martedì, gennaio 29, 2019

COMPROMESSI SPOSI

Compromessi sposi
di Francesco Miccichè
con Vincenzo Salemme, Diego Abatantuono, Dino Abbrescia
Italia, 2019
genere, commedia
durata, 90’



Come i famosissimi Renzo e Lucia, promessi sposi protagonisti dell’omonima opera, in prosa, di Alessandro Manzoni, anche Riccardo e Ilenia sono due giovani innamorati che, spinti dal grande sentimento che li lega, decidono di sposarsi. Fin qui niente di strano, se non fosse che i genitori (soprattutto i rispettivi padri) non sono assolutamente d’accordo perché li ritengono troppo giovani per compiere un gesto del genere.
Alla giovane età dei due ragazzi si somma un altro problema non di poco conto: le città di origine. Riccardo è il figlio di Diego (Abatantuono), un ricco imprenditore del nord tutto d’un pezzo; Ilenia è, invece, la figlia di Gaetano (Salemme), il sindaco di Gaeta. Oltre alle differenze sostanziali che i due sottolineano, l’incontro dei due figli riporta a galla un diverbio avvenuto l’anno prima, proprio a Gaeta. Lo scopo dei due protagonisti diventa, quindi, quello di boicottare il matrimonio dei rispettivi figli in tutti i modi possibili. Riusciranno nel loro intento?
La commedia di Francesco Miccichè porta sullo schermo la classica diatriba nord-sud, sempre fonte e spunto di interessanti aspetti da scardinare. Purtroppo, però, non riesce a emergere e a portare una ventata di freschezza e novità ad un tema che, seppur interessante, è già stato ampiamente visto.
I due attori sono molto bravi ad interpretare i loro ruoli (forse un po’ troppo stereotipati), ma non sono sufficienti a rendere l’opera una commedia riuscita.
Al di là degli stereotipi, anche le battute e i momenti più puramente comici sanno di già visto e lo spettatore non può far altro che anticiparne le risposte, fin troppo prevedibili. Allo stesso modo anche l’intreccio della storia sembra essere fin troppo chiaro da subito con dei personaggi che inizialmente pensano e agiscono in un determinato modo per poi cambiare nel corso della narrazione e crescere.
Se da una parte l’appoggiarsi a due attori come Abatantuono e Salemme può essere (ed è) un vantaggio perché hanno la capacità di incarnare perfettamente i personaggi descritti e riescono sempre e comunque a strappare più di una risata, dall’altra parte sarebbe stato, forse, più saggio appoggiarsi maggiormente ai personaggi secondari, dai due giovani innamorati, alle mogli e alla sorella di Riccardo. Mescolare i vari personaggi e le dinamiche che si vengono a creare tra i personaggi secondari e quelli principali avrebbe probabilmente conferito maggiore freschezza a un’opera che, nonostante qualche risata, lascia un po’ l’amaro in bocca.
Veronica Ranocchi


domenica, gennaio 27, 2019

INVISIBILI: DESTINATION WEDDING

Destination wedding
di, Victor Levin
con, Keanu Reeves, Winona Ryder, Dj Dallenbach
USA 2018
genere, commedia
durata, 85’


Take the space between us
Fill it up some way…
- The Police -


Sul serio il Cinema è un piccolo scrigno per la meraviglia. Al suo interno, infatti, cura con particolare dedizione un metodo tutto suo di offrire cittadinanza all’improbabile, tipo quello che avvicina due cherofobici conclamati - il Frank dalla prestanza stanca e lo sguardo in perenne tralice interpretato da Keanu Reeves a mo’ di un John Wick costretto a usare l’arma della dialettica al posto di quella da fuoco; la Lindsay dalla grazia nervosa e il tenue disincanto di Winona Ryder, precipitato contemporaneo dell’acqua cheta May Welland de “L’età dell’innocenza”, padrona magari delle proprie prerogative manipolatorie quanto oramai poco o punto persuasa della loro autentica efficacia - La coppia, nella cosiddetta realtà, impiegherebbe meno di tre minuti a recidersi vicendevolmente le giugulari ma, appunto, grazie alla peculiarità di cui sopra, cede alla curiosità di cimentarsi col rischio di misurare in prima persona l’esatta distanza che la separa, lasciando aperto un varco utile all’ipotesi d’instaurare una paradossale intesa al negativo.

Non si spiegherebbe altrimenti la palpabile prossimità che si avverte al cospetto di un’opera come “Destination wedding”, di Victor Levin (già produttore televisivo, sceneggiatore e autore di “5 to 7”, prima personale incursione nel ginepraio delle relazioni e dei sentimenti), scientemente e brillantemente compressa entro uno schema che mutua dal teatro leggero la costruzione per scene autosufficienti in ambienti d’immediata individuazione (il terminal di un aeroporto, l’interno di un taxi, il tavolo di un rinfresco, una camera da letto, et., a margine del ricevimento di nozze - casus belli e apriscatole della storia - organizzato da Keith, fratellastro di Frank, a cui non proprio per caso viene invitata anche Lindsay, vecchia fiamma di Keith), a formare una successione armonica di quadri che via via delineano e caratterizzano umore, gesti e parole dei protagonisti; mentre invece estremizza, dal Cinema, passandolo all’essiccatoio del cinismo impietoso dei nostri anni, quell’estro per il dialogo serrato e assertivo, arguto e capziosamente riflessivo, che abbiamo imparato a conoscere - e ad amare - almeno a partire dai sublimi battibecchi Hepburn/Grant (o Hepburn/Tracy) targati Hawks e Cukor, attraverso Wilder, giù fino a Simon, Edwards e al miglior Allen.

