lunedì, marzo 30, 2020

DISNEY PLUS: FLOAT


Float
di Bobby Rubio
USA, 2019
genere: animazione
durata: 7’

Uno dei poteri più belli del cinema è quello di trasformare qualsiasi cosa. Con le nuove tecnologie questo aspetto è presente in molte opere, ma uno dei generi che può vantare il più ampio uso di questo fattore è, oltre alla fantascienza, sicuramente il cinema di animazione. Con i personaggi animati lo spettatore si immerge letteralmente in un altro mondo, un mondo in grado di raccontare qualsiasi cosa nel modo più magico possibile. Se da una parte questo è l’aspetto positivo, il risvolto della medaglia è sicuramente il fatto che molti sono portati a pensare e considerare il cinema d’animazione come qualcosa di unicamente riservato ai più piccoli. Ed è il grande errore che molti stanno cercando di arginare realizzando prodotti sempre più “complessi” per i bambini.
Un esempio sono i cortometraggi Disney Pixar, da poco disponibili sulla piattaforma Disney Plus.
Passandoli in rassegna ci si accorgerà della profondità che raccontano attraverso piccoli gesti e pochi minuti.
“Float”, ad esempio, è la storia di un bambino diverso e che, a causa di questa sua diversità, non viene accettato né dalla società né tantomeno dal padre che cerca, in ogni modo possibile, di nasconderlo perché sa che potrebbe provocare delle reazioni negli altri che andrebbero a turbare il figlio. La diversità del piccolo è quella di riuscire a volare, a fluttuare nell’aria. Il padre, visivamente provato da questa situazione, cerca con tutti i mezzi a disposizione, di mascherare ciò, utilizzando dei sassi che mette nello zaino del piccolo e tenendolo il più possibile fermo ed ancorato a terra. Quando, però, il bambino esausto di tutto questo decide di liberarsi, il padre pronuncia l’unica frase di tutto il corto, sufficiente a spiegare a tante cose: “perché non puoi essere normale?”.
Accettare questa diversità significa immedesimarsi con il piccolo protagonista, mettersi nei suoi panni e provare le stesse cose.
La curiosità è che la pellicola è un adattamento della vera storia di Bobby Rubio, regista e autore della Pixar, che ha voluto rappresentare e mostrare ad un pubblico sempre più ampio, la storia della sua vita e della sua famiglia, avendo un figlio autistico. Il potere, infatti, al quale si alludeva inizialmente è proprio questo: descrivere attraverso la magia e la fantasia qualcosa di serio, importante, in modo da farlo arrivare a più orecchie e occhi possibili. In questo caso la sfida è doppia, ma riesce nell’intento di stringere il cuore del pubblico che non può che commuoversi di fronte ai comportamenti di un padre verso il proprio figlio.
A livello di animazione, seppur ormai quasi impeccabile, la mano Pixar è fin troppo evidente con personaggi fisicamente caratterizzati come quelli di altre storie, facilmente accomunabili. E se da una parte questo può aiutare a empatizzare con personaggi buoni, già visti, dei quali ci si fida a prescindere, dall’altra si rischia forse di mescolare le cose.
Ma in un cortometraggio del genere si può chiudere un occhio e concedere anche questo.

Veronica Ranocchi

domenica, marzo 29, 2020

BOJACK HORSEMAN

BoJack Horseman
Viaggio al termine della disperazione: BoJack come ultima nota di un interminabile blues

di Rafael Bob-Waksberg
USA 2014/2020
stagione I/VI; ep. 77
durata, 25’/ep.
genere, animazione



"Non guardavano oltre la superficie [...]
ma in realtà era tutto superficie"



Tra le numerose inside del contemporaneo, come se già non ce ne fossero abbastanza, hanno trovato posto, e anche in prima fila, quelle discariche digitali altrimenti note come piattaforme streaming. In questi non-luoghi della morte, tra metaforici gabbiani schiattati di tifo e alluci mozzati di barboni, è ancora possibile, cercando bene e col naso tappato, rinvenire delle sorprese inaspettate, pietre così piccole ma così preziose da far pensare "come diavolo hanno fatto a finire lì ?". Tra queste è riuscita a emergere, apparentemente senza neanche troppo affanno, la serie animata che ha come protagonista il cavallo più psicopatico - depresso, narcisista, e sovraccarico di traumi infantili - del West.

Ambientata in una Hollywoo - nel corso della serie si scoprirà che a divellere la celebre D finale sia stato proprio BoJack - quasi totalmente popolata di personaggi zoomorfi, il protagonista è un attore in realtà pseudo depresso e alcolizzato arrivato al successo qualche decennio prima grazie a una sitcom chiamata "Horsin' Around" - per intendersi, una di quelle insopportabili celebrazioni del cretinismo americano tout court, fatta di applausi a comando e cascate di finti buoni sentimenti, in cui il nostro accoglie in casa sua tre orfanelli diventandone di fatto il padre adottivo - e ai tempi della narrazione completamente fossilizzato nel passato, tant'è che il suo unico tentativo di tornare alla ribalta scrivendo un'autobiografia appare goffo, insensato e difatti procrastinato all'illimite nonostante l'arrivo di Diane, ghostwriter incaricata di redarre le suddette memorie, personaggio che arriva quasi come mentore/salvatore del protagonista salvo poi lasciarsi andare anch'essa, seppur a suo modo, nel vortice della decadenza - per dire, vederla ingrassare infelice a Chicago dopo aver abbandonato LA non era propriamente una previsione considerabile nemmeno nella più funerea delle aspettative -. Insomma, il mito del grottesco mondo glamour americano che si disgrega su sé stesso non è altro che una scenografia di sfondo a storie di personaggi - anche quelli più estremamente comici e apparentemente sorretti dalla retorica idiota del think positive come Todd e Mr Peanutbutter - che altro non fanno se non mettere in scena, in maniera continuata e soprattutto necessaria, i propri drammi. 


Da non sottovalutare, poi, una certa tendenza a inserire sull'ipotetica linea retta della narrazione alcune puntate - si pensi a "Fish out of water”, stag. III, ep 4 - nelle quali BoJack non può parlare, bere, fumare [ovvero i tre modi in cui è abituato a comunicare davvero qualcosa] e, quando tenta di farlo tramite una lettera, l'inchiostro si dissolve irrimediabilmente nell'oceano prediligendo la via del nichilismo - dal sapore allucinatorio, enigmatico, fuori controllo, eppure talmente dense da creare una strana e inquietante empatia con l'inconscio di chi guarda.

