sabato, marzo 31, 2018

PETIT PAYSAN


Petit Paysan -Un eroe singolare

di Hubert Charuel,
con Hubert Charuel, Sara Giraudea, India Hair
Francia, Belgio 2018
genere, drammatico
durata, 84'

Tra le qualità del cinema francese c’è n’è una alquanto rara, di quelle che fanno la differenza quando si tratta di accaparrarsi i favori dello spettatore. Stiamo parlando della capacità di trasformare la complessità del reale in materia da romanzo e di saperla filmare attraverso le forme del cinema di genere. Prova ne siano, tanto per fare un esempio, i titoli dedicati al tema della disabilità - su tutti “Quasi amici” -  in grado di suscitare discussioni e dibattiti intorno alla questione senza venir meno al compito di divertire lo spettatore. Un istanza, quella di intrattenere e far riflettere, rintracciabile nell’esordio di Hubert Charuel, il quale, in Petit Paysan rievoca gli eventi legati alla diffusione della cosiddetta sindrome della mucca pazza attraverso le vicende di Pierre, produttore di latte che una volta scoperta la malattia di una delle sue mucche cerca di sottrarsi al controllo delle autorità sanitarie. 

Nel descrivere il modus operandi del protagonista il film si trasforma un poco alla volta in una sorta di thriller esistenziale dove la tensione è alimentata non solo dall’attesa di scoprire se gli espedienti messi in campo da Pierre andranno a buon fine, ma anche dal carattere ossessivo del giovanotto, propenso a rapportarsi con il proprio lavoro e soprattutto con i pacifici bovini come se questi fossero parte della sua famiglia, più importanti - e il film lo dimostra nelle sequenze in cui lo vediamo preferirli agli amici e alla ragazza - degli esseri umani con cui lo stesso viene a contatto. 

In questo senso Petit Paysan è un film ossessivo e persino disturbante se non fosse che il regista riesce a mantenere i toni in bilico tra il ridicolo e la tragedia, come accade nella scena in cui il protagonista e i genitori leggono preoccupati i risultati della analisi del sangue e solo alla fine scopriamo che i valori scritti nel referto non sono riferiti a uno di loro ma, ancora una volta, all’oggetto del desiderio dell’ineffabile protagonista. Singolare e istruttivo, il film di Charuel sembra fatto apposta per contraddire il detto “Il lavoro nobilita l’uomo”: nel caso di Petit Paysan finisce per distruggerlo. 
Carlo Cerofolini


mercoledì, marzo 28, 2018

READY PLAYER ONE


Ready Player One
di Steven Spielberg
con Tye Sheridan, Olivia Cooke, Ben Mendhelson
USA, 2018
genere, fantascienza, avventura
durata, 140'


Si dice che il primo amore non si scorda mai. Steven Spielberg così fa da un po' di tempo a questa parte, da quando, diventato adulto, ha iniziato a fare i conti con la realtà attraverso film agganciati ai fatti della grande Storia. Schindler’s List, Munich e ancora Lincoln e The Post non hanno impedito al papa di ET di continuare a frequentare luoghi e personaggi più spensierati e spettacolari come lo sono quelli di “Ready Player One”. Basato sull’omonimo best seller di Ernest Cline, il film racconta le avventure di Wade Wyatts, adolescente che al pari degli altri reagisce alle frustrazioni del mondo reale rifugiandosi nell’universo virtuale rappresentato da OASIS, nel quale, grazie all’opportunità di usufruire di   Avatar ciascuno può essere chi vuole e partecipare alla caccia al tesoro che permetterà al vincitore di diventare ricco assumendo il controllo del gioco. 

Considerato che per centrare l’obiettivo i concorrenti devono passare attraverso la conquista di tre chiavi, ognuna della quali rappresentative di un segmento di percorso costellato da trappole e pericoli sempre maggiori mano a mano che ci si avvicina al traguardo, va da sé che “Ready Player One” abbia poco da offrire sotto il profilo narrativo. Diversamente, sul piano visivo e su quello citazionista il film di Spielberg sembra intenzionato a stabilire nuovi record, tanti sono i rimandi e i riferimenti alla cultura pop dei nostri anni contenuti all’interno di OASIS. 


Strutturato come un gigantesco IPOD, “Ready Player One” funziona allo stesso modo del citato lettore, nel senso che lo spettatore può fare idealmente una selezione delle immagini come pure dei singoli filoni narrativi senza che l’esclusione degli uni e degli altri gli precluda di gustarsi appieno i risultati del prodotto. In questa sede sarebbe inutile elencare artisti, personaggi e opere (musicali, cinematografiche e fumettistiche) che trovano occasione per comparire anche solo un attimo nella biblioteca spielbergiana. 
Ciò che invece preme dire è che, fatte salve le dovute differenze, l’importanza di Ready Player One è destinato a travalica il cinema per diventare un archivio visivo in grado di contenere e catalogare un campione piuttosto esemplificativo della cultura dei nostri tempi, un po' come lo sono libri come Controcorrente di Joris Karl Huysmans e Bouvard e Pécuchet di Gustave Flaubert, esempi di cultura archeologica che acquista valore sopratutto in prospettiva per il suo valore testimoniale rispetto all’epoca di riferimento. Di certo non sfugge la riflessione del regista sul rapporto tra uomo e tecnica e sulla possibilità di influenzarsi reciprocamente, così come è palese il tentativo di Spielberg di aggiornare in maniera radicale il proprio dispositivo, adeguandolo ai gusti e alle possibilità del cinema contemporaneo. Si può rimanere affascinati da  una simile operazione, oppure rimpiangere l’ingenuità poetica dei tempi d’oro, quella in cui il regista riusciva ad arrivare anche ai cuori dei suoi detrattori. Per questo motivo crediamo che gli spettatori più nostalgici troveranno la bellezza di “Ready Player One” troppo perfetta per essere anche appassionante.
Carlo Cerofolini