Le vicende incrociate di Frank - addetto al marketing per una grossa corporation dell’energia - e di Lindsay - che, letterale, persegue “compagnie e istituzioni per azioni e affermazioni non rispettose delle singole sensibilità culturali” - trovano così consistenza e interesse proprio nella messinscena d’una duplicità divenuta oggigiorno propellente spettacolare: l’esasperata centralità dell’io, la sua irrefrenabile esigenza di doversi sempre esporre come su un palcoscenico, da un lato; la simile e, per certi versi, conseguente mania per la razionalizzazione a trecentosessanta gradi, il gusto per la dissezione logica, la sottolineatura lessicale, l’asprezza retorica, dall’altra. Antagonismo/sodalizio precario cui sottende - e parliamo di un magma sepolto/represso molto instabile - il gigantesco punto interrogativo dell’identità moderna, di continuo sollecitata per le quattro direzioni, ognuna delle quali proposta - ma sarebbe più esatto dire venduta - come irrinunciabile, in un moto perpetuo di stimoli appetibili e tuttavia ambivalenti, al termine del quale sovrabbondanza, ansia da prestazione, esasperazione per aspettative spesso deluse, sostanziale equivalenza tra le scelte, si sciolgono in quell’unica frustrante vaghezza che mai tarda a volgersi in disillusione beffarda, in rancore malcelato, oltreché in un vischioso attendismo difensivo (“Apparteniamo a quello scampolo di società che non deve più preoccuparsi delle cose essenziali: il cibo, i vestiti, un tetto sopra alla testa, i mezzi di trasporto o l’eventualità di essere fatto fuori dalla Polizia… Noi siamo noiosi, banali, sordi e narcisisti”, puntualizza Frank).

In tal senso, l’operazione allestita da Levin - dal sapore, per una volta, ironicamente intellettualistico, vista la matrice testuale pronta a confessare inquadratura dopo inquadratura la propria controllata artificiosità - attorno a corpi cinematografici che a quel quesito identitario hanno offerto il loro contributo di legittimazione (Winona all’inizio degli anni ’90; Keanu fino al loro epilogo, culminato, tra l’altro, con l’avvio della saga di Matrix), nella lineare sovrapposizione tra momento esistenziale (una, per certi aspetti perfetta, anedonica solitudine: non a caso, il film stesso è un solo, ininterrotto gioco-a-due dal quale il mondo intero è escluso, retrocesso a fondale, seppur animato) e contesto (la tarda modernità), registra puntuale, avvalendosi dei toni della commedia come detto logorroica, sarcastica, punteggiata da un frasario implacabile, lo smacco ulteriore autoinfertosi da un mondo (e falegnameria umana acclusa) - a dire il nostro quotidiano ipnotizzato dal futuro come meta d’ogni pacificazione, irretito dagli stili di vita, persuaso dalla inesorabilità calcolante della tecnologia - a conti fatti terrorizzato proprio dalle passioni, cioè dalla vicinanza fisica ed emotiva con l’Altro ma, allo stesso tempo, incapace di proporre alternative soddisfacenti, anche perché alla fine resosi conto - non senza sconcerto, ci mancherebbe, e spaccato l’ultimo capello in quattro - che precisamente tale dimensione, per quanto fragile, non di rado meschina, per lo più incoerente, è quella chiamata da ciò che resta del vissuto a giocare il ruolo di argine alla mera dissoluzione. Dimensione di cui il Cinema si conferma uno dei custodi più intransigenti e affidabili.
TFK

L'UOMO DAL CUORE DI FERRO


L'uomo dal cuore di ferro
di Cedric Jimenez
con Jason Clarke,  Rosemund Pike, Mia Wasikowska, Jack O'Connel
Francia, Belgio, Usa, Gran Bretagna
genere, thriller, azione, biografico
durata, 1200


Forse per la caduta in disgrazia della Weinstein Company, distributore americano del lungometraggio in questione, fatto sta che L’uomo dal cuore di ferro arriva in Italia con più di un anno di ritardo rispetto alla sua normale distribuzione. Diretto dal francese Cedric Jimenez, specialista di film di genere, conosciuto anche in Italia per la regia del non disprezzabile French Connection, il film esce nelle sale appena in tempo per figurare tra gli eventi cinematografici previsti per la celebrazione della cosiddetta Giornata delle Memoria. L’uomo dal cuore di ferro, infatti, altri non è che Reinhard Heydrich, gerarca nazista tra i più potenti e spietati nel perseguire e uccidere gli oppositori del Reich, nonché principale artefice della cosiddetta Soluzione finale, le cui teorie fecero da premessa allo scientifico sterminio della popolazione ebraica.