Se è vero che di narcisisti patologici autodistruttivi ne è pieno il cosmo, BoJack è uno di quelli che ha la prospettiva privilegiata - il tetto, le stelle, il silenzio, Diane... - di scoprire/intravedere/ipotizzare che forse c'è davvero qualcosa sotto la superficie, che la consapevolezza della fine non è tutto ciò di cui abbiamo bisogno per sopravvivere e che il mondo, forse, non è soltanto un luogo dove morire.
Antonio Romagnoli


nota 1: la citazione iniziale è tratta da "Il Re pallido" di David Foster Wallace.
nota 2: l'autore dell'articolo si è ritrovato, in una situazione comica se non fosse assolutamente drammatica, a essersi reso conto di non aver scritto una riga del suddetto articolo per circa tre giorni dalla commissione dello stesso, situazione inquietantemente simile a quella del primo episodio della serie.


sabato, marzo 28, 2020

LILLI E IL VAGABONDO


Lilli e il vagabondo
di Charlie Bean
USA, 2019
genere: sentimentale, commedia, musicale
durata: 104'

Il live action di “Lilli e il vagabondo” è sicuramente uno dei prodotti originali più attesi dal momento dell’annuncio della nuovissima piattaforma di streaming del grande colosso di cinema d’animazione e non solo. Adesso con Disney + basta un solo click per scegliere tra i tantissimi prodotti, dai grandi classici ai cortometraggi, dai documentari agli eroi Marvel, e rivivere le stesse emozioni che si erano vissute da bambini.
Tra gli “originali” spicca un ritorno agli albori proprio con una nuova riproposizione del classico d’animazione degli anni ’50 che vede protagonista il mondo canino.
La storia è quella che tutti conosciamo: Lilli è una cagnolina, una cocker spaniel americana, che viene adottata da una giovane coppia in occasione del Natale. Le giornate passano velocemente finché i padroni non cominciano ad apparire più scostanti e meno interessati alla piccola. Il motivo è semplice: la donna è in dolce attesa e la coppia dovrà presto occuparsi del loro primogenito, il quale necessiterà naturalmente di maggiori attenzioni. La povera Lilli, sentendosi sperduta e rifiutata, cerca di capire il motivo e di farsi comunque benvolere a suo modo, ma l’arrivo della zia della giovane coppia che dovrà badare alla cagnolina scombussolerà ancora di più la tranquilla quotidianità della protagonista. A seguito dell’imposizione di un’inutile museruola, perché ritenuta pericolosa, Lilli si deciderà a scappare, ma non sapendo niente della vita di strada, si troverà a dover chiedere aiuto ad un vagabondo, il furbo schnauzer randagio Biagio che la accompagnerà in giro e le farà vivere tutta una serie di avventure completamente nuove per la cagnolina, abituata solo e soltanto alla vita domestica. Durante il rientro a casa, però, qualcosa andrà storto e i due dovranno fare affidamento l’uno sull’altra per evitare il pericolo più grande per un cane: il canile.
Un remake in live action che soddisfa il pubblico, ma solo a metà.
Rivivere l’avventura di questi due cagnolini innamorati fa sempre battere il cuore, anche a distanza di 60 e più anni, ma la continua insistenza nel voler riportare alla luce tutti i grandi classici in questa versione convince sempre meno. Soprattutto se si tratta, come in questo caso, di andare a mescolare attori in carne ed ossa con animali che, a differenza del live action de “Il re leone”, non sono realizzati in CGI, ma sono reali. Purtroppo, nonostante gli animali siano in carne ed ossa, appare forzata la decisione di farli parlare tra loro, decisione alla quale era forse preferibile una modalità diversa, magari una comunicazione sotto forma di pensieri e resa in maniera più naturale.
Trattandosi comunque di un remake e, quindi, di qualcosa che poteva andare a modificare l’originale, la storia si è mantenuta sullo stesso filone e quasi le stesse tematiche, naturalmente attualizzate ai giorni nostri e rese più naturali e verosimili rispetto a quelle del classico d’animazione.
Per ovvie ragioni i personaggi umani appaiono molto più frequentemente rispetto al film degli anni ’50, ma, nonostante tutto, non rubano la scena ai veri protagonisti: gli animali.
Anche la rappresentazione dei cani è quasi del tutto fedele all’originale con qualche modifica non troppo funzionale alla narrazione. Un esempio sono i due cani vicini di casa della protagonista Lilli, un po’ snaturati dal loro ruolo originario, ai quali resta solo (e nemmeno completamente) il compito di portare un po’ di comicità alla storia.
Un film che, in conclusione, risulta un prodotto alla ricerca di un target di pubblico non troppo elevato, con non troppe pretese, realizzato con il principale scopo di lanciare la nuova piattaforma streaming. Una scelta giusta? Sarà il tempo a darci una risposta.

Veronica Ranocchi
(recensione pubblicata su taxidrivers.it)

venerdì, marzo 27, 2020

INVISIBILI: ZAMA

Zama
di Lucrecia Martel
con, Daniel Giménez Cacho, Matheus Nachtergaele, Juan Minujìn, Lola Dueñas, Daniel Veronese
Argentina, Spagna, Francia, Olanda, USA 2017
genere, storico, drammatico 
durata, 115’


Niente è più lungo di queste claudicanti giornate
quando sotto il fioccare delle nevose annate
la noia, frutto del tetro disinteresse, prende
le proporzioni dell’immortalità
- C.Baudelaire -



Ciò che la Tecnica e la sua bombola di ossigeno, il Capitale, non hanno mai compreso, pur non facendo altro che rivendicare il raziocinio dei propri presupposti, è che - come ha invece sottolineato Bacone, uno dei padri del pensiero scientifico, in Cogitata et visa de interpretazione Naturae (1605) - la Natura, non nisi parendo, vincitur/La Natura può essere vinta solo obbedendole. Conseguenza di tale cecità sperimenta su di sé, in un blando ma reiterato esercizio di insipienza nel caso elevato a precetto di espansione coloniale in un momento imprecisato del secolo XVIII, Don Diego de Zama/Giménez Cacho, funzionario anziano dell’amministrazione dei territori spagnoli d’oltremare (qui, il Paraguay), nonché consigliere del locale Governatore/Veronese, allorquando in un sussulto fin troppo protrattosi di mal sopportazione chiede sia inoltrata al Re, ossia all’altro capo del mondo, una richiesta di immediato trasferimento presso la città di Lerma in modo da riunirsi alla famiglia di origine. Trasferimento che non si concretizzerà mai (sortendo, per contro, un macchinoso trasloco da una residenza fatiscente a un’altra sulle note di Amapola), tra incomprensibili attendismi, pastoie burocratiche, sostanziale menefreghismo di un’intera struttura piramidale circoscritta e miniaturizzata nel cuore di possedimenti sperduti tra immensi e più o meno lussureggianti avamposti la cui millenaria e all’apparenza immota dedizione alla ciclicità di usi e costumi tribali svuota e inghiotte ogni piano di assoggettamento, di suo prepotenza meramente materialista che la placida saggezza Guaranì inchioda a un aforisma più contundente di qualunque ipotesi di ribellione esplicita: “Egli è un dio che è nato vecchio e che non può morire. La sua solitudine è atroce”.


