lunedì, giugno 30, 2014

STORIES WE TELL

Stories We Tell
di Sarah Polley
con Tamara Jenkins
Canada,
genere, biografico, documentario
durata, 109'

Non c'è dubbio che l'uso del digitale, con le sue innovazioni e possibilità, rappresenti oggi una delle rivoluzioni più importanti che il cinema abbia messo in atto nel corso della sua lunga storia. E questo non solo nei termini in cui la settima arte ha ripensato a se stessa, riformulando i riti della sua usufruizione ma anche, e diremmo, soprattutto, nella capacità di uno sguardo che ha esteso il suo campo di percezione oltrepassando i limiti sensoriali che gli erano fin qui riconosciuti. Se, sul piano pratico, le sorprese più eclatanti sono quelle derivate da un grado di verosimiglianza che confonde e meraviglia per credibilità, (come "Gravity" testimonia in tutta la sua perfezione), quello che qui ci interessa sottolineare è un altr aspetto dello stesso fenomeno, meno eclatante ma altrettanto peculiare, derivato dalla proliferazione di opere che dei loro autori mettono in scena fatti e esperienze autobiografiche: sotto forma di Journal Intime, utilizzato da due lungometraggi come "E Agora? Lembra-me" di Joaquin Pinto e di "Sangue" del nostro Pippo Delbono, esempi di un'arte che si mette a nudo senza alcuna reticenza, oppure, come sceglie di fare Sarah Polley nel suo "The Stories We Tell", filtrando l'elemento personale con quello di finzione, attraverso l'inserimento di frammenti recitati da attori professionisti che fanno da raccordo e insieme integrano la parte documentaria del film.



Al centro della scena Diane Polley, madre defunta della regista, e il racconto che di lei fanno le persone che le sono state accanto durante la sua vita: dal marito Michael, conosciuto sulle scene teatrali e poi sposato sulla scia di un'innamoramento a prima vista, ai figli, numerosi ed eclettici, agli amici più intimi, che seppur con fugaci apparizioni concorrono nel delineare l'intero arco esistenziale della protagonista. Tutti hanno qualcosa da raccontare, e nel farlo secondo il proprio punto di vista, ognuno aggiunge particolari che finiscono per mettere in discussione l'assunto di felicità inscritto nell'immagine di quella donna sorridente e libera, e in quella della sua una famiglia, serenamente adagiata nel benessere dei propri privilegi. Così facendo iniziano a farsi strada fatti e rivelazioni che cambiano progressivamente il quadro di riferimento, trasformando "Stories We Tell" in un cineromanzo in cui l'estetica del documentario più classico rappresentata dal collage di interviste all'interlocutore di turno (le cosiddette "talking heads") viene assorbità dalla drammaturgia di un percorso esistenziale e umano affascinante e drammatico.


Senza rivelare i particolari di un film che a un certo punto si tinge di giallo per la comparsa di amanti veri e presunti che rendono incerti i natali di uno dei protagonisti, e che di fatto costringono lo spettatore a sospendere il giudizio su ciò che ha appena visto (" la verità cambia a seconda di chi la racconta" afferma una delle parti in causa) "Stories We Tell" fa segnare un altro punto a favore di un cinema trasversale - per formati, materiali e generi impiegati - che si ribella a ogni tipo di classificazione, facendosi promotore di un esperienza totalizzante, capace di rompere le barriere tra l'artista e il proprio pubblico, messi sullo stesso piano da una catarsi che riferendosi a una condizione universale e reale (quella di Diane e della sua famiglia provata dalle dinamiche matrimoniali), appartiene tanto a chi guarda quanto a chi è guardato.
Vicino al capolavoro di Alina Marazzi "Un'ora sola ti vorrei", di cui il film della Polley riprende, e l'orizzonte emozionale scaturito dalla necessità di riappacificarsi con il proprio passato, e, in parte, la funzione di senso attribuita alla tipologia delle immagini (anche qui la dimensione tragica e nostalgica è fornita da riprese effetutate in super 8) "Stories We Tell" è una prova registica di rara efficacia. Consapevole di lambire territori che normalmente appartengono alla televisione dei Reality, con la vita reale o presunta rimessa al giudizio dello spettatore, Sarah Polley riesce a mantenersi sul filo di un equilibrio che coinvolge senza ricorrere al pietismo e al vojerismo di quei prodotti. Presentato in anteprima alla 66 edizione del Festival di Venezia e vincitore di numerosi e prestigiosi premi, "Stories We Tell" giunge sugli schermi sulla scia della sua presentazione al biografilm e grazie al coraggio di una casa di distribuzione quale I Wonder Pictures che ci aveva appena regalato un gioello del calibro di "Per nessuna buona ragione". Come quello, il film della Polley è una visione da non perdere.
(pubblicato su ondacinema.it)

mercoledì, giugno 25, 2014

UN REGISTA ALLA LUCE DEL SOLE: INTERVISTA A SEBASTIANO RISO




Comprensione e accessibilità. Con queste parole inizia la nostra conversazione con Sebastiano Riso, regista di "Più buio di mezzanotte" presentato con successo alla "Semaine de la Critique". Il regista le pronuncia in maniera gentile ma determinata, quasi a voler sgomberare il campo dalle accuse di illeggibilità che accompagnano le opere del nostro cinema d'autore

Credi che sia questa la sfida da vincere per riportare il pubblico a guardare il nostro cinema?Penso di sì, e comunque è quello che avevo in mente quando ho deciso di fare il film. L'industria culturale ha contribuito ad assuefare il pubblico a un certo tipo di prodotto, con il conseguente aumento di divario tra cinema d'autore e prodotto commerciale. Al contrario volevo che il mio film fosse politico e insieme avventuroso alla maniera de "La vita di Adele", che è un film sincero e senza abbellimenti ma allo stesso tempo coinvolgente e appassionato. Certo gli incassi italiani del film di Kechiche sembrerebbero andare contro questa teoria, ma penso che anche qui la causa sia una conseguenza del depauperamento culturale a cui ho appena accennato.

 
Entrando nel merito del tuo esordio registico mi sembra che per formazione culturale e lavorativa tu rappresenti un eccezione rispetto alla tendenza del nuovo cinema che nasce e si sviluppa all'interno, di un alveo realista e documentarista.A dire il vero io non colgo questa differenza. Se guardiamo al passato troviamo registi come Antonioni, Petri e Rosi che pur partendo da una base di realismo mantenevano sempre una prospettiva che li distingueva uno dall'altro e li rendeva riconoscibili allo spettatore. Del mio film potrei dire lo stesso. Con il direttore della fotografia Piero Basso abbiamo discusso molto per trovare la cifra giusta. Volevamo creare un contesto universale, e per questo abbiamo pensato di non dargli una precisa connotazione ambientale. Molti hanno creduto che il film fosse collocato negli anni 80 per certi riferimenti musicali e iconografici ma in una delle prime scene compare un cellulare che smentisce questa supposizione. Dopodichè quello che mostro, e mi riferisco in particolare alla povertà degli ambienti più emarginati, si ripropone nel tempo con variazioni infinitesimali. Il concetto, già noto a Jean Genet e Pier Paolo Pasolini, investe in pieno le dinamiche che regolano l'esistenza dei miei personaggi, e giustifica quella mancanza di orizzonti e di voglia di fare, che qualche giornalista ha imputato a un eccesso di semplificazione. La verità è che, se l'obiettivo primario è la sopravvivenza, è naturale e pure realistico mostrarli attraverso gli espedienti escogitati per raggiungere quello scopo. Davide e Rettore possono amare un cantante alla follia, sapere a memoria le parole delle sue canzoni ma non per questo vogliono diventare delle star musicali. In questo senso il film rispetta la vita, e non aggiunge orpelli.

 
Prima di continuare volevo chiederti in che modo sei arrivato al cinema, e in particolare alla regia.Per me il cinema è nato come terapia. Da piccolo era un bambino inquieto che si faceva continuamente cacciare dal collegio, e che metteva i suoi genitori in situazioni imbarazzanti. L'unico modo per farmi calmare era portarmi al cinema. I miei genitori approfittando di quelle pause spesso si addormentavano, mentre io continuavo a vedere il film anche più volta. Ad incantarmi era la riproduzione delle immagini, come ebbi modi di constatare il giorno che mio padre, con una cinepresa dell'epoca, filmò dal balcone di casa un amico che stava citofonando. Rimasi affascinato da quella visione meravigliosa, e dall'effetto dello zoom che rendeva sempre più vicina la faccia di quella persona. Una malia alimentata anche dalle visioni casalinghe a cui dovevo partecipare. Si trattava di film poco adatti per un bambino della mia età: mi ricordo di "Persona" di Ingmar Bergman, e delle discussioni che ne scaturivano. Pur capendo poco ne venivo coivolto, e a forza di ascoltarle iniziavo a farmi delle domande, e a ragionare intorno al film, cercando di trovare una possibile spiegazione. Potrei dire che quelle giornate mi hanno "infettato", indirizzando le mie energie in direzione del cinema.