Sul modello di quanto faceva Operazione Valchiria rispetto al tentativo di uccidere il principale responsabile del secondo conflitto bellico anche il film di Jimenez nasce sulla scia di un fatto reale, in questo caso l’assassino di Heydrich, raccontandone organizzazione e messa in opera all’interno di un film che mescola biopic (nella prima parte, relativa alla formazione e alla scalata al potere del morituro) e war movie (nella seconda, quella dei preparativi che precedono l’attentato), declinandoli con atmosfere e tensione da cinema thriller. 

Le somiglianze con il film di Singer comprendono anche le tipologie produttive poiché L’uomo con il cuore di ferro appartiene alla categoria di lungometraggi che privilegiano la riconoscibilità alla verosimiglianza e come tale non rinuncia a mettere in piedi un cast di cultura anglosassone (dal “cattivo” Jason Clarke alla “algida” Rosamund Pilke, ai “romantici” Mia Wasikowska e Jack O’Connell) chiamato a interpretare uomini e donne di diversa etnia. Ciò detto, sul piano dell’intrattenimento L’uomo dal cuore di ferro riesce a soddisfare le premesse da film di facile consumo, coinvolgente quel che basta per farci trepidare sul destino dei buoni e capace di arrivare alla fine senza intoppi, grazie a una linearità – dei caratteri, del montaggio e della messinscena – che può essere un pregio a patto di non concepire lo spazio dell’azione come un contenitore di shock sensoriali. Possibilità che la regia di Jimenez non prende mai in considerazione.
Carlo Cerofolini
(taxidrivers.it)

LA FOTO DELLA SETTIMANA

4 mesi, 3 settimane, 2 giorni, di Cristian Mungiu (Romania, Francia, 2007)

venerdì, gennaio 25, 2019

13 FESTA DEL CINEMA DI ROMA: SE LA STRADA POTESSE PARLARE


Se la strada potesse parlare
di Barry Jenkins
con KyKy Lane, Stephane James, Regina King, Dave Franco
USA, 2018
genere, drammatico
durata, 117'



Anche se uno non è americano e non frequenta l'industria hollywoodiana può comunque immaginare cosa voglia dire per un regista di quelle parti sbucare dal nulla e aggiudicarsi l'Oscar di miglior film dell'anno, tra le varie categorie forse la più prestigiosa, di certo la più ambita dai Mogul delle grandi case di produzione. Come in molti ricorderanno tale scenario si è concretizzato nel 2016 quando Barry Jenkins, si è visto consegnare la statuetta in questione al termine di una premiazione a dir poco rocambolesca in cui per un errore degli organizzatori il premio in un primo momento era andato al favoritissimo "La La Land". A parte l'aneddoto, certamente singolare, tutto questo è importante per non dimenticare la particolarità del contesto in cui nasce "Se le strade potessero parlare", come sempre capita in questi casi, chiamato a onorare il prestigioso riconoscimento con un'opera all'altezza del nuovo lignaggio e d'altro canto responsabile di riportare con i piedi a terra ma senza grossi traumi il sorprendente vincitore.

Per nulla intimidito Jenkins in un certo senso alza il tiro delle proprie ambizioni portando per la prima volta sul grande schermo un romanzo di James Baldwin, figura di riferimento della letteratura americana celebrata da Raoul Peck nel doc "I'm not Your Negro" e distintasi, a partire dagli anni settanta, per l'impegno speso nel denunciare i soprusi e l'intolleranza di cui furono oggetto i membri della comunità afro americana. A partire da questa scelta "Se le strada potesse parlare" si costruisce un'identità autonoma rispetto al lavoro precedente, pur presentando soluzioni formali abbastanza simili. Anche in questo caso infatti l'universalità della storia non è solo un fatto di contenuto: la predilezione per un numero limitato di figure umane presenti all'interno dell'inquadratura, la volontà di circoscrivere gli avvenimenti in una spazio fisico ristretto e le mancate aperture della mdp sul paesaggio circostante danno corso a una rappresentazione più ideale che reale dell'esistenza,. In tale direzione, va letta ad esempio la presenza di un personaggio archetipo qual è il poliziotto che incastra Fonny per un delitto mai commesso, manifestazione del male del tutto svincolata da riferimenti tangibili che non sia l'urgenza di rappresentare il mood di un'epoca di ingiustizie e persecuzioni.


Ma come si diceva qualche riga fa le peculiarità di "Se la strada potesse parlare" stanno altrove e per esempio nell'autoreferenzialità alla storia della comunità afro-americana delle cui sorti Tish e Fonny (protagonisti della vicenda insieme a Sharon e Joseph, genitori di lei,) giovani e innamorati costituiscono per la drammatica svolta della loro relazione il campione sul quale misurare la negazione di un riscatto che diventa metafora di quello negato al consesso a cui i due appartengono. Così, se in "Moonlight" la lotta per la "causa" e la militanza dei "fratelli" erano assenti mentre le iniquità del sistema e la segregazione sociale incrociavano i destini dei personaggi in maniera indiretta, più che altro nel degrado materiale e spirituale del paesaggio e degli uomini, alla stessa maniera la Harlem degli anni settanta nulla ha a che fare con la Miami dei nostri giorni così come il senso di famiglia e l'amore per l'arte che si respira nel quartiere nero dove vivono Tish e Fonny dista anni luce dal senso di alienazione e dalla cultura gangsta rap del ghetto in cui si barcamenano Kevin e Chiron. D'altronde, mentre questi ultimi sono figli dell'America proletaria e diseredata, Tish e Fanny insieme alle loro famiglie sono parte integrante di un universo proto borghese che nonostante tutto gli permette di coltivare (fino al momento della drammatica svolta) progetti e amore senza la rabbia e la violenza che invece faceva da sottofondo alle esistenze dei primi due.