La parabola tutto sommato mai davvero abietta ma solo - e peggio - impotente e vacua di Zama riflette, da subito e senza variazioni, nello squallore rassegnato di una dominazione priva persino dei suoi paramenti esteriori, quindi della sua specificità simbolica - guarnigione, dirigenti, i vari scabini della pletora delle scartoffie e degli inventari, tanto flemmatici quanto murcidi, le maestranze dell’aristocrazia parassitaria (il sussiego indolente di Doña Luciana Piñares de Luenga/Dueñas risulta inscalfibile a contatto con le stranezze del Nuovo Mondo, figurarsi di fronte alle goffe avances del rigido Zama, tra l’altro impegnato quasi suo malgrado con una donna del posto che lo tratta con materna noncuranza), il Governatore stesso, deperiscono rassegnati nell’oppressione del caldo umido (in quel paludismo così congeniale ai pruriti di onnipotenza occidentali: … schiacciati dall’ebetudine e dalla gastrite, continuavano a fermentare borbottando nel sonno. Spossati, abbacchiati, parevano tutti ora, ufficiali, funzionari e appaltatori, bitorzoluti, panciuti, olivastri, mischiati, press’a poco identici - L.-F. Céline, “Voyage au bout de la nuit” -); nei rituali di classe resi grotteschi dalle scomodità; nella beffarda indifferenza degli autoctoni che in loro vedono più una fiacca congrega di bislacchi personaggi che l’arroganza e la durezza del padrone; nella trasandatezza di vesti e uniformi sporchi e/o logori; nel sudiciume e nell’abbandono della promiscuità più dilagante (uomini e bestie - cavalli, lama, capre, galline, et. - frequentano contemporaneamente quasi tutti gli stessi ambienti deputati alla convivenza) - l’assunto idiota e miserabile, oltreché predatorio, di una presunzione, quella dell’accumulazione monetaria, basata sulla meccanica sovrapposizione di una idea della realtà - deterministica, tecnicistica, utilitaristica - sulla carne viva di un mondo - al contrario antistorico, empatico, magico - il cui senso attinge vigore dai nessi fisici e metaforici che da sempre legano in un’interrelazione inesausta gli enti, non certo dal calcolo, utilizzo e redistribuzione (tra pochi) dei frutti degli stessi. In tal modo Martel, sulla scorta del romanzo di Antonio Di Benedetto da cui il film trae ispirazione, radicalizza, collocando la manìa civilizzatrice in una sorta di limbo fuori dal tempo (alimentando cioè su di essa il sospetto dell’incombere perenne di un destino fallimentare anziché la speranza di un coerente progetto culturale), talune intuizioni espresse addirittura nel suo esordio, “La cienéga” (2001), col misurato e riflessivo linguaggio del quale, non bastasse il titolo a confermarlo, osservava discreta ma impietosa l’abulia e l’avvilimento che, come apparecchiati da una muta necessità, svelano prima e sgretolano poi una delle istituzioni cardine dell’ordine borghese: la famiglia. Se invero Zama, “l’energico, il responsabile, il pacificatore degli Indios, colui che fece giustizia senza usare la spada”, gira a vuoto, un tentativo infruttuoso dopo l’altro, nello sforzo di correggere l’inerzia della Cultura che gli appartiene autoproclamatasi unico strumento di interpretazione - e sottomissione - dell’ordo rerum (“Ah, se esistesse davvero qualcosa di portentoso !”, si lascia sfuggire il Governatore, in un empito tra sventatezza e languore) con i suoi stessi mezzi, nel senso del ricorso procedurale per via gerarchica (quando, per dire, con medesime nulle possibilità di successo ma di certo maggior coraggio, un altro campione del pensiero unico, l’Aguirre di Herzog, percorre fino in fondo il sentiero della follia e del sangue), ecco che il silenzio che riceve in risposta, in forma di dilazione derisoria o ingranaggio capzioso del potere, di fatto si fonde pacifico al respiro originario, quieto e impassibile, proprio di quel mondo considerato tale solo per l’ipotetico profitto che è in grado di produrre. Così l’autrice attraverso Zama, i suoi sguardi perduti in un lucore (naturale) opaco e appiccicoso (gli occhi avviliti da un disgusto tanto profondo quanto anestetizzato dai codici di casta di Giménez Cacho valgono, soli, la visione), il suo sfinito rigore, il suo progressivo prendere coscienza della propria irrilevanza in un disegno che trascende senza sforzo le terre, i tesori e la gloria, getta nella palude del dibattito tra Natura e Cultura una pietra che impiega il suo tempo ad affondare, irta com’è di protuberanze che non possono essere sbozzate.

Cristallizzando altresì sulla figura di un guerriero-burocrate incapace di adattarsi a un sistema di regole diverso dal proprio in primis perché immune, questo, per costituzione, dalle presunte inesorabilità della Storia - il sempiterno equivoco tra sviluppo progresso, ad esempio; la mai sopita tentazione imperialista in ognuna delle sue tante forme: le rispettive catastrofi (umane, morali, ambientali) giunte poi a compimento come narrato, di recente, dal duo Guerra/Gallego nel loro Oro verde (2018) o, con accenti ancor più pessimisti, se possibile, da Eduardo Williams in “El auge del humano” (2016) - la fragile essenza di schematismo intellettuale egoista quanto incline all’autoassoluzione di un Pensiero abituato a imporsi a qualunque costo, Martel suggerisce anche, in controluce, il carattere sostanzialmente illusorio e platealmente nichilista dell’ossessione per antonomasia, quella per la ricchezza, al punto radicata da riuscire allo stesso tempo a incarnarsi in una figura sfuggente e ostile (la spedizione allestita per catturare il famigerato predone Vicuña Porto/Nachtergaele, elemento catalizzante di tutte le tensioni interne al piccolo regno, si risolve in un patetico disastro) quanto in una chimera irraggiungibile forse perché addirittura inesistente (Vicuña, al dunque e senza scomporsi, afferma di essere non il bandito ricercato ma il Soldado Gaspar Toledo), oltre il quale paradosso non ci può essere che l’abbrutimento e la crudeltà del contrappasso (a Zama, proprio dai sodali di Vicuña-Toledo, vengono amputate entrambe le mani, emblema primo dell’autorità e dell’appropriazione).

