lunedì, giugno 29, 2009

NAPOLI VIOLENTA - ITALIA 70 - IL CINEMA A MANO ARMATA (12)

Dodicesima puntata

NAPOLI VIOLENTA (Ita 1976)
Regia: Umberto Lenzi
Cast: Maurizio Merli - John Saxon - Barry Sullivan - Silvano Tranquilli - Elio Zamuto - Maria Grazia Spina - Massimo Deda - Guido Alberti.

TRAMA: ll commissario Betti (Merli) questa volta deve affrontare una nutrita schiera di criminali: un rapinatore di banche (Zamuto); un industriale (Saxon) dai loschi traffici e il boss del racket del pizzo (Sullivan).

IL FILM: Seconda avventura della trilogia del Commissario Betti (la prima è ROMA VIOLENTA) che è stato trasferito a Napoli per combattere una criminalità sempre più spietata.
Betti come al solito rinuncia alla sua vita privata per mettersi al servizio del cittadino con i suoi metodi brutali che spesso fuoriescono dai rigidi confini dalla legalità.
Il commissario dal grilletto facile e dal pugno veloce, deve vedersela con tipologie diverse di criminali: il potente "generale", camorrista che gestisce il racket del pizzo, l'uomo d'affari Capuano invischiato in loschi traffici e uno spietato rapinatore interpretato dal grande e troppo spesso dimenticato Elio Zamuto.
Betti durante le sue indagini instaura un rapporto particolare con il piccolo Gennarino (Deda) rimasto orfano dopo l'uccisione del padre garagista e sarà proprio la pietà provata nei confronti del piccolo che gli darà la forza di combattere una criminalità sempre più dilagante e feroce.

COMMENTO: Film ben confezionato con Lenzi che come suo solito calca la mano con la violenza. Lenzi non non rappresenta Napoli banalmente, ovvero come una città ancorata a tradizioni e modi di pensare che bloccano la strada della modernità, ma come una metropoli che pur tra mille contradizioni riesce a far convivere tradizione e progresso riallacciandosi idealmente ai 3 diversi tipi di criminalità proposti nella pellicola.
Cast ricco e ben assortito, supportato da comprimari di sicuro affidamento. Questo film appartiene a pieno titolo al sottofilone del commissario giustiziere e quindi non macano le frasi ad effetto " ..A te non ti denuncio per violenza a pubblico ufficiale...te la faccio scontare qui".
Ottime le scene d'azione, tra tutte spicca il celeberrimo inseguimento sul tetto dei vagoni della circumvesuviana che Maurizio Merli ha girato personalmente rinunciando alla controfigura. Indimenticabile la colonna sonora di FRANCO MICALIZZI che riarrangia in chiave poliziottesca una tipica tarantella napoletana.

CURIOSITA'-NOTIZIE: In questo film fa il suo esordio la figura del ragazzino orfano che ritroveremo in altri film, sopratutto in quelli ambientati nella città di Napoli quando il "poliziottesco" subirà una svolta melodrammatica.
Il film uscì nelle sale il 23 agosto del 1976, ovvero in piena estate e quando nella città di Napoli si sfioravano i 40 gradi. Nonostante questo, già dalle prime ore del pomeriggio nei pressi del cinema dove era il programma la prima del film alla quale sarebbe stato presente il regista U. Lenzi, scoppiarono dei disordini a causa della folla che voleva accedere alla sala. Dovette intrvenire la polizia e il questore di Napoli si prodigò personalmente per mettere a disposizione un'altra sala cinematografica della città per contenere il pubblico.
NAPOLI VIOLENTA incassò 1miliardo e 868 milioni di lire, di cui 169 milioni solo nella città di Napoli.

AMORI ED ALTRI CRIMINI

PUBBLICATA SU ONDACINEMA.IT


















In un quartiere di Sarajevo il boss Milutin organizza i suoi affari con l’aiuto di Stanislav (VukKostic),apprendista delinquente dalla faccia slavata e con la passione per i giochi di prestigio. Innamorato di Anica (Anica Dobra), le propone una fuga d’amore in cambio del silenzio a proposito dei raggiri che la donna sta organizzando ai danni di Milutin (Fedja Stojanovic) di cui è l’amante. Un intreccio tipicamente noir che Stefan Arsenijevic traveste con i toni della commedia e del melo per rappresentare un mondo alle prese con i postumi della guerra e con una crisi economica che rischia di farlo scomparire.Senza venir meno alle istanze di realismo, continuamente presenti nella totale adesione con il degrado del tessuto urbanistico e nella dinamica di una storia, che alla maniera della "novelle vague" viene mostrata e si sviluppa attraverso il pedinamento dei personaggi, il film si arricchisce di una serie di motivi che pur riallacciandosi al tema conduttore dell’amore impossibile, lo stesso che lega in un rapporto di odio e amore Sarajevo con i suoi cittadini, e che ritroviamo riflesso nel mutismo della figlia di Milutin, a sua volta tormentato dal ricordo della donna che ha amato ed abbandonato, a quello di Stanislav per Anica, a lungo sublimato ed ora complicato da una serie di obblighi da soddisfare (verso la madre, sull’orlo di una demenza senile verso la figlia del Boss, con cui si comporta come un fratello maggiore), sono il riflesso di una sfrenata passione cinefila, capace di far coesistere il cinema di Jarmush, presente nella trattenuta stravaganza dei caratteri e nella fissità di alcune loro espressioni, a quello di un classico come "Casablanca" (con "Basame mucho" al posto di "Times goes by"), riproposto nelle dinamiche amorose e nell’ambivalenza che unisce i tre protagonisti, alla poetica Alleniana di "Manhattan", con il tetto del palazzo al posto della panchina ed i due innamorati a regalarsi un ultimo sguardo sulla città che stanno per lasciare, al Brian De Palma di "Carlitos Way", citato esplicitamente nell’epilogo finale. Commistioni affascinanti ma anche rischiose dal punto di vista formale, per la difficoltà di assemblare modelli così disparati, e che invece Arsenijevic riesce a trasformare in un unicum originale ed appassionante, grazie ad uno sguardo che realizza sul piano filmico le istanze politiche ancora inseguite, e riesce a tenere insieme, ricomponendola, la discontinuità di un luogo che sembra andare a pezzi, e che invece sullo schermo acquista un identità ancora sconosciuta nella vita reale. Ma il film deve molto all’espressività dei suoi attori, capaci di cogliere in un sol gesto l’intera gamma delle passioni umane. Un opera rara da cui mi congedo con una certa emozione.

