venerdì, marzo 27, 2020

INVISIBILI: ZAMA

Zama
di Lucrecia Martel
con, Daniel Giménez Cacho, Matheus Nachtergaele, Juan Minujìn, Lola Dueñas, Daniel Veronese
Argentina, Spagna, Francia, Olanda, USA 2017
genere, storico, drammatico 
durata, 115’


Niente è più lungo di queste claudicanti giornate
quando sotto il fioccare delle nevose annate
la noia, frutto del tetro disinteresse, prende
le proporzioni dell’immortalità
- C.Baudelaire -



Ciò che la Tecnica e la sua bombola di ossigeno, il Capitale, non hanno mai compreso, pur non facendo altro che rivendicare il raziocinio dei propri presupposti, è che - come ha invece sottolineato Bacone, uno dei padri del pensiero scientifico, in Cogitata et visa de interpretazione Naturae (1605) - la Natura, non nisi parendo, vincitur/La Natura può essere vinta solo obbedendole. Conseguenza di tale cecità sperimenta su di sé, in un blando ma reiterato esercizio di insipienza nel caso elevato a precetto di espansione coloniale in un momento imprecisato del secolo XVIII, Don Diego de Zama/Giménez Cacho, funzionario anziano dell’amministrazione dei territori spagnoli d’oltremare (qui, il Paraguay), nonché consigliere del locale Governatore/Veronese, allorquando in un sussulto fin troppo protrattosi di mal sopportazione chiede sia inoltrata al Re, ossia all’altro capo del mondo, una richiesta di immediato trasferimento presso la città di Lerma in modo da riunirsi alla famiglia di origine. Trasferimento che non si concretizzerà mai (sortendo, per contro, un macchinoso trasloco da una residenza fatiscente a un’altra sulle note di Amapola), tra incomprensibili attendismi, pastoie burocratiche, sostanziale menefreghismo di un’intera struttura piramidale circoscritta e miniaturizzata nel cuore di possedimenti sperduti tra immensi e più o meno lussureggianti avamposti la cui millenaria e all’apparenza immota dedizione alla ciclicità di usi e costumi tribali svuota e inghiotte ogni piano di assoggettamento, di suo prepotenza meramente materialista che la placida saggezza Guaranì inchioda a un aforisma più contundente di qualunque ipotesi di ribellione esplicita: “Egli è un dio che è nato vecchio e che non può morire. La sua solitudine è atroce”.