“Vuoi vivere ?”, chiede calmo, infine, un ragazzino guaranì/Caronte improvvisato trasportando le spoglie di Zama lungo un rio ingombro di vegetazione. Non c’è risposta. Ormai vivere non è più possibile.
TFK


martedì, marzo 24, 2020

L'ULTIMA ORA


L’ultima ora
di Sébastien Marnier
con Laurent Lafitte, Emmanuelle Bercot, Grégory Montel
Francia, 2018
genere: thriller
durata: 103’

Presentato alla 75esima edizione del festival del cinema di Venezia, “L’ultima ora” di Sébastien Marnier è un vero e proprio thriller, camuffato attraverso un “tranquillo” film con adolescenti protagonisti.
Pierre Hoffman è un quarantenne professore di francese che si ritrova ad essere il supplente nella classe del professor Capadis che si suicida, gettandosi dalla finestra davanti ai suoi stessi alunni. Prendere, quindi, in mano una classe del genere non sarà affatto semplice. Se a questo fatto ci viene sommato anche il carattere tutt’altro che collaborativo dei 12 alunni della classe, in particolare di 6 di loro, ecco spiegato il perché delle continue paranoie e dei continui interrogativi del professor Hoffman. Seguendoli costantemente senza lasciarsi fregare dalle apparenze, dall’eccessiva perfezione e presunzione di quelli che vengono da tutti decantati come gli alunni per eccellenza, e indagando, in qualche modo, il protagonista verrà inevitabilmente coinvolto in qualcosa di più grande di lui.
Fin da subito lo spettatore, accompagnando il professore, si trova invischiato in questo mistero che capisce essere troppo grande. Sia il pubblico che Pierre Hoffman si ritrovano, fin dalle prime battute, a dubitare di questi alunni troppo perfetti in tutto, tanto da destare giustamente sospetti.
La chiave dell’intero film non è tanto il cercare di capire ciò che i ragazzi stanno progettando, ma cercare di capirne il motivo e andare ad indagare su di loro, sviscerando ogni loro singolo comportamento o atteggiamento. Quello che cercano di trasmettere agli altri è una paura esagerata del futuro e di ciò che esso porterà con sé. Nessuno sembra riuscire a stare dietro alle loro macchinazioni, o meglio nessuno sembra interessarsene perché ciò che conviene di più è rimanerne all’oscuro. Tutti tranne il professor Hoffman che, forse proprio per il suo ruolo di precario, vede il mondo, la realtà e il futuro in un modo diverso, non si arrende e cerca di scavare fino in fondo per arrivare il prima possibile a una soluzione.
Molto bravi i giovani interpreti che riescono a trasmettere questo senso di alienazione dalla realtà in maniera convincente, nonostante a volte risultino forse un po’ troppo forzate le loro decisioni e i loro atteggiamenti. Così facendo sembrano quasi estraniarsi ed emergere da un mondo fantoccio dove nessuno ha il coraggio di prendere in mano le redini della situazione, ma anzi ognuno preferisce lavarsene le mani perché ciò che succede senza coinvolgerli direttamente non li preoccupa minimamente.
Una sorta di preannuncio di ciò che oggi vuole dirci Greta Thunbergh, icona di un mondo che dovrebbe comportarsi in maniera diversa?

Veronica Ranocchi

sabato, marzo 21, 2020

HIGH FLYING BIRD


High Flying Bird
di Steven Soderbergh
con Andrè Holland. Zazie Beets
USA, 2019
genere, drammatico, sportivo
durata, 90'


Alla pari dei suoi personaggi il cinema di Steven Soderbergh tende a spiazzare chi lo guarda, confondendolo con visioni narrative spesso fuorvianti rispetto alle reali intenzioni del regista. Senza aspettare “Ocean Eleven” con cui il nostro è venuto allo scoperto, facendo della simulazione artistica il mezzo per fare soldi e spettacolo, prima di iniziare a parlare di “High Flying Bird” conviene ritornare alle origini per cercare di fissare le fondamenta a cui Soderbergh non ha mai rinunciato. “Sesso, bugie e videotape” è in questo senso il lungometraggio fondante della poetica del nostro, proponendo almeno tre caratteristiche intrecciate tra loro e destinate a permanere pur all’interno di un dispositivo dedito al cambiamento e alla sperimentazione. Parliamo dell’uso del fuori campo, utilizzato da Soderbergh sia in chiave narrativa e/o concettuale (nello specifico per materializzare le difficoltà sessuali del protagonista e il fatto che la visione delle registrazioni filmate lo sono a suo uso esclusivo); di quello delle parole, paradossalmente usate come surrogato della visione (lasciata fuori campo) in un cinema abituato continuamente a ragionare sul come e cosa vedere, e infine della tecnologia, di cui il regista è sublime sperimentatore e che nel film in questione preconizzava la morte delle relazioni umane a favore di rapporti sempre più virtuali. 


“High Flying Bird” distribuito su Netflix nel 2019 non sfugge alla regola, presentandosi (anche lui) sotto mentite spoglie, ovvero come  il più classico dei film di genere, con poster allusivo e giocatori in carne e ossa pronti a raccontare come sopravvivere nel salto che li ha condotti nel mono del professionismo. In realtà - e qui sta la prima anomalia - “High Flying Bird” non è un lungometraggio sportivo bensì sullo sport intenso nei meccanismi economici, istituzionali e soprattutto corporativi che ne pilotano lo spettacolo. Il protagonista, Ray Burke (Andrè Holland, protagonista di The Eddy, prossima miniserie diretta da Damien Chazelle), è per l’appunto l’agente di una grossa agenzia di management che nel pieno della sospensione del campionato NBA (la storia fa riferimento al  lockout del 2009/2010) cerca il modo di contrastare le offerte degli avversari che approfittano della situazione per rubargli i clienti e in particolare  il rookie Eric Scott, ansioso di monetizzare i crediti della propria bravura. Dunque come il sesso in “Sesso, bugie e videotape” anche il basket di “High Flying Bird” rimane esterno al quadro, invisibile all’occhio dello spettatore. Come avrà modo di vedere lo spettatore infatti sarà ancora una volta il fuori campo a farla da padrona, sia in termini concettuali, perché il film ruota attorno a un gioco che non c’è, per essere stato sospeso a causa del mancato accordo tra giocatori e federazione, sia perché come succede nel cinema di Soderbergh, quanto meno a partire dalla trilogia di Jimmy Ocean,  anche Ray come i suoi predecessore è un fine affabulatore e utilizza le parole per sviare gli interlocutori dal suo piano segreto, quello destinato a sparigliare le carte e a capovolgere la situazione, indirizzandola a suo favore.



D’altronde in quello che sostanzialmente è un film da camera, girato pressoché in interni e con movimenti di macchina utili a rompere la staticità percettiva e dare l’illusione del movimento, a essere indicativo è la costruzione della sequenza iniziale, In apparenza virtuosistica, nella fluidità con cui il percorso compiuto da una donna che sta portando una busta al protagonista collega quest'ultimo alla soggettiva di una veduta newyorkese, il piano sequenza segnala fin da subito l’esistenza di un doppio fondo narrativo.  Se Ray è un passo in avanti rispetto agli altri perché riuscendo a essere sempre dentro il problema (a dirlo è Myra, potente boss della lega giocatori), il riflusso  repentino dall’esterno verso l’interno unito al contrasto di luce tra  l’ombra del corridoio attraverso cui si snoda il percorso e la luce  della sala da pranzo dove esso termina la dice lunga su come “High Flying Bird” sia un film costruito sui fatti della cronaca (il lockout del 2009 e le sue conseguenze) come pure sulla finzione di un film che ci porta nella testa del personaggio e nel piano che esso sta per escogitare.