INSYRIATED


Insyriated
di  Phillippe Van Leeuw
con Hiam Abbass, Diamand Bou Abboud, Juliette Navis
Belgio, Francia, 2017
genere, drammatico
durata, 85'


Non è la prima volta che il cinema racconta la guerra al di fuori dei luoghi deputati al suo normale svolgimento, facendola rivivere lontano dal campo di battaglia,  attraverso l’esistenza di chi ne subisce le indirette conseguenze. Allo stesso tempo esiste più di un titolo in cui i fantasmi di questa tragedia derivano in parte dalla dialettica che si instaura tra la concentrazione dello spazio in cui si muovono i personaggi e le suggestioni create da ciò che rimane fuori campo. A questo proposito, a parte “Private” di Saverio Costanzo, opera destinata a fare epoca per scelte stilistiche e peculiarità produttive, vale la pena di citare i lavori dell’israeliano Samuel Maoz e, in particolare Foxtrot, appena uscito nelle sale italiane ed esempio di cinema che sa raccontare la guerra attraverso continue astrazioni narrative. Rispetto al modello appena citato, “Insyrated" risulta un lavoro più tradizionale, articolato su   inattaccabili linearità spazio temporali e forte di una messinscena di interni che non diventano mai qualcos’altro - per esempio l’inconscio dei protagonisti o la metafora della loro condizione - e che sono destinati a rimanere tali anche quando gli incubi della morte entrano di prepotenza nella vita delle donne in attesa del ritorno a casa dei loro mariti. 

Giunto all’opera seconda il direttore della fotografia Phillippe Van Leeuw dimostra di sapere controllare lo spazio scenico e di sapervi muovere le figure che lo attraversano, ma la sorpresa sta altrove: per esempio nella capacità di procedere per sineddoche, facendo del conflitto che si sviluppa tra le donne del nucleo famigliare  il prototipo in scala minore di quello in corso per le strade del paese. Così. alla stregua di quanto è successo nel territorio siriano dove da un giorno all’altro le comunità locali si sono ritrovate una contro l’altra armate, così Insyriated ci mostra come l’alterazione degli equilibri famigliari, l’ansia e la paura riescano a disintegrare il sodalizio delle protagoniste, le quali, sole e indifese contro un nemico invisibile, reagiscono prendendosela con chi gli sta accanto. Aiutate da dialoghi tanto efficaci quanto essenziali a essere determinate per la riuscita del film sono la performance delle attrici, con una menzione particolare per  Hiam Abbass, vera e propria icona del cinema mediorientale (La sposa siriana, L’albero di limoni) e per la new entry Diamand Bou Abboud, già apprezzata ne L’insulto. 
Carlo Cerofolini


martedì, marzo 27, 2018

FIXEUR


Fixeur
di Adrian Sitaru
con Sorin Cocis, Andrei Gajzago, Tudor Istodor, Mehdi Nebbou
Romania 2018
genere, drammatico
durata, 98'



Girato nello stesso anno (il 2016) di Illegittimo, il secondo dei lungometraggi di Adrian Sitaru, Fixeur, in uscita questo mese nelle sale italiane, consente agli appassionati di farsi un’idea più precisa sull’arte cinematografica del regista, il quale, pur nel realismo dello sguardo che ne caratterizza l’approccio alla contemporaneità rumena, dimostra anche questa volta di non limitarsi alla semplice osservazione dei fatti, trasformando il documento della sua ricerca in un potente strumento drammaturgico e narrativo.

Se Illegittimo, girato in interni e fondato sul primato della parola rispetto all’azione, si confrontava in maniera intima e privata con i fantasmi della Storia, attraverso un campione di voci e personaggi rappresentativo dell’ecumene sociale, cosi succede solo in parte in Fixeur. La storia del giornalista determinato a dare una svolta alla propria carriera, organizzando l’intervista con la baby prostituta, diventata un caso nazionale dopo esser stata rimpatriata da Parigi, avendo denunciato i suoi aguzzini, vede il regista lasciarsi indietro i recessi casalinghi per intercettare gli umori del paese, cogliendoli agli angoli delle strade e nei comportamenti degli intermediari necessari ad avvicinare la ragazzina.


Strutturato alla maniera del road movie, per il fatto di sviluppare la trama attraverso le tappe che consentono al protagonista e ai suoi colleghi di rintracciare il luogo dove è detenuta la vittima, Fixeur dapprima nasconde le proprie intenzioni, definendo opinioni e schieramenti e lasciando pochi dubbi sull’identità di buoni e i cattivi: i primi sono arruolati tra le fila di una stampa progressista e militante, pronta a pagare qualsiasi prezzo pur di denunciare il degrado che favorisce il proliferare dell’illegalità; i secondi, invece, individuati tra teppisti e faccendieri che impediscono alla ragazza di parlare, ma anche alle autorità civili e religiose, che per diversi motivi si oppongono alla realizzazione dell’inchiesta. Successivamente, attraverso piccoli spostamenti di senso, mina le convenzioni cinematografiche, sfumando la linea di confine che separa il bene dal male, suggerendo che le differenze tra le parti siano meno nette di quanto inizialmente si poteva pensare, e che convenienze e tornaconto facciano da comune denominatore alle azioni di entrambe le fazioni. In questo modo, Fixeur si assicura non solo l’attenzione del pubblico, attirandolo a sè con un andamento da thriller esistenziale che risulta tanto più efficace quanto lo è la capacità dell’autore di mantenere il racconto sul filo di una disturbante ambiguità, ma anche il plauso dei cinefili, ai quali non può sfuggire il sotto testo metaforico utilizzato per  rappresentare – qui, come in tutti i grandi film prodotti dalla nuova cinematografia rumena – il darwinismo sociale nato sulle macerie della passata dittatura.