Volevo tornare al tuo lungometraggio per chiederti ancora qualcosa sul paesaggio, e sul cortocircuito temporale che lo attraversa.La contemporaneità della storia era fondamentale dal punto di vista drammaturgico. Senza di quella il comportamento del padre di Davide, e la sua impreparazione nei confronti della sessualità del figlio sarebbe stata in qualche modo comprensibile. Così invece le sue azioni sono ancor più ingiustificabili e colpevoli. Detto questo i riferimenti agli anni 80 li ho utilizzati con diverse funzioni. Da una parte quel periodo, con i suoi sogni e speranze rappresenta di fatto l'ultimo momento felice della storia italiana, e questo mi è servito per rendere lo stato emotivo in cui si muovono Davide e la sua compagnia. Allo stesso tempo lo scarto temporale mi consentiva di rimarcare in maniera visibile la diversità di un consesso che vive in una dimensione di permanente alterità. Infine bisogna tenere conto che in certe zone della Sicilia la modernità della comunità europea non è ancora arrivata, per qui quello che potrebbe sembrare antiquariato è invece pura attualità.

Una delle carattestiche del tuo film è appunto la possibilità di accedervi secondo più livelli di lettura. Mi riferisco per esempio ai costumi di scena, e in particolare al vestito bianco che indossano sia il padre di Davide che il suo protettore.Sì è vero, ma solo nel senso di cui ti dicevo a inizio conversazione, perchè volevo che la minore o maggiore perspicacia dello spettatore non influisse sulla fruibilità del film. Così il colore bianco è il segno di una comunanza tra i due personaggi, ma potrebbe essere anche un modo per stabilire un nesso più profondo, che trasforma il personaggio di Del Bono in una sorta di padre putativo con cui Davide riesce a stabilire il rapporto che il suo vero genitore gli aveva sempre negato. Certo, questa è una lettura della realtà in chiave psicanilitica, influenzata dal fatto che sia io, che uno degli sceneggiatori aveva un genitore psicologo, ma anche questa opzione è presente non per sfoggio intellettuale ma come un ulteriore possibilità di comprensione. E ancora gli anni 80 hanno ispirato la scelte dei costumi di molti dei protagonisti. In questo caso avevo bisogno di abiti che esprimessero la personalità dei ragazzi, e mentre oggi si assiste a una forte omologazione nel modo di vestire, trent'anni fa succedeva esattamente il contrario; da qui la scelta di privilegiare un certo tipo di look.

 
Penso che tu ti riferisca soprattutto a Rettore e alla sua band.Sì, per me era difficile descrivere il gruppo che si muove attorno a Davide, senza evidenziare quel modo di essere epici, che appartiene agli ambienti più poveri ed emarginati. Io non so spiegarmi il perché di tutto questo ma posso dire di averlo constatato personalmente quando, ai tempi dell'università, andavo alla stazione termini per incontrare queste persone. Di loro sono riuscito a cogliere la bellezza delle pose che assumono di fronte alla vita, trovando conferma del fatto che nel loro mondo la turpitudine si accompagna alla poesia.

Infatti come ho scritto nella recensione il piano sequenza che ci presenta i compagni d'avventura di Davide che camminano uno di fianco all'altro, assomiglia in qualche modo alla passerella di super eroi filmati alla maniera di unhero movie.Davide, Rettore e gli altri compagni di viaggio sono eroi del quotidiano nella maniera in cui lo erano le persone di cui ti stavo parlando. Se poi consideri che il percorso umano che racconta il film è una sorta di avventura esistenziale, che include le contraddizioni tipiche di questo tipo di esperienza, allora penso che il termine eroico attribuito all'atteggiamento dei miei protagonisti calzi a pennello.

E' un altro movimento di macchina a sottolineare uno dei passaggi più importanti del film,quello in cui Davide cede al ricatto del suo protettore.Il sesso tra Davide ed il suo protettore è un abuso a tutti gli effetti, perchè se è vero che lui è consenziente a quella violenza, è altrettanto evidente che si tratta di una scelta forzata, frutto della pressione psicologica di un'ambiente che non gli lascia alternative. E' stata una scena che, alla pari dell'ottanta per cento di quelle che ho girato è andata subito bene, senza bisogno di ulteriori repliche. Avevo pochissimo tempo per girare, e pur avendo in testa il film, sul set mi è capitato spesso di improvvisare con buoni risultati fin dal primo ciack.
Quel passaggio in particolare era per me fondamentale, perchè rappresentava una vera e propria iniziazione alla vita. Da qui la decisione di terminare la sequenza sulla finestra che collega la stanza al mondo esterno. La finestra è serrata ma lascia comunque trapelare i rumori che provengono dall'esterno. Mi interessava evidenziare la coesistenza tra una violenza così terribile e l'indifferenza del divenire quotidiano. Il giorno in cui ho saputo che il film avrebbe partecipato alla Semaine è stato uno dei più belli della mia vita, eppure quando sono tornato in Italia ho scoperto che in quel medesimo istante un amico stava vivendo momenti terribili. Una coesistenza di stati d'animo che appartiene alla mia visione della vita, e che ho voluto testimoniare attraverso quella sequenza.

Nel tuo cinema la macchina da presa si muove con parsimonia, e solo quando è necessario. Volevo chiederti appunto di questa necessità.Per quanto mi riguarda penso che nel girare non si deve eccedere con i movimenti di macchina. Bisogna saperli dosare, altrimenti l'effetto che si ottiene da quel movimento perde la sua eccezionalità e, di conseguenza, la sua efficacia. Certo è d'uopo conoscere la grammatica del cinema e sapere che effetto avrà sullo spettatore un determinato tipo di inquadratura, un carrello, una panoramica. Poi come sappiamo esiste un cinema cosidetto sgrammaticato, e per questo discusso e contestato, che però è in grado di rivoluzionare la settima arte. Parlo del cinema asiatico come di quello della novelle vague che ebbero il coraggio di andare oltre i manuali.
Io non sono un buon stratega nel senso che, quando arrivo sul set, tendo a dimenticare quanto avevo in mente. Quello che invece cerco di mantenere saldo è lo stato d'animo che mi ha portato a girare. Con il direttore della fotografia abbiamo parlato molto, decidendo cose che successivamente ho modificato seduta stante. Come quella di acquistare un solo tipo di lenti, una volta deciso che la distanza e non il primo piano sarebbe diventato il linguaggio del film. Certo, non è facile , perchè all'inizio tu sei la matricola e lavorando con gente esperta il rischio è quello di passare per presuntuoso.
Anche per la musica è capitata un pò la stessa cosa perchè ad un certo punto ho pensato che la soluzione migliore sarebbe stata quella di realizzare la colonna sonora solo al termine delle riprese, in maniera che fosse solo il girato a ispirarla. Una scelta che ha creato non poche perplessità, soprattutto perchè il tempo a disposizione era solo di una settimana. A quel punto ho detto a Michele Braga, il nostro musicista, di non preoccuparsi perchè quello che gli serviva era già contenuto nelle immagini. Il risultato è stato quello di avere uno spartito in linea con la storia del film e con le musiche che contribuiscono a raccontare l'interiorità del personaggio.

Non c'è dubbio che l'omosessualità pur non essendo il tema principale del film rimanga comunque in primo piano.Non amo rinchiudere i film all'interno di una tematica, a maggior ragione se si parla di omosessualità. Al cinema questa condizione è stata normalizzata, resa docile, soprattutto da quei registi che, vivendola in prima persona, hanno preferito raccontarla in nome di un buonismo che non le rende giustizia.
In Italia la diversità sessuale è ancora un problema, e viverla in maniera aperta e senza compromessi molto faticoso. Per contro al cinema succede l'esatto opposto, con rappresentazioni addomesticate e normalizzate per paura di urtare le coscienze. L'omosessuale diventa quasi sempre una figura materna, chiamata a tenere insieme gruppi che non vanno d'accordo. Ad una versione anestetizzata preferisco quella che accentua le sue caratteristiche.

Ho idea che questo discorso si ricolleghi al concetto di cinema politico.Sì perchè in un momento in cui la libertà è stata nascosta ai cittadini e in cui è in atto un attacco ai principi di libertà, uguaglianza, fraternità, il cinema torna ad essere fondamentale per la responsabilità di raccontare quello che non viene detto, e nel far vedere quello che non si vuole guardare. Chi paga il biglietto dovrebbe per lo meno restarne incuriosito ed avere voglia di approfondire ciò che gli è stato raccontato. Il cinema, quindi, più che mostrare deve saper evocare, producendo quel desiderio che spinge lo spettatore a uscire dalla sala e a prendere in mano un libro. Non so se "Più buio di mezzanotte" sia riuscito in questo intento ma uno degli obiettivi del film era proprio questo, e cioè di essere una storia di formazione "formativa".