La parabola tutto sommato mai davvero abietta ma solo - e peggio - impotente e vacua di Zama riflette, da subito e senza variazioni, nello squallore rassegnato di una dominazione priva persino dei suoi paramenti esteriori, quindi della sua specificità simbolica - guarnigione, dirigenti, i vari scabini della pletora delle scartoffie e degli inventari, tanto flemmatici quanto murcidi, le maestranze dell’aristocrazia parassitaria (il sussiego indolente di Doña Luciana Piñares de Luenga/Dueñas risulta inscalfibile a contatto con le stranezze del Nuovo Mondo, figurarsi di fronte alle goffe avances del rigido Zama, tra l’altro impegnato quasi suo malgrado con una donna del posto che lo tratta con materna noncuranza), il Governatore stesso, deperiscono rassegnati nell’oppressione del caldo umido (in quel paludismo così congeniale ai pruriti di onnipotenza occidentali: … schiacciati dall’ebetudine e dalla gastrite, continuavano a fermentare borbottando nel sonno. Spossati, abbacchiati, parevano tutti ora, ufficiali, funzionari e appaltatori, bitorzoluti, panciuti, olivastri, mischiati, press’a poco identici - L.-F. Céline, “Voyage au bout de la nuit” -); nei rituali di classe resi grotteschi dalle scomodità; nella beffarda indifferenza degli autoctoni che in loro vedono più una fiacca congrega di bislacchi personaggi che l’arroganza e la durezza del padrone; nella trasandatezza di vesti e uniformi sporchi e/o logori; nel sudiciume e nell’abbandono della promiscuità più dilagante (uomini e bestie - cavalli, lama, capre, galline, et. - frequentano contemporaneamente quasi tutti gli stessi ambienti deputati alla convivenza) - l’assunto idiota e miserabile, oltreché predatorio, di una presunzione, quella dell’accumulazione monetaria, basata sulla meccanica sovrapposizione di una idea della realtà - deterministica, tecnicistica, utilitaristica - sulla carne viva di un mondo - al contrario antistorico, empatico, magico - il cui senso attinge vigore dai nessi fisici e metaforici che da sempre legano in un’interrelazione inesausta gli enti, non certo dal calcolo, utilizzo e redistribuzione (tra pochi) dei frutti degli stessi. In tal modo Martel, sulla scorta del romanzo di Antonio Di Benedetto da cui il film trae ispirazione, radicalizza, collocando la manìa civilizzatrice in una sorta di limbo fuori dal tempo (alimentando cioè su di essa il sospetto dell’incombere perenne di un destino fallimentare anziché la speranza di un coerente progetto culturale), talune intuizioni espresse addirittura nel suo esordio, “La cienéga” (2001), col misurato e riflessivo linguaggio del quale, non bastasse il titolo a confermarlo, osservava discreta ma impietosa l’abulia e l’avvilimento che, come apparecchiati da una muta necessità, svelano prima e sgretolano poi una delle istituzioni cardine dell’ordine borghese: la famiglia. Se invero Zama, “l’energico, il responsabile, il pacificatore degli Indios, colui che fece giustizia senza usare la spada”, gira a vuoto, un tentativo infruttuoso dopo l’altro, nello sforzo di correggere l’inerzia della Cultura che gli appartiene autoproclamatasi unico strumento di interpretazione - e sottomissione - dell’ordo rerum (“Ah, se esistesse davvero qualcosa di portentoso !”, si lascia sfuggire il Governatore, in un empito tra sventatezza e languore) con i suoi stessi mezzi, nel senso del ricorso procedurale per via gerarchica (quando, per dire, con medesime nulle possibilità di successo ma di certo maggior coraggio, un altro campione del pensiero unico, l’Aguirre di Herzog, percorre fino in fondo il sentiero della follia e del sangue), ecco che il silenzio che riceve in risposta, in forma di dilazione derisoria o ingranaggio capzioso del potere, di fatto si fonde pacifico al respiro originario, quieto e impassibile, proprio di quel mondo considerato tale solo per l’ipotetico profitto che è in grado di produrre. Così l’autrice attraverso Zama, i suoi sguardi perduti in un lucore (naturale) opaco e appiccicoso (gli occhi avviliti da un disgusto tanto profondo quanto anestetizzato dai codici di casta di Giménez Cacho valgono, soli, la visione), il suo sfinito rigore, il suo progressivo prendere coscienza della propria irrilevanza in un disegno che trascende senza sforzo le terre, i tesori e la gloria, getta nella palude del dibattito tra Natura e Cultura una pietra che impiega il suo tempo ad affondare, irta com’è di protuberanze che non possono essere sbozzate.

Cristallizzando altresì sulla figura di un guerriero-burocrate incapace di adattarsi a un sistema di regole diverso dal proprio in primis perché immune, questo, per costituzione, dalle presunte inesorabilità della Storia - il sempiterno equivoco tra sviluppo progresso, ad esempio; la mai sopita tentazione imperialista in ognuna delle sue tante forme: le rispettive catastrofi (umane, morali, ambientali) giunte poi a compimento come narrato, di recente, dal duo Guerra/Gallego nel loro Oro verde (2018) o, con accenti ancor più pessimisti, se possibile, da Eduardo Williams in “El auge del humano” (2016) - la fragile essenza di schematismo intellettuale egoista quanto incline all’autoassoluzione di un Pensiero abituato a imporsi a qualunque costo, Martel suggerisce anche, in controluce, il carattere sostanzialmente illusorio e platealmente nichilista dell’ossessione per antonomasia, quella per la ricchezza, al punto radicata da riuscire allo stesso tempo a incarnarsi in una figura sfuggente e ostile (la spedizione allestita per catturare il famigerato predone Vicuña Porto/Nachtergaele, elemento catalizzante di tutte le tensioni interne al piccolo regno, si risolve in un patetico disastro) quanto in una chimera irraggiungibile forse perché addirittura inesistente (Vicuña, al dunque e senza scomporsi, afferma di essere non il bandito ricercato ma il Soldado Gaspar Toledo), oltre il quale paradosso non ci può essere che l’abbrutimento e la crudeltà del contrappasso (a Zama, proprio dai sodali di Vicuña-Toledo, vengono amputate entrambe le mani, emblema primo dell’autorità e dell’appropriazione).

“Vuoi vivere ?”, chiede calmo, infine, un ragazzino guaranì/Caronte improvvisato trasportando le spoglie di Zama lungo un rio ingombro di vegetazione. Non c’è risposta. Ormai vivere non è più possibile.
TFK


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