Film morale, se c’è uno per il fatto di mettere costantemente i personaggi di fronte a una scelta che finisce per pesare sull’esistenza delle persone, Fixeur procede per sottrazione, arrivando al tutto grazie ai meriti di una regia in grado di assottigliare le distanze tra la vita e la sua messinscena.
Carlo Cerofolini
(pubblicato su taxidrivers.it)


domenica, marzo 25, 2018

THE FLORIDA PROJECT: LA FINE E' UN ETERNO TRAMONTO COLOR CARAMELLA



Il parco americano
è un vuoto circoscritto
riempito d’imbecilli
in catalessi
- H.Miller -

Questo è il mio albero preferito perché, anche se è caduto, continua a crescere, dice la piccola Moonee all’amichetta Jancey, entrambe cavalcioni di un enorme salice reclino, tra un assaggio e l’altro di marmellata rimediata alla distribuzione periodica dell’assistenza sociale, sotto il blu imperterrito di un cielo che assicura la simulazione d’un’estate infinita. E pare il degno compimento, da un lato, d’una precoce nostalgia residuale per le cose che non si ha tempo di comprendere appieno e presto sfuggono in una gelatinosa vaghezza; dall’altro, della dolciastra quanto tossica tirannia d’un perimetro esistenziale silenziosamente ma implacabilmente approssimato alle coordinate d’un sogno non tanto e non solo falso e stupido ma sempre - e con chiunque - esigente e crudele.

Tra i colori vistosi di una terra - la Florida centrale - che pare uscita dai ritocchi zelanti di un esercito d’invisibili imbianchini e i percorsi obbligati d’individui che hanno barattato chissà con quanto costrutto la libertà (qualunque cosa si voglia oggi intendere con questo termine) con un guazzabuglio di giorni dalla monotonia randagia, l’occhio di un film come “The Florida project” isola/fotografa a modo suo - un po’ indagine antropologica, un po’ concentrato di drammaturgia minimale - lo stato d’avanzamento del Sogno Americano, di per sé già promessa/minaccia indigesta, in via ulteriore virata nei decenni verso forme che ne hanno ratificato tanto la compiuta colonizzazione di un immaginario (non solo quello del Grande Paese), quanto la sua torsione in un ibrido in grado di sovrapporsi alla realtà spicciola al punto da rendere sempre più complicato (e inquietante) discernere il discrimine in cui la prima s’acconcia sulla fisionomia del secondo o questo si propone, allo scopo di persuaderne i destinatari, come versione migliorata, più desiderabile di quella e perciò stesso destinato a sostituirla. Già uno come Disney, nei dintorni del cui omonimo mondo alternativo (Disney World) l’opera di Baker si dipana, per tempo aveva vagheggiato il proposito di mettere mano alle radici del sogno svellendole dal loro terreno mitico per ridisegnarne gli ambiti in una prospettiva ludico-futuristica tale da coinvolgere il paesaggio materiale oltre a quello mentale di milioni di persone, arrivando infine a calare il jolly della sempre verde utopia della comunità ideale, ossia il progetto di edificazione di una cittadina nuova di zecca, battezzata poi alla nascita, nel ’96, col nome di Celebration (associazione non a caso evocata nel film sui titoli di testa per il tramite dell’omonimo brano di Kool & The Gang del 1980), concretizzazione e paradosso d’ogni cortocircuito tra vero e falso, immanenza e finzione, in una sorta d’apoteosi dell’omologazione integrale, tra manierismi iper-stilizzati, stravaganze stucchevoli e illusionismi ambigui ma pressoché impercettibili: L’ingresso alla cittadina sembra preso da un film Disney, con palizzate, lampioni stradali in ferro battuto, giardini lussureggianti e un’antica cisterna di legno sopraelevata, tutte cose che servono ad attrarre la gente presentando una visione di tempi in cui tutto era più semplice… Nella brochure pubblicitaria della cittadina si legge infatti: ‘C’era una volta un luogo nel quale i vicini salutavano i vicini nella quieta luce del tramonto. Dove i bambini inseguivano le lucciole. E le sedie a dondolo nelle verande fornivano un rifugio sicuro dai problemi della giornata… Un luogo di mele caramellate e zucchero filato, di fortini segreti e di gioco della campana giocato per strada. Quel luogo è di nuovo qui, in una nuova cittadina chiamata Celebration’… Ma tutta la patetica lotta per dotare di una tradizione la cittadina non ha rivelato che un vuoto al suo centro… Che significato possono avere, in effetti, parole come ‘buona fede’, ‘autenticità’, in una città la cui storia è retroattiva, la cui tradizione è quella dell’azienda d’intrattenimento che l’ha fondata…, i cui creatori dicono ‘stile di vita’ invece di ‘vita’ e inseriscono l’espressione ‘un senso di’ prima di ogni principio fondamentale ? (R.Rhymer, Back to the future: Disney reinvents the company town of Celebration).