 
Pur essendo un'opera prima il tuo film ha un cast d'attori di grande livello. Mi piacerebbe sapere come sei riuscito a coinvolgerli e come ti sei rapportato con loro durante la lavorazione.Ho avuto il privilegio di essere assistente in una produzione in cui lavorava Sophia Loren. Che lei fosse una grande attrice era acclarato ma quello che ho toccato con mano è il suo essere diva, e come sappiamo, il divismo è una componente fondamentale della settima arte. Micaela Ramazzotti pur con i dovuti distinguo lo è alla stessa maniera, perchè ogni volta che entra in scena ci si aspetta da lei qualcosa di importante, e le sue emozioni diventano le emozioni del pubblico.
Vincenzo Amato invece è un'animale da set. Con lui abbiamo parlato molto del personaggio: è stato estremamente professionale, ascoltando ed entrando nei dettagli del suo ruolo; poi, davanti alla macchina da presa, si è lasciato andare all'istinto con risultati sorprendenti. Di Delbono sono da sempre un estimatore, avendo visto tutti i suoi lavori teatrali e cinematografici. Quando l'ho contattato gli ho detto che lo volevo nella parte di un pappone che violenta un minorenne senza provare nessun senso di colpa. Lui, dopo aver letto il copione, mi ha risposto che si fidava di me, e che per questo avrebbe accettato. Con lui abbiamo fatto lunghe chiaccherate e come attore è stato veramente generoso. Lo ringrazio ancora per il coraggio che ha dimostrato.

C'è poi Davide Capone, il protagonista del film, la cui apparizione secondo me è paragonabile a quella di Bjorn Andresen in "Morte a Venezia". Come hai fatto a trovarlo?Una volta finito di scrivere il film avevo in mano l'identikit del mio personaggio, per cui ero sicuro delle caratteristiche fisiognomiche dell'attore che stavo cercando. Devo dire che non è stato facile, perchè ho impiegato due anni e fatto novemila provini prima di trovarlo. Ad un certo punto mi sono reso conto che la persona che stavo cercando non avrebbe mai risposto al mio annuncio, e così mi sono convinto che toccava a me scovarlo. In uno dei miei sopralluoghi sono capitato nel liceo musicale di Palermo che Davide frequenta, e li ho capito di aver finito la mia ricerca. La sua eccezionalità non è solamente estetica ma anche temperalmentale, essendo lui, non solo un grande artista ma anche un cantante raffinatissimo. Basti pensare che al provino ha cantato una canzone di Etta James che, insieme a Nina Simone, fa parte del suo normale repertorio.

Accennavi alla produzione del film, e alla sua lunga gestazione.In realtà ci sono voluti più di tre anni e il film è stato realizzato solo grazie al mio produttore e a suo figlio, che ad un certo punto mi ha messo in contatto con Stefano Grasso e con Andrea Cedrola, nella convinzione che con loro avrei trovato i miei compagni di lavoro ideali. Col senno del poi devo dire che è stata un'intuizione geniale, perchè sulla carta eravamo persone diverse sotto molti punti di vista: Grasso è un ebreo torinese; Cedrola un intellettuale lucano, eppure nonostante queste lontananze ci siamo trovati così bene da condividere non solo la gestazione del film ma anche la vita. Siamo diventati amici e con questo spirito stiamo iniziando a pensare al nostro prossimo film.

 
Mi stavo quasi dimenticando di chiederti qualcosa a proposito delle tue infiuenze cinematografiche.In parte te l'ho già detto, quando parlavo di quelli con cui sono cresciuto e che ho studiato. Devo dirti però che il film che mi ha convinto a passare alla regia è stato "Dogville" di Lars VonTrier. Il regista danese può piacere o meno ma è lui che mi ha fatto capire il potere che ha il cinema di cogliere la vita degli esseri umani e di raccontare le persone per quello che veramente sono. Amo molto anche Rossellini, che ha fatto il cinema con le macerie di una civiltà, e che ha supplito alla scarsezza delle risorse con la forza delle idee. Per non parlare di Kechiche che in scena non mette quasi nulla, come capita ne "La vita di Adele" in cui puoi trovare un piatto di spaghetti al ragù e poco altro: eppure, il modo di stare insieme delle persone, le loro chiaccherate, riescono a coinvolgerti al punto da farti sentire l'odore del cibo che stanno mangiando. Per questo motivo non sono un fan di Wes Anderson, la cui ricchezza visiva non riesce a farmi dimenticare la presenza del regista e della macchina da presa. 
(pubblicata su ondacinema.it)

LA CITTA' INCANTATA


di: Miyazaki Hayao
GIA - Animazione
2001 - 125 min



Tirare il passato per la coda e' quasi sempre un esercizio svantaggioso oltreché ingannevole. Accade, infatti, di affidarsi ad un impasto variamente amalgamato di ricordi e suggestioni che, colmando gl'inevitabili vuoti, "aggiustando" gli snodi ambigui o rimossi, finisce per pregiudicare una valutazione equilibrata. Da tale insidia e' esente un'opera come "La città incantata" di Miyazaki Hayao, a giorni di nuovo sugli schermi (per la precisione, il 25, 26, 27 giugno). E ciò di base perché la chiarezza e la semplicità del suo apologo, la misurata insistenza su temi divenuti col tempo cardini di una poetica - compresenza di sovrumano e ordinario; disponibilità verso l'altro-da-se'; curiosità inesausta; ricerca dell'armonia come superamento della distinzione netta tra Bene e Male; rispetto per la Natura fucina di meraviglie e regno di forze che regolano gl'ingranaggi della realtà, et. - , lo splendore di un'estetica in magico equilibrio tra stilizzazione adulta e anarchia infantile, poco si prestano ai capricci e alle giravolte della memoria.

Ritroviamo, così, a neanche tre lustri di distanza, la piccola Chihiro alle prese, da un lato, con le volubilità e le incoerenze tipiche della sua età - dieci anni -; dall'altro, con le ambivalenze e i sortilegi di un mondo arcano e fatato (la "città" parco giochi/"centro benessere" propriamente detta), tanto in sintonia con la sensibilità fanciullesca, quanto assai poco disposto ad uniformarsi a "logiche costituite" intrise di avidità e inettitudine (l'animale 'sapiens' nel microcosmo incantato viene riconosciuto e additato per la sua "puzza"), e, sul serio, sembra appena ieri. Del resto, basta assistere ancora alla trasformazione in maiali per mano della strega Yubaba - novella Circe - dei genitori della protagonista, per trovarsi catapultati nella più stringente contemporaneità: e' sufficiente, cioè, una elementare ma efficace metafora per materializzare una delle tante probabili nemesi di una "modernità" volgare e irresponsabile, nei confronti della quale l'accidentato percorso di formazione di Chihiro - sostenuta nell'impresa dal fascinoso e sfuggente nume fluviale Haku - a spasso tra divinità in libera uscita per le cure termali, mestieri di bassa forza, itinerari disvelatori su trenini acquatici, istanti di puro sconforto e coinvolgimento di sodali insospettabili, funziona al tempo da restituzione compensativa verso l''ordo rerum' e da esempio/monito per un'"umanità" oramai ostaggio pressoché inconsapevole dei soli suoi appetiti.


Nel cuore di un convincimento che sente il mondo secondo lo sforzo concorde di un animismo totale - le prospettive volutamente sghembe di alcuni edifici, la radiosità perentoria di molti arredi interni, si "protendono" verso chi guarda; le distese d'acqua, in apparenza immote, "vibrano" spesso di tremori improvvisi; il cielo distante e imperturbabile "incombe" come un osservatore tutt'altro che disinteressato; alberi, fiori e piante, sebbene a volte solo intravisti, non smettono mai di "dialogare" tra loro, con le pietre e la fauna - risiede lo slancio teso ad indirizzare l'energia vitale verso un punto, forse all'infinito, dove grazia e purificazione (Chihiro non e' interessata all'oro più volte offertole; Haku preserva la sua integrità disponendosi alla sofferenza: le stesse divinità, con l'aiuto proprio di Chihiro, si "svuotano" letteralmente delle brutture che li corrodono da dentro) s'incontrano. A rendere tangibili in via definitiva intenzioni così essenziali come sconcertanti, in specie se affidate al mero ruminare raziocinante occidentale o alle sue passioni tristi, una forma che, in linea con quella sorta di "respiro universale" che impregna il tempo e lo spazio, si avvale dei contributi più disparati: dalle composizioni musicali (di nuovo di Joe Hisaishi: ora sulla lunghezza d'onda degli stati d'animo dei personaggi; ora a cavallo delle variazioni imposte dall'interazione delle forze naturali con la bizzarria degl'incantesimi), alla linea di minor attrito che salda la componente artigianale di molti disegni alla matrice schiettamente pittorica di più di un'inquadratura. Dai colori sgargianti e un tanto ostili degli appartamenti di Yubaba in cima alla "città alta", alle tonalità scure, dimesse, dei locali- caldaia dove Chihiro viene impiegata. Dalla debordante complessione delle rilassatissime e strambe divinità, alla fissità misteriosa ed evocativa delle maschere/volti 'kabuki'. Tutto nel segno di una ricerca e di una dedizione che deve abbracciare l'intero arco delle esperienze, perché "bisogna avere cura delle cose. A partire dal proprio nome".

