venerdì, giugno 26, 2020

NEVER RARELY SOMETIMES ALWAYS


Never rarely sometimes always
di Eliza Hittman
con Sidney Flanigan, Talia Ryder, Théodore Pellerin
USA, UK, 2020
genere: drammatico
durata: 101’
Un film che, fin dal titolo, lascia trasparire l’intento di smuovere emozioni continue e, talvolta contrastanti, nello spettatore. Questo è quello che si può immediatamente dire di “Never rarely sometimes always” di Eliza Hittman che confeziona un film davvero intenso, seppur nella sua apparentemente semplice costruzione e struttura.
La storia non è una storia inedita nel mondo del cinema, anzi si tratta di un argomento già trattato, più e più volte in vari modi e sotto svariati punti di vista. Autumn è una giovane diciassettenne della Pennsylvania che sembra avere la vita di una normale adolescente e ragazza della sua età, fatta eccezione per una gravidanza improvvisa e assolutamente non prevista. Grazie all’aiuto della cugina, praticamente coetanea, Skylar, cercherà di trovare una soluzione a questa sua nuova ed inaspettata situazione. Senza dire niente ai genitori e in un silenzio che spesso sembra varcare la soglia del mutismo, soprattutto in determinate circostanze e di fronte a determinate persone, la giovane protagonista deve prendere una difficile decisione.
Un silenzio, spesso assordante, è quello che segue l’intera vicenda di Autumn, accompagnandola e sostenendola in un viaggio più che formativo. Non si ha mai la sensazione di essere di troppo, ma di essere sempre al fianco della giovane e di supportarla nelle varie vicende che si ritrova costretta a vivere.
Le emozioni sono autentiche, mai forzate, a sottolineare una veridicità e un modo di approcciarsi ad una vicenda del genere diverso rispetto a quanto fatto da altri autori passati. Nonostante lo spettatore sia a conoscenza di tutto ed entri nell’intimo della ragazza, viene comunque sempre mantenuto un certo pudore, una certa distanza e una certa riservatezza. Trattare un tema così delicato non è mai semplice, ma la Hittman sembra riuscirci. Guardando questo film si ha la sensazione che la regista si sia messa nei panni della giovane grazie al modo attraverso il quale racconta una storia del genere, senza nessuna sbavatura, senza ricorrere al banale o al patetico.
Emblematica, sia perché dà il titolo alla storia sia perché rappresenta forse il punto più alto (o più basso) toccato dalla giovane Autumn, ma anche dal film stesso, è la scena della visita e delle domande da parte della dottoressa che deve sincerarsi delle condizioni della paziente e capire qualcosa di più della vita passata di quest’ultima. Le domande, alle quali la protagonista può rispondere solamente scegliendo una delle quattro opzioni fornite (never, rarely, sometimes, always che tradotti significano mai, raramente, qualche volta, sempre) iniziano quasi in maniera generica per poi scendere nel particolare e nel personale, andando a cercare di violare una giovane vita già più che provata da una gravidanza inaspettata. L’abilità in questa scena sta, oltre che nell’intensa interpretazione dell’attrice, Sidney Flanigan, nell’immobilità della macchina da presa che solo inizialmente ci mostra la dottoressa, ma che poi si stabilizza su Autumn e non la lascia più andare, insistendo sulle emozioni e sulle sensazioni che domande del genere suscitano in lei. 
Un’esagerazione e un’esasperazione che, però, si possono vedere come una carezza, un tendere la mano alla ragazza che, in un momento di difficoltà, ha solo bisogno di aiuto. Un aiuto che non ha trovato invece in chi la circonda, nelle persone che dovrebbero starle vicino, nella società che non mette mai, nemmeno per un istante, in dubbio niente (il capo che le impedisce di finire il turno un paio d’ore prima ne è la chiara dimostrazione). Autumn è apparentemente sola e da sola deve combattere e cadere. Cadere, ma soprattutto rialzarsi.
Intensità ed emotività al massimo, grazie alla storia, al modo di raccontarla e all’ottimo esordio delle due giovani protagoniste che, con un solo sguardo, riescono a far trasparire la vera essenza di ogni cosa.