Peraltro la centralità di Ray non è solo data dalla capacità del personaggio di costruirne in senso classico la trama, ovverosia di esserne il motore che la manda avanti. Se a scontrarsi nel corso della vicenda sono le due facce della stessa medaglia, ovverosia l’amore per il gioco e quello per il denaro, Burke è l’ago fra bilancia, colui in cui lo tenzone si ricompone. Oltre a essere uno dei migliori agenti in circolazione, capace di mettere d’accordo agonismo e mediazione, Ray non ha dimenticato le proprie origini, avendo il basket nel sangue per averlo praticato sulle strade di New Tork e in maniera drammatica nelle vicissitudini del cugino, cestista suicida per eccesso di sensibilità. Se poi non bastasse a confermare quanto detto sta il twist finale, quello in cui scopriamo che la presunta Bibbia regalata da Ray a Eric altro non è che “La rivolta dell’atleta nero” di Harry Edwards, il testo che nel pieno delle lotte per i diritti civili costituì una sorta di vademecum per attuare anche nello sport forme di protesta organizzate. Tanto per dire che nulla è come sembra e che “High Flying Bird” - non a caso scritto da  Tarell Alvin McCraney, sceneggiatore (premio Oscar) di “Moonlighting” - è anche un film sulla coscienza di un’intera comunità e un monito per evitare nuove forme di schiavitù, in questo caso nei confronti del Dio denaro. A fronte della sua scommessa produttiva (come  “Unsane” anche questo è girato  con un iPhone 8) “High Flying Bird” appartiene con pieno merito alla tradizione cinematografica del suo prolifico cineasta.   
Carlo Cerofolini
(pubblicato su ondacinema.it)

giovedì, marzo 19, 2020

IL SUO ULTIMO DESIDERIO



Il suo ultimo desiderio
di Dee Rees
con Anne Hathway, Willem Dafoe, Ben Affleck
USA, 2020
genere: drammatico, thriller
durata: 115’

“Il suo ultimo desiderio”, film targato Netflix della regista Dee Rees, è tratto dall’omonimo romanzo di Joan Didion.
Elena McMahon è una giornalista, precisamente una reporter di guerra, che lavora al Washington Post per reportage investigativi su traffici di armi e droga nell’America del centro e del sud. La storia è ambientata negli anni ’80, sotto la presidenza di Reagan (come ci viene ricordato più volte durante il film). Dopo diversi anni in cui Elena ha lavorato in prima linea per smascherare traffici illeciti di armi e droga, la donna viene allontanata e confinata ad occuparsi della campagna elettorale.
Tutto sembra filare liscio finché il padre della protagonista, Richard McMahon, non si fa vivo e chiede un favore alla figlia. Questi è un affarista nel commercio illegale di armi nell’America centrale e deve chiudere un affare che ha per le mani e che lo porterebbe ad ottenere molti soldi. Purtroppo a causa di una malattia che lo affligge non può occuparsi e dedicarsi con tutte le sue forze a questo e, quindi, chiede ad Elena di prendere il suo posto. La giovane, dopo aver accettato, si troverà invischiata in una storia di intrighi, molto simile ad una di quelle che ha tentato di combattere e contrastare per tutta la vita.
La storia, che sembra promettere bene e destare particolare interesse nello spettatore, appare, invece, fin dai primi minuti molto caotica e mal gestita.
Nonostante un cast brillante e stellare, il film sembra non riuscire mai ad emergere veramente.
Probabilmente la colpa maggiore è di una sceneggiatura che non funziona, ma anzi crea anche dei momenti di completa confusione in chi guarda che rischia di perdersi più volte nel continuo succedersi di eventi senza né capo né coda.
Anne Hathaway è la protagonista indiscussa della pellicola che, spogliata di tutto, cerca di rendere giustizia ad un personaggio che si trova, però, spesso a compiere scelte sbagliate e talvolta completamente assurde. Nonostante questo l’attrice cerca di inserire all’interno di Elena qualcosa di suo, in modo da renderla perlomeno credibile. Stessa cosa non si può dire per gli altri due personaggi, quelli interpretati da Ben Affleck, che risulta molto in ombra, e di Willem Dafoe, nei panni del padre, che viene forse un po’ più approfondito, ma non abbastanza da permettere di comprendere determinate scelte e decisioni.
Peccato perché sia la storia che gli interpreti avrebbero potuto regalare qualcosa di più di un film destinato ad essere dimenticato molto presto.


Veronica Ranocchi

INVISIBILI: THE HOST/GWOEMUL

The host/Gwoemul
di, Bong Joon-ho
con, Byeon Hie-bong, Song Kang-ho, Park Hae-il, Bae Doona.
Sud Corea/Giappone 2006
genere, fantascienza, orrore, drammatico
durata,120'



Corea. Oggi. Cosa c'è di più rilassante che spendere qualche ora nei pressi dell'ampio estuario attrezzato del fiume Han(gang) per un pic-nic, una passeggiata, un po' di sport, una corsa in bici ? Già. “Ehi, ma cos’è quella cosa grossa e scura che penzola dall'arcata del ponte ?"

Si apre più o meno così, su una frattura a spezzare un tipico quadretto di svago familiare "The host", terza fatica di Bong Joon-ho (notevole il successo in patria e in diversi Festival in giro per il mondo), dopo l'interessante esordio "Barking dogs never bite" (2000) e la lusinghiera risonanza ottenuta dalla riscoperta di "Memories of murder" (2003). Lo spunto fantascientifico-ecologico - il super mostro è una sorta di creatura lovecraftiana partorita dal combinato disposto incestuoso tra scienza demente e sciatta (un’azienda si disfa di panciuti bottiglioni di formaldeide disperdendoli negli scarichi pubblici) e Natura che, giunta ben oltre il limite di sopportazione, reagisce da par suo - consente al cineasta coreano di allestire una (sontuosa) produzione con numerosi e rocamboleschi interludi spettacolari (basterebbe la prima apparizione dell'ibrido/xenomorfo per fare un sol boccone di buona parte del routinario carrozzone dell'intrattenimento hollywoodiano) e, al tempo, sviluppare e approfondire quella sua peculiare vena in costante e tutt'altro che scontato equilibrio all’interno dei generi più vari, tra insolito e ordinario, malinconia e sarcasmo, con punte di puro grottesco. E rallentamenti lirici e incoerenti, aperture alla rivendicazione sociale, al rimbrotto, alla notazione polemica in apparenza fuori sesto, al malanimo personale e alla nostalgia, così come a un sofferto e disarmonico slancio verso l’altro. Tutto intessuto e restituito dalla parte dei cosiddetti ultimi, a dire dei genericamente disadattati e buoni a nulla - dipsomani, teneri underdogs, introversi, movimentisti e apocalittici da bar - in realtà magari solo strambi e un tanto goffi, eppure animati da una tenacia (pari solo al curioso amalgama costituito in parti variabili da ingenuità e spiccia scaltrezza) che li permea e li persuade della necessità di darsi una mano e soprattutto di non arrendersi (c'è una ragazzina e quindi il mondo da salvare), slancio comune che alla fine li spinge là dove Autorità e Scienza sbattono il grugno e falliscono.