TFK

lunedì, giugno 23, 2014

PER NESSUNA BUONA RAGIONE (FOR NO GOOD REASON)

Per nessuna buona ragione
di Charlie Paul
con Ralph Streadman, Johnny Deep, Terry Gilliam
Regno Unito, Usa, 2012
genere, biografico, documentario
durata

Come nasce un'opera d'arte, e qual è la scintilla che traduce l'ispirazione in qualcosa di concreto e mirabile? All'annoso quesito il cinema ha cercato più volte di rispondere: quasi sempre arrendendosi all'impossibilità di superare la soglia che divide il visibile da ciò che è innefabile, il più delle volte cercando di spiegarlo con una serie di circollocuzioni, sceniche e verbali, che poco hanno scalfito il mistero della creazione artistica. Questo per dire con quali e quante aspettative si attendesse un film come "For No Good Reason", lungometraggio di Charlie Paul incentrato sulla figura di Ralph Steadman, illustratore inglese di massimo culto per aver illustrato, tra le altre, alcune delle pagine più belle di "Fear and Loathing in Las Vegas" libro di culto firmato da Hunter D. Thompson, scrittore americano recentemente scomparso, con cui il nostro ebbe modo di instaurare un collaborazione lavorativa densa di risultati. Ed è proprio l'anniversario della scomparsa dell'inventore del Gonzo Journalism e la voglia di ricordarlo da parte di Johnny Depp e Ralph Steadman, che di Thompson furono amici e anche complici, a farci da guida in un percorso di conoscenza e di scoperta che pur mantendo centrale l'oggetto della sua indagine - i disegni di Steadman, i suoi principi ispiratori e la tecniche di realizzazione - si apre ad analisi e considerazioni che approfondiscono il rapporto tra due caratteri opposti e complementari (Steadman a differenza di Thompson non fece mai uso di droghe) ma che funzionano anche come ricognizione esistenziale di un'arte che nasce e si mantiene in contatto dialettico con il proprio tempo. 




Ed è proprio la contemporaneità, con la sua maschera di misfatti e di storture, a stimolare il talento dell'artista inglese, che si rivolge alla realtà deformandola con un espressionismo grottesco e caustico, capace di rivelarne il grande inganno. Dal viaggio negli Stati Uniti e in particolare al soggiorno a New York, percepita come spazio paradigmatico di qualsiasi attività umana, al confronto con l'universo psichedelico di Thompson, corrispettivo letterario delle sue fantasie visive, Steadman attraversa lo schermo portandoci per mano in una carrellata di ricordi, considerazioni personali e talento manuale che prende vita davanti ai nostri occhi, in un puzzle compositivo che utilizza generi e formati: ci riferiamo sopratutto ai filmini in super 8, che raccontano il sodalizio con Thompson attraverso momenti di informale amenità, e che, in prospettiva, ci fanno apprezzare l'abilità camaleontica di Deep, praticamente identico all'originale nella trasposizione cinematografica di Terry Gilliam, a riprese "dal vivo", in cui la fenomenologia delle immagini non impedisce di cogliere l'essenza di un irriducibilità che in Steadman si esprime sul piano intelletuale prima ancora che creativo.

 

Charlie Paul, il regista di "For No Good Reason", ci mette del suo, immergendo-letteralmente, grazie ai giochi di prestigio degli effetti specialii-il film tra tubetti di colore appena utilizzato e penneli ancora umidi, per raccontare Steadman come se anche lui, alla pari dei suoi personaggi, fosse il frutto di uno spleen estetico. Da qui la trovata di impostare la narrazione in modo tradizionale, con Deep estasiato ascoltatore e Stedman diligentemente allineato al ruolo di principale interlocutore, impegnato a rispondere a domande che rimangono fuori campo; e poi di sabotarne la linearità con le digressioni - fotografiche, documentarie, di finzione e amatoriali- di una fantasmagoria che raggiunge il suo apice nei tableau vivant formato dai lavori più famosi dell'arstista inglese che, come per magia, si animano di vita propria per finire quello che le parole hanno cominciato. Nel flusso ininterroto di immagini e pensieri si colgono le corrispondenze con i lavori di un pittore come Francis Bacon, a cui rimanda la natura mutante della fisiognomica tipica dei personaggi di Steadman ma anche all'influenza esercitata dall'artista inglese suile espressioni più alte del fumetto d'autore, che soprattutto negli schizzi di Bill Sienkiewich e in particolare di una Graphic Novel come "Stray Toaster", dimostrano l'importanza della sua eredità. Comprendiamo allora l'epifania di un genio che si esprime attraverso una libertà di segni, quelli prodotti da pennellate di colore che raggiungono il foglio con una gestualità astratta e casuale (alla maniera di Jackon Pollock), destinati a ricomporsi sotto l'impulso di interventi grafici e manuali (dal colore espanso attraverrso il soffio di una cannuccia alla pulitura di stratificazioni materiche) che solo alla fine disvelano il loro segreto. Se il risultato è talmente sbalorditivo da invogliare a un approfondimento dell'opera omnia dell'autore, "For No Good Reason" risuona nella capacità di tenere fede all'assunto di un titolo che, essendo anche la risposta all'interrogativo -"Perchè facciamo tutto questo Hunter?" - che a un certo punto Steadman rivolse a Thompson, esprime in pieno l'essenza di un'esperienza fuori dal comune e di un film che in qualche modo riesce a farcela sentire. 
(pubblicata su ondacinema.it)

sabato, giugno 21, 2014

(NOT SO) FAR EAST (II)


"Oh, oh-oh,
life can be cruel.
Life in Tokio"
- Japan -

- II -


Diventa non così improbabile, allora, stabilire una continuità nella pluralità di toni, di atmosfere, di suggestioni, che e' innanzitutto uno sguardo sull'individuo, sulle forze che ne condizionano lo stare al mondo, nei modi di un tentativo teso a leggere il più lucidamente possibile le frizioni esistenti fra i retaggi culturali di un'antica compostezza, di un "ordine" a cui non e' estranea la dimensione spirituale dell'"armonia" (anche morale, sentimentale, psicologica) - solidissimo mastice di una conservazione fondata su rigide compartimentazioni sociali e su secolari equilibri di potere - e il furore schizofrenico, l'accelerazione parossistica imposta dalla tutt'altro che morbida dittatura della tecnologia, del denaro, delle merci, la quale, per sua stessa natura e inerzia, recalcitra ad ogni "ordine" che non sia funzionale al proprio auto-potenziamento; rifiuta ogni gerarchia stabilita, ogni potere organizzato, che non preveda una sua voce in capitolo: disperde e riassembla ogni struttura collettiva - quasi per riflesso condizionato, al punto in cui siamo, pianificata e realizzata a partire dalle sue prerogative -. Ragioni, queste, che hanno una loro importanza al momento di tratteggiare le forme mentis, di definire le personalità dei tipi umani da rappresentare. Emerge, in tale prospettiva e in particolare - e valga come notazione di carattere generale - una figura femminile complessa, scrigno di tutta una serie di sfumature, alcune prevedibili, sul crinale di un folklore consolatorio (e d'immediata resa, soprattutto in Occidente) - pazienza, remissività, stoicismo troppo spesso in mesta rima con masochismo, a fare da substrato ad una semplicistica frivolezza condita d'ignoranza e superficialità ed espressa secondo la gamma limitata di una compiaciuta petulanza ciarliera - altre, al contrario, sorprendenti e modernissime - la proverbiale sensualità elusiva, l'avvenenza "letale" di visi e corpi filiformi, come pure la forza di una saggezza, di una perseveranza e, non di rado, di una crudeltà, ancestrale, quelle e questa sempre più spesso scientemente esibite e utilizzate non solo e non tanto nell'ambito "privato" dell'attrazione o del quotidiano più prosaico, quanto in quello "sociale", più torbido, del potere, degl'interessi, della "manipolazione"; come anche nell'altro, "intimo", più misterioso e oscuro, della violenza, dell'umiliazione, quand'anche della ratificazione dell'inamovibilità di certi sistemi di regole (interpersonali, familiari, di clan), in una sorta di insinuante "neo-matriarcato" sospeso tra passato e futuro ma ben vivo e operante -. Intorno, vicino, sovente in contrasto con un universo muliebre così sfaccettato, sta l'uomo, nei territori di un'eredita' nei suoi tratti più profondi all'apparenza ancora inscalfibile (con le dovute eccezioni riconducibili ad inquietudini ed "ossessioni" registiche più o meno accentuate), per cui egli sembra essersi limitato ad un travaso meccanico della semi-leggendaria inclinazione marzial-guerresca per la supremazia e l'onore nella lotta senza pietà per il denaro e lo 'status' che la sua disponibilità implica, restando in tal modo maggiormente vincolato ai destini di individualità per certi versi "condannate" ad una reiterazione che la realtà febbrile e veloce di oggi, oltre a spogliare di qualunque residuo di nobiltà e autorevolezza ha anche privato - e sembra un esito definitivo - di margini di rinnovamento, come anche di una pedissequa riproposizione in chiave tradizionale: prese inservibili, in ogni caso, per un ancoraggio solido al flusso "inarrestabile" degli eventi, ovvero a quella singolare creatura che e' il mondo-della-tecnica-e-del-denaro i cui appigli sono, come e' noto, di fondo, contraddittori (se non, persino, non contemplati, perché teorizzati in partenza come pletorici); comunque in metamorfosi continua. Di fatto, aleatori.

