giovedì, febbraio 27, 2025

IL SEME DEL FICO SACRO

Il seme del fico sacro

di Mohammad Rasoulof

con Misagh Zare, Soheila Golestani, Mahsa Rostami, Setareh Maleki

Iran, Germania, Francia, 2024

genere: drammatico

durata: 168’

Indubbiamente attuale nella sua potenza e potente nella sua attualità. Il seme del fico sacro, ultima fatica del regista Mohammad Rasoulof, realizzato senza il benestare del governo iraniano, arriva nelle sale per cercare di insidiare gli altri candidati alla corsa al miglior film internazionale agli imminenti Oscar.

Fin da subito carico di tensione, il lungometraggio, seguendo una famiglia composta da padre, madre e due figlie adolescenti, ha fin da subito il compito non semplice di far comprendere allo spettatore la situazione attuale nella quale versa l’Iran.

Subito dopo la definizione necessaria a comprendere la potenza del film, che spiega cosa sia il fico sacro e come cresca stritolando chi lo circonda, la prima immagine è quella di sette proiettili che vengono posti su un tavolo, a indicare la ferocia e la crudeltà alla quale assisteremo in quanto spettatori inermi. Anche la mano subito a seguire, appartenente al protagonista a noi ancora sconosciuto, che, non fidandosi, utilizza una propria penna per firmare, sembra essere il presagio di quello che si svilupperà nel corso della vicenda.

            La famiglia deve sempre rimanere la vostra priorità.

Sottolinea, quasi ossessivamente, la madre alle figlie che sembrano voler uscire dai binari ben delimitati dello Stato e della dottrina di quest’ultimo.

Perché al centro della storia c’è Iman e la sua famiglia. Lui, apparentemente un uomo comune, ha da poco ottenuto un’importante promozione a lavoro: adesso è un giudice istruttore presso il tribunale rivoluzionario di Teheran nel momento in cui questa istituzione si trova costretta a respingere una pesante ondata di proteste popolari, soprattutto a seguito della morte di Mahsa Amini (ed è qui che realtà e finzione vanno a congiungersi). Ad aspettare Iman a casa ci sono le due figlie, Rezvan e Sana, entrambe studentesse e sostenitrici delle proteste, e la moglie Najmeh, che, invece, cerca di fungere da trait d’union tra le due fazioni. L’apparente equilibrio casalingo viene, però, irrimediabilmente distrutto nel momento in cui la pistola d’ordinanza di Iman, concessagli, così come a tutti gli altri giudici istruttori, per difendersi in caso di problemi, scompare.

Un percorso lineare quello che porta Iman a trasformarsi completamente da vittima a carnefice di un sistema che sta troppo stretto a tutti. Percorso che lo porta a omologarsi a una società rotta dall’interno trasformandolo nell’ennesima marionetta esemplificata dai cartonati che occupano il corridoio del tribunale nel quale si reca tutti i giorni. Inizialmente delle piccole ombre che si intravedono nel buio di un percorso a ostacoli che lo porterà a compiere scelte tutt’altro che semplici, poi le stesse si trasformano in statue imponenti, quasi con sembianze umane, che lo catturano all’interno di una realtà nella quale si ribaltano tutte le certezze.

            Tu non lo saprai mai. Ci sei dentro, ci credi troppo.

Le parole delle giovani, eppure ben più consapevoli, Rezvan e Sana, suonano come rimproveri agli occhi dei genitori, ma sono la fotografia reale e perfetta di un paese (e un uomo) in balia di se stesso. Completamente assuefatto dal nuovo incarico, Iman non riesce più a distinguere la realtà dalla finzione, il giusto dallo sbagliato. Se all’inizio prova a interrogarsi e mettersi nei panni di persone che, con una sua semplice firma, sono condannati a morte, col passare del tempo tutto diventa normale, un meccanismo automatico e automatizzato che non gli permette più di aprire gli occhi e vedere realmente quello che lo circonda (situazione che verrà messa in pratica concretamente a discapito delle reali vittime del sistema). Convincendosi di vivere nel giusto e che le proteste siano nate da episodi assurdi, cerca di ricreare ciò che gli viene imposto a lavoro all’interno della propria casa e della propria famiglia, mettendo a dura prova sia le figlie che, col tempo, anche la moglie. Diventano, infatti, inutili i tentativi di quest’ultima di arginare le sue manie e di cercare sempre un compromesso tra il marito e le figlie. Comportandosi, apparentemente, allo stesso modo con entrambe le parti, Najmeh cerca di mantenere un equilibrio, reso cinematograficamente in maniera efficace da due scene diametralmente opposte, ma raffigurate come se fossero identiche perché la sua volontà in quei momenti sembra essere la medesima: quando si prende cura della giovane amica di Rezvan, colpita e ferita gravemente al volto durante delle proteste in università, e quando taglia i capelli e fa la barba al marito. Entrambi sfocati, entrambi senza parole, ma con la musica come accompagnamento ed entrambi con la figura della madre di famiglia come unica possibilità di trovare un compromesso tra il bene e il male.

Allo stesso modo ci sono tanti altri parallelismi, dalla cecità metaforica del padre a quella reale di alcuni personaggi (l’amica sfregiata, ma anche le altre protagoniste costrette a un interrogatorio crudele e violento nel suo silenzio e nella sua modalità), dalla pistola, simbolo di costrizione e motivo scatenante di dissapori e disaccordi, che fa da contraltare a una libertà tanto agognata e bramata da poter essere solo sfiorata, come lo smalto sulle unghie o il sogno dei capelli azzurri.

Con un’ultima parte molto più concitata e a tinte quasi da thriller, Il seme del fico sacro si trasforma completamente e diventa esso stesso un mezzo per lottare. Perché è vero che la vittima si trasforma in carnefice e ci mostra il lato negativo di un’esistenza votata a una certa causa, ma lo stesso carnefice si ritrova ingabbiato in qualcosa di più grande di lui. Non è un caso che Rasoulof inquadri quasi sempre Iman attraverso degli ostacoli posti tra lui e il pubblico, siano essi sbarre, vetri, finestrini o altro ancora, a differenza delle figlie che, seppur circoscritte all’interno delle mura di casa, private dei contatti con l’esterno, ridotti a delle comunicazioni telegrafiche tramite social media, sono molto più libere e centrali, tanto da riuscire a sostenere a distanza le proteste del paese.

Una grande matrioska destinata, forse, a rimpicciolirsi (e stringersi) sempre di più.


Veronica Ranocchi 

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