Intriso di una sua impalpabile quanto febbrile follia interna, proteso verso la composizione degli attriti ma mai consolatorio, disseminato di grumi di una poesia surreale dai toni semi fiabeschi e dai colori e le pose vicini a Chagall - estro, questo, non lamentoso o ricattatorio, anzi, in modo sfuggente tanto quanto evocativo presago della caducità e della sofferenza che alligna in qualunque forma di equilibrio, anche quello con maggior fatica e perdita ristabilito - Gwoemul guarda divertito ma cauto a un mondo che ignaro/attonito/tracotante, avviluppato in una gigantesca forclusione da lui stesso secreta, produce e dissipa anticorpi (l'improrogabilità di riannodare legami umani autentici; un rinnovato rapporto con l'ambiente: in generale, un altro modo di intendere e vivere la basilare relazione che connette il paesaggio fisico a quello interiore), moniti (le anticipazioni orwelliane; le visioni di Huxley, al pari di quelle organizzate nell'inestricabile penombra tra Storia/ricostruzione/finzione di Pynchon e di De Lillo; quelle della letteratura cyberpunk, del fumetto speculativo e di tanti cineasti che da angolature diverse si trovano già con-un-occhio-nel-futuro: Gilliam, Cronenberg, Besson, Scott, Miyazaki, solo per dirne alcuni) e non fa quasi altro che flirtare - ma per quanto ancora ? - con la propria autodistruzione.
TFK


mercoledì, marzo 18, 2020

NEW YORK, L'UNICA CITTA' DOVE SI PUO' STARE: IL CINEMA DEI FRATELLI SAFDIE

Prendete la New York di Woody Allen, classica, ordinata, composta, poi filmatela solo dopo averla messo a soqquadro, quando ancora il suo tessuto urbano è in preda all’improvvisa baraonda. La Grande Mela dei fratelli Safdie è proprio così, una versione Acid punk di quella rappresentata nei film del cineasta newyorkese. Come quest’ultimo i due autori la tagliano in lungo e in largo ma a differenza del predecessore lo fanno attraverso percorsi sporchi e rischiosi e in maniera ossessiva, restando sempre in movimento, sulla strada in mezzo alla gente, quasi a voler affermare un senso di appartenenza testimoniato dal fatto che i protagonisti di Good Time, Uncut  Gems come pure Heaven Knows What non sono migliori ma uguali a coloro da cui si sottraggono. Se New York e la sua gente ne alimentano da sempre l’ispirazione allora quello dei fratelli Safdie è un cinema della restituzione e dell’essere comunità, nonostante tutto. In questo senso il mezzo sorriso sulla faccia di Adam Sandler in quello che è l’ultimo fotogramma della sua mostruosa interpretazione non è la legittimazione di un lutto ma il capovolgimento di un concetto: la tragedia dura l’attimo di uno sparo perché a restare è l’assoluto di Howard Ratner, felice di essere per sempre li, nell’unica città dove si può stare.
Carlo Cerofolini

martedì, marzo 17, 2020

LOST GIRLS


Lost Girls
di Liz Garbus
con Amy Ryan, Thomasin McKanzie, Gabriel Byrne
USA, 2020
genere, drammatico, thriller
durata, 95 


Molti ricorderanno il caso dei femminicidi di Ciudad Juárez, località messicana dove qualche anno fa furono scoperti i resti di oltre trecento donne, uccise in circostanze misteriose e per motivi slegati dalla guerra tra bande per il controllo del mercato della droga. Oltre all'assenza di un mandante, il comune denominatore degli omicidi fu la giovane età delle donne e il movente attribuito ad aggressioni a sfondo sessuale. Fatte le debite distanze, ma restando nell’ambito della cronaca nera,  “Lost Girls” di Liz Garbus ripropone su scala ridotta lo stesso scenario, raccontando la storia vera di Mari Gilbert (una ottima Amy Ryan), impegnata a fare luce sulla scomparsa della figlia Shannen, resasi irreperibile nello stesso luogo, una piccola cittadina dello stato di New York, in cui poco dopo vengono ritrovati i cadaveri di altre giovani prostitute.

Forte di una letteratura cinematografica che della narrazione incentrata sulla figura del serial killer ha creato uno dei generi più trasversali possibili, frequentato tanto dal cinema commerciale quanto da quello più autoriale, Liz Garbus compie un'operazione che si pone esattamente nel mezzo dei due modelli. Considerato che “Lost Girls” segnava il debutto al lungometraggio di finzione dopo i precedenti nel documentario che nel 1998 avevano fruttato alla Garbus una nomination all’Oscar per “The Farm: Angola, USA”,  c’era da verificare in che modo la propensione per il reale avrebbe fatto i conti con il voyeurismo insito nella materia e con la necessità di un thriller come “Lost Girls” di rispettare le leggi dello spettacolo, dettate, nella fattispecie, dalla necessità di rilanciare la tensione attraverso la moltiplicazione di dubbi, violenza e depistaggi.In questo senso la regista riesce a trovare un compromesso che le consente da un lato la riconoscibilità del prodotto, utile a venire incontro alle aspettative degli appassionati, dall’altro di rispettare le persone coinvolte nella storia, quelle che nella realtà sono state vittime dei fatti raccontati, rimanendo sui binari di una normalità che espone i fatti senza enfatizzarli attraverso immagini a effetto (uccisioni e corpo del reato rimangono doverosamente fuori campo). In questo corrispondendo alla  necessità del distributore - leggasi Netflix - di un’offerta che ne rispetti le ambizioni pluralistiche e perciò tale da non “offendere” la sensibilità degli abbonati. In questa maniera a farla da padrone nell’indagine svolta parallelamente dalla madre coraggio e dagli agenti di polizia - capitanati da un Gabriel Byrne a cui spetta il compito di rappresentare l’impotenza di non riuscire a dipanare il mistero nascosto dietro la terribile tragedia - non sono le azioni messe in campo - poche e mal organizzate - ma la cinetica dei sentimenti che scaturisce dai meccanismi di causa-effetto scatenati dalla volontà dei familiari di non arrendersi all’evidenza dei fatti.