Ed è forse questo punto più di altri a determinare la continuità poetica del cinema di Jenkins che pone al centro della questione il superamento delle barriere morali, fisiche, sociali che separano gli individui dal raggiungimento dell'amore e della felicità, qui sintetizzate dalle sbarre della cella dove Fonny aspetta il giorno in cui tornerà libero. Jenkins la rappresenta con una messinscena sofisticata e complessa che utilizza il tempo sia come elemento narrativo, nel tentativo di creare una drammaturgia del ricordi attraverso i continui scarti tra passato e presente, sia come flusso interiore, capace di dare conto delle emozioni dei personaggi visualizzandole nel ricorso a sistematiche dilatazioni temporali che hanno il compito di sottolineare stati d'animo e sentimenti. In questa dimensione tutta interna della storia vanno letti i contrasti di luce impiegati per dare conto del tormento e della precarietà affettiva dei due innamorati, frutto della fotografia di James Laxton, così come i colori caldi e materici utilizzati dal regista per esaltare le passione che attraversa il film. Ma non basta perché "Se le strada potesse parlare" è soprattutto un film di attori e di corpi, tutti bravi (ma con una menzione speciale per l'esordiente Kim Layne nella parte di Tish e della "madre" Regina King) e fotogenici a cui Jenkins si rivolge con una devozione forse eccessiva che lo porta a soffermarsi oltre il dovuto sulla bellezza dei volti e sulla levigatezza delle figure. Girato sul crinale che divide l'attenzione maniacale da un esteriorità che in qualche passaggio rischia di prendere il sopravvento sull'urgenza dei temi, "Se le strada potesse parlare" è meno riuscito del suo predecessore ma ancora più coraggioso per la fiducia che assegna al cinema di fare breccia nei cuori delle persone.
Carlo Cerofolini
(pubblicato su ondacinema.it)

giovedì, gennaio 24, 2019

IO - SOLO SULLA TERRA


Io – Sola sulla terra
di Jonathan Helpert
con Margaret Qualley e Anthony Mackie
USA, 2019
Fantascienza, Distopico
durata, 96’


Immaginate una terra desolata, aspra di vita e arida di emozioni, governata da tempeste nocive per l’uomo e da città-fantasma ricoperte da rampicanti. Un futuro (forse neanche troppo lontano fra l’altro) dove il riscaldamento climatico e lo sfruttamento delle risorse da parte dell’uomo abbia preso una piega irreversibile da troppo tempo. Un mondo che mette l’umanità in quarantena come un virus da eliminare nel più breve tempo possibile.
Immaginate ora uno scienziato e sua figlia Sam, fra i pochi rimasti sulla terra a cercare di trovare un rimedio mentre tutto il genere umano migra in un’unica soluzione verso nuovi pianeti e verso nuove opportunità.

Questo è “Io – Sola sulla terra”, il nuovo film distopico della piattaforma Netflix diretto da Jonathan Helpert (regista 36enne Parigino per la seconda volta dietro una cinepresa di un lungometraggio).

La prima impressione che si ha visionando il film è quella di essere alle prese con una rivisitazione del film di animazione “WALL-E”: in questo caso non ci sono robot a scandagliare la terra in cerca di vita, ma soltanto l’intelletto e la perseveranza di una giovane scienziata innamorata del proprio lavoro e del suo pianeta da cui non riesce a separarsi.


La spedizione Exodus è lì che la aspetta da tempo: porterà lei e le sue convinzioni al sicuro su una delle lune di Giove chiamata “Io”, un pianeta gemello della terra dove il genere umano ha deciso di ricominciare da 0.
Fra Sam e la nuova colonia però si intromette Micah (Anthony Mackie, il supereroe “Falcon” della Marvel), uno sconosciuto che piomba – letteralmente – sull’area di ricerca della giovane scienziata e che finirà per condividere con lei i momenti finali della sua ricerca.

La pellicola è abbastanza piacevole, lenta al punto giusto ma sicuramente troppo scontata: si ha sempre l’impressione infatti di sapere con esattezza dove il film andrà a parare. E se la scena finale sembra aprire ad un qualche tipo di interpretazione, lasciando lo spettatore in bilico fra sogno e realtà, “Io – Sola sulla terra” nel complesso però non aggiunge nulla di nuovo a questo genere, rimanendo nel limbo dei tanti film distopici low-budget adatti (per gli amanti del genere) a passare una serata tranquilla e forse a nulla più.
Lorenzo Governatori


mercoledì, gennaio 23, 2019

PIXAR. 30 ANNI DI ANIMAZIONE




Si è da poco conclusa, presso il Palazzo delle Esposizioni, a Roma, la mostra dedicata all’universo creativo della Pixar e alla celebrazione dei suoi 30 anni di animazione.

Grazie alla raccolta del materiale conservato da registi e creatori delle storie prodotte dalla Factory americana i curatori dell’edizione italiana Elyse Klaidman e Maria Grazia Mattei hanno realizzato una mostra molto interessante, non solo per gli appassionati.