Del resto, si diceva, l’intenzione disneyana di uscire dall’alveo del fantastico propriamente detto per travasarne la logica mimetico-trasformatrice nella concretezza del quotidiano, s’affaccia relativamente presto, come opzione, germinando la prima volta intorno alla metà degli anni Cinquanta (Disneyland) facendosi, via via, ipotesi matura dopo l’acquisizione - in pieni Sessanta - di vasti lotti (anche paludosi) in Florida, e fantasia realizzata al momento dell’inaugurazione di Disney World nell’ottobre del ’71. Ciò che è interessante notare a questo riguardo in relazione al lavoro di Baker - in un contundente sdoppiamento tra simulazione/finzione cinematografica e simulazione/finzione della realtà - è la peculiarità della genesi di un punto di vista sul mondo da parte di tre cuccioli d’uomo (della combriccola fa parte anche Scooty, compagno di gioco abituale di Moonee e più o meno suo coetaneo: parliamo, in generale, di protagonisti di 6/7 anni) il cui ambiente naturale è stato concepito a immagine e somiglianza di un’estensione degradata delle linee guida architettoniche ed estetiche della suddetta Celebration. Propriamente, quello che là è lustro e allineato secondo la geometria essenziale e asettica di ville con giardino e vialetto (A Disney World - ma il principio è applicabile anche a Celebration, ndr - squadre di addetti spazzano, raccolgono ed eliminano i rifiuti grazie a un sofisticato sistema di condotte sotterranee in cui il pattume viene scaricato e fatto scorrere a quasi cento chilometri l’ora fino a una centrale di smaltimento collocata lontano dalla vista dei visitatori. La spazzatura sembra sparita per magia: Disney World è surrealmente lindo… - G.Ritzer, Enchanted and disenchanted world: revolutionizing the means of consuption -), qui diventa l’alternanza caotica di edifici dai colori improbabili (nel caso, un baldanzoso malva ribattezzato Magic Castle Inn) a metà fra il motel e il comprensorio completo di ballatoi, enormi chioschi a forma d’arancia e spianate d’asfalto adibite a parcheggio. Il tutto collegato, a margine di autostrade perennemente battute, da viottoli dai nomi evocativi, tipo Seven Dwarfs ln, che finiscono su strutture per l’accoglienza turistica, piccoli mall, brandelli di natura sfuggita (o non appetibile) all’urbanizzazione. Moonee, Scooty e Jancey, cioè, si muovono, e da sempre, all’interno di un microcosmo gli assi portanti del quale non sono che il prodotto di scarto - o, volendo, la simulazione difettosa - di un esperimento sociale fallito oltreché fasullo (gran parte degli agglomerati dei dintorni sono ridotti a vestigia abbandonate e in rovina; la fantasmagoria cromatica in cui sono immersi non produce significativi cambiamenti d’umore e d’atteggiamento nei residenti): un’aberrazione che del sogno finisce ancora una volta per replicare la parte più avvilente e predatrice, quella che vuole e, di fatto, s’adopera affinché il sottoproletariato ignorante e indifeso rimanga schiavo e complice delle proprie debolezze (nonché categoria di persone giocoforza più esposta alle sirene d’una vita migliore spacciata senza tregua come a-portata-di-mano), vittima ignara, quantunque non del tutto innocente, di meccanismi che a parole ne sostengono l’affrancamento e l’inclusione e nella prassi ne vellicano i vizi, ne blandiscono le illusioni e le ingenuità per meglio controllarlo come, alla bisogna, usarlo a mo’ di capro espiatorio d’ogni manchevolezza, d’ogni insuccesso.

Non stupisce, allora, che la routine di Moonee, Scooty e Jancey - di tanto in tanto tenuti a bada dalla burbera bonarietà di Bobby/W.Dafoe, responsabile del complesso - si riduca alla sterile addizione di giornate brade e ciclotimiche, febbrili ma passive (i bambini sono di norma beffardi e/o insolenti, pronti a mentire e a frignare se non ottengono subito quello che vogliono. Liberi dall’obbligo scolastico, trascorrono gran parte del tempo soli, impegnati in giochi senza controllo - arrivano ad appiccare un incendio in una delle tante case fatiscenti del circondario - ruzzano indisturbati in giro, mangiano quello che capita - Vorrei le forchette di zucchero. Così, dopo pranzo, mangerei anche quelle, dice Moonee - s’incollano al televisore. Soprattutto condividono con i rispettivi genitori, spesso ragazze-madri single non di molto più grandi di loro, una sordida promiscuità - Halley, madre di Moonee, non esita a parcheggiare la figlia in bagno, dentro la vasca, mentre riceve estranei con i proventi drenati dai quali arrotonda i magri introiti derivanti per lo più dallo spaccio occasionale, dal taccheggio e dalla vendita al dettaglio ai turisti di passaggio di cosmetici precedentemente acquistati o rubati negli store del posto -), che del sogno, tantomeno di quello dell’infanzia, non hanno nulla ma che, al contrario, della sua subdola, costante presenza, delle sue invadenti lusinghe, del suo prezzo autentico abilmente dissimulato e mai davvero in discussione, chiede conto fin da subito, pretendendo quella fedeltà tassativa che si alimenta dell’adesione inconsapevole a uno stato di cose impacchettato e venduto non solo come ideale ma più ancora come naturale/irreversibile, quindi nella forma d’un vero e proprio destino che, nel caso dei tre ragazzini, sembra essere quantomeno quello di reiterare comportamenti limitati e prevedibili, a dire facilmente manipolabili, del tutto simili a quelli dei genitori, giovani perduti a cui il sogno è marcito in mano prima di maturare e che ora annaspano tra la schiuma di frustrazioni indurite e improbabili rivalse, materiale di risulta pronto per una delle tante discariche della Modernità.

Si svela, così, il vero volto del progetto Florida e delle sue innumerevoli incarnazioni in giro per il mondo: un mondo adatto ai monomaniaci ossessionati dall’idea del progresso, ma di un falso progresso, un progresso che puzza. Un mondo ingombro d’oggetti inutili che uomini e donne, per farsi sfruttare e avvilire, imparano a considera utili… E Disney è il maestro dell’incubo. E’ il Gustave Doré del mondo di Henry Ford e Co… di questo peggio in divenire che ora è dentro di noi, solo che non l’abbiamo tirato fuori. Disney lo sogna: e lo paghiamo pure, questo è il buffo. La gente ci porta i figli a crepar dal ridere (- H.Miller, The air-conditioned nightmare -). Si precisa e si staglia, in altre parole, una volta per tutte e a trecentosessanta gradi, l’orizzonte d’un’allegoria triste nell’inverarsi definitivo della sua placida evidenza, quella che chiama a sé, al proprio cuore multicolore e inerte, sotto un cielo/fondale posticcio che ne scimmiotta e ribadisce la falsa beatitudine, anche l’atto che ogni generazione almeno tenta prima di piegarsi o morire: la fuga.