Detto che della partita entrano a far parte in almeno due situazioni inserti tratti dai telegiornali d’epoca, utili sopratutto a confermare che quella tratta dal romanzo omonimo del giornalista investigativo Robert Koke non è una sceneggiatura frutto della fantasia degli autori, “Lost Girls” si sviluppa su una tessitura visivo/ concettuale ispirata al modello del primo “True Detective”. Senza raggiungere le stesse vette filosofiche (la protagonista del nostro film appartiene all’America degli umiliati e offesi) il film della Garbus ne ritrova le corrispondenze, facendo dei cieli plumbei e della desolazione paesaggistica tracciata da inquietanti panoramiche il riflesso dei fantasmi che agitano l’animo dei protagonisti. Nessuno dei quali, e qui risiede una delle scelte più forti del film, ha nulla da nascondere, impegnati come sono a testimoniare la cognizione del dolore e l’ineluttabile destino delle sorti umane, come sempre divise tra vittime e carnefici. Buone le prove degli attori scelti con lungimiranza in chiave antidivistica: della Ryan, ancora una volta (dopo “Baby Gone Baby”) alle prese con il personaggio di una madre destinata a perdere la figlia e, in termini di militanza e scorrettezza politica, debitrice della Mildred Hayes di “Tre manifesti a Ebbing, Missouri", e della “figlia” Thomasin Mckenzie da poco apprezzata  in “Jo Jo Rabbit”.Rispetto ad altri presenti nella medesima piattaforma, “Lost Girls” è un prodotto a suo modo rigoroso e apprezzabile per la capacità di rimanere con i piedi per terra. 
Carlo Cerofolini
(ondacinema.it)

lunedì, marzo 16, 2020

I AM NOT OKAY WITH THIS


I am not okay with this
ideata da: Jonathan Entwistle, Christy Hall
con Sophia Lillis, Wyatt Oleff, Sofia Bryant
USA, 2020
genere: commedia drammatica, dramma adolescenziale
Stagione: 1
Episodi: 1-7
durata: 19-28 minuti

Ennesima serie teen targata Netflix è “I am not okay with this”. Sette episodi di 20 minuti circa ciascuno che permettono allo spettatore di immergersi completamente in una storia molto particolare, venendo catapultati in un passato non troppo lontano insieme a dei personaggi bizzarri, ma, purtroppo o per fortuna, già visti.
Sydney Novak è una diciassettenne fuori dal comune, come tutte le classiche protagoniste di storie del genere, con una famiglia tutta particolare che meriterebbe (e forse meriterà con una seconda stagione?) un maggiore approfondimento. Il padre morto suicida nel seminterrato, la madre che, per far fronte alle spese e alle necessità dei due figli, lavora giorno e notte trascurando sia Syd che Liam che devono arrangiarsi da soli e quest’ultimo, il fratellino più piccolo, che cerca, per quanto possibile, di ricucire il legame sempre più compromesso tra la sorella e la madre.
Non che le cose fuori da casa vadano meglio per l’adolescente protagonista, presentata fin dalla prima immagine completamente ricoperta di sangue mentre vaga da sola per la città, perché, la sua migliore amica Dina, trasferitasi insieme a lei, ha iniziato a frequentare Bradley Lewis, uno dei ragazzi più popolari della scuola, che, oltre alla sua arroganza, nasconde qualcosa. Sembra che l’unico spiraglio nella vita della giovanissima sia Stanley Barber, il suo vicino di casa un po’ strambo, ma molto buono. I due cominciano a frequentarsi come amici finché il ragazzo non viene accidentalmente a conoscenza del grande segreto che Sydney porta con sé e che non vuole rivelare a nessuno: quello di possedere poteri magici che nemmeno lei riesce a controllare, ma che si scatenano principalmente in momenti di rabbia. In tutto questo c’è un altro segreto che la ragazza nasconde e tenta di camuffare uscendo con Stanley: è, in realtà, innamorata di Dina.
Il regista di un’altra serie targata Netflix, “The end of the fu***ing world” e i produttori della serie di successo “Stranger things” si sono uniti per realizzare questo prodotto che sembra, infatti, essere la fusione perfetta di questi due mondi.
Il personaggio di Syd, in particolare, è esattamente l’insieme delle caratteristiche di Undici, protagonista di “Stranger things”, e Alyssa, protagonista di “The end of the fuc***ing world”, la prima per i poteri sovrannaturali e la seconda per l’attitudine, il carattere, il comportamento e i modi di fare e di relazionarsi con gli altri.
Sa, quindi, purtroppo di già visto, anche se la serie resta comunque godibile, data anche la breve durata. Tra i lati positivi c’è sicuramente l’ottimo lavoro fatto da parte degli attori e la buona scrittura del personaggio di Stanley, forse la vera chiave dell’intera storia. E’ il solo e unico personaggio che riesce ad avere più sfaccettature e a portare, oltre alle risate, anche una sorta di equilibrio all’intera vicenda. Rappresenta la costante della narrazione ed è colui che, più di ogni altro, merita un approfondimento.
Il ritmo, che potrebbe essere un aiuto significativo, appare lento e sembra che la storia non riesca mai a decollare veramente. Infatti non c’è una reale suspense dall’inizio alla fine, ma solo un chiedersi come si susseguiranno effettivamente gli eventi. Il punto più alto e significativo, nell’ultimo episodio, fa rimanere lo spettatore con una serie di interrogativi che verranno risolti, con molta probabilità, in una seconda stagione, ancora non confermata. Dovremo, quindi, attendere prima di sapere se potremo rivedere sullo schermo Syd, Stan, Dina e tutti gli altri.

Veronica Ranocchi

INVISIBILI: THE NIGHT IS SHORT. WALK ON, GIRL

The night is short. Walk on, girl
di, Yuasa Masaaki
genere, animazione
Giappone, 2017 
durata, 93’



I embrace my desire to
I embrace my desire to…
- Tool -


L’amore e la fantasia, tra le possibili, hanno di certo una duplice e ben relata caratteristica in comune: quella di essere imprevedibili nonché dotati di un singolare senso dell’umorismo. Assegnare a queste prerogative una consona forma di espressione è stato da sempre, per l’Arte, uno dei grattacapi più tenaci. Basterebbe riflettere sulle componenti estetiche, emotive e contenutistiche da contemplare e bilanciare in una eventuale rappresentazione, per rendersi conto del cimento che tale intenzione implica. Come che sia, talvolta capita - e non poche di queste (rare) volte chiamano in causa il regno dell’animazione - che la chimica dei sopraddetti elementi produca qualcosa di, allo stesso tempo, difficilmente catalogabile e piacevolmente sorprendente. Tipo questo “The night is short. Walk on, girl” di Yuasa - anno 2017 - sollecitato dallo spunto di coniugare nel modo più vitale possibile un determinato aspetto del repertorio amoroso (ossia la declinazione idealista-rètro di una liaison nascente ma contrastata all’interno dell’universo giovanile) e l’apparato fantastico (a dire: le trovate, l’intreccio dei codici e delle forme visuali, i grimaldelli narrativi e psicologici) scelto per conferirgli credibilità, spessore e capacità di coinvolgimento.