Alla luce di ciò, risulta più agevole comprendere - pur essendo solo un riferimento fra tanti, anche se significativo - il possibile specchiarsi di due opere diversissime tra loro eppure come "orfane" l'una dell'altra in questa inesausta "compresenza" - fatta di richiami, di allusioni, di ricorrenze di luoghi, epoche e volti - di arcaico e futuribile, di destini sempre in bilico e pervicacia a rimanere e a contare di radici millenarie; di fughe (più o meno) possibili nelle pieghe senza limiti del desiderio e i tributi inauditi ingiunti dalla ferocia del "qui e ora". "Ashes of time" di Wong Kar-way, da un lato (lavoro del 1994, giustamente proposto in originale con sottotitoli nella versione 'redux' curata dallo stesso regista), disperato scavo, tra le crepe di una sfolgorante scorza "wuxia", nella desolazione e nei labirinti di una passione tanto vagheggiata e sofferta quanto sterile o, semplicemente, fuori portata; impreziosito da linee tanto essenziali e colori (da intendersi anche come prisma emotivo) tanto vividi quanto e' distante il tempo interiore che lungo le prime si muove e i secondi desidera, smarrisce e rimpiange, fino a ridurre, appunto, la sua consistenza a cenere/"ash", ossia ad una specie d'immaterialità affine al sogno ma per sempre malinconicamente inappagata. E dall'altro, "The Yellow Sea" di Na Hong-jin, datato 2010, epopea al contrario, tetra e derelitta, di un uomo travolto - nel corpo grigio di agglomerati urbani da distopia realizzata anzitempo - da avidità e dissipazione, figlie minori, forse, ma più che legittime, oltreché gemelle, di un mondo per cui la morsa (nello specifico) dei debiti non e' che un altro anello nella catena anestetizzata del disgusto e dell'abiezione: cronistoria di un "animale" braccato da una dimensione talmente materiale dell'esistenza da invocare quasi la necessita' dell'orrore, del sangue, spazzando via, di contro, la stessa idea di una tregua - amore, sogno, illusione, in fondo questo sono - lo spazio di un rifiato, di una scelta che, meramente, non può darsi all'interno di qualcosa che e' un "mare giallo", luogo fisico, spettatore imperturbabile e, in egual misura, palese metafora "biliare" di biografie-di-risulta una volta passate al tritatutto dello "sviluppo". Analogie simili parimenti si rintracciano in altre pellicole - diverse per ambientazione, linguaggio e caratura - ad alimentare l'impressione di una variegata persistenza (di soggetti, di snodi, di vie d'uscita come di trappole a tenuta stagna), imperfetta ma caparbia, tale cioè da travalicare comunque i confini dei singoli paesi per comporre uno spaccato tanto eterogeneo quanto rappresentativo della vicenda umana negli "strani giorni" di un'immane e, con ogni probabilità, decisiva transizione: la nostra, quella di uomini e donne del ventunesimo secolo.

Ecco, quindi - l'asistematicita' dell'elencazione e' voluta - "Secret reunion" (2010), di Hun Jang, singolare "buddy movie" (interpretato, tra gli altri, da Song Kang-ho, attore prediletto di Park Chan-wook), sullo sfondo di diffidenze e avvicinamenti al cui apice si trovano una spia "dormiente" e un agente dei servizi segreti caduto in disgrazia, al di qua e al di la' del 37mo parallelo; "The chaser" (2008), feroce esordio del già citato Na Hong-jin, in cui un ex detective entrato nel giro della prostituzione e' costretto a reindossare i panni del segugio allorché diverse "sue" ragazze scompaiono in circostanze misteriose. E "The thieves" (2012), di Choi Dong-hoon, spettacolare e vivace esempio di commedia "modello Ocean" all'interno della quale un gruppo di ladri, tra colpi di scena, peripezie, doppi e tripli giochi in cui (quasi) nulla e' ciò che sembra, fa di tutto per impossessarsi di una preziosa collana chiamata "The tear of the Sun". Ancora, "The Berlin file" (2013), di Ryoo Seung-wan, thriller spionistico convenzionale ma sostenuto da un buon campionario di scene d'azione a far da raccordo ad un complicato andirivieni a base di traffico d'armi, agenti in incognito, finanza ed organizzazioni terroristiche. Di tutt'altra pasta, speziato (molti dicono appesantito) da uno stile ricercato, sovente barocco, che non si tira indietro davanti all'uso del 'ralenti', di tessiture musicali "incongrue", di cromatismi vistosi, di esibite violenze e venature horror - tutto ad orbitare attorno al mondo dell'infanzia e dell'adolescenza - "Confessions" (2010), di Nakashima Tetsuya. Stessa o simile "follia" anima "Sukiyaki western Django" (2007) di Takashi Miike nel quale - segnalata la presenza di Tarantino nei panni di un maestro d'armi - si squadernano di fronte agli occhi, nel cuore dell'archetipico intreccio che vede un eroe senza nome barcamenarsi tra due potentati sempre in lotta, in una fantasmagoria sfrenata e a tratti paradossale, riflessi deformati di Kurosawa, di Leone e di un nutrito numero di spaghetti-western nostrani. Sempre di Miike si ricorda "13 assassini" (2010) - ispirato all'omonima opera di Eiichi Kudo del 1963 - film-di-samurai brutale e in parte pervaso da un cupo fatalismo, via via a stemperarsi fino all'apoteosi iper-coreografica della battaglia finale, cruenta, movimentatissima e pressoché senza scampo per i contendenti. Di respiro metropolitano, invece, e di ritmo ora pronto ad aumentare i giri ora disposto a concedersi pause per seguire i movimenti (anche interiori) di personaggi assediati da una solitudine oramai intrinseca alla loro condizione, due lungometraggi di Pou-Soi Cheang, "Accident" (2009), basato sulle singolari vicissitudini di un killer in grado di mascherare le proprie esecuzioni sotto le spoglie di messinscene intricate al punto da simularne la casualità (almeno fino a quando non dovrà accorgersi che l'imprevedibilità non e' solo una variante dell'ingegno umano ma uno degl'ingredienti primi della struttura stessa del mondo) e "Motorway" (2012), sfida senza quartiere su quattro ruote per le strade di Hong Kong, tra un poliziotto impulsivo, testardo (e il suo più riflessivo compagno) e un eccezionale pilota-filosofo aggregato al crimine. Risale al 2008 "Beast stalker", di Dante Lam, particolare 'noir' sospeso tra colpa e redenzione: la prima vissuta assai malamente da uno sbirro roso da un tormento incancellabile; l'altra perseguita da una madre attraverso la ricerca perentoria di una giustizia il cui sentiero da percorrere e' oltremodo tortuoso. A fare da catalizzatore, una giovane vittima innocente. Indi "Shaolin" (2011), di Benny Chan, epopea tragica nella Cina degli anni '20 travolta dalla devastazione di conflitti intestini in cui il riscatto personale non può esimersi dallo scontrarsi con l'implacabilita' dei gravami da pagare al sangue. Del 2012 e' "Confession of a murder", di Byeong-gil Jeong, paradossale e allusiva parabola contemporanea focalizzata su un omicida (presunto), l'irriducibilita' di un poliziotto cocciuto e stravagante e, nell'opacità dell'incertezza che permea l'intera storia, sulla dolciastra e sinistra capacita' distorcente dei mezzi di comunicazione di massa. Di gusto 'retro'' e piglio a volte ironicamente "saccente", "Bullet vanishes" (2012), di Law Chi- leung, riunisce, attorno ad un caso bizzarro quanto insolubile, l'astuzia, la pedanteria, la scaltrezza e la malinconia di un Holmes e di un Watson in salsa orientale. Suggestioni e atmosfere stranite intridono, al contrario, "Black home" (2007) di Terra Shin, in cui le indagini del goffo assicuratore protagonista conducono la vicenda sul cammino di un orrore imprevisto, di un incubo ad occhi aperti. Rocambolesco e fracassone - infine - quasi un'emanazione (se possibile) arricchita del già caleidoscopico microuniverso de "I pirati dei Caraibi", "Legend of the Tsunami warrior" (2008), di Nonzee Nimibutr, che, tra regni conquistati e perduti, vendette giurate e dilemmi legati alla crescita, tenta, con risultati alterni, di shakerare in due ore abbondanti di spettacolo, battaglie navali, abbordaggi pirateschi, arti magiche e marziali et...

E' sensato notare, pertanto e in conclusione - e proprio in virtù dei pochi esempi appena riportati, chi più chi meno in linea col tentativo di misurarsi con l'esperienza umana all'alba di un nuovo millennio - quanto il divario (di certo geografico ma non solo) che vincolava fino a non molto tempo fa l'Occidente ad una considerazione delle manifestazioni della cultura popolare dell'Oriente - estremo o meno - oscillante tra sussiego, paternalismo, se non pigra indifferenza, si sia assottigliato, e ciò in gran parte perché la partita decisiva - quella della sopravvivenza in un futuro la cui possibilità (al di la' delle "sorti e progressive" tipiche di ogni propaganda) e' ben dentro il regno delle incognite - si gioca oramai su un solo campo, vasto e accidentato come l'intero pianeta, e coinvolge tutti. Fosse solo per attenersi ad un logico principio di precauzione, allora, che sarebbe il caso di sbrigliare un po' più la curiosità riguardo a come la pensano (e a come la vedono) "quelli" all'altro capo del mondo.