La prima sezione che si incontra è quella dedicata ai cortometraggi, a testimonianza dello spirito innovatore e innovativo della Pixar. Essi rappresentano i primi passi mossi dalla casa di produzione nel vasto mondo del cinema e incarnano pienamente il puro stile dell’animazione, riuscendo a sintetizzare i concetti di “personaggio”, “storia” e “mondo” che, nel corso del tempo, si sono evoluti (grazie anche, e soprattutto, all’avanzamento tecnologico, del quale la Pixar fa ampio uso). Oltre alla possibilità di vedere un cortometraggio, nella medesima sala sono presenti anche le bozze che hanno portato alla creazione di personaggi e storie come, ad esempio, quelle di “Le avventure di André & Wally B.” e modellini dei personaggi principali, uno su tutti la lampada Luxo Junior, cioè quello che oggi tutti conoscono come il logo della casa di produzione.


Nella sala adiacente, poi, è possibile capire come viene costruito un film d’animazione, quali sono i passi da seguire  e come si arriva al prodotto finito. Ogni singolo elemento che compone un film della Pixar è analizzato e studiato nei minimi particolari. Tutto ciò che lo compone si unisce per formare quello che sarà un prodotto talmente preciso da far quasi dimenticare che si tratta di un film d’animazione. Quando si parla di “ogni elemento che compone un determinato personaggio, oggetto, etc” ci si riferisce veramente ad ogni singolo aspetto, a partire dalla musica, sulla quale lavora un compositore che scrive una colonna sonora strettamente connessa con quelli che sono i temi musicali e i livelli emotivi del film, per poi passare agli effetti sonori, che devono essere interamente creati da un sound designer, il quale realizza effetti sonori per qualsiasi cosa sia possibile udire, dai passi al vento, da un fischio ad un cigolio per poi missare il tutto insieme, tenendo sempre presente l’emozione di quella data sequenza. Accanto alla musica c’è, poi, anche la creazione dei personaggi da parte del regista e del production designer, al quale fa seguito il “blueprint”, cioè il progetto che i modellatori digitali prendono come riferimento per creare i modelli dei personaggi al computer. Parallelamente viene realizzata anche una maquette, cioè un modello tridimensionale in argilla del personaggio in questione, per permetterne una visualizzazione da tutte le angolazioni. Altro elemento non di poco conto sono i dialoghi e la loro registrazione che occorre fare prima che gli animatori inizino a lavorare sul film, dal momento che, proprio in base alle parole e al tono di voce, verranno sincronizzati i movimenti e le varie espressioni.


Oltre, poi, alle varie sezioni dedicate interamente ai vari film d’animazione che hanno fatto la storia della Pixar, da “Ratatouille” a “Up”, da “Gli Incredibili” a “Inside Out”, solo per citarne alcuni, con relative bozze, maquette e progetti, all’interno della mostra italiana è presente un’esperienza cinematografica particolare: l’Artscape. Attraverso ciò lo spettatore è completamente immerso in questo universo e riesce a vedere e comprendere cosa significa realizzare un film Pixar con i disegni che si animano allo stesso modo in cui si sono animati in passato per i creatori dei lungometraggi.

Da sottolineare poi anche la sezione dedicata allo zootropio, una forma di intrattenimento molto popolare alla fine del XIX secolo, grazie alla quale, facendo ruotare velocemente una sequenza di immagini dentro un cilindro si poteva ottenere l’effetto del movimento e, quindi, la base dell’animazione. All’interno della mostra si può vedere, in una versione moderna rispetto a quella del dispositivo originario, questo movimento attraverso i personaggi di “Toy Story” e “Toy Story 2”.

Al termine di quello che è, letteralmente e fisicamente, un tuffo nel mondo Pixar si comprende che non si può definire un film d’animazione come una semplice sequenza di immagini in movimento, ma come qualcosa in più. Infatti la creazione di una storia è un processo lungo e complesso, al quale lavora, per molto tempo, un team specializzato e attento a curare ogni minimo particolare. Ed è come se la mostra fosse parte integrante di questo bellissimo processo creativo.
Veronica Ranocchi

GLASS

Glass
di M. Night Shyamalan
con Bruce Willis, James McAvoy, Samuel Lee Jackson, Sarah Paulson
USA, 2019
genere, drammatico, fantascienza
durata, 129'



La realizzazione di un progetto come quello di Glass non era quella di offrire al regista la possibilità di tornare alla qualità dei suoi primi film. La posta in palio stava nel riuscire a competere con i film della Marvel e della DC Comics pur investendo cifre notevolmente inferiori. Gareggiando nell'ambito di un cinema che penalizza le sfumature - facendo della confezione la sua arma vincente - , Shyamalan realizza un hero movie per adulti, in cui quest’ultimo vocabolo segnala non tanto la profondità dei contenuti - accattivanti si ma piuttosto scontati e risaputi - quanto l’assenza dell’estetica digitale in cui oramai si riconosce la maggior parte del pubblico giovane e che invece non appartiene a quella dei loro genitori.