Il cuore del film pulsa in sincrono alla suggestione tante volte rinnovata dal Cinema di condensare gli attimi dirimenti di un’esistenza, i suoi incanti irripetibili, le sue scoperte inattese, entro l’arco temporale di una notte, quando le promesse mortificate dall’inesorabile determinismo del giorno sembrano irrorarsi dell’opzione ulteriore offerta dall’ambiguità consustanziale del buio - le silhouette incerte dei corpi, le proporzioni sfuggenti degli oggetti, il sapore diverso delle situazioni, et. - Al passo di siffatto intendimento ben presto si allinea la giovane protagonista, chiamata solo la ragazza dai capelli corvini (chissà Houellebecq…), gentile e determinata, appassionata e curiosa, in bilico caratteriale tra l’impertinenza accorta dell’Alice di Carroll e la dolcezza stupita della Kiki miyazakiana, più di tutto persuasa a godersi appieno l’interludio (che per lei addirittura dilata i suoi limiti abituali: “La tua presenza sembra aver allungato la notte, in qualche modo”, le viene detto a mo’ della constatazione di un’ovvietà), anzi decisa a - letteralmente - berselo, passando da un cocktail a un calice di vino, da un assaggio fortuito a una libazione esclusiva, da un gotto al volo a un boccale di birra, spensierata eppure vigile, all’inseguimento di una pienezza di cui la progressione alcolica e il moto perpetuo - walk on, girl - non sono che le più esplicite epitomi. Contraltare e ipotetico complemento è l’universitario denominato semplicemente col termine generico e consuetudinario, per l’intercalare nipponico, di Senpai, occhialuto, magro e dinoccolato Romeo, sempre sul ciglio del baratro di un crollo nervoso perché incapace di dichiararsi e quindi perfetto per non trovare di meglio che piazzarsi sovente tra i piedi della teorica Giulietta millantando le imperscrutabili alchimie del caso votate, a suo dire, a propiziare i loro incontri.

Riassunta in questo modo e per sommi capi, la vicenda non si discosta molto dalla lunghissima tradizione che assegna alla ronde sotto le stelle fatta di ripetuti intralci, intersezioni mancate di un soffio, piccoli e grandi equivoci, falsi movimenti, dettagli significativi di cui però al momento non si coglie la valenza, fisiologiche goffaggini e ritrosie, una delle chiavi di accesso al forziere di Eros. Il tenore cambia, portandosi dietro i mille andirivieni della storia - tra cui sodali ironici inclini al dandysmo, prepuberi divinità dispettose, circoli di arzilli vecchietti, studentesche rappresentazioni teatrali all’aperto e despoti matusalemme induriti dalla solitudine forzata - se si pone l’accento sulle inesauste varianze e fratture di stile imposte da Yuasa all’opera. Ciò a cui ci è dato di assistere, infatti è, né più né meno, che un caleidoscopio lisergico accompagnato/sostenuto da altrettanti numeri musicali e da dialoghi a tambur battente entro il quale il circolare perdersi/ritrovarsi dei due potenziali innamorati diviene quasi sfondo pronto in ogni istante a lasciare spazio alla materializzazione cangiante e vorticosa di ciò che il loro slancio ancora rattrappito nell’aleatorietà e nella diversione mette via via in moto a contatto con un mondo che, calato il sole, non intende più nascondere quel lato di sé che interroga l’immaginazione e il desiderio. Lo schermo si trasforma così e per davvero in un luogo senza confini vieppiù alleggerito da un tono in prevalenza divertito e possibilista, dove poco o nulla contano gli schematismi della logica, i rigori esatti della fisica, la crudeltà dello scorrere del tempo, gli steccati culturali e gli imbonimenti morali. L’autore giapponese, magari con meno irruenza oltranzista di un altro suo riuscitissimo scherzo - “Mind game” - 2004 - ma con simile se non maggiore libertà espressiva e genuina grazia, tanto nello svolgimento del tema principale che nell’impostazione degli intrecci secondari (entrambi accomunati da una frizzante e contagiosa inerzia - di per sé merce rara in un oggi dominato dal buon senso cinico e dal raziocinio retrogrado - in grado di lasciar trasparire qua e là bagliori di sincera fiducia e financo un cauto ottimismo nei confronti delle sorti dell’avventura umana), punta comunque a disfare il tessuto logoro delle convenzioni e delle aspettative - figurative, intime, dottrinali - tipiche di tanta animazione contemporanea, tentando la via della composizione di un arabesco-per-immagini che sotto l’egida del sentimento e della fantasia emette vibrazioni tali da far risuonare nella realtà (in chi guarda) l’eco di sensazioni perdute e/o dimenticate.

In tale dimensione appaiono congrue e naturali, allora, scelte artistiche e di procedura di primo acchito stravaganti ma, al contrario e per certi aspetti, sul serio più affini alle peripezie formali di certe avanguardie (gli accostamenti cromatici non ortodossi; le posture strambe o esagerate; un certo gusto per la solidità espansa dell’acquerello o per la stilizzazione assertiva dell’affiche, et.) che ai canoni consueti di buona parte, nel caso, degli anime. Dunque: perentori stacchi di tinta, improvvisi cambi di prospettiva, rapporti di grandezza sfalsati di un ètte eppure in equilibrio, contorsioni impossibili che scimmiottano maliziosamente le mimiche parossistiche delle creature di Avery. Ed esplosioni sonore, languidi momenti morti (parentesi durante le quali forse si coglie nella sua quintessenza la sorridente ribalderia del romanticismo-contro-tutto del regista), circonvoluzioni di linee che ammiccano ai calligrammi e ai reticoli di parole di Apollinaire (“Des lacs versicolores/dans les glaciers solaires”), precipizi grafici, contrappunti, dilatazioni e ritorni degni dei ricami percussivi di Danny Carey. E slogature, incompletezze, frammentazioni, zampilli e dispettose emulsioni di colore, impazienze di tratteggio, sgargianti approssimazioni. Quelli e questi armonizzati da una fenomenale attitudine compositiva utile a temperarne le rispettive asprezze. In altre parole, non resta margine per l’intentato. E, a pensarci, non può che essere così, se ciò che conta è che la ragazza dai capelli corvini e il suo Senpai scoprano insieme cosa c’è dopo la notte.
TFK