- parte seconda -

FINE

TFK

giovedì, giugno 19, 2014

JERSEY BOYS

Jersey Boys
di Clint Eastwood
con  Christopher Walken, Freya Tingley, John Lloyd Young, Jeremy Luke, Francesca Eastwood
Usa,2014
genere, musical, biopic
durata. 134'


In termini cinematografici l'età può essere un concetto puramente anagrafico. A dimostrarlo c'è la mentalità di autori che non finiscono mai di sperimentare e di film che fatichiamo a collegare a un determinato sguardo generazionale. A questo contesto appartiene di diritto Clint Eastwood e il suo "Jersey Boys", opera che spiazza già in fase di sinossi, presentandoci la storia dei Four Seasons, gruppo musicale che a partire dagli anni 60 contribuì a comporre la colonna sonora di quel periodo, ma non solo. Perché la storia di ragazzi senza arte ne parte che diventano delle star del firmamento musicale e' anche la celebrazione di un sogno americano, che Eastwood gestisce con insolita leggerezza, adottando almeno nelle sue linee generali (perchè in questo caso le musiche non sostituiscono i dialoghi dei personaggi) un genere mai frequentato, il musical, che il regista riesce comunque a contaminare della sua poetica. Abbiamo quindi la presenza massiccia della "performance in diretta", delle esibizioni canore che testimoniano l'excursus divistico dei personaggi ma anche la descrizione degli aspetti privati, quelli che in un biopic - e Jersey Boys è anche questo - consentono di scoprire l'altra faccia della medaglia. Dettagli, questi ultimi, che nel film in questione, permettono a Eastwood di riflettere sul prezzo del successo, ribadendo una pessimismo esistenziale che il personaggio di Frank Valli, cantante del gruppo e personaggio centrale della narrazione, incarna soprattutto nella dignità con cui affronta i drammi della vita: da quello che decreta il fallimento del rapporto amicale con Tommy, collega e mentore che non riesce a mettere da parte il proprio ego, costringendo il gruppo a sobbarcarsi il debito che ha con contratto con la mafia, alla morte di Francine, la figlia minore di cui il cantante si sente in qualche modo responsabile.

 

Ma "Jersey Boy" corrisponde a Eastwood per l'amore sviscerato nei confronti della musica e per uno sguardo verso la Storia di un paese, raccontato attraverso le contraddizioni di uomini che hanno il coraggio di viverla fino in fondo: come capita a Valli, che ritroviamo vivo e vegeto sul finire degli anni 90, pronto a esibirsi con i vecchi compagni d'avventura. Qui la bravura di Eastwood consiste soprattutto nel saper convivere con la mitologia del successo che il musical di Broadway (da cui il film è tratto) porta nel film con il suo mix di cadute e di trionfi, e con aneddoti come quello della scelta del nome d'arte (ricavato dall'insegna del negozio illuminata da un lampione malfunzionante) che appartengono di diritto all'immaginario delle carriere fuori dal comune. In una messinscena che non fa nulla per nascondere la natura volutamente artificiosa - come risulta dalla ricostruzione ambientale, piatta e poco storiografica - e una teatralità manifesta nella predominanza degli interni, così come nella possibilità degli attori di parlare rivolgendosi direttamente alla telecamera, "Jersey Boys" rappresenta l'inno alla libertà di un regista che si diverte a scherzare sul cinema, facendo il verso ai tough guys di Scorsese, ripresi con toni da commedia dal boss interpretato da Christopher Walken- e a ragionare sulla natura del cinema che, nella passarella finale dei personaggi pronti a ricevere un ultimo applauso, ci ricorda la particolarità di un'arte che fa dello spettatore il suo indispensabile interlocutore.
(pubblicato su dreamingcinema.it)

martedì, giugno 17, 2014

ROMPICAPO A NEW YORK

 Rompicapo a New York
di Cedric Klapisch
con Romain Duris, Audrey Tatou, Cecile De France
Francia, Belgio, Usa, 2014
genere, commedia
durata,


Il tempo e' una categoria con cui il cinema è obbligato a ragionare ogniqualvolta decida di raccontarsi con una parvenza di realtà. Ma la scansione temporale agisce anche fuori dal set, lavorando sulle idee ma soprattutto sui corpi degli attori che per questo sono costretti a alzare il gradiente di finzione per compensare il segno delle sue conseguenze. Di questa duplice spinta deve aver tenuto conto Cedric Klapisch quando a deciso di portare sullo schermo "Rompicapo a New York", terzo episodio della trilogia aperta dal fortunato "L'appartamento spagnolo", ritratto agrodolce di una generazione studentesca e cosmopolita cresciuta nell'era di quel programma Erasmus che, dalla fine degli ottanta, permise a centinaia di studenti di svolgere un periodo formativo al di fuori dei confini nazionali. Tra i motivi dell'inaspettato consenso ci fu sicuramente l'appeal di un prodotto naturalmente internazionale per il fatto di raccontare un'esperienza condivisibile su larga scala. Dal punto di vista cinematografico invece risulto' rilevante la scelta di codificare il fenomeno all'interno di un contenitore classico come quello della commedia, e di averlo reso universale attraverso la scanzonata riconoscibilità di attori come, Romain Duris, Audrey Tatou, e Cecile De France che all'epoca potevano offrire un immaginario in sintonia con la freschezza dei personaggi, e che oggi ritornano a quei ruoli con un divismo che poco si addice all'anarchia dei caratteri da loro interpretati. Ad accendere la miccia è ancora una volta Xavier, ago della bilancia per carattere e buon senso di un gineceo che il nostro tiene a freno con amorevole pazienza. Così facendo lo ritroviamo nientemeno che a New York dove il nostro si è trasferito per stare vicino ai figli avuti dal matrimonio con Wendy che l'ha lasciato per un fidanzato americano. Impegnato a ottenere la carta verde, Xavier e' alle prese con la stesura di un libro ispirato alla sua vita, e nel contempo deve fare i conti con un ritorno di fiamma che rischia di mettere tutto in discussione.

Se lo spunto del film è poco più che un pretesto per ritornare al punto di partenza, con la corrispondenza tra la diversità proposta dai costumi del paese straniero a funzionare come stimolo per riscrivere le regole della propria esistenza, "Rompicapo a New York" rappresenta l'ultimo atto di una trasformazione, che ha visto Klapisch riciclare i temi portanti della sua poetica all'interno di una confezione da cinema d'esportazione, pronta a sacrificare il minimalismo narrativo e il gusto naïf dei primi film (Ognuno cerca il suo gatto) a favore di una correttezza politica e di un'empatia di facile presa. Così è infatti l'affinità e la condivisione che si respira nel corso del film, con questioni importanti come quella della fecondazione assistita, introdotta dalla decisione del protagonista di donare all'amica lesbica il seme che le consentirà di avere un figlio, soffocati dal lusso patinato e modaiolo degli interni radical chic e finto bohémien, così come dagli status symbol di una promozione sociale a cui nessuno, nonostante tutto, vuole rinunciare. Normalizzato da un paesaggio che sembra uscito dal catalogo di un'agenzia di viaggi e da una sceneggiatura che non riesce ad andare da nessuna parte, il vitalismo dei personaggi rimane imbrigliato nell'opportunismo della messinscena, lasciando la sensazione di un prodotto che ha da tempo oltrepassato la data di scadenza.

(pubblicato su ondacinema.it)

lunedì, giugno 09, 2014

WE ARE THE BEST

We Are The Best
di Lakas Moodysson
con David Dencik, Mira Barkhammar, Mira Grosin, Liv LeMoyene 
Svezia, 2013
genere, drammatico
durata, 102'


Le vie del cinema sono infinite, e così, un pò per caso, un pò per motivi di strategia commerciale può capitare che il lavoro di certi registi venga valorizzato più di altri. E ancora, che un autore si ritrovi pressoché da solo a rappresentare la cinematografia di un'intera nazione. Se consideriamo il numero di film svedesi distribuiti in Italia in un arco di tempo relativamente breve - circa 15 anni- e facciamo la conta dei nomi che li hanno realizzati, non c'è dubbio che Lukas Moodysson rappresenti senza dubbio il capofila di un cinema che una volta esportava opere di un maestro come Ingmar Bergman, e che oggi è costretto a consolarsi con inquietudini di cui riesce persino a sorridere. Perchè non c'è dubbio che sotto le volte di un cinema anticonformista e ribelle ("Fucking Amal", "Togheter") si riesca anche a sorridere, o per lo meno si sia spinti a farlo, assistendo al caos organizzato che Moodysson prima fa esplodere, con tutte le turbolenze del caso, e poi cerca di contenere all'interno di una forma di cinema conosciuta e rassicurante. Come accade in "We Are the Best", storia d'adolescenze inquiete ambientata nella Stoccolma del 1982, periodo storico che musicalmente parlando vede gli ultimi scampoli del movimento Punk, replicato dalle note strimpellate della band musicale che le ragazzine decidono di mettere in piedi per fuggire alle rispettive insoddisfazioni esistenziali. Il problema è che Bobo e Klara non hanno mai suonato uno strumento musicale, e che la loro amicizia è messa a rischio dall'entrata in scena di Ilis, rockettaro di cui entrambe sono destinate a innamorarsi.
 