Veronica Ranocchi

domenica, giugno 21, 2020

giovedì, giugno 18, 2020

THE LAST DAYS OF AMERICAN CRIME


The last days of American crime
di Olivier Megaton
con Edgar Ramirez, Anna Brewster, Michael Pitt
USA, 2020
genere: thriller
durata: 149’
“The last days of american crime” poteva essere un thriller ricco di azione e colpi di scena, uno di quei film che incollano lo spettatore allo schermo grazie ad una carica adrenalinica continua.
Peccato che ciò non avvenga nel lunghissimo film di Olivier Megaton, disponibile su Netflix ed uscito praticamente in concomitanza con tutta la situazione che si è venuta a creare negli Stati Uniti, a seguito dell’uccisione di George Floyd. E anche questo è un punto a sfavore del lungometraggio che poteva sicuramente sfruttare meglio lo spunto dal quale si sviluppa l’intera vicenda. Invece sembra quasi mettere da parte un’informazione del genere che, adesso, col senno di poi, sarebbe stata la chiave di volta principale sulla quale puntare l’attenzione.
Graham Bricke è un criminale che, in un’America nella quale il governo ha in programma di trasmettere un segnale che possa rendere impossibile a chiunque il tentativo di commettere atti illeciti di qualsiasi genere, decide di allearsi con il famoso gangster Kevin Cash e con l’hacker del mercato nero Shelby Dupree per tentare il colpo del secolo. Così facendo rimarrebbe un ultimo baluardo di cattivi o nemici dello stato in grado di tener vivi gli ultimi giorni del crimine americano, destinato, invece, lentamente ad estinguersi.
Un thriller distopico che, però, mette in scena una storia già vista e che non aggiunge niente di nuovo ad un repertorio già di per sé stracolmo di “avventure” del genere.
Nemmeno il cast e le interpretazioni degli attori, Edgar Ramirez, Anna Brewster e Michael Pitt soddisfano a sufficienza e non riescono a innalzare il livello del film che resta, invece, piuttosto basso e insoddisfacente.
Una durata decisamente eccessiva per la storia messa in piedi dal regista francese di origine italiana che accumula tutta una serie di informazioni e personaggi facendo spesso uso della violenza, talvolta anche in maniera eccessiva, seppur sempre per voler sottolinearne la brutalità.
Colori scuri, personaggi cupi e scenografia e fotografia abbastanza buie, proprio a rimarcare tutta questa negatività e violenza che si sposa bene con i personaggi, che sono comunque dei criminali, ma anche con tutti gli agenti che, invece di rappresentare la giustizia e il bene, sono disegnati come i veri cattivi della vicenda (anche se la distinzione tra buoni e cattivi è molto sottile, se non addirittura quasi inesistente).
Adattamento cinematografico dell’omonima graphic novel, “The last days of american crime” non riesce, complice anche l’infelice combinazione di eventi con i quali si è dovuto (e si deve) “scontrare” al momento, ad attirare l’attenzione e a raggiungere comunque un livello soddisfacente. Due ore e mezzo per raccontare qualcosa che poteva benissimo essere condensato in un tempo minore o in maniera diversa.

Veronica Ranocchi

lunedì, giugno 15, 2020

ARTEMIS FOWL


Artemis Fowl
di Kenneth Branagh
con Ferdia Shaw, Lara McDonnell, Nonso Anozie
USA, 2020
genere: avventura, fantastico, fantascienza
durata: 93’
Sono state tantissime le critiche mosse verso questo adattamento cinematografico dei primi due libri dell’omonima saga di Eoin Colfer.
L’ultima fatica da regista di Kenneth Branagh, disponibile sulla piattaforma Disney Plus sembra non essere stata apprezzata dal pubblico, soprattutto dai più fedeli fan dei libri che hanno atteso diversi anni. Quello che tutti si aspettavano era un inizio scoppiettante degno di diventare il perfetto trampolino di lancio per una nuova indimenticabile saga cinematografica che avrebbe dovuto fare la fortuna della casa di produzione. Purtroppo sembra che questo rimarrà un sogno nel cassetto, dati i riscontri principalmente negativi, dovuti, in gran parte, ad un prodotto che non ha niente di colossale e che sembra voler dire tanto in poco tempo, inserendo personaggi, elementi e legami in maniera troppo caotica.
La storia si sviluppa intorno al dodicenne geniale e miliardario Artemis Fowl. Quando il padre di quest’ultimo viene rapito, il ragazzino, sfruttando le sue doti, in parte innate, in parte imparate proprio dal genitore, decide di rapire una fata. Il suo piano prevede di rubare la magia a quest’ultima, in modo da poterla sfruttare per salvare il padre. In realtà, però, così facendo dovrà superare molti più ostacoli del previsto prima di arrivare al suo scopo finale.
La storia, molto avvincente, ha lo scopo di immergere il pubblico letteralmente in un mondo nuovo, facendolo entrare in contatto con particolari personaggi, la maggior parte dei quali magici, in modo da vivere una vera e propria avventura al fianco del protagonista. In realtà, però, quello che accade è tutt’altro. I personaggi che vengono introdotti attraverso la narrazione proprio di uno di loro sono dati praticamente per scontato e, soprattutto chi non ha letto i libri, riscontra delle difficoltà nel comprendere i vari ruoli e i vari compiti di ognuno. Oltre a questo va detto che non c’è un vero sviluppo e una vera evoluzione dei personaggi che, anzi, sembrano talvolta costretti a determinate scelte piuttosto che altre semplicemente per il procedere della narrazione. Anche attori più noti, e che dovrebbero fare da traino per un pubblico più vasto, come Colin Farrell, nel ruolo del padre, e Judi Dench, in quello del comandante Tubero, non riescono ad emergere all’interno della storia, che risulta piatta, senza nessun guizzo particolare.
La nota positiva è sicuramente dettata dall’interpretazione di Josh Gad, nel ruolo del nano gigante Bombarda Sterro, che è anche il narratore della vicenda e che riesce a catturare l’attenzione dello spettatore.
Si tratta, insomma, di un prodotto probabilmente ridimensionato a causa delle circostanze che, per la piattaforma streaming nella quale è disponibile, può essere utilizzato come titolo di richiamo che permette di gustare un’avventura adatta a tutti e trascorrere un’ora e mezzo in un nuovo mondo. Sicuramente indirizzato più verso un pubblico giovane, l’ “Artemis Fowl” di Kenneth Branagh non convince pienamente. Peccato.