Una prece.
TFK

LA FOTO DELLA SETTIMANA

Christian Bale

venerdì, marzo 23, 2018

IL FILM DELLA SETTIMANA: UN SOGNO CHIAMATO FLORIDA

Un sogno chiamato Florida
di Sean Baker
con Willem Dafoe, Brooklyn Kimberly Prince, Bria Vinaite
USA, 2018
genere, drammatico
durata, 111'

In un film sincero e lineare come Un sogno chiamato Florida il rischio è quello di fermarsi all’evidenza, sottovalutando la capacità del regista di andare oltre la tumultuosa e vitale interazione tra i personaggi, cosi come di non apprezzare il fatto che Sean Baker, pur davanti a una materia importante, come può esserlo quella della marginalità sociale ed economica dei protagonisti – sufficiente a suscitare interesse e consensi intorno al progetto -, riesca comunque a salvaguardare il taglio umanistico che fin qui ha contraddistinto la sua filmografia. Certo è che i minuti iniziali, scanditi dalla contagiosa energia di Celebration, l’hit musicale dei Kool and the Gang, e occupati dalla frenesia dei bambini, felici di riprendere a giocare, risultano a dir poco spiazzanti se rapportati al dramma delle rispettive condizioni. In realtà, il cortocircuito audio visivo messo in piedi dall’autore nasconde un sottofondo narrativo che si innesta in maniera coerente con il resto del film.



Se, infatti, Un sogno chiamato Florida rimanda nei significati del titolo al tema del sogno americano, a cui allude la sfavillante presenza del parco giochi disneyano, rovescio della medaglia rispetto alla concretezza dei bisogni manifestati dai personaggi del film, altra cosa è il concetto espresso dall’originale The Florida Project, al quale,  non per caso, si riallacciano le note che fanno da colonna sonora ai frame d’apertura. Celebration, infatti, non è solo la parola utilizzata nel jingle musicale ma, soprattutto, il nome della città costruita (nel 1999) dalla Walt Disney nell’intento (del fondatore) di ricreare una sorta di luogo ideale in cui pace, sicurezza e prosperità potessero essere messi a disposizione di una comunità di persone a numero chiuso, formata da membri accuratamente selezionati.

Va da sé, che, alla pari del tono leggero e, per certi versi scanzonato, con cui Baker decide di raccontare la tragedia della piccola Moonee – allevata da una madre allo sbando e incapace di prendersi cura della prole – anche i riferimenti all’utopia disneyana vengono utilizzati per enfatizzare il suo contrario, ovvero il degrado urbano e architettonico a cui sono costretti i personaggi di Un sogno chiamato Florida e, ancora, per far sentire con più forza il senso di precarietà che pesa sui loro giorni. Così, se a concorrere alla riuscita del film sono, in ordine sparso, le interpretazioni degli attori, ma anche la qualità di una messinscena che gioca sui colori (saturi come quelli che si vedono nei disegni dei bambini) e sulle  differenze volumetriche messe in campo davanti alla mdp (quelle esistenti tra i bambini e le architetture sembrano riproporre scenari da Alice nel paese delle meraviglie), è la capacità di muoversi su diversi livelli di percezione a fare di Un sogno chiamato Florida un’opera fuori dal comune. 

Non per niente il pianto di Moonee e la fuga a Disneyland che per un attimo ne interrompe le lacrime funzionano sia come elemento di catarsi drammaturgica, in grado di fornire un briciolo di speranza al cuore delle spettatore, sia come conferma dell’implacabilità del destino che grava sulla bambina, consegnata di nuovo nelle fauci di quel sogno che di lì a poco tornerà a ingannarla, come spesso capita nei libri delle fiabe, di cui il film di Baker pare la versione filmata. Ai vertici di un’ideale classifica dei migliori lungometraggi della stagione, Un sogno chiamato Florida può contare sulla performance di un grande Willem Dafoe (nomination nella categoria di migliore attore non protagonista) e sulla straordinaria empatia di Brooklynn Prince, in certi momenti davvero impareggiabile per simpatia e spirito di coinvolgimento.
Carlo Cerofolini
(pubblicato su taxidrivers.it)

PACIFIC RIM - LA RIVOLTA


Pacific Rim - La rivolta
di Steven S. DeKnight
con Scott Eastwood,  John Boyega, Adriana Arjona
USA, 2018
genere, fantascienza, azion
durata, 111'




Steven S. DeKnight, il regista di “Pacific Rim - La rivolta” aveva una brutta gatta da pelare. Succedere a un regista come Guillermo Del Toro, appena uscito vincitore dalla notte degli Oscar e deus ex-machina del primo episodio dedicato ai giganteschi robot impegnati a difendere la terra dall’attacco delle mostruose creature extra terrestri era tutt’altro che facile. Il rischio era quello di non essere giudicato in relazione ai propri meriti ma in ragione dell’improbabile quanto impari confronto con il suo predecessore. Dunque, bene ha fatto DeKnight a prendere le distante dal modello originale e, in special modo, dai toni cupi e drammatici con cui DelToro aveva impastato la sua tela narrativa. Pur facendo i conti con il senso di perdita lasciato al film dalla scomparsa dei personaggi della prima avventura, sacrificatisi a fin di bene e per  onor di patria,  “Pacific Rim - La rivolta” appare da subito votato a tutt’altre atmosfere. 