Trasposizione dell'omonima graphic novel firmata dalla moglie del regista, "We Are The Best" è il film che sancisce il ritorno in patria di Moodysson, dopo la parentesi americana di "Mammoth", con la conseguente ripresa di temi e stilemi che avevano caratterizzato i lavori più importanti, e cioè: l'adozione di un punto di vista adolescenziale e femminile, qui accentuato dal forte impatto del look scelto per le tre protagoniste, la presenza di una matrice ribelle e antisociale, manifestata con scelte fuori dalla norma (qui è il punk a fungere da elemento di rottura), ma soprattutto la critica verso il mondo degli adulti, fallimentare tanto nell'applicazione delle consuetudini borghesi, quanto di quelle di matrice progressista e sessantottina, parimenti sbeffeggiate nelle scene di vita familiare, inflazionate, come al solito nei film film di Moodysson, dalla mancanza di figure di riferimento. 
 
In questo "We Are The Best" è addirittura paradigmatico nel presentarci genitori incapaci di prendersi cura di se stessi e dei propri figli: per troppo egoismo, come succede alla mamma di Bobo, single distratta dall'altalenanza delle vicissutidini sentimentali, o per eccesso di superficialità, come capita al padre di Klara che si rapporta alla figlia alla maniera di un coetaneo o di un fratello maggiore. Il regista svedese filma con sveltezza e linearità, affidandosi a uno stile che, senza ambire a pretese di tipo documentaristico (ma talvolta si ha la sensazione di una messinscena rubata alla realtà) si mantiene attaccatto alla realtà, fornendo alla storia un corrispettivo di credibilità che allontana il film dai rischi del birignao giovanilista. Così, se è vero che la maggior parte delle questioni - per esempio il litigio scoppiato a seguito della contesa amorosa - vengono risolte all'insegna di una sfrontatezza che rasenta l'inconsistenza, e che la musica è solo un modo per fornire la cornice di simpatica "anarchia" entro cui si svolge la storia, "We Are The Best" ha anche momenti di puro cinema quando guarda in faccia le angosce e le tenerezze delle sue giovani protagoniste e, in special modo, di Bobo (Mira Barkhammar bravissima come le sue colleghe), capelli corti e occhialini da intellettuale moscovita; oppure nelle scene iniziali, quando il film deve ancora formarsi, in cui Moodysson per fissare l'insofferenza e il senso di claustrofobia della sua protagonista, c'è la mostra chiusa all'interno di una cornice umana (prima gli amici della madre, poi i compagni di scuola) che le toglie ogni spazio, e da cui non può fare altro che ritrarsi. Sintesi efficace di un film che si lascia vedere per quello che è: intrattenimento che diverte e non mortifica. 
(pubblicata su ondacinema.it)

domenica, giugno 08, 2014

(NOT SO) FAR EAST (I)


"Oh, oh-oh,
life can be cruel.
Life in Tokio"
- Japan -

- I -


Sbertucciare la televisione - oggi come oggi - e' un po' come schiacciare noci con la pressa e meravigliarsi, a operazione compiuta, che non e' rimasto granché da mettere sotto ai denti. A dire: tanta e' la divaricazione che alla fine si crea tra le leve (linguistiche/tecnologiche) disponibili - tra l'altro in perenne mutamento - e il campo di applicazione su cui quelle leve esercitano le proprie sollecitazioni (un 'medium' piuttosto in la' con l'età; assai ridimensionato nel suo ruolo d'interprete principe del "villaggio globale", quindi esposto pressoché senza riparo alle antinomie inerenti il suo uso proverbialmente passivo, oramai, si potrebbe dire, al limite della deprivazione sensoriale).

Tenuto conto (e da parte) il giardino (quasi tutto) fiorito delle Serie-ad- episodi che - fatti salvi i gusti di ognuno - spesso e volentieri hanno rivaleggiato (e tuttora rivaleggiano) col Cinema, se non persino anticipano talune idee, soluzìoni formali e punti di fuga che fino "all'altro ieri" erano ad esclusivo appannaggio della di lui creatività, e un certo numero di programmi molto caratterizzati, in specie quelli di stampo documentaristico, musicale, genericamente "artistico" e storico, la TV comincia, e pare davvero una tendenza inarrestabile, a patire sul serio gli effetti sul lungo periodo di ciò che in origine era, per il modo stesso in cui predisponeva la fruizione, uno dei suoi punti di forza, ovverosia la fidelizzazione fondata sull'uguale o sul pressoché tale: intrattenimento e informazìone, per lo più, a passarsi il testimone e a darsi senza posa di gomito, in un sempre più inebetito andirivieni via via ridotto a sinistro "autismo comunicativo", capace di crescere su se stesso e ripetersi senza la minima variazione di forma, di ritmo, di contenuto. Ora, con ogni evidenza, tutto ciò non e' più possibile. La frantumazione dei palinsesti, infatti, resasi necessaria per venire incontro alle esigenze di un pubblico allo stesso tempo insoddisfatto - quindi ondivago - eppero' anche, di media, più curioso e informato, ovvero sempre più incline a ritagliarsi intervalli specifici di "visione personalizzata", ha man mano eroso quella prassi cristallizzata dai decenni (e da uno spaventoso ristagno culturale, ancora ben lungi dall'aver trovato sbocchi certi e risolutivi) centrata su una programmazione "generalista" ad oltranza, la quale, oltre a risultare nell'attualità anacronistica, non e' più riuscita a non stridere coi numeri - grandi e piccoli, nonché sistematicamente rilevati - manco a dirlo impietosi al momento di evidenziare le manchevolezze di una qualunque strategia controproducente.

Proprio in tale senso - ed anche in relazione alle direttrici di fondo fino qui in breve riepilogate - spicca di una sua meritoria "necessita'" lo slancio/impegno profuso da una delle tante costole del cosiddetto Servizio Pubblico - qui RAI 4 - nel continuare a proporre all'interno di un ciclo cinematografico (l'altrove già ricordato "Missione Estremo Oriente"), tutta una serie di opere, quasi sempre recenti e recentissime, appartenenti a varie filmografie - Hong Kong, Corea (Nord/Sud), Cina, Giappone, Thailandia, et. - la cui diffusione dalle nostre parti (non considerando la vetrina speciale di grandi appuntamenti internazionali o quell''unicum' che e' il "Far East Festival" di Udine) può dirsi episodica se non nulla.

Fanno sfoggio di se', così - a mo' di dittico, nella prima e seconda serata del lunedì e con occasionali repliche notturne durante la settimana - film diversi per argomento, punto di vista, scelte espressive e durata. Con una certa prevalenza per il "noir metropolitano", il thriller e l'horror (ognuno di essi caratterizzato da una messa in scena della violenza tanto esplicita quanto impietosa), non e' altresì infrequente imbattersi in racconti in cui, ad esempio, le arti marziali irrompono in intrecci polizieschi o integrano "wuxia" sui generis. Allo stesso modo, vengono proposti ritratti di personaggi avvolti da una soffice cornice melo' - tra ritrosia e abbandono, seduzione e disincanto - o proiettati in contesti drammatici sovente contrappuntati da quella singolare sfumatura di grottesco - strana alchimia di impassibilità e piega caricaturale - che più di un naso fa ancora storcere in Occidente. Così come non e' inusuale passare dalla rivisitazione di una tradizione (mettiamo quella dell'universo del samurai) alla vera e propria contaminazione di generi e periodi storici: abbiamo in tal modo commedia, azione, western, avventura, guerra, in un precipitato che può contenere passato remoto e contemporaneità; descrivere lo "ieri" ma (pre)sentire la malia del "domani". Parimenti e' viva la voglia di misurarsi con gli stilemi e le logiche del grande Cinema popolare mondiale (consistenti investimenti, attori famosi, trame coinvolgenti) al punto che molte volte strizzate d'occhio, citazioni ed estremizzazioni si rincorrono e si sovrappongono nel mare magno degli influssi e dei possibili cortocircuiti, tra il passo in scia con l'adrenalinico incedere delle macchine-da-spettacolo hollywoodiane, i rimandi alle atmosfere cupe e 'deracine'' del "polar" d'Oltralpe, l'eco re-interpretativo, spavaldo e dissacratorio, dello spaghetti- western et. Ogni aspetto - dall'amore all'odio, dalla comprensione all'indifferenza, dall'amicizia all'ostilità, dalla cupidigia allo sperpero (in genere di se') - secondo un procedere che, in particolar modo nel cuore delle storie che si consumano nel maelstrom di quella condizione che chiamiamo "modernità" o "post-modernità", tra le ambiguità più inquietanti che brulicano nel cono d'ombra dell'esuberanza tecnologica, al di sotto della sua razionalità levigatissima, invariabilmente "amichevole", sempre trionfante, non smette mai di scontrarsi con le trasformazioni esteriori - del paesaggio naturale, come delle sterminate e impersonali aree metropolitane e degli stessi luoghi/non luoghi (appartamenti, uffici, locali) deputati all'interazione dell'animale (presunto) 'sapiens' - e interiori - della mentalità, delle abitudini, dei sentimenti, delle nuove/vecchie ossessioni e derive psicologiche (quasi solo sanguinarie) indotte dal denaro, dalla mancanza di esso/dal suo pensiero dominante; dalla presenza sempre più invadente degli oggetti di consumo e, non secondariamente, delle loro rappresentazioni simboliche - che l'attrito inevitabile di quella "modernità" genera e plasma a contatto col vissuto quotidiano degli uomini.