Veronica Ranocchi

domenica, giugno 14, 2020

LA FOTO DELLA SETTIMANA


Catwoman (Anne Hathaway)

INVISIBILI: DIMENSION BOMB


Dimension bomb
di, Morimoto Koji
genere, animazione
[in “Genius party beyond”, ep. IV]
Giappone, 2008
durata, 20’




She knows the rain
It brings her up and takes her down
It’s all the same
- Opal -



Quel qual alone di tristezza che da sempre avvolge l’Arte per i limiti intrinseci legati alla più generale inconsistenza della vicenda umana, trova nella forsennata consuetudine tardo moderna un perverso complice/carnefice in grado, al tempo, di vellicare la speranza circa la di lei capacità di incidere continuativamente anche in una prassi oramai ostaggio del più unanime materialismo e di frustrarne la medesima velleità diluendola in primis nel gorgo delle sollecitazioni infinite che assediano l’immaginario contemporaneo. Il risultato più banale ma anche più deprimente di questa contraddizione (perché evoca una perdita patita sotto forma di una assenza nemmeno più vissuta come tale) è la relativa facilità con cui un’opera degna quantomeno di essere sottoposta alla curiosità di ipotetiche vaste platee passa bensì sotto silenzio o - e per certi aspetti è anche peggio - resta confinata nei ghetti specialistici e/o nei solipsismi devozionali.

Da tale deriva è persino impellente riscattare (ed è in questi casi più che in altri che ci si riscopre critici, ovvero orrendamente mediocri) un lavoro come il presente “Dimension bomb” di Morimoto, contenuto a mo’ di episodio nell’animazione collettiva dal titolo “Genius party beyond”, del 2008. In genere, la tentazione prevalente di fronte a creature dell’ingegno e della passione restie, come questa, a concedersi tanto all’indagine razionale quanto all’immedesimazione distratta, è quella di liquidarle, nel migliore dei casi, come esercizi di stile: attitudine, a volte, non dissimile dalla carica mistificatoria attribuita a un pensiero di cui si intuisce - e si teme - una certa carica eversiva. Eventualità in ogni caso tutt’altro che peregrina, la predetta - per carità - risulta però spesso insufficiente a smontare per intero la legittimità di taluni sforzi formali qualora si convenga su un paio di considerazioni. Innanzitutto - ed è molto meno ovvio di quello che si è disposti ad ammettere - per esercitarcisi, su uno stile, bisogna averlo. E già qui la faccenda si complica. Inoltre, il particolare ambito preso in considerazione, quello più ampio delle immagini con nel suo grembo l’altro, più specifico, del disegno (animato), per sua natura risulta dotato di un’arma di eccezionale efficacia: l’ascendente visivo. Ossia, di base, il potenziale pressoché infinito di tessere - a partire da un insieme di segni organizzati per il tramite di un determinato bagaglio tecnico da una variante individuale dell’estro, del senso estetico e della fantasia - trame, rimandi, associazioni ulteriori, cortocircuiti linguistici, senza che ciò necessariamente chiami in causa una premessa e una soluzione logica o, meno ancora, il conforto di una spiegazione. In tal senso, proprio il minifilm dell’autore nipponico si presta - suo malgrado, ovviamente - a indossare le vesti di parziale ma indispensabile abbecedario sullo stato di avanzamento del costante processo di approssimazione, sovrapposizione e rielaborazione di procedimenti, schemi e modelli al servizio dell’esuberanza creativa.