Tornato in superficie dagli abissi oceanici che avevano fatto da sfondo alla prima invasione extra mondo e modificato il cast con un gruppo di giovani attori di belle speranze, “Pacific Rim - La rivolta” si mantiene lontano  le pretese artistiche  del film del primo episodio, presentandosi con le caratteristiche e l’ottimismo tipiche dei film per ragazzi. In questo modo, pur rispondendo alla chiamata alle armi contro la minaccia aliena e continuando a mettere a repentaglio la vita alla guida degli enormi giganti di ferro il film punta a conquistare il favore dell’appassionato con uno spettacolo all’insegna dell’ottimismo e della simpatia. Da questo punto di vista “Pacific Rim - La rivolta” sebbene intriso di retorica patriottistica e con qualche eccesso di     centra l’obiettivo filando via nelle quasi due ore di proiezione con un ritmo meno isterico del solito grazie a un montaggio che valorizza long take e campi lunghi alla maniera di certa fantascienza giapponese degli anni 60, quella dei Kaijū (i mostri tipici del genere in questione) e dei Mecha (i robot) a cui il lavoro di DeKnight è ispirato
Carlo Cerofolini 

giovedì, marzo 22, 2018

ILLEGITTIMO


Illegittimo
di Adrian Sitaru
con Adrian Titieni, Alina Grigore
Romania 2016
genere, drammatico
durata, 85'

Ci sono film che appartengono a tutti e altri che sono espressione di punti di vista particolari, legati alla storia di un determinato luogo, in ogni aspetto figli della cinematografia che li ha prodotti. Illegittimo di Adrian Sitaru, il film del 2016 che precede Fixeur, anch’esso in uscita in Italia questo mese a cura di Lab80 Film, possiede entrambe queste caratteristiche. Indicativa a tal proposito è la lunga sequenza iniziale, nella quale assistiamo a una discussione che si trasforma in qualcosa di più significativo quando, durante la consumazione del desco, uno dei figli rimprovera al padre di essere stato tra i medici che ai tempi di Ceausescu denunciavano allo Stato le pazienti determinate ad abortire, nonostante il divieto da parte della legge. Lo scontro di vedute tra vecchie e nuove generazioni rappresenta, infatti, il viatico per l’ennesimo confronto tra il passato e il presente di un paese su cui ancora gravano le conseguenze della dittatura – tema oltremodo ricorrente in queste produzioni – come pure il motivo scatenante del paradosso che quasi sempre finisce per rovesciare le posizioni dei contendenti, con gli accusatori costretti a fare a loro volta il mea culpa per le stesse ragioni alle quali facevano appello.

D’altra parte, la supremazia della parola sulla prassi del quotidiano e la capacità della mdp di seguirla e renderla viva, attraverso la facoltà di incarnarla da parte degli interpreti di cui il cinema romeno è maestro, fa il paio con la scelta di un motivo scatenante – quello fornito dalla legittimità di decidere se dare alla luce i propri figli – che fu alla base di 4 mesi, 3 settimane, 2 giorni, lungometraggio destinato ad annunciare l’ascesa del nuovo cinema romeno. Insomma, Adrian Sitaru, sviluppando l’antefatto in maniera imprevista e provocatoria, per il modo con cui i fratelli Sasha e Romeo gestiscono l’incidente scaturito dalla loro prossimità, riesce a mettere insieme contenuti e quello stile che abbiamo imparato a conoscere dai lavori dei maestri Mungiu (per i contenuti) e Puiu (per la messinscena), senza limitarsi a una semplice adesione al modello di riferimento, ma anche tentando di seguirne il miracolo della forma, quella semplicità che ogni volta finisce per risultare profonda e coinvolgente.
Carlo Cerofolini
(pubblicata su taxidriver.it)

mercoledì, marzo 21, 2018

FESTA DEL CINEMA DI ROMA: HOSTILES

Hostiles
di Scoot Cooper
con Christian Bale, Rosemund Pike
USA, 2017
genere, western, drammatico
durata,127'


Il film di Scott Cooper si apre con una frase di D. H. Lawrence il cui tema verte sull'insopprimibile istinto di violenza della nazione americana. Un frammento che torna utile al regista di "Hostiles" per certificare se mai non bastassero i fatti della storia recente per rendere credibile il dolore che investe il paesaggio delle sue cronache. Più di "Black Mass" il suo nuovo film sembra tornare ai luoghi (la provincia americana) e alle atmosfere (tragiche, come quelle di un pièce shakespeariana) che avevano scandito la "mattanza" di "Out of Fornace". Curiosamente però, a differenza del modello originale e a fronte di una prima parte segnato da un'incontrovertibile spirale di violenza,  "Hostiles" riesce ad arrivare alla fine senza sconfessare le sue premesse, ma comunque consegnando allo spettatore un inaspettato messaggio di speranza. Senza svelare di più della trama, lasciando a chi legge il piacere di farlo quando il film arriverà - ci auguriamo - nei cinema, basti l'accenno alla sequenza iniziale, destinata a gravare per l'efficacia della sua messinscena. Pur con l'accortezza di un montaggio che spezza la continuità dei gesti e nella distanza di sicurezza offerta dalle riprese in campo lungo, nel quadro della telecamera Cooper mette insieme la rappresentazione del dolore più indicibile, facendocelo vivere attraverso gli occhi di Rosalie (Rosamund Pike), la moglie dell'uomo e la madre dei tre bambini uccisi dalla follia omicida di una banda di Cheyenne. Siamo nell'America del 1892 impegnata a costruire la mitologia della propria fondazione e, quindi, ancora scoperta rispetto alla capacità retorica che successivamente gli avrebbe permesso di legittimare agli occhi dell'opinione pubblica i misfatti della sua politica espansionistica. In "Hostiles" dunque ogni aspetto del racconto parte da uno stato atavico e istintivo, a cominciare dalla personalità combattuta e ferina del capitano dell'esercito Joe Blocker, incaricato di scortare il nemico indiano sulla strada che gli permetterà di morire nella terra natia, e costretto dalle circostanze (la carovana di cui a un certo punto farà parte anche Rosalie deve difendersi dagli attacchi di altri indiani e di alcuni cani sciolti) a venire a patti con chi un tempo gli aveva ucciso amici e colleghi. Per continuare con la struttura del narrato, organizzata secondo le tappe di un viaggio che, nella migliore tradizione del cinema americano, si trasforma presto in un percorso esistenziale in cui le ferite dell'anima contano di più di quelle del corpo, e dove i vari personaggi trovano il modo di mondarsi una volta per tutte dai propri peccati. Se, anche "Hostiles", come quasi sempre succede quando s'interroga il passato per parlare del presente (così aveva fatto per esempio a Venezia George Clooney in "Suburbicon"), con lo scontro fratricida tra contendenti che, almeno sulla carta, dovrebbero sottostare alle medesime leggi e riconoscere lo stesso presidente, e, ancora, con la discriminazione e l'oppressione dei più forti nei confronti delle minoranze sono ispirati a quello che sta succedendo negli Stati Uniti a guida repubblicana, ciò che risulta decisivo per le sorti del film è la capacità del regista di rimanere all'interno del genere, pur facendolo con la coscienza e la sensibilità di un cineasta dei nostri giorni.