Tenendo conto delle caratteristiche del regista, capace di dare il meglio di se quando si è trattato di lavorare sul fuori campo (Signs, Unbreakable, The Village) e invece fallimentare laddove è stato necessario fare il contrario, sciorinando budget ed effetti speciali (L’ultimo dominatore dell’aria, After Heart), Glass non può, e forse non vuole (la risposta la sa solo Jason Blum) dare in pasto allo spettatore una messa in scena virtuale come quella utilizzata dagli artefici di Acquaman, pronti a tutto pur di confermare l’immaginario sensoriale in cui sono quotidianamente immersi i maggiori fruitori di questo tipo di prodotti. Nel film di Shyamalan non ve n’è traccia ed è proprio sulle conseguenze di tale assenza che Glass si gioca la scommessa della propria riuscita al botteghino.
Carlo Cerofolini

domenica, gennaio 20, 2019

LA FOTO DELLA SETTIMANA

Io la conoscevo bene di Antonio Pietrangeli (Italia, 1965)

LA DOULEUR


La Douleur
di Emmanuel Finkiel
con Melanie Thierry. Benoit Magimel
Francia, 2019
genere, drammatico
durata, 127'


La scommessa di Emmanuel Finkiel, regista di La Douleur, non era cosa di poco conto. Va bene che dietro il dolore della protagonista si cela quello vissuto da un monumento della cultura francese come Marguerite Duras, trasposto nel romanzo da cui il film prende il nome e passi pure il fatto che la storia, ambientata nella Parigi della resistenza all’occupazione nazista e le deportazioni nei campi di sterminio offrono di per sé una materia drammaturgia e affabulatoria già consolidata e capace di non lasciare indifferenti anche chi non è propenso a mettere a nudo i propri sentimenti. I quesiti sulla riuscita di La Douleur stavano altrove, e per esempio nell’intrattabilità di una scrittura come quella della Duras, per nulla disposta a farsi irretire da strutture  narrative classiche, e perciò abituata a fare a meno dei normali riferimenti spazio temporali, nella pagina come sullo schermo, sostituiti da flussi di coscienza in cui nel caso specifico ad andare in scena non è solo l’afflizione di Marguerite per l’assenza del marito ma anche il senso di colpa per un destino più fortunato di altri. 

Nel cercare un compromesso tra il dentro e il fuori e quindi tra la cronaca dei fatti, sviluppati attorno al tentativo di Marguerite di salvare il marito con l’aiuto di un membro del partito collaborazionista (Benoit Magimel) innamorato di lei - inserto che occupa la prima parte del film, la più canonica anche nel dare visibilità  alla messa in scena del periodo storico - e il labirinto psicologico che fa da contraltare all’attesa del responso sul destino del coniuge, coincidente con la sezione più introspettiva del lungometraggio, Finkiel riesce a raffreddare l’elemento emotivo (amplificato dai riferimenti alla concomitante tragedia dell’olocausto) attraverso l’utilizzo della voce fuori campo. 

Così, se da una parte questo espediente riesce a penetrare la maschera di dolore di Marguerite, immergendo lo spettatore nell’abisso interiore in cui precipita la donna, dall’altra il fatto di filtrare la realtà attraverso  l’intelletto permette al regista di prendere le distanze dal dramma contingente, collocandolo in una prospettiva di razionalità che in qualche modo consente alla donna di ritagliarsi attimi di tregua rispetto al dolore che l’attanaglia, al film di evitare le accuse di strumentalizzare l’emotività dei suoi contenuti. La Douleur non lo fa anche per le asperità - nella sua usufruizione - derivate dal fare delle immagini il punto d’incontro tra lo sguardo dello spettatore e l’anima della protagonista, quest’ultima segnalata da sequenze fuori fuoco e visioni extracorporee di matrice psicoanalitica. A dare volto e corpo ai pensieri dalla scrittrice francese l’intensità raccolta di una bravissima Melanie Thierry.
Carlo Cerofolini


sabato, gennaio 19, 2019

L'AGENZIA DEI BUGIARDI


L’Agenzia dei bugiardi
di Volfango De Biasi
con Giampaolo Morelli, Massimo Ghini, Alessandra Mastronardi, Paolo Ruffini, Carla Signoris, Herbert Ballerina, Diana Del Bufalo, Paolo Calabresi
Italia, 2019
genere, commedia
durata, 90’



“L'Agenzia dei Bugiardi”, film di Volfango De Biasi, ha come protagonisti il seduttivo Fred (Giampaolo Morelli), l'informatico Diego (Herbert Ballerina) e lo stagista narcolettico Paolo (Paolo Ruffini). La SOS Alibi è un’agenzia che fornisce alibi ai propri clienti secondo un refrain che recita "Meglio una bella bugia che una brutta verità." Ma le bugie hanno le gambe corte: per contrappasso Fred si innamora di Clio (Alessandra Mastronardi), estrema sostenitrice della sincerità e la situazione precipita quando Fred scopre che il padre di Clio (Massimo Ghini) è un suo cliente, che vuole nascondere alla moglie, Irene (Carla Signoris), il suo tradimento con Cinzia (Diana Del Bufalo). Proprio in una vacanza in cui si incontreranno tutti i protagonisti reggerà un alibi “perfetto” per ricomporre tutti i frammenti del puzzle caduti a terra?

