attimi della nostra esistenza ma, per esempio, di Leonardo stesso (interpretato da un inedito quanto efficace Luca Argentero), di cui non conosciamo le fattezze se non attraverso un ulteriore mediazione artistica (ritratti, disegni) e, soprattutto, della sua mente, esplorata dalla regia di Jesus Garces Lambert nella vertigine e negli abissi che ne ispirarono l’insaziabile e ossessiva curiosità verso ogni aspetto del creato.

Così, se come dice la voce narrante, per Leonardo le opere d’arte, a iniziare dalla pittura, non erano cosa morta ma respiro e movimento, allo stesso modo il film, con l’ausilio di mezzi tecnici e curati effetti speciali, non si limita a riprodurre filologicamente il percorso creativo e le sue suggestioni bensì le proietta in una dimensione, quella della mente di Leonardo, che in quanto tale permette allo spettatore di condividerne allo stesso tempo l’epifania e la realizzazione, in un trionfo di visioni che fanno della tridimensionalità del frutto dell’ingegno lo specchio più fedele del punto di vista dell’autore. Da qui discende pure la scelta di mantenere eternamente giovani le fattezze del protagonista, essendo ciò che vediamo non un resoconto fenomenologico del personaggio ma la manifestazione della sua essenza, destinata per sua natura a non subire le ingiurie del tempo.

Dedicato alla figura di Leonardo nel cinquecentenario della sua morte, Io, Leonardo non evidenzia solo un notevole impegno produttivo ma anche un ricercato gusto dell’estro per la presenza, nel cast tecnico, di alcuni dei migliori esponenti di quell’artigianato artistico nostrano – unico al mondo – di cui il grande toscano è stato allo stesso tempo precursore e interprete: parliamo di Daniele Ciprì, già direttore, tra l’altro, della fotografia di Marco Bellocchio e, non ultimo, de Il primo Re di Matteo Rovere, qui incaricato di restituire luci e ombre dell’universo leonardesco e, infine, dei pluripremiati Francesco Frigeri (scenografia) e Maurizio Millenotti ai costumi.
Carlo Cerofolini
(pubblicata su taxidrivers.it)

sabato, ottobre 05, 2019

JOKER


Joker
di Todd Philips
con Joaquin Phoenix, Robert De Niro, Zazie Beats
USA, 2019
genere, drammatico, thriller
durata, 123'



Nei dibattiti relativi allo stato di salute della Settima arte capita sempre più spesso di leggere articoli in cui le parti in causa tirano in ballo i supereroi e il filone cinematografico ad essi dedicato come segno della perdita di interesse da parte dei mogul hollywoodiani nei confronti della complessità del reale. Predisposti al raggiungimento della massima performance economica e perciò cablati sulla capacità di raggiungere il maggior numero di persone attraverso il livellamento di qualsivoglia diversità, i lungometraggi in questione sono stati messi all’indice dalle frange più ortodosse per aver tolto (indirettamente) spazio al cinema delle idee. Detto che l’ultimo a esprimersi in tal senso è stato nientemeno che David Cronenberg, giunto al Lido per la presentazione della versione restaurata di “Crash” e pronto a lanciare la bomba profetizzando l'occupazione assoluta delle sale da parte di Marvel e DC Comics e la migrazione degli "altri" nelle sempre più in voga piattaforme, c’è da chiedersi in che modo l’uscita di "Joker" riuscirà a spostare i giudizi delle parti in causa.