Così, se la parte più debole del film è quella in cui l'auspicabile riconciliazione tra le parti sociali si traduce in una svolta pacifista - seppur temporanea - un po' troppo meccanica da parte del protagonista, lo scarto decisivo si ha nell'abilità di regista e attori di far vivere l'intero spettro emozionale e la profonda afflizione che contraddistingue l'excursus esperienziale dei protagonisti. Cooper è bravo soprattutto ad alternare gli stati d'animo, creando un flusso emotivo in cui i momenti di stasi diventano il periodo di incubazione necessario a rendere coerente i tormenti e le esplosioni di rabbia da parte di Blocker. Bravo a coniugare la maestosità del paesaggio naturale e gli spazi sconfinati della frontiera americana con l'interiorità delle figure che lo attraversano; capace di conferire nuovo vigore visivo a immagini che altrimenti apparirebbero già viste e scontate (si veda per esempio la scelte operate nella sequenza conclusiva improntata a una compostezza quasi metafisica), "Hostiles" può contare sulla stilizzazione pittorica della fotografia di Masanobu Takayanagi e sulla performance da Oscar di uno straordinario Christian Bale, il quale, insieme a Russell Crowe si conferma in cima alla classifica degli attori drammatici più dotati della sua generazione. Se poi volessimo fare un plauso alla regia di Cooper, cineasta non sempre considerato come invece dovrebbe, diremmo che la sua nuova fatica ricorda sotto molti punti di vista il Villeneuve di "Prisoners". Tanto per dire della stima che nutriamo nei confronti del suo film.

Carlo Cerofolini
(pubblicata su ondacinema.it)

martedì, marzo 20, 2018

MARIA MADDALENA

Maria Maddalena
di Garth Davis
con Joaquin Phoenix, Rooney Mara
UK, USA, Australia, 2018
genere, drammatico 
durata, 120'



Di certo non sfugge la coincidenza che mette in relazione i contenuti presenti nel nuovo film di Garth Davis con ciò che sta succedendo a Hollywood dopo le rivelazioni degli illeciti comportamenti tenuti da Harvey Weinstein nei confronti delle sue dipendenti. "Maria Maddalena" si presta infatti alle interpretazioni di chi adesso tende a leggere il protagonismo femminile con il senso di rivalsa nei confronti della società maschile e in particolare di un sistema in cui la donna è posta in posizione subordinata rispetto alla compagine dominante. Nel suo film Davis ci mostra infatti la storia di una ragazza che prende coscienza del suo ruolo all'interno di una comunità patriarcale come quella ebraica descritta nel Nuovo Testamento e che cerca con tutte le sue forze di seguire la propria coscienza e non quella del genitore a dispetto di una tradizione che, al contrario, la vorrebbe sposa a un uomo di cui però la ragazza non è innamorata. "Maria Maddalena" è dunque innanzitutto la storia di una ribellione che si compie alla luce di un evento straordinario come quello della venuta del Messia (della sua predicazione) e della quale ella diventa parte in causa alla pari degli altri discepoli del Cristo. E qui sta la seconda questione del film, poiché sé è vero, come sappiamo dai Vangeli, che l'importanza della Maddalena deriva anche dalla sua presenza in uno dei momenti fondamentali della vita di Cristo come fu quello della sua passione e della morte sulla croce, il lungometraggio di Davis si spinge oltre, ampliando la casistica esistenziale della protagonista con episodi tratti dalla cosiddetta narrazione apocrifa che affiancò quasi subito quella ufficiale tramandata dai quattro evangelisti. In questo modo abbiamo la possibilità di approfondire non solo il legame tra la donna e il Messia - anche in questo caso fonte di diffidenza e di sospetti da parte di chi ne è testimone (a cominciare dagli Apostoli) - ma sopratutto il processo con cui la Maddalena riesce con pazienza e amore a imporsi all'interno del gruppo, ritagliandosi un ruolo - nei confronti di Gesù ma anche nel contesto che gli sta accanto - per Davis e i suoi sceneggiatori addirittura superiore a quello dei suoi compagni di viaggio. Questo per dire che, anche involontariamente, "Maria Maddalena" ha nei suoi cromosomi tutte le caratteristiche per essere un prodotto attuale, capace come pochi di cogliere all'ennesima potenza lo spirito del tempo, sublimato e insieme elevato dal contesto sacrale in cui esso si manifesta.