Remake di un film francese campione di incassi nel 2017 titolato “Alibi.com”, L'Agenzia dei Bugiardi” ripropone il tema dei tradimenti e delle bugie per coprire gli stessi. A colpi di pochade si snoda la storia, tra gag e equivoci che strappano sorrisi nello spettatore. In linea con lo stile dei cinepanettoni, assistiamo a infedeltà multiple, stanze di hotel e andirivieni da una stanza all’altra con gente nascosta negli armadi e coincidenze mostruose. La piacioneria di Giampaolo Morelli e l’esperienza di Massimo Ghini, ci catapultano nel mondo della commedia all’italiana. Tentando di farci riflettere sui rapporti personali e la loro vera o presunta serietà. Peccato che nel finale tutto si concluda col solito classico cliché:  le “vittime” sono sempre le donne, mogli o fidanzate, mentre gli uomini sono i soliti traditori bugiardi, Peter Pan e stupidi. Ma che improvvisamente si pentono e  - non si sa come – si rinnamorano del loro partner. Un film che desidera solo collocarsi sui binari di un’ora e mezza di spensierata visione. Forse un po’ troppo semplicistica della realtà.
Michela Montanari

venerdì, gennaio 18, 2019

ATTENTI AL GORILLA


Attenti al gorilla
di Luca Miniero
con Frank Matano, Cristiana Capotondi, Claudio Bisio
Italia, 2018
genere: commedia
durata, 93’


Lorenzo è un avvocato matrimonialista che, dopo la separazione dalla moglie Emma, ha perso tutto: la custodia dei tre figli, la bella casa sulla Costiera amalfitana e lo studio prestigioso; perciò ora pratica nel retrobottega dell'estetista Concita. Dopo una gita allo zoo, l'avvocato decide di difendere i diritti di un gorilla che soffre le costrizioni della sua gabbia e il giudice, riconoscendogli lo status di "persona non umana", concede al primate il trasferimento in Africa. Tale trasferimento però dovrebbe essere a spese del difensore, e dunque lo squattrinato Lorenzo decide di tenersi il gorilla in casa, di nascosto dalle autorità e dalla ex moglie, nell'appartamento che condivide con l'amico mammone Jimmy.
Se questa premessa appare molto complicata e poco credibile, il resto di “Attenti al gorilla” non è da meno: anzi, aggiunge incessantemente implausibilità a frenetiche svolte narrative.
Da un lato la scarsa attinenza con la realtà dell'insieme è la parte positiva di questa commedia. Ma il troppo stroppia, e il cumulo di assurdità impilate senza sosta, porta a un finale che più che un crescendo comico diventa un guazzabuglio narrativo.
Tra i più adatti alla progressione lunare degli eventi sono i personaggi di Lillo Petrolo e Diana Del Bufalo, mentre ottimi attori come Francesco Scianna e Cristiana Capotondi rimangono incastrati nell’incoerenza dei loro personaggi. Frank Matano si muove all'interno di questo caos con caratteristica impermeabilità, mentre a Claudio Bisio, che dà la voce al gorilla protagonista, non viene concessa l'occasione di fare vera satira sul paragone fra uomini e animali: non basta infatti qualche timido accenno allo ius soli e all'accoglienza agli immigrati nel nostro Paese, per non parlare delle molestie sessuali, cui si fa riferimento in una battuta di pessimo gusto, per portare avanti una linea narrativa polemica davvero divertente.

I dialoghi restano così sempre al di qua della comicità tour court, come se ne avessero paura, e il risultato è che l’occasione offerta di raccontare gli umani attraverso lo sguardo critico e ironico di un primate che rappresenta un grado più avanzato nella scala evolutiva viene sprecata in funzione di un bisogno di compiacere un pubblico che, forse, si immagina troppo pigro per cogliere riferimenti alti.
Riccardo Supino

giovedì, gennaio 17, 2019

CITY OF LIES - L'ORA DELLA VERITÀ


City of Lies - L'ora della verità
di Brad Furman
con Johnny Depp e Forest Whitaker 
USA, 2018
poliziesco, biografico
durata, 112’


“Tupac Shakur e Notorious B.I.G. sono tornati!”.
È questo che si potrebbe pensare in principio dal trailer e dalle anticipazioni di “City of Lies”, il nuovo film del regista Brad Furman (l’ultima volta al cinema con il film “The Infiltrator” nel 2016) con Johnny Depp e Forest Whitaker.
Quello che si scopre però, una volta seduti sulle comode poltrone della propria sala preferita, è che la storia dei due rapper in realtà è solo la cornice: il quadro è un bel ritratto del detective Russel Pole (Johnny Depp…serve aggiungere altro?) – ovvero il poliziotto che seguì l’assassinio di Notorius – dipinto dalle “mediocri” mani del giornalista Darius Jackson (Forest Whitaker, vincitore dell’oscar come miglior attore nel 2006 con “L’ultimo re di Scozia”) alle prese con un’inchiesta giornalista da terminare.