venerdì, giugno 26, 2009

UNA NOTTE DA LEONI

Segnata da un impoverimento che l’ha ridotta a contenitore di demenze giovanili o nel migliore dei casi degli umori inaciditi di donzelle in cerca di marito, la commedia americana cerca via di scampo nelle atmosfere finto nere di "Una notte da leoni" di Todd Philips, un tipo diventato famoso con "Road trip", sorta di abbecedario sessuale per giovani marmotte, e qui alle prese con Las Vegas ed i postumi di un addio al celibato conclusosi con la misteriosa sparizione del festeggiato. Complicata dai postumi della sbornia che ha cancellato ogni ricordo, l’azione dei tre amici diventa un viaggio a metà tra l’assurdo e l’allucinato (tigri, squillo, la mafia cinese ed anche Mike Tyson fanno parte del biglietto) ed ancora excursus che prova a rinnovare per la sua scelta iconoclasta (i luoghi del divertimento rimangono laterali rispetto all’anomina centralità di quelli che il regista ci propone) un immaginario topografico ampiamente sfruttato.
Mettendo lo spettatore sullo stesso piano dei personaggi (entrambi ignorano gli eventi della fatidica notte), Phillips cerca di coinvolgere il pubblico stimolandone la curiosità e rafforza l’elemento estraniante, già presente nell’estetica deformata della città, con improvvise esplosioni di violenza in cui la visione del sangue e la drammaticità del momento rischia di destabilizzare l’ilarità complessiva della vicenda. Un meccanismo originale che perde interesse con il procedere della storia, scontata nel suo inevitabile lieto fine, e priva di quella carica trasgressiva che lasciava trasparire. Promessa mancata per mancanza di coraggio "Una Notte da leoni" fallisce il confronto con i colleghi più sguaiati anche sul piano della risata nuda e pura per la mancanza di quella goliardia che dopo Jim Belushi è stato il marchio di fabbrica della "commedia per soli uomini". Capitanato da un "leading man" abituato a ruoli da comprimario e con un cast di illustri sconosciuti, bisogna riconoscere a Philips la nobiltà del tentativo ed il plus valore al botteghino.

giovedì, giugno 25, 2009

Film in sala dal 26 giugno

Anamorph
( Anamorph )
GENERE: Thriller
ANNO PROD: 2007
NAZIONALITÀ USA
REGIA: Henry Miller

Crossing Over
( Crossing Over )
GENERE: Drammatico
ANNO PROD: 2008
NAZIONALITÀ USA
REGIA: Wayne Kramer

La donna di nessuno
GENERE: Thriller
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ Francia
REGIA: Vincenzo Marano

Ritorno a Brideshead
( Brideshead Revisited )
GENERE: Drammatico
ANNO PROD: 2008
NAZIONALITÀ Gran Bretagna
REGIA: Julian Jarrold

Transformers 2 : La vendetta del caduto
( Transformers 2: Revenge of the Fallen )
GENERE: Azione, Fantascienza
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ USA
REGIA: Michael Bay

Tutti intorno a Linda
GENERE: Commedia
ANNO PROD: 2008
NAZIONALITÀ Italia
REGIA: Barbara Sgambellone, Monica Sgambellone

mercoledì, giugno 24, 2009

Settimo cielo

In Wolke 9 Andreas Dresen mette in scena con garbo e consistenza un dramma familiare e insieme una bella storia d'amore. L'occhio è puntato su una generazione poco visitata dal cinema in generale, la così detta terza età. E qui si riscopre che l'essere umano, anche se stanco e consumato dal tempo, quando animato da mente vivace e da spirito positivo, non smette di viversi le proprie sensazioni ed i sentimenti più forti, non smette, in sostanza, di vivere.
La protagonista, Inge, ultrasessantenne, è una donna sposata con ancora molti interessi: canta in un coro di pensionate, segue con partecipazione la vita della figlia e continua in casa la porpria attività di sarta. Un giorno, per consegnare a domicilio un lavoro, incontra Karl, di 76 anni, e scatta qualcosa: la passione li travolge. Inge, turbata eppure felice, inizia un percorso di risveglio personel ed allo stesso tempo di grande espressività. Sente di volere ancora molto dal presente, dalle possibilità che le si propongono, di non voler cedere al tempo che passa, al corpo decadente che si lascia andare. Ed accetta con coraggio questa stravolgente nuova esperienza.
Inge, in poche parole, si rimette in gioco con tutta se stessa e a poco a poco emerge da lei la determinazione di non rinunciare alle passioni, alla fisicità, al brivido delle emozioni, solo perchè sta invecchiando. Con sua sorpresa percepisce che, nonostante tutto ciò che potrebbero pensare "gli altri, non si sente in colpa per questa vitalità. E anzi, la rafforza, le aiuta a guardare meglio se stessa e il il proprio matrimonio.
Al suo fianco si trascina un marito asciugato nella vecchiaia, stanco, depresso, disilluso, amorfo, diviso tra le solitarie letture e l'assistenza al padre quasi centenario ed infermo. I due coniugi condividono da tanti anni un rapporto consolidato, fatto di dialogo e ascolto, rapporto che però va in crisi quando Inge confessa il proprio tradimento.
L'incontro inaspettato con Karl risveglia in lei una passionalità profonda e il desiderio. E la trasforma agli occhi del marito, agli occhi di tutti, divenendo "una ragazzina sconsiderata". Ecco, "Settimo cielo" è un film sul desiderio puro, sulla bellezza del condividere con l'altro la magia della passione e della sensualità. Anche a quella età. E soprattutto è un film sugli stereotipi e sulla difficoltà generale ad accettare che anche odpo i 70 anni si può avere voglia e bisogno di passione e di una vita sessuale attiva e appagante.
Il film ha fatto molto parlare di sè al festival di Cannes. Molti hanno trovato riprovevole il mostrare scene di sesso tra anziani. Ma Andreas Dresen lo fa con delicatezza e struggimento, nulla risulta volgare o grottesco. E il film si rivela coraggioso perchè ci guarda per come siamo, per ciò che saremo, anime in cerca di felicità e di bellezza, anime che vivono nonostante tutto. E' solo dopo aver vissuto veramente che si può lasciare questa vita.
Per me è un bel film.
Voto 8