- parte prima -

TFK

sabato, giugno 07, 2014

FILM TELECOMANDATI: SOURCE CODE

Source Code è un film da vedere perchè ha l'immediatezza dell'opera a basso costo e l'epos delle produzioni mainstream. All’inizio c’è una città ripresa dall’alto ed un treno che l’attraversa come il titolo di uno spot pubblicitario. In seguito c'è un tipo che deve sventare un attentato, c'è un programma che gli permette di vivere continuamente la stessa esperienza, c'è una donna di cui forse è innamorato; ci sono i buoni che sembrano cattivi e cattivi che lo sono per davvero, ci sono persone in uniforme ed uniformi di persone, il tutto condito con una metafisica della normalità che nelle mani del regista assume le forme di un campo di battaglia. 

Riducendo lo spazio ad una serie di non luoghi (la stazione, il vagone di un treno, la cabina di un vettore, lo schermo di un computer, la mente dei protagonisti) e depotenziando l’action dagli strumenti della forza - pallottole, pistole e marchingegni tecnologici rimangono sempre ai margini - Jones utilizza la natura reversibile dello “strumento” cinematografico per inventare una variazioni di immagini olografiche che finiscono per diventare l’unico simulacro di una possibile verità. Coinvolgendo lo spettatore verso una duplice deception, la prima messa in atto per sventare l’attentato, la seconda per scoprire i piani dimensionali in cui la storia si sviluppa, il film umanizza gli aspetti tecnologici (montaggio e sonoro, ma anche la fotografia, pastosa come la malinconia del protagonista) facendone condizione indispensabile per l’espressione di uno stato emotivo, dei protagonisti così come dei comprimari, altrimenti sacrificato alle caratteristiche sincopatiche dell’intreccio.


Chiamato ad una conferma mai troppo facile, Jones realizza un opera seconda all’altezza della sua fama, riuscendo a rendere interessante anche un attore un po’ svagato come Jake Gyllenhaall, chiamato ad interpretare il disagio di un uomo che lotta per rimanere se stesso all’interno di un mondo che lo considera solamente in funzione della sua missione. Uno scenario disumano per un film che riesce comunque a ricordarci l’importanza della vita.

WALESA-L'UOMO DELLA SPERANZA

Walesa- L'uomo della speranza
di Andrzej Waida
con  Robert Wieckiewicz, Agnieszka Grochowska, Maria Rosaria Omaggio
Polonia, 2013
genere, biografico, drammatico
durata, 127'


Senza paura di essere smentiti lo si potrebbe definire un eroe del nostro tempo: Lech Walesa leader di solidarnosc, il movimento dei lavoratori che nella Polonia degli anni 70 si ribellò alla precarietà sociale e economica imposta dalla “dittatura” del governo filo sovietico, ha tutte le caratteristiche per meritarsi il titolo. Per affermarlo si potrebbe fare il confronto tra la grandezza di una visione, capace di immaginare un paese  finalmente libero da ingerenze esterne (in un paese storicamente abituato al contrario) con la minorità dei suoi presupposti: pensiamo non solo alle origini del futuro leader, impiegato presso il cantiere navale di Danzica in qualità di elettricista, ma anche alla fragilità dell’organizzazione sindacale di cui sarebbe diventato promotore, indebolita dalla frammentazione interna, e schiacciata dalle minacce del regime. Eppure a partire dal frammento di quotidiano che nelle prime immagini del film ce lo mostrano a fianco dei compagni di lavoro, picchiati e poi arrestati per aver manifestato il proprio dissenso nei confronti dello status quo, l’importanza di Walesa e del suo progetto sono destinati a crescere, diventando inarrestabili. Partendo dall’anonimato delle prime riunioni sindacali, e descrivendo i tentativi di trasformare la coscienza di classe in uno strumento d’azione , “Walesa- L’uomo della speranza” racconta l’evoluzione di una personalità capace di convogliare e realizzare le speranze di un intero paese, ripercorrendola attraverso le vicende pubbliche e private del suo protagonista. A emergere è il carisma del grande comunicatore ma anche la coerenza di una vita vissuta in prima linea, tra scaltrezza, senso pratico e una profonda compresione dell’animo umano.
Diretto da Andrzej Waida, regista di riferimento del cinema polacco – ancor prima di Krzysztof Zanussi e Krzysztof Kieślowski – e autore di lungometraggi come “L’uomo di marmo” (1977) e “L’uomo di ferro” (1981) che si facevano portavoce dei fermenti di una nazione giunta al punto di non ritorno, “Lech Walesa- L’uomo della speranza” è un biopic che non ha l’ambizione di riscrivere la Storia ma di raccontarla a chi, all’epoca dei fatti, non era ancora nato. In questo senso si spiega l’utilizzo di un escamotage tanto scontato – il film è costruito sull’intervista rilasciata da Walesa a Oriana Fallaci, interpretata da un ottima Maria Rosaria Omaggio – quanto efficace nel rileggere i fatti a posteriori, e da una prospettiva che consente al regista di sottolineare – mediante i commenti dei due interlocutori – i passaggi più salienti di quel resoconto. Come pure il fatto di attualizzare il personaggio, accompagnandolo con una pulp musicale che fa di Walesa un (rock)star per tutte le stagioni: ora appassionata e fuori dagli schemi quando si tratta di mettere in scena la rivoluzione (parliamo della “solidarietà” d’intenti che da lì in poi accomunerà le organizzazioni sindacali sparse sul territorio), ora divertente e persino scanzonata, quando è chiamata a conciliare le responsabilità famigliari con le conseguenze dell’attività sindacale; come testimonia la sequenza in cui seguiamo le vicissitudini del protagonista impegnato a fare il mammo all’interno della cella dov’è detenuto insieme al figlioletto, oppure nel modo con cui Wajda sottolinea la tendenza del personaggio a non farsi distrarre dagli attestati di stima che gli giungono da una parte all’altra del mondo. Accattivante e di facile fruizione, il film offre un ritratto edulcorato dell’establishment locale (manca ad esempio il riferimento all’omicidio di padre Popieluzsko, figura di spicco della chiesa polacca, e fermo oppositore del regime), ritratto in maniera kafkiana e finanche empatica nei confronti della loro vittima. A restare è soprattutto un modello di integrità politica e morale che non trova corrispettivi nella contemporaneità del tempo presente.
(pubblicato su dreamingcinema.it)

giovedì, giugno 05, 2014

TUTTA COLPA DEL VULCANO

Tutta colpa del vulcano
di Alexandre Coffre
con Dany Boon, Valerie Bonneton
Francia, 2014
genere, commedia

Lungi dall’essere soddisfatta la voglia di commedia non accenna a diminuire, moltiplicando le occasioni di un intrattenimento che ha trovato nel mercato francese il territorio in cui integrare le sue possibili offerte. A trarre vantaggio da questo circolo virtuoso è di certo Dany Boon, comico d’oltralpe diventato il marchio di fabbrica della comicità d’oltralpe. Avevamo appena finito di commentare la sua ultima regia (Superipocondriaco) che arriva nelle sale la sua nuova fatica d’attore, “Tutta colpa del vulcano”, che racconta alla maniera del Buddy Movie, e con i toni che gli sono ormai consueti, la riedizione di un matrimonio già finito che invece è costretto a tornare in pista per permettere agli ex coniugi, Alain e Valerie, di presenziare al matrimonio della figlia che sta per sposarsi in una paesino della Grecia.

Partendo dalla convizione che gli opposti si attraggono, il regista insieme agli sceneggiatori realizzano una storia d’amore al contrario, con Alain (Dany Boon) e Valerie (Valerie Bonneton),  intenti a flirtare sostituendo i baci e le carezze con astuzie e colpi bassi, e complicandosi la vita collezionando un campionario di imprevisti e di sciagure che renderanno arduo il raggiungimento della meta. Affidando gli intenti farseschi e ridanciani alla fisicità sgraziata e sghemba dei suoi interpreti, Alexandre Coffre si preoccupa di mantenere alto il tasso di perfidia, alternando l’esibizione della dinamiche di coppia, con le intromissioni provenienti dal mondo circostante rappresentato da un campionario di stravagante umanità. Se il film può contare sulla simpatia degli attori, e su una regia ordinata e puntuale, a limitarne la riuscita sono la routine di un copione già visto, e la professionalità del suo attore più famoso che, nella caratterizzazione di un tipo umano meno naif rispetto a quelli precedentemente interpretati, si affida più alla professionalità del mestiere che alla fantasia dell’ispirazione. Qualche risata il film riesce pure a strapparla ma in generale “Tutta colpa del vulcano” fornisce un divertimento un pò scontato.
(pubblicato su dreamingcinema.it)