Va detto subito che non bisogna considerare in maniera negativa la quasi marginalità lasciata a Tupac e Biggie Smalls nel racconto, anzi…la pellicola in realtà è la trasposizione cinematografica del libro “LAbyrinth” scritto da Randall Sullivan ed incentrato proprio sulla storia del detective in pensione ossessionato dal caso di Christopher Wallace che non è riuscito a concludere.
Mettendo per un secondo da parte quindi l’eterna faida da East Coast e West Coast e le accuse reciproche di cui si è parlato molto negli anni riguardo presunti tradimenti e complotti, il film è la ricostruzione degli ultimi mesi di vita del poliziotto Russel Pole. Partendo dalla visita inaspettata di un giornalista, il quale riaccende come una scintilla pazza l’ossessione di Pole, la storia viene sviluppata attraverso un racconto e diversi flashback: da un lato infatti c’è lui, il vero protagonista della storia che ripercorre i dubbi e le teorie sviluppati durante gli anni di indagini che hanno portato però (o hanno dovuto portare, il passo è breve) ad un nulla di fatto; dall’altro invece c’è Jackson, giornalista desideroso di scoprire la verità e di rifarsi dopo aver seguito una pista sbagliata per un suo pezzo riguardante proprio l’assassinio di B.I.G..

Caratterialmente i due sembrano somigliarsi molto: tenaci, testardi ed un po’ borderline con le regole e gli ordini dei propri superiori. Il detective è un fuoco di fascine che brucia avidamente consumando lentamente tutto l’ossigeno attorno; a volte sembra perdersi nel labirinto delle sue ossessioni, prima di mostrare la verità (o presunta tale) allo spettatore e di rivelarsi per il bravo investigatore che è stato.

Se da un lato però è da apprezzare il lasciar fuori tutta la teoria della faida fra coste, la pellicola è comunque forse troppo ricca di eventi e di rimandi ai due rapper, e quindi non proprio facilmente “digeribile” per un neofita della storia. Difficile poi valutare in maniera positiva la prova di Johnny Depp, il quale dà continuamente l’impressione di non essere a suo agio con la parte (è nota a tutti inoltre la denuncia ai suoi danni per aggressioni sul set che ha bloccato l'uscita in America per qualche settimana).
Un film comunque consigliato a tutti i nostalgici delle due leggende rap che possono così esaminare anche un altro punto di vista che forse prima non avevano mai considerato: quella della polizia.
Lorenzo Governatori


lunedì, gennaio 14, 2019

BENVENUTI A MARWEN

Benvenuti a Marwen
di RobRobert Zemeckis
con Steve Carell, Leslie Mann. 
USA, 2018
genere, biografico
durata, 116'


Tratto da una storia vera, il nuovo film di Robert Zemeckis, “Benvenuti a Marwen”, racconta la vita dell’artista e fotografo Mark Hogancamp, il quale, nel 2000, è stato aggredito da un gruppo di uomini che lo hanno sentito pronunciare, da ubriaco, che gli piaceva indossare delle scarpe da donna. Il pestaggio è stato così violento da ridurre Hogancamp in coma per più giorni, facendogli perdere la memoria, la capacità di camminare e anche di disegnare. Per far fronte a ciò, di cui non ha memoria, Mark si rifugia in una sorta di realtà parallela, creata attraverso delle bambole, alle quali fa vivere delle vere e proprie avventure che richiamano i fatti che gli sono realmente accaduti. Questa “realtà” si chiama Marwen, un villaggio fittizio nel quale si svolgono le varie avventure e disavventure di Hogie (alter ego dell’artista) insieme a delle donne, che altri non sono che le donne reali che ruotano intorno al protagonista, avendolo aiutato durante la terapia e che continuano, in qualche modo, ad aiutare. Marwen si rivela, però, essere bersaglio di vari nazisti che sembrano intenzionati a far fuori Hogie e chiunque gli sia particolarmente vicino.

La storia, un continuo alternarsi tra realtà e finzione, è rappresentata in maniera originale e sperimentale: Zemeckis ricorre, infatti, a performance capture e CGI (computer-generated imagery) per mostrare al pubblico tutto ciò che succede (più o meno realmente) a Marwen. Non è solo la mente dell’artista che crea le varie dinamiche tra i personaggi, ma anche lo spettatore si ritrova completamente immerso in questo viaggio straordinario, all’interno di quella che ha tutte le carte in regola per essere considerata una realtà parallela.

Ciò che emerge dal film di un regista che ha già optato per queste tecniche particolari e al quale piace mescolare caratteri, generi e quant’altro di sperimentale a tutti gli effetti (basti pensare a Forrest Gump, Chi ha incastrato Roger Rabbit?, Polar Express, etc) è un omaggio e una lode alla figura femminile. E’ la donna la vera eroina della storia, anzi di entrambe le storie. Nella vita reale, per trovare la forza di rialzarsi (non solo fisicamente), Mark ha bisogno di varie donne; allo stesso modo anche Hogie, senza il supporto delle sue donne, non potrebbe sopravvivere a Marwen.
Forse un po’ troppo pretenziosa l’idea di realizzare un film del genere facendo ricorso a questo tipo di sperimentazione che poteva essere omesso per concentrarsi solo ed esclusivamente sulle dinamiche che vedono coinvolto un bravo Steve Carell, nel ruolo di Hogancamp, e gli altri personaggi.
Nonostante ciò il risultato è più che soddisfacente perché pone il pubblico su due livelli diversi di visione e, quindi, su due modi uguali, ma distanti di guardare uno stesso soggetto.
Veronica Ranocchi