All’interno di un orizzonte siffatto, allora, diviene oltreché congrua anche necessaria la corte di giustapposizioni, di alternanze nervose di tonalità e cesure narrative, di stasi premonitrici di una prepotente dimensione alternativa che brulica a un niente dalla superficie del reale. Lo stesso per angosce sommesse entro sghembe accelerazioni e rallentamenti stupiti che insieme si inseguono, si accavallano e si alternano lungo le traiettorie di un racconto che abdica da subito ai criteri di linearità e consequenzialità puntando su figure umane affidate a un tradizionale tratto continuo però quasi stilizzato, i cui dettagli vengono tenuti in tensione ariosa e geometrica più dalle variazioni cromatiche che dagli interventi sui volumi (talvolta si fa persino ricorso a una bidimensionalità tanto ricercata quanto icastica), chiamando poi quelle e questi a integrarsi con un ambiente - volta per volta agreste, metropolitano, industriale - al quale è la CGI a dettare le direttrici di sviluppo e a conferire consistenza, in un doppio registro espressivo che alla fluidità e alla freschezza del gesto e dell’atteggiamento associa, certo per contrasto tuttavia secondo i percorsi inediti di uno strambo ma a suo modo febbrile incanto - ecco il primo e più seducente dei pregi del tentativo di Morimoto - la staticità minacciosa della materia e la languida opalescenza del paesaggio, a corroborare l’evenienza di una dilatazione lisergica dell’impeto spirituale dell’ukiyo-e. Tutto ciò a partire da un compatto cielo blu oltremare su cui in lontananza procede orizzontalmente una sorta di velivolo (un’astronave in manovra di atterraggio ?), mentre una ragazzina in tunica, sneakers e grosso nastro a intrappolarle i capelli improvvisa in un sotterraneo una danza sotto una lampada oscillante al centro di un suo personale cerchio magico il quale, più avanti, diventa semplice sfondo bianco a cui regalare eleganti movenze da circassa impreziosite qua e là da intarsi e schizzi di colore degni di una lama di Masamune o delle celebri schegge grafiche kandinskijane. Indi, la sospensione iniziale si tramuta, sulla scia di un tappeto sonoro elettronico, in un essere antropomorfo con cui la protagonista non ha la minima relazione ? Che ha forse solo immaginato ? O che con la forza del desiderio ha in qualche misterioso modo concorso a evocare ? Quesiti oziosi: lo scarto di qualche fotogramma ed è già tempo di cominciare comunque a interagire privilegiando il linguaggio simbolico dei segni e dell’ironia fanciullesca (“Cheese !”) a esorcizzare, forse, una istintiva aptofobia, per poi inseguire insieme una farfalla accompagnati dal commento meditabondo di un fraseggio di piano: “Non è facile come pensi” (questa come le altre sparute linee di dialogo sono recitate da una infantile voce femminile tanto vivace quanto interrogativa, orchestrata su brevi risolini, lallazioni, nonsense), “Se ci fosse una farfalla in un campo credo che la prenderei” (qui di nuovo il tratteggio si fa essenziale, la prevalenza delle sfumature tenui accompagna l’incanto delle prime volte con le sue esitazioni e i suoi stupori). Ma il desiderio è tale anche e soprattutto perché recalcitra davanti alla stabilità e alla ripetizione e con la stessa disinvoltura con cui elegge l’oggetto preferito della sua indagine così lo respinge (“Uffa, ti odio !”), invitandolo a suo modo a incarnarsi, a prendere una foggia quantomeno riconoscibile, processo che di solito assume i connotati di un trauma violento, nel caso tanto in parte indotto quanto in sostanza registrato passivamente, a dire senza che si faccia nulla per evitarlo, fino a quando lo strazio per la avvenuta separazione (che, a questo stadio, è già una separazione da una parte di sé stessi) è troppo lancinante da essere sopportato ed esige una ammenda…

Se il Passato è il regno dell’inevitabile, il Futuro si costruisce a partire dall’istante, ovvero dalla possibilità che a esso si concede di dispiegarsi in reiterate porzioni di Tempo al fine di accoglierne e sostenerne l’affacciarsi alla percezione. Ed è l’istante in cui l’alieno - così lo definisce la voce-bambina - dopo un processo assimilabile a un parto durante il quale si vede strappare di dosso (o viene costretto a separarsi, come sacrificio per accedere a un mondo nuovo) la propria forma astrale (l’anima ?) lasciata a una inerzia invisibile che la conduce (muta, a testa in giù, in un dolce collasso dilatato all’infinito) tra vicoli in penombra, edifici fatiscenti, grattacieli sbriciolati, raffinerie/acciaierie/futuribili laboratori abbandonati, condomini immensi e silenziosi, lungo litoranee e prospettive desertiche o montuose (parliamo dell’inserto più arreso e metafisico del film), sutura la lacerazione della sua diversità e rinasce come promessa, come ipotesi di armonia tra razze a tutta prima incompatibili, riannodando le trame di quello stesso desiderio che il sospetto, l’impazienza, l’ignoranza avevano - come accennato - interrotto: “Se sparissi dal mondo, saresti triste ? “, domanda ora sussurrando la voce-bambina. “Io lo sarei di sicuro”. Così, la oculata spensieratezza compositiva - quelle cromie sinterizzate sui gialli impalpabili, gli arancio pieni e decisi, i rossi e gli ocra più lievi, gli scuri e i neri impenetrabili, tipo occhi senza fondo; quelle sagome severe e come intente delle architetture e degli scorci, la fissità mai inerte degli scenari naturali - si raccoglie in una parentesi ai confini dell’avventura sensoriale, verso cui confluiscono anche il dettato della volontà (sfidare l’evidenza) e la disposizione sentimentale (ambire a un ordine rigenerato e giusto): qualcosa di maestoso e di intimo, di crudele e di beato (“Sembra agrodolce”), pulsione verso l’inesistente (“Shin, fagli una foto”) di due mondi complementari divisi dalla dicotomia simmetrica inverno-primavera (metà di quel cielo ordinario adesso si è indurito in una oscurità nevosa; l’altra persiste placida in una calma turchese. Al centro un sole splendente fa baluginare gli estremi angelico-demoniaci delle sue ipotetiche evoluzioni) eppure sorretti dalla sofferenza che la progressione circolare di quel desiderio originario implica, nella speranza illusoria ma incoercibile di un suo superamento (“Ecco perché mi piace il gelato fritto”), prima di scoprirsi solidali e vulnerabili davanti alla contemplazione di un tramonto, accettando, cioè, di una condizione di confidente vicinanza tanto l’esemplarità che la pena.