martedì, giugno 23, 2009

IL PROSSIMO TUO


Tre storie che si incrociano senza avere la consapevolezza di farlo. Lo svolgersi della vita nella separazione dall’altro. Scorci di vita impregnati di dolore e la muta consapevolezza di un esistenza che non ti appartiene. Uomini e donne come uomini e topi. Jean Paul (JH Anglade), giornalista in crisi che passa le sue giornate visitando siti porno, Eeva (Laura Malivaara), hostess taciturna che si accontenta della compagnia di un vecchio professore e rifiuta le avance dei suoi corteggiatori, Maddalena (Maya Sansa), pittrice disinibita che si spende tra incontri occasionali e lezioni ad una bambina innamorata dei suoi quadri, sono facce diverse della stessa paura. Una condizione che annulla le distanze geografiche (Parigi, Helsinki, Roma) e li accomuna nel riversare le tragedie personali su un presente che ha perso qualsiasi slancio emotivo e si esprime attraverso il rifiuto degli altri esseri umani. Coazioni a ripetere fino al punto di rottura, quando viene meno il simulacro che confonde il vero nome delle cose.
Un punto di non ritorno che ha i colori indistinti della notte (l’incontro di Paul con la prostituta minorenne, i ladri che violano il sonno di Maddalena, l’esperienza di Eeva rivissuta durante il viaggio nei luoghi che le hanno rubato il coraggio di vivere) ed il sudore di un emozione che ritorna in superficie. Anne Ritta Ciccone gira con coerenza, articolando la storia in un unico segmento, in cui le vicende hanno il respiro di un battito d’ali e si riversano una sull’altra in una condizione di perenne sospensione, continuamente spezzate da elissi che assomigliano a fendenti sferrati sui volti dei protagonisti. Alle prese con una storia di solitudine e di dolore, la regista è brava nella costruzione di atmosfere che sfruttano al meglio le suggestioni del paesaggio e l'immediatezza della sintesi (il tuffo in piscina o una nuotata nel lago che concludono le vicende di Paul ed Eeva sono il segno di una liberazione che viene annunciata attraverso la bellezza di quelle immagini), mentre mostra le corde quando deve far procedere la storia, appesantendo il film con spaccati di sociologia (soprattutto con il frammento ambientato a Roma, quello meno riuscito, con la borgata che fa capolino con gli stereotipi di un razzismo da pagina di giornale) che pagano il dazio ad un autorialità necessariamente impegnata e qui espressa dall’apologia antifascista di Remo Remoti, mitica figura del cinema Morettiano e dall’apparizione di Sergio Citti, campione di pasoliniana marginalità, nella parte del suo compagno di bevute.

lunedì, giugno 22, 2009

AMORI ED ALTRI CRIMINI


SEGNALATO DA NICKOFTIME

Leggi la recensione del film di Nickoftime!
 
 

ALIBI E SOSPETTI

Pierre Collier (Lambert Wilson), psicologo di fama e marito fedigrafo viene ucciso nella villa di campagna di Henri Page (Pierre Arditi), un politico appassionato di armi che organizza rendez vous settimanali con una compagnia di amici unità da relazioni più o meno parentali. Lo sconcerto del momento diventa incredulità quando la moglie dell’ucciso, armata di pistola ed in stato confusionale viene ritrovata accanto al cadavere del marito. Un indagine dagli esiti scontati se il movente passionale, inizialmente attribuito all’indiziata, non appartenesse in egual misura a buona parte degli ospiti, equamente divisi tra amanti abbandonate e coniugi rancorosi. Derivato da un romanzo di Agata Christie (“Poirot e la salma”) “Alibi e sospetti” ne riproduce i meccanismi aggiornandoli con l’insoddisfazione e la decadenza di una borghesia che assomiglia a quella dei romanzi di Simenon e che si traduce nell’ennesima trasposizione cinematografica di un delitto “apparentemente perfetto”. Il meccanismo dell’indagine non diventa mai autopsia (l’attenzione verso il dettaglio è pressoché assente) e la storia si perde tra i rivoli di una sceneggiatura che non riesce a giustificare l’operato dei personaggi: capita così che le bellicose dichiarazioni e la faccia da cane sciolto del commissario incaricato del caso si traduca in un totale immobilismo, e che Philippe, scrittore narcolessico privo di qualsiasi perspicacia, si trasformi di colpo in un novello Poirot. Bonitzer gira come fosse in un teatro (camera fissa ed inquadrature che incorniciano la scena) affidandosi ad un cast transgenerazionale ed all’appeal degli ambienti. Se qualcuno si chiedesse il perché di una distribuizione così insulsa a fronte di film mai arrivati nelle sale è presto detto: “Alibi e sospetti” è una coproduzione italo-francese alla quale partecipa anche Sky, bisogna dire altro?

giovedì, giugno 18, 2009

Film in sala dal 19 giugno

Tre Lire, Primo Giorno
GENERE: Commedia
ANNO PROD: 2008
NAZIONALITÀ Italia
REGIA: Andrea Pellizzer

Amore e Altri Crimini
( Love & Other Crimes )
GENERE: Drammatico
ANNO PROD: 2008
NAZIONALITÀ Austria, Germania, Slovenia, Serbia
REGIA: Stefan Arsenijevic