Certo è che Barbera, anticipando i tempi secondo chi scrive, vedendo ancora una volta lungo, la sua risposta l’ha data, piazzando il lungometraggio di Todd Phillips al fianco dei vari Larrain e Polanski, nella speranza di ripetere lo scalpore mediatico e i titoloni sui giornali suscitati dalla vittoria del Leone d’oro da parte del "reprobo" Guillermo del Toro e del suo "La forma dell’acqua". "Joker", infatti, è quanto di più lontano si possa immaginare dal tipico film di supereroi, perché a mancare è la materia stessa del contendere, ovvero gli effetti speciali, esclusi o quasi in ragione del venire meno - e qui è l’altra novità - di quei super-poteri ai quali la CG dà la possibilità di potersi manifestare sul grande schermo.
Prima di acquisire la sua nuova identità e anche dopo, Arthur Fleck è e rimane un uomo vittima della propria schizofrenia, per caso - almeno secondo la versione che ne dà Todd Phillipps -  eletto a emblema della rivolta sociale scoppiata sul finire del film lungo le strade di Gotham City, quando, perso qualsiasi contatto con la realtà e macchiatosi di un omicidio diventato virale per essere stato ripreso in diretta televisiva, il nostro diventa il simbolo della protesta. Una casualità che nulla toglie al fatto che mai prima di "Joker" la componente eversiva nei confronti dell’ordine costituito era stata teorizzata e si era poi espressa con la precisione di intenti e soprattutto con la rabbia esternata dal film di Phillips, la cui caccia all’untore vede nell’eliminazione delle classi più ricche (urlata per le strade dalla popolazione insorta) il primo gradino della rinnovata palingenesi.

Sul piano della forma, il regista fa della rappresentazione del mondo il riflesso della personalità schizofrenica del suo antieroe, e quindi delle componenti drammatiche e grottesche insite da una parte, nelle conseguenze psicologiche  degli abusi familiari subìti dal protagonista e riversati sui malcapitati di turno dall’altra, nella frustrazione di cui si nutre il sogno del protagonista di diventare un stand-up comedian di successo, infranto in diretta nazionale nel corso del talk-show presentato  da un Robert De Niro qui nella parte opposta a quella che gli era toccata in "Re per una notte". Che poi, a ben vedere, quella di Gotham City sia la quintessenza della società dello spettacolo ce lo dice la scrittura del film, ancora una volta imperniata dal narcisismo esibizionistico di Joker, sempre intento a pensare in grande, immaginandosi una star televisiva, oppure lesto a trasformare strade e scalinate nel palcoscenico su cui ballare le note degli adorati musical (genere al quale di certo "Joker" guarda e si rifà).

Ma il film è soprattutto il one man show di Joaquin Phoenix, incontenibile, versatile e strabiliante con o senza la maschera grottesca che gli incornicia il viso in un ghigno di crudele follia. L’impressione è quella di trovarsi di fronte a un campione di una compagine sportiva lasciato libero di esprimersi a suo piacere a patto che porti a casa il risultato anche per gli altri. Joaquin di certo lo fa, perché accanto a lui a fare un figurone sono il regista e gli altri attori, davvero di contorno (anche Robert De Niro) rispetto agli assoli di Phoenix.
Comunque la si pensi, siamo di fronte a un modello di recitazione degna del miglior Actor's Studio, dunque a quell’immersione totale nel personaggio che ha come contropartita gli eccessi legati al surplus di enfasi dovuto al fatto di recitare a briglie sciolte. In realtà, considerata la natura a dir poco sopra le righe del protagonista, certi surplus di ego ci possono pure stare. Certo, siamo lontani dalla rigorosa sobrietà di Jean Dujiardin (anche lui candidato a vincere un premio come migliore attore) e non c’è dubbio che quando si muove a passo di danza, oppure mentre si rivolge all’interlocutore con dei primi piani degni del Perkins di "Psyco", la performance del nostro diventa davvero irresistibile.

A parte Phoenix,  Phillips ci mette anche del suo firmando la sceneggiatura e poi inventandosi una specie di Kammerspiel in cui dolby e panoramiche sono quasi sempre esclusi nell’intenzione di enfatizzare la dimensione psichica della rappresentazione. Il risultato è un falso blockbuster (non solo dal punto di vista estetico ma anche in termini produttivi) sempre in bilico tra realtà e allucinazione. In attesa di sapere gli esiti del palmarès veneziano in cui "Joker" è dato (non da noi) tra i favoriti per la vittoria finale, aspettiamo di vedere l’accoglienza del film da parte del pubblico pagante per aggiungere ulteriori considerazioni. In ogni caso promozione a pieni voti per Phoenix e soci.
Carlo Cerofolini
(pubblicato su ondacinema.it)