Indipendentemente dai giudizi, esiste l’eventualità che la collocazione migliore per un singolare oggetto come “Dimension bomb” si trovi in quella impertinente gratuità grazie alla quale azzardo, sperimentazione, destrezza e sguardo ludico si incontrano per il solo piacere di ricombinarsi liberamente comportandosi come elementi primari di una suggestione ingenua (che, si badi, non vuol dire credulona e, men che meno, stupida, come per lo più intende la contemporaneità ottusa, ma pronta ancora a scommettere - e quindi, certo, anche a perdere - sulla meraviglia nascosta delle cose) in grado di prendere corpo e trasformarsi mano mano in una configurazione aperta, curiosa, se così si può dire, a testimonianza ulteriore di come l’Arte, per quanto imperfetta e sempre più marginale, insista a voler funzionare a più livelli e in direzioni diverse. A questo proposito, potrà risultare interessante e/o sorprendente, a seconda delle sensibilità personali, affiancare alle tavole in movimento di Morimoto, ad esempio, la prima parte di “In a silent way” di Davis o, magari, “Voice of the turtle” di Fahey.

“Cheese !”.

TFK

martedì, giugno 09, 2020

THE QUARRY


The Quarry
di Scott Teems
con Michael Shannon, Shea Whigham, Catalina Sandino Moreno
USA, 2020
genere: thriller, drammatico
durata: 98’
Tratto dal romanzo omonimo di Damon Galgut “The Quarry” di Scott Teems è il nuovo film che vede protagonisti Michael Shannon e Shea Whigham.
Siamo in Texas dove conosciamo il reverendo David Martin, in viaggio verso la chiesa di Bevel per un nuovo incarico. Durante il tragitto incontra un uomo, quasi privo di sensi che decide di aiutare e con il quale cerca di intrattenere un dialogo. Questi, però, invece di confidarsi uccide il reverendo, nasconde il corpo e decide di stabilirsi nella città di quest’ultimo prendendone l’identità. Diventando, quindi, un finto predicatore comincia a fare sermoni incentrati sul perdono che vengono apprezzati dagli abitanti del luogo, tranne che dal capo della polizia locale che, invece, inizia ad insospettirsi.
Una narrazione che fatica a decollare, soprattutto a causa di un’oppressione sia spaziale che temporale. Non ci sono riferimenti particolari e precisi sulla data, né tantomeno sullo spazio che appare, anzi, molto soffocante, sia per i colori utilizzati sia per i movimenti molto limitati dei personaggi sia per i luoghi molto circoscritti entro i quali si svolgono i fatti. E quest’assenza di indicazioni contribuisce a creare un alone di mistero intorno a tutta la storia. Allo stesso modo non vengono fornite informazioni nemmeno sul protagonista, interpretato da Shea Whigham, recentemente osservato al cinema in “Joker” che qui finalmente può vantare un ruolo primario. Non sappiamo niente di lui perché è intorno a questa maschera che lui si crea che ruota il perno della vicenda. Ma non ci dobbiamo limitare al personaggio, al mistero e ai segreti che lui si porta dietro. Bisogna guardare oltre e considerarlo come una chiave di lettura. Dovrebbe incarnare il perdono, la consapevolezza di un errore e la successiva redenzione. In realtà, però, ciò che trapela è la convinzione che non ci sarà mai una seconda possibilità, cosa che si deduce anche dalle continue visioni del protagonista.
La progressione finale che porta ad una sorta di risoluzione è forse un po’ troppo veloce e non permette di comprendere completamente le decisioni che hanno spinto il personaggio a compiere determinate scelte.
Affidare il tutto in maniera equa sia al protagonista che al capo della polizia, interpretato da Michael Shannon, il Walt di “Cena con delitto – Knives out”, sarebbe forse stata la scelta più opportuna, invece che limitare il tutto alle visioni del finto predicatore, ai continui ralenti e agli sguardi in macchina del vero reverendo che, però, così facendo, sembra indirizzarsi direttamente al pubblico  e suggerirgli cosa fare, come agire e come comportarsi.
Peccato perché l'idea di fondo, già vista in diversi altri contesti, dal cinema alla letteratura, poteva essere sicuramente sviluppata in maniera diversa.

Veronica Ranocchi

mercoledì, giugno 03, 2020

LA FOTO DELLA SETTIMANA


Stereo di David Cronenberg (Canada 1969)

BOMBSHELL - LA VOCE DELLO SCANDALO

Bombshell - La voce dello scandalo
di Jay Roach
con Charlize Theron, Margot Robbie, Nicole Kidman
USA, 2019
genere, drammatico
durata, 109'



Raccontando la vicenda di Roger Ailes, presidente e amministratore delegato della Fox costretto a dimettersi dall’incarico per le accuse di molestie sessuali intentategli da alcune delle conduttrici della rete, “Bombshell - La voce dello scandalo” non perde tempo e introduce da subito la materia in questione o meglio la natura del contesto in cui essa nasce e si sviluppa. A cominciare dalla premura della didascalia iniziale, in apparenza superflua - finalizzata com’è a comunicare la cosa più ovvia, a dire quella di trovarsi davanti a un film e dunque al cospetto di fatti e personaggi ricostruiti attraverso espedienti di finzione - invero precipua nel fare sua quella spettacolarizzazione della realtà di cui la Fox e i suoi collaboratori sono stati precursori in campo giornalistico.

Ma non basta perché, ancora prima che il film inizi a incalzarci con la bellezza delle sue immagini, a trovarsi al centro delle vicenda non è il corpo del reato, quello pur magnifico di Megyn Kelly, giornalista di punta e star di uno dei programmi più popolari della rete, bensì le sue parole, prestate al buio dello schermo per esaltare il potere della voce, nel caso in questione strumento necessario (assieme alla fisiognomica) a spostare l’attenzione dalla verità dei fatti alla capacità di saperli raccontare.

A completare l’opera, il piano sequenza introduttivo, quello in cui è sempre la figura della Theron, faccia in macchina, come si addice al suo mestiere, a fare da ambasciatrice del sistema. Così, tra vizi privati e pubbliche virtù, i segni ineluttabili del potere temporale ci vengono messi sotto agli occhi, esibiti, a cominciare dal regno, ovvero il palazzo-grattacielo con i suoi piani a legittimare l’ordine gerarchico, dal Monarca supremo all’ultimo dei sudditi. Consapevole di trovarsi di fronte a un vero e proprio Leviatano e dunque sapendo di poter esserne divorato, “Bombshell" lo affronta senza cadere in facili schematismi, rifuggendo dall’idea di separare i buoni dai cattivi e di contro restituendo la naturale complessità dei rapporti denunciando sia i misfatti che le complicità - in qualche caso, non in tutti - delle vittime. Non solo le donne, utilizzate più per la loro avvenenza che per la loro competenza, ma pure degli uomini, travolti dal Mogol ogni qualvolta non disposti a eseguirne gli ordini.

“Noi siamo la via d’accesso, noi intervistatori siamo la porta, noi della Fox come tutte le altre reti”, dice la protagonista all’inizio del film, ad avvalorare un’identità con la casa madre che fatica a venire meno anche quando si tratta di metterne in discussione la conduzione, si badi bene, non l’appartenenza. In questo senso, il difetto di un film come quello di Jay Roach è il mantenere le distanze dal dramma invece di farsene veicolo; è preferire l’analisi del quadro generale ottenuto dall’esame delle dinamiche e dei meccanismi all’emersione del privato delle singole storie, sì raccontate nelle loro minute implicazioni ma sempre nell’ottica di renderle un tassello del mosaico.

Più interessante che coinvolgente, “Bombshell - La voce dello scandalo” è anche il modo per vedere in azione un’attrice di razza qual è Charlize Theron - affiancata dalle colleghe Nicole Kidman e Margot Robbie - irriconoscibile nel make up che la rende somigliante al personaggio reale quanto brava (la sua nomination agli ultimi Oscar è passata ingiustamente sotto silenzio) nel restituire il contrasto tra la deontologia giornalistica e quella (presunta) del mondo dello spettacolo. Se quindi “Bombshell” è il cinema che racconta sé stesso per interposta persona, tanto lo scandalo di Ailes è simile a quello di Bob Weinstein, bisogna anche dire che la televisione ci aveva già pensato prima. A questo riguardo, vale la pena dare un’occhiata alla miniserie “The Loudest Voice”, con Russell Crowe nel ruolo del personaggio principale. Racconta gli stessi fatti prendendosi più tempo e mettendosi nella parte del diavolo.
Carlo Cerofolini
(pubblicata su ondacinema.it)