Senza nulla togliere a quanto si è appena detto esiste però un'altra chiave di interpretazione, meno schierata e forse conosciuta, che è appunto quella della discussione tutta interna al mondo cattolico a proposito del sacerdozio femminile, da tempo al centro del dibattito anche per la drastica diminuzione delle vocazioni verificatosi negli ultimi decenni. In questo senso, la centralità assunta da Maria Maddalena all'interno del film, testimoniata da una presenza scenica che non viene meno neanche al momento clou del film (quello che coincide con la cattura e la crocifissione di Gesù, nel quale i primi piani e le sequenza in cui ella compare è eguale a quella del Cristo), fa si che il lavoro di Davis si possa arricchire di altre sfumature, arrivando a dire la sua anche in un campo cosi delicato com'è quello relativo a uno dei dogmi vigenti nella chiesa cattolica. Davis, che già in altre occasioni aveva messo in campo un'attitudine volta a normalizzare ciò che è invece eccezionale, di nuovo non si smentisce, regalando agli eventi una messinscena scevra da qualsiasi tentazione di spettacolarità e viceversa ricca di momenti in cui è il silenzio dopo la tempesta a creare lo spazio in cui il divino può manifestarsi. Forte di un'iconografia che si riappropria della riconoscibilità tramandatasi nei secoli attraverso la pittura e, perché no, anche con il cinema, "Maria Maddalena" è lungi dal voler essere una versione laica dei fatti relativi alla storia di Gesù. Se la visione del divino e dei molti miracoli che ne accompagnano la manifestazioni è reso con una semplicità che rientra nell'ordinario delle cose, e quindi non ha bisogno di effetti speciali e di particolari movimenti di macchina, è altrettanto assodato che il film non si accontenta di raccontare i momenti salienti della buona novella ma propone una spiritualità costantemente ricercata nella bellezza metafisica del paesaggio naturale attraversato dai protagonisti e riverberato sui volti dei protagonisti. 

Non solo Joaquin Phoenix, oltremodo velloso con barba e capelli che strizzano occhio a certe mise sessantottine, ma soprattutto Rooney Mara, davvero brava a trasformare il suo viso nel termometro emotivo del film, quello in cui è possibile leggere le conseguenze interiori provocate dagli avvenimenti a cui ella prende parte. Senza la straordinarietà mediatica di opere come "L'ultima tentazione di Cristo" di Scorsese e "The Passion of the Christ" di Gibson, "Maria Maddalena" ci regala una figura di donna senza peccato e tutt'altro che scandalosa ma non per questo meno forte e volitiva. Riuscire a esserlo senza ricorrere a gesti estremi e vendicativi fa della Maddalena di Davis una figura meno alla moda di ciò che inizialmente potrebbe sembrare. In realtà, il personaggio in questione sembra in grado d'inserirsi nella discussione in atto in maniera meno scontata, ampliando il catalogo di femminilità contemporanee viste di recente sul grande schermo.
Carlo Cerofolini
(pubblicata su ondacinema.it)

lunedì, marzo 19, 2018

OLTRE LA NOTTE

Oltre la notte
di Fatih Akin
con Diane Kruger, Denis Moschitto, Johannes Krisch
germania, 2017
genere, drammatico 
durata, 100


In Germania la vita di Katja cambia improvvisamente quando il marito Nuri e il figlio Rocco muoiono a causa di un attentato. La donna cerca di reagire all'evento e trova in Danilo Fava, avvocato amico del marito, il professionista che la sostiene nel corso del processo che vede imputati due giovani coniugi facenti parte di un movimento neonazista. I tempi legali non coincidono con l'urgenza di fare giustizia che ormai domina Katja.

Tra il 2000 e il 2007 in Germania sono stati commessi numerosi assassinii di persone di nazionalità diverse da parte dell'NSU, (Nationalsozialisticher Untergrund) una formazione neonazista che nel 2011 è stata finalmente incriminata con prove. Fino ad allora la tendenza era stata quella di attribuire le uccisioni a problematiche interne alle comunità etniche o alla delinquenza comune.
Fatih Akin si ispira a quelle azioni per realizzare un film che intende indubbiamente provocare una discussione.

In tempi di terrorismo di matrice islamico-integralista che colpisce in modo assolutamente criminale ci viene ricordato che la guardia va tenuta indubbiamente alta su questo versante ma contemporaneamente non va abbassata su altri fronti. Perché proprio la recrudescenza del terrorismo ha risvegliato gruppi xenofobi che non avevano mai smesso di esistere. Akin è molto attento nel definire il ritratto della sua vittima: ha dei precedenti penali per spaccio di droga ed è un curdo di nazionalità turca. Questo lo libera da un lato dall'apologia dell'innocente (anche se viene sottolineato come il suo recupero alla società fosse stato esemplare) e anche la possibile identificazione tout court con la numerosissima comunità turca in Germania. 

Di fatto poi la sua protagonista è totalmente teutonica (una Diane Kruger di grande intensità a cui viene finalmente concesso di recitare nella sua lingua madre) ed è su lei e sulla sua sofferenza che si concentra la narrazione. La lunga fase processuale, che occupa la parte centrale del film, la vede subire il pregiudizio di una difesa che ricorre a qualsiasi mezzo per invalidare la sua testimonianza. A chi ama il cinema vengono in mente i nomi di due autori che non è dato sapere se siano conosciuti dal regista amburghese di origini turche: Costa-Gavras e Monicelli.

Del primo Akin rivitalizza l'impianto politico che trovava nelle fasi istruttorie e processuali, sia che fossero manipolate da un regime (“La confessione”) sia che venissero condotte al fine di far trionfare la giustizia (“Z - L'orgia del potere”), il suo punto di forza. Il Monicelli di “Un borghese piccolo piccolo” trova, invece, qui un suo pendant femminile nel bisogno lucido e devastante di avere giustizia. Come Giovanni Vivaldi, anche Katja sente covare, per poi svilupparsi dentro di sé, l'urgenza di ottenere quella riparazione al danno subito che sembra sempre più affievolirsi. La vuole con forza