Borderland
( Borderland )
GENERE: Horror
ANNO PROD: 2007
NAZIONALITÀ Messico, USA
REGIA: Zev Berman

Coraline e la porta magica
( Coraline )
GENERE: Animazione, Fantasy, Family
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ USA
REGIA: Henry Selick

Il mondo di Horten
( O'Horten )
GENERE: Commedia, Drammatico
ANNO PROD: 2007
NAZIONALITÀ Germania, Francia, Norvegia
REGIA: Bent Hamer

Il prossimo tuo
GENERE: Drammatico
ANNO PROD: 2008
NAZIONALITÀ Francia, Italia, Finlandia
REGIA: Anne Riitta Ciccone

La ragazza del mio migliore amico
( My Best Friend's Girl )
GENERE: Commedia
ANNO PROD: 2008
NAZIONALITÀ USA
REGIA: Howard Deutch

Look Both Ways
( Look Both Ways )
GENERE: Drammatico
ANNO PROD: 2005
NAZIONALITÀ Australia
REGIA: Sarah Watt

Una notte da leoni
( The Hangover )
GENERE: Commedia
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ USA
REGIA: Todd Phillips

martedì, giugno 16, 2009

I LOVE RADIO ROCK

Gli anni 60 e la loro musica: in mezzo dei simpatici dj, scanzonati ed un po matti che a bordo di una nave diffondevano il nuovo verbo: sesso, droga e rock and roll. Frequentatissima nonostante la logistica, la nave è sistematicamente abbordata da nugoli di ragazze che volevano provare la loro dose di musica e trasgressione. Una specie di missione che fa di quella ciurma dei veri e propri eroi nazionali fino al giorno in cui un governo inglese poco incline ai cambiamenti decide di porre fine all’avventura: un rompete le righe coatto ed in parte drammatico (la nave in fuga dalle autorità cola a picco senza conseguenze per i suoi occupanti) che non interruppe la travolgente ascesa della nuova musica. Pensato dal suo autore come un collage coloratissimo di personaggi e pezzi musicali “I Love Radio rock” sconta la sua voglia di voler essere simpatico a tutti i costi ed una sceneggiatura che non riesce a tenere insieme i pezzi del puzzle. “Nonostante siano tutti sulla stessa barca” i personaggi appaiono isolati nel ruolo che devono interpretare dando l’impressione di aspettare il momento giusto per infilare i rispettivi assoli. Ed anche il “commento musicale”, solitamente il punto di forza di questo tipo di operazioni per le suggestioni che suscitano le compilation epocali, da la sensazione di allungare inesorabilmente il metraggio della storia. Un risultato inversamente proporzionale alle risorse impiegate ed agli intenti professati.

sabato, giugno 13, 2009

UN PROPHETE

La scelta di ambientare una storia all’interno del carcere dove il protagonista (Malik) viene rinchiuso, è di per sé significativa ed individua una nuova tendenza del cinema francese, che già l’anno scorso si era imposto all’attenzione del pubblico con un film (La classe) obbligato all’interno di uno spazio circoscritto. Strutture materiali e della mente che obbligano le persone a confrontarsi con le proprie paure attraverso un percorso in cui la riprogrammazione dell’individuo, attuata con i metodi coercitivi della convivenza coatta e della separazione dal mondo esterno, diventa la possibilità di una riscoperta quotidiana, ottenuta con decisioni dolorose (Malik è costretto ad uccidere per salvarsi la vita e diventa il promotore di un escalation di terribile violenza) ed inevitabilmente destinata a ribaltare le posizioni di partenza. Senza rinunciare alle regole del cinema di genere, enfatizzate dalla presenza di un avversario tanto forte quanto mefistofelico (il boss corso Cesar Luciani), vero e proprio Imperatore circondato da una corte di accoliti, e monopolizzate dallo scontro di due personalità opposte ma unite dal bisogno di sopravvivere all’evidenza dei fatti (per Malik un esistenza segnata dalle proprie origini, per Luciani la consapevolezza di un ergastolo improrogabile), Audiard realizza un microcosmo che riproduce su scala ridotta le problematiche di un paese alle prese con i fantasmi di un integrazione realizzata solo a parole e costretta a confrontarsi con la rabbia di chi viene emarginato. Una dimensione parallela e dimenticata che il giovane magrebino porta a galla in maniera paradigmatica nel corso della storia, con l’alienazione delle fasi iniziali, in cui la chiusura è logica reazione alla novità del paesaggio, e poi nel conformismo dei momenti successivi, quello dell’apprendistato mascherato dal più vile servilismo e caratterizzato da un gioco di specchi in cui Malik sperimenta sugli altri le forme del potere che ha subito, per arrivare ad una presa di coscienza che definisce l’individuo e lo propone sulla ribalta con le proprie aspirazioni. Audiard spazza via la società cosiddetta “civile”(nel film la lingua francese è sinonimo di minoranza) per scoperchiare i gangli di un malessere che è connaturato ad un modello di vita darwinista e verso il quale non è possibile proporre ricette (la ratio del film è il frutto di una nevrosi che diventa quasi patologica quando il protagonista accetta i suggerimenti dal fantasma dell’uomo che ha ammazzato o individua nella realtà i segni premonitori dei suoi incubi notturni) o soluzioni. Un materiale in continuo divenire che Audiard riesce a fissare attraverso un linguaggio ridotto all’essenziale, con restringimenti di campo e piccoli sussulti della telecamera che individuano lo stato d’animo di un personaggio, e con dettagli come la scelta di un vestito od il taglio di capelli che danno il senso di un avvenuto cambiamento. Eccellente nella direzione degli attori il regista ci regala due figure che entrano nella testa dalla porta principale e ci rimangono grazie ad una recitazione che privilegia l’impatto emotivo alla fascinazione dell’aspetto, dando vita ad una sfida senza esclusione di colpi che ricorda quella tra Davide e Golia, a patto di sostituire il mito con un overdose di realtà.