L'ARTE DELLA DIFESA PERSONALE

L'arte della difesa personale
di Riley Stearns
con Jesse Eisemberg, Alessandro Nivola, Imogen Poots
genere, drammatico
USA, 2019
durata, 104'


L’apertura de “L’arte della difesa personale”, scritto e diretto da Riley Stearns intercetta come meglio non si potrebbe l’anima della storia. In essa il protagonista Casey Davis (l’ineffabile Jesse Eisenberg) è “vittima” della mdp che ne legittima la condizione di loser senza arte ne parte. Succede infatti che l’obiettivo, in procinto di avvicinarsi al ragazzo seduto all’intero della tavola calda, interrompa il proprio movimento per concentrarsi  sulla coppia di avventori che sta entrando nel locale. Quella che sembrerebbe una semplice distrazione diventa di colpo l’espressione di una precisa volontà quando lo sguardo del regista invece di tornare a interessarsi del nostro si preoccupa di metterlo ai margini del quadro rispetto alla centralità dei nuovi arrivati, nel frattempo impegnati a fare di Casey l’oggetto del loro scherno.

In effetti, partendo da una storia di ordinaria alienazione, con il protagonista deciso a superare i propri blocchi psicologici attraverso la frequentazione di un corso di difesa personale, il film finisce per concentrarsi sul rapporto tra Casey e il suo maestro/Sensei (Alessandro Nivola) e dunque sulla subordinazione del primo nei confronti del secondo. In questo senso sono le immagini di presentazione dei personaggi a venire in aiuto, anche in considerazione  della disposizione di questi all’interno dello spazio: centrale dominante, in primo piano, quella Sensei, periferica, subalterna e distante dal punto macchina quella del suo sottoposto. Una gerarchia, questa, peraltro attestata dalla sequenza in cui Casey si ritrova nell’ufficio dell’insegnante per lasciare i suoi dati personali, con l’esasperazione delle prospettiva (data dall’utilizzo del grand’angolo, espediente utilizzato soprattutto nella prima parte del film, quello segnato dal disagio del protagonista), utile a enfatizzare una distanza spaziale, quella del ragazzo dal suo mentore, che diventa metafora di un gap psicologico e caratteriale.

Raccontato in questo modo “L’arte della difesa personale” farebbe pensare a un’opera di massima drammaticità,  destinata a non lasciare alternativa alcuna a reazioni derivate da una visione pessimistica della vita. Non che in effetti non ce ne siano le premesse, perché il tratto distintivo della storia altro non fa - per la maggior parte del tempo - che infierire sul malcapitato personaggio, facendo del malessere da lui patito il propellente per ribadire la supremazia dei forti sui deboli. In realtà Stearns lavora sul ridicolo scaturito dalle tragedie esistenziali dei suoi personaggi e cosi facendo trasforma le disgrazie di Casey e degli altri allievi del corso in una serie di situazioni impregnate di macabro umorismo. Accade infatti che la negatività degli eventi abbia come contraltare una messinscena ai limiti del surreale, nella quale il pathos dei contenuti (comprensivi di morte e violenza) viene bilanciato dall’asetticità delle circostanze e degli ambienti. Spogliata della sua normale quotidianità, l’esistenza e i suoi personaggi cancellano ogni tipo di naturalezza a partire dalla fissità/rigidità di visi e posture, mentre la scenografia, ordinaria e geometrica, contribuisce a segnare lo scarto tra l’assoluto di regole e dogmi relativi alla religione del perfetto karateka e il prosaico minimalismo del contesto urbano.

Detto questo, la qualità di un film come “L’arte della difesa personale” si misura anche con altro: in particolare con la capacità del regista di operare sul sottotesto della storia nel momento in cui, raccontando una società omofobica e maschilista (Imogen Poots, la più brava dei corsisti è penalizzata da Sensei per una questione di genere),che si serve della paura e della divisione per soddisfare il suo bisogno di ordine e controllo, altro non fa che mettere alla berlina il credo di un’intera nazione. Ad avvalorare questa tesi non sfugga peraltro il dato relativo alla tipologia del consesso esaminato, il quale per caratteristiche iniziatiche e dottrinali e per attitudine cospirativa con cui si propone, assomiglia a una vera e propria setta (organizzazione già al centro dell’ottimo “Faults”, opera prima del regista americano), sul modello  di quelle religiose alle quali appartenevano una fetta dei primi coloni giunti in America dal vecchio continente. Su una simile continuità si inserisce la strategia del regista atta a suscitare l’empatia del spettatore, per l’appunto messo nella scomoda condizione di chiedersi se il processo di presa di coscienza del protagonista funzionerà oppure no, ovvero Sensei è davvero quello che dice di essere e soprattutto  Casey riuscirà davvero a emanciparsi dalle proprie paure.

Se Eisenberg nel ruolo del protagonista conferma la predilezione per ruoli da perdente, Alessandro Nivola dimostra ancora una volta l’ecletticità del suo talento, capace di spaziare tra luoghi, personaggi e toni sempre diversi. Pur con qualche forzatura dell’impianto narrativo nella parte finale, quella della resa dei conti tra Casey e Sensei, “L’arte della difesa personale” è un film di idee e contenuti superiore alla media e fa di Riley Stearns uno di quei registi da segnare nel taccuino.
Carlo Cerofolini
(pubblicato su ondacinema.it)

martedì, giugno 02, 2020

LA FAMIGLIA WILLOUGHBY


La famiglia Willoughby
di Kris Pearn
Canada, Regno Unito, USA, 2020
genere: animazione
durata: 92’
Tratto dall’omonimo libro per bambini “La famiglia Willoughby” è un film d’animazione canadese-americano diretto da Kris Pearn che, proprio come suggerisce il titolo, ruota intorno al tema della famiglia.
Ironico e assurdo, il film si sviluppa grazie alla narrazione di un gatto che introduce il pubblico nella storia e soprattutto in una strana famiglia, quella degli Willoughby, un tempo considerata una famiglia con un passato glorioso, interrotto da una coppia decisamente troppo egoista che pensa solo al proprio amore, lasciando da parte i quattro figli, costantemente dimenticati e messi in punizione. Il più grande, Tim, è colui che deve cercare, per quanto possibile, di occuparsi degli altri tre fratelli, Jane, la figlia di mezzo che ama cantare, ma che viene sempre zittita dai genitori, e i gemelli Barnaby, molto intelligenti, ma spesso etichettati come “inquietanti”. I due genitori, troppo impegnati a pensare a se stessi e alla loro relazione, non considerano a dovere i propri figli e, inizialmente, non si accorgono nemmeno che davanti alla loro porta viene depositata una piccola orfana che i tre fratelli più piccoli decidono di raccogliere e adottare, almeno temporaneamente. Spinti, però, da Tim, contrario all’inserimento della piccola (che viene chiamata Ruth) all’interno della famiglia, soprattutto perché conscio che i genitori non la vorrebbero, i fratelli Willoughby lasciano la piccola davanti alla porta di una fabbrica di caramelle. A seguito di questo avvenimento i piccoli di casa pensano che l’unica soluzione per vivere finalmente una vita felice sia quella di diventare orfani. E per questo propongono indirettamente ai genitori una vacanza nella quale la coppia sarà coinvolta in una serie di pericoli che dovrebbero portarli via per sempre dai figli. I quattro fratelli non sanno, però, che durante la vacanza i genitori hanno pensato di rivolgersi ad una tata che possa controllarli e sorvegliarli costantemente. E sarà proprio la tata a dare una vera e propria svolta a quella che tutto poteva definirsi tranne che una famiglia.
Fin da subito è evidente la linea comica e ironica verso la quale il film vuole puntare. E’ il gatto narratore che introduce il tutto invitando il pubblico a non aspettarsi la classica storiella che parla di famiglie unite. Una chiave comica interessante sulla quale soffermarsi è anche la composizione dei personaggi che, al di là delle proprie doti e caratteristiche peculiari che li rendono ognuno piacevole a suo modo, è anche la chiave di lettura del film: cioè il non fermarsi alle apparenze. Tutti i membri della grande famiglia Willoughby, da generazioni, hanno come tratto peculiare i baffi, donne comprese, e i capelli sono fatti di lana, materiale che tornerà utile col susseguirsi degli eventi e che fungerà da filo conduttore, fisico e non, tra i membri di quella che poi sarà a tutti gli effetti una vera famiglia. In un certo senso, quindi, è come se si fondessero insieme la creatività della storia, e cioè tutte le avventure e peripezie che coinvolgono i quattro piccoli protagonisti, e la scelta visiva adottata, nello specifico i colori e il “materiale”.
A fare da cornice alle peripezie e alle avventure vissute dai piccoli ci sono poi tutta una serie di personaggi che conferiscono ancor più dinamicità al racconto, dalla tata Linda al comandante immerso nelle caramelle per non parlare, ovviamente e indirettamente, della piccola Ruth e del gatto narratore.
La tematica dell’abbandono e dell’importanza dei legami che si formano tra le persone sono i nuclei fondamentali attraverso i quali si sviluppa una narrazione che, come sempre, quando si tratta di film d’animazione, non è vincolata solo ed esclusivamente ai più piccoli, ma ben si adatta anche ad una riflessione per le persone più grandi. Una strizzata d’occhio e una tirata d’orecchie verso un’attenzione a guardarsi intorno che, purtroppo, manca sempre di più. E, collegato a questo, la scelta di “abbandonare” la coppia dei genitori risulta, oltre che coerente con lo svilupparsi della storia, soprattutto azzeccata.

Veronica Ranocchi