giovedì, giugno 11, 2009

IL CANTO DI PALOMA

Le conseguenze della dittatura ed il ritratto di una donna alla prese con i fantasmi di un esistenza vissuta all’ombra di un antico misfatto sono i temi principali di un film che ribadisce l’esistenza di un cinema sudamericano anche al femminile dopo i successi cannensi di Lucrecia Martel. Allo stesso modo dell’attrice argentina, anche la Llosa si sofferma su un percorso di crescita personale che diventa anche il paradigma di una terra che tenta di rinascere sulle ceneri di una regime politico che ha ampliato le distanze tra ricchi e poveri. Costretta all’isolamento da una madre che l’ha partorita con ancora addosso il sudore dei suoi stupratori, Fausta vive il rapporto con la realtà esterna e soprattutto con il sesso maschile come un tormento da evitare ad ogni costo: debilitata da un infezione provocata dalla patata che lei usa come cintura di castità e costretta a rimediare i soldi per seppellire la madre nel paese natio, accetta il lavoro presso la casa di una facoltosa concertista ed inizia un lento ma non indolore processo di liberazione che passerà inevitabilmente per il confronto con le proprie paure. Pur mantenendo in secondo piano gli aspetti prettamente politici, questi sono presenti soprattutto nelle differenze che caratterizzano la vita della padrona, immersa nel silenzio della villa e sistematicamente dedita all’otium, e quelle della protagonista, divisa tra il nuovo lavoro ed il sostegno ai parenti che la impiegano in una scalcagnata quanto pittoresca ditta di matrimoni (esemplare il campo lungo che accentua l’assurdità e la fatica per raggiungere la sede di lavoro ubicata sulla sommità di un promontorio raggiungibile solamente dopo un interminabile ascesa) ma anche nella rappresentazione di una condizione femminile a cui viene preclusa qualsiasi possibilità di affermazione. Ma quello che colpisce è la capacità di dare vita agli stati d’animo della protagonista, impegnata in una versione latina della protagonista di “Alice nel paese delle meraviglie” (anche qui sarà il risveglio a decretare il ritorno alla vita), in cui l’acidità della versione originale è sostituita da un andamento a volte dolente, per il costante senso di minaccia che attanaglia Fausta, a volte divertito, per gli intermezzi di vita quotidiana caratterizzati da un ironia paragonabile a quella che attraversa i picari di Emil Kusturiza, in un contesto dove la progressione del racconto, pur evidente negli snodi fondamentali, è continuamente presente nel volto della protagonista, interpretata da un attrice (Magaly Solier) che ignora il metodo e recita con il cuore. Il canto di Palma allude alla nenia che la protagonista intona per esorcizzare i ricordi di un infanzia rubata. Orso d’Oro al Festival di Berlino 2009.

Film in sala dal 12 giugno

Amore & Altri Crimini
( Love & Other Crimes )
GENERE: Drammatico
NAZIONALITÀ Austria, Germania, Slovenia, Serbia
REGIA: Stefan Arsenijevic

I love Radio Rock
( The Boat that Rocked )
GENERE: Commedia
NAZIONALITÀ Gran Bretagna
REGIA: Richard Curtis

Jonas Brothers: The 3D Concert Experience
( Jonas Brothers: The 3D Concert Experience )
GENERE: Documentario, Musical
NAZIONALITÀ USA
REGIA: Bruce Hendricks

Look Both Ways
( Look Both Ways )
GENERE: Drammatico
NAZIONALITÀ Australia
REGIA: Sarah Watt

Martyrs
( Martyrs )
GENERE: Horror
NAZIONALITÀ Canada, Francia
REGIA: Pascal Laugier

Sacro e Profano
( Filth and Wisdom )
GENERE: Commedia, Drammatico, Musical, Romantico
NAZIONALITÀ USA
REGIA: Madonna

Un'estate ai Caraibi
GENERE: Comico, Commedia
NAZIONALITÀ Italia
REGIA: Carlo Vanzina

domenica, giugno 07, 2009

TERMINATOR the Salvation

Sono dell’idea che di fronte al proliferare di un cinema che ricicla se stesso e confida nel richiamo di titoli che appartengono all’immaginario cinefilo si debba organizzare una critica che prenda in considerazione il film per quello che è, cercando di dimenticare le paretele che lo legano ai famosi capostipiti, al fine di evitare condizionamenti che quasi sempre finiscono, nel bene o nel male per pregiudicare un analisi oggettiva di quello che stiamo guardando. Con questo approccio ho cercato di avvicinarmi all’ultimo film della famosa saga, e devo dire che “Terminator the salvation” rappresenta il punto finale di un trend che inizia con le caratteristiche di un fenomeno di nicchia e progressivamente si trasforma in un solido blockbuster che ha smesso di confrontarsi con le paure del proprio tempo ma in compenso ha rafforzato i legami con le abitudini di uno spettatore prettamente anaffettivo e sempre meno avvezzo a discorsi sui paradossi temporali.
Detto questo va riconosciuto al film il merito di presentare un apparato visuale completamente rinnovato a partire dalla fotografia, desaturata dei colori primari e con una prevalenza di grigi e neri che rendono evidente il senso di morte di un mondo che si è appena risvegliato dalla sua Apocalisse ed una scenografia che riesce nel difficile compito di dare vita al mito, coniugando il racconto delle origini (la terra ai tempi della resistenza) con l’evoluzione che il cinema ha raggiunto in termini di tecnologia ed effetti speciali. Così grazie anche ad un uso calibrato degli effetti sonori (funzionali all’idea di un esistenza dominata dalle macchine), che annunciando l’arrivo del nemico aumentano la sensazione di accerchiamento dei ribelli, il film è continuamente in bilico tra una nuova età della pietra (gli ambienti in cui si rifuggiano i ribelli, quasi sempre ricavati dal paesaggio naturale e privi di qualsiasi confort, l’endemica mancanza di cibo, ed anche il sottomarino su cui viaggia il comando della resistenza, in tutto simile a quelli usati nell’ultimo conflitto mondiale) ed un presente ipertecnologico (dalle motociclette che spuntano dalle gambe di mezzi da combattimento antropomorfici, ai robot che sembrano dei Trasformers fino al laboratorio in cui Skynet ordisce la conquista della terra) mentre gli eroi che lo attraversano hanno sulla faccia i segni di un cedimento che tarda ad arrivare. Una ricchezza di mezzi e fantasia messi a disposizione di un regista che spreca poche inquadrature (solamente quelle dedicate ai siparietti sentimentali in cui mogli ed amanti si concedono il loro momento di gloria), filma senza confusione e permette allo spettatore di rendersi conto delle dinamiche dei combattimenti e una volta tanto di appassionarsi ai solitamente tediosi insegumenti.Un panorama di tal genere, dominato dalla magnificenza dell’apparato e dall’abilità del suo demiurgo finisce inevitabilmente per mettere in secondo piano la presenza di attori come Christian Bale, dopo Batman ancora una volta in un ruolo da finto protagonista,e Sam Worthington, un tipo tosto e con la faccia giusta per questo tipo di film (ed infatti sarà anche in Avatar di James Cameron) e non fa pesare un casting femminile con attrici del calibro di Bonham Carter e Bryce Dallas Howard completamente fuori parte. Ma allora direte voi direte vale la pena assistere ad un film che praticamente non aggiunge niente di rilevante a quanto già sapevamo a proposito di John Connor e della sua famosa resistenza? Certamente si, se quello che volete sono due ore di pura azione, no se al cinema chiedete qualcosa in più.

venerdì, giugno 05, 2009

LEZIONI D'AMORE

L’idea di mascherare una banalissima “Love Story”con un cotè autoriale è palese a cominciare dalla scelta degli attori, Ben Kingsley per la parte del professore innamorato dell’allieva e Penelope Cruz in quelli della studentessa che cede alle sue avance: solitamente impegnati in un cinema dove la presenza fisica conta fino ad un certo punto ed i clichè Hollywoodiani pur presenti durano il tempo di una breve citazione questa volta si ritrovano coinvolti in un operazione prettamente commerciale che, con il pretesto di trasporre il romanzo confessione di uno dei padri della letteratura contemporanea americana (Philip Roth/L’animale morente), si correda di tutti gli status symbol culturali che fanno la gioia di chi ama veder confermata sullo schermo la propria intelligenza: e così dovendo giustificare l’appeal giovanile di un personaggio maschile che può vantare lo sguardo di un incantatore di serpenti ma ha pur sempre superato i sessantenni, gli sceneggiatori gli affibbiano un eclettismo che prevede oltre ad una cattedra universitaria, la scrittura di saggi di successo, la conduzione di un programma radiofonico, la frequentazione settimanale di un talk show televisivo, la passione per l’arte fotografica e quella musicale, per non parlare dell’ insaziabile appetito sessuale soddisfatto dalla compresenza di una relazione puramente sessuale portata avanti all’insaputa della giovane conquista. Un menù importante che viene aggravato dall’onnipresente presenza di un sottofondo di musica classica che essendo un “adagio” acuisce la sensazione di pesantezza che deriva da un personaggio di tale pedigree. Una presenza ingombrante che finisce per relegare quello femminile a ad una suppellettile con i capelli sempre in piega e lo sguardo eternamente perso, in un contesto generale che ritarda sempre di più il telefonatissimo finale e ci aggiunge pure una sorpresa che arriva fuori tempo massimo. Forse condizionata dalla nobiltà della fonte Isabel Coixet, regista spagnola lanciata da Almodovar, si adegua all’andazzo caricando il film con uno stile che in certi momenti ( tutte le scene in cui la Cruz è ripresa da sola e la voce di lui riflette sull’incapacità maschile di andare oltre il velo dell’apparenza femminea o quelle in cui la coppia passeggia in riva ad una mare invernale) è identico a quello di certe pubblicità di moda, in altri vorrebbe rasentare Bergman, con tanto di apparizioni di personaggi già morti e simposi sulla paura di invecchiare. Insomma non si salva niente in questo "Lezioni D’amore o forse si, perché la generosità con cui la Cruz mostra il proprio seno potrebbe essere motivo di riscoperta da parte degli ammiratori dell’attrice spagnola. Il fatto che il film fosse entrato nel concorso ufficiale del Festival di Berlino la dice lunga sul metodo di selezione e sulle commissioni chiamate ad espletarlo.

giovedì, giugno 04, 2009

Film in sala dal 5 giugno

Cash
( Ca$h )
GENERE: Azione, Commedia
NAZIONALITÀ Francia
REGIA: Eric Besnard

Garage
( Garage )
GENERE: Drammatico
NAZIONALITÀ Irlanda
REGIA: Leonard Abrahamson

Linha de Passe
( Linha de Passe )
GENERE: Drammatico
NAZIONALITÀ Brasile
REGIA: Walter Salles, Daniela Thomas

Senza apparente motivo
( Incendiary )
GENERE: Drammatico, Thriller
NAZIONALITÀ Gran Bretagna
REGIA: Sharon Maguire

Terminator Salvation
( Terminator Salvation )
GENERE: Azione, Fantascienza, Avventura
NAZIONALITÀ Germania, Gran Bretagna, USA
REGIA: McG

Visions
GENERE: Horror, Thriller
NAZIONALITÀ Italia
REGIA: Luigi Cecinelli

mercoledì, giugno 03, 2009

"SOFFOCARE" E LA DERIVA DEL CINEMA MODELLO SUNDANCE

Quand’ero piccolo andavo a vedere i film provenienti dal Sundance Film Festival (nome che identifica il cinema indipendente americano sviluppatisi agli inizi degli anni 80) per la fascinazione derivante dal loro minimalismo formale e per l’understatement con cui affrontavano i problemi del mondo. Uno straniamento comprensibile per chi come mè era vissuto nell’era del Blockbuster, in cui i film assomigliavano ad un circo equestre ed i registi vi stavano come esperti domatori. Un cinema esagerato ed esasperato che trovò il suo contraltare nelle piccole produzioni indipendenti che il festival di Robert Redford aveva avuto il coraggio di promuovere e che a poco a poco divennero una vera e propria alternativa al trend del cinema mainstream. Popolato da personaggi un po’ bizzarri e quasi sempre a disagio nei confronti della vita il cinema modello Sundance trovava la sua forza nella necessità di superare la pochezza delle risorse economiche e la diffidenza di un pubblico abituato al prodotto spettacolare. Era il cinema dei Soderbergh, dei Kevin Smith dei Solondz (“Fuga dalla scuola media” ma anche “Storytelling”) e di Tarantino, ma anche di registi che vissero un successo effimero, potrei citare per esempio il Rockwell di “In the soup”, l’Harmony Korine di “Gummo” e il Ray Lawrence di “Lantana”, ma che furono capaci di realizzare opere estremamente personali. Il pubblico reagì in maniera insperata ed il successo al botteghino (Sesso Bugie e Videotape costò 1,2 milioni di dollari e ne incasso 25 in America ed altri 100 nel resto del mondo) attirò l’interesse delle Majors da sempre alla ricerca di mercati alternativi: d’apprima parteciparono alla distribuzione poi fiutando l’affare arrivarono a creare case di produzioni ad hoc per questo tipo di prodotto dando vita a Fox Searchlight creata dalla Twentieth Century Fox, Paramount Classic una ramificazione della Paramount Picture, Sony Picture Classics una divisione della Sony Pictures ecc, o ad acquisire le storiche New Line e Miramax (1993) che di fatto riportarono il cinema indie all’interno della grande produzione raffreddando in qualche modo lo slancio anarchico che ne caratterizzò le origini. Da quel momento le produzioni a basso budget divennero più che altro una palestra dove gli attori di successo potevano sfogare le proprie pretese artistiche e quelli in erba preparare il grande salto hollywoodiano. Il numero dei film da ricordare divenne sempre più rarefatto mentre per la maggior parte vide un rapido passaggio nelle sale per poi finire tra gli scaffali dei negozi di homevideo. Una corrosione lenta ma inesorabile che oggi ci mette sempre più spesso davanti a film come “Soffocare” di Clark Gregg tratto dall’omonimo libro di Chuck Palahniuk in cui il modello del cinema Indie non è il presupposto ma solamente la forma con cui conviene vendere il prodotto. Cosi la materia incandescente (in Soffocare il protagonista è un sessuomane che finge il soffocamento per guadagnarsi l’affetto e soprattutto i soldi dei suoi soccorritori) che in passato avrebbe trovato proprio nella marginalità del settore la possibilità di essere esplicitata, viene resa presentabile e quindi vendibile (il disordine sessuale finisce per essere tale solo a parole mentre nella pratica risulta totalmente innocuo e quasi ordinario nella sua ripetitiva compulsività) attraverso un lavoro di pulitura che lo trasforma in un surrogato di un cinema che vorrebbe essere diretto ma risulta buttato là in maniera ruffiana e senza un minimo di impegno. Gli andirivieni tra l’ospedale in cui è ricoverata la madre malata di Alzheimer (inutilmente interpretata da Angelica Huston) ed il parco a tema dove lavora come figurante in un improbabile ricostruzione dell’America dei Padri Pellegrini sono il pretesto per una serie di scenette picaresche e surreali in cui Victor Mancini compierà la sua “rivoluzione sessuale” e farà pace con un esistenza fin lì avara di soddisfazioni. I movimenti di macchina pressocchè inesistenti e la semplicità delle inquadrature, a sottolineare la natura naive dei protagonisti, la fotografia dominata da tonalità autunnali per accentuare la malinconia di esistenze alla deriva sono solo la buccia di un frutto andato a male.

1. Sesso, bugie e videotapes - la pietra miliare che aprì la strada alla commercializzazione del cinema Indie.

2. In the Soup - il bianco e nero divenne uno dei colori preferiti.

3. Clerks - la sceneggiatura fu incentrata sulle risorse a costo zero già disponibili: il negozio dove lavorava Smith.

4. Gummo - è uno dei molti film indie che abbandonò qualsiasi significato di intreccio lineare convenzionale.

5. Storytelling - la sodomizazione di Selma Blair da parte del professore afroamericano ne azzerò la visibilità.

6. Lantana - la commistione dei generi divenne procedura comune.

7. Soffocare - il punto di arrivo di un modello che ha esaurito le sue risorse

martedì, giugno 02, 2009

UOMINI CHE ODIANO LE DONNE

“Uomini che odiano le donne” è un noir che porta di nuovo alla ribalta l’indagine investigativa, non più funzionale alla sovraesposizione del personaggio principale ma collegamento coerente di elementi apparentemente inconciliabili. Una dichiarazione d’intenti che sarebbe piaciuta a Raymond Chandler, da sempre fautore di crime story costruite senza forzature o sottomissioni alla spettacolarità delle situazioni e derivate da un analisi sociologica indispensabile alla credibilità dell’invenzione artistica. Il nostro, evidentemente supportato dalla solidità della fonte scritta, ambienta la vicenda nel paesaggio svedese e usa i luoghi comuni sull’efficienza di un paese da sempre annoverato come modello di modernità e compostezza per smascherare le ipocrisie la decadenza che da sempre sono il contraltare del decoro e della ricchezza. Un “grande sonno” in versione scandinava (anche qui è il patriarca di una famiglia patrizia che dà il via all’indagine) che si avvale di due personaggi forti, un giornalista d’assalto che si inventa detective per riscattarsi da un processo ingiusto che l’ha messo fuori gioco, e da una hacker cyber punk, bisessuale e tormentata da un oscuro passato, che diventa sua assistente (e non una bella statuina) e da un incipit rafforzato dallo sguardo della ragazza scomparsa, una specie di Monna Lisa che il film ripropone più volte attraverso la fotografia usata per la sua ricerche, e che diventa, non solo per le parti in causa ma anche per lo spettatore in sala, una specie di ossessione che lo calamita senza pause all’interno della storia. Un appeal molto americano per un film corroborato da un gusto tutto europeo nella costruzione dei personaggi ai quali si permette di appartenere ad un mondo, in cui anche la riflessione ed il silenzio hanno un significato e non sono semplicemente una mancanza in termini di spettacolarità e di tempi cinematografici.

lunedì, giugno 01, 2009

VINCERE

Marco Bellocchio è un regista che potrebbe fare a meno del sonoro: creatore di immagini che parlano da sole, si è addentrato negli argomenti più oscuri della nostra storia recente (dalle contraddizioni della famiglia borghese a quella delle istituzioni religiose fino agli anni di piombo) scompaginando gli schemi di un dibattito ormai stantio, per affrontarlo con una prospettiva che tiene conto della Storia ma privilegia la sfera individuale e psicologica delle parti in causa. Le sue storie finiscono per diventare sedute psicanalitiche in cui il flusso di pensiero dei personaggi, ondivago e sempre sul punto di degenerare in qualcos’altro si mischia con la domanda di un mercato cinematografico dopato di didascalismo e normalizzazione (“Angeli e Demoni” rappresenta l’esempio più calzante). Un dovere a cui il cinema di Bellocchio si adegua con una certa scontrosità e che si traduce in termini di linguaggio con un vocabolario che ottimizza al massimo il significato delle parole, sfiorando spesso l’incomunicabilità ed il silenzio. Così accade anche ad Ida e Benito messi alle strette dalla telecamera che indugia sui loro volti, interrogandoli: Bellocchio gli sottrae lo spazio circostante e li obbliga all’interno dell’inquadratura quasi volesse ritrovare negli spasmi del volto o nel guizzo di un occhiata i segni di una verità altrimenti indicibile. Due animali in gabbia che reagiscono con la schizofrenia di certi eroi del cinema muto (una cifra stilistica presente non solo nell’evidenza della citazione di “Giovanna D’arco” di Dreyer ma anche nella sovrapposizione iconografica tra la figura di Ida e quella della pulzella D’Orleans interpretata da Renè Falconetti) eternamente divisi tra una mobilità appena accennata ed improvvise esplosioni di furore. Un testa a testa che monopolizza la prima parte del film, quella in cui conosciamo gli aspetti privati di una vicenda che sarebbe diventata cronaca e che ci restituisce il malessere di un umanità che si ribella ad un destino già scritto (lei proprietaria di un Atelier di moda , lui un oscuro maestro della provincia romagnola) ed impazzisce nel tentativo di riscriverlo secondo i propri sogni (lei convinta di aver trovato in lui l’uomo della vita, lui desideroso di rinverdire il mito dei grandi condottieri italici). Qui Bellocchio lascia spazio agli slanci dei suoi protagonisti che si consumano alla vigilia del grande evento bellico: gli scenari, notturni o prevalentemente in penombra, le immagini che si fanno sfocate confondendo le sagome o mettendole su piani diversi di realtà (gli amplessi amorosi potrebbero anche essere il frutto di incontri immaginati e mai consumati) , un uso diacronico del tempo che sottrae allo spettatore alcuni snodi fondamentali (uno su tutti il matrimonio dei due celebrato in chiesa e successivamente la nascita di un figlio, così come la relazione tra Benito e Rachele che sembrerebbe avvenire parallelamente a quella con Ida, e che poi ritroviamo, nella seconda parte sposati all’insaputa della Dasler) rendono evidente la precarietà di quella relazione e soprattutto la prospettiva personale con cui viene storia raccontata quella storia. Poi dopo lo scoppio della guerra che Bellocchio annuncia nella scena che ricorda la corazzata Potemkin, con Ida che sorge dal fumo di un esplosione più metaforica che reale, e procede con incedere deciso, la carrozzina tra le mani e lo sguardo fisso di chi sa cosa vuole ed è deciso ad ottenerlo, il film ha uno scarto e la vicenda pur rimanendo ancorata alla dimensione interiore della sua sfortunata eroina si confronta con le verità che la storia ci ha tramandato: La richiesta di verità di Ida Dasler che rivendica il ruolo di moglie di Benito e madre del di lui figlio si scontra con la storia ufficiale e le sue istituzioni. Benito che nel frattempo è diventato Duce e la guerra dichiarata tra il consenso generale (le immagini di repertorio non lasciano dubbi sul seguito che accompagnò la decisione del gerarca fascista) vi appaiono attraverso il bianco e nero dell’Istituto Luce per dar vita ad un gioco di specchi in cui i diversi piani della realtà diegetica si confrontano (Ida mantiene il rapporto con l’amante che la rifiuta attraverso i cinegiornali proiettati al cinema), si sovrappongono (la scena in cui la figura di Ida si fonde con quella del Duce proiettato sullo schermo della sala) e si confondono in un caleidoscopio in cui la dimensione del reale, quello in cui vive Ida, diventa fiction e quella mediatica, filtrata attraverso i dettami del regime e offerta allo spettatore attraverso il collage documentaristico diventa vera. Isolata dagli affetti familiari (il figlio le verrà tolto ed affidato ad un istituto religioso), rifiutata dal proprio amante e rinchiusa in manicomio per continuare ad affermare la verità di un matrimonio consumato (anche se ancor oggi nessuno ha le prove definitive che ciò sia veramente accaduto) Ida diventa la coscienza di un mondo che non ne ha e si avvia verso un inevitabile sfacelo. Formidabile direttore di attori (di fronte alla sua telecamera persino il vero Benito Mussolini sembra andare oltre la maschera a cui siamo stati abituati), eccellente regista dal punto di vista visuale (semiologi e studiosi potrebbero sbizzarrirsi nella sua decostruzione) Bellocchio realizza un film che è figlio del suo tempo producendo un Kolossal che ha i costi di un film d’essai senza per questo venire meno alla meraviglia ed all’epicità del genere. Un gioiello che magari non aggiunge niente sul piano della conoscenza dei fatti storici ma li reinterpreta in maniera originale ed alla luce di una personalità che non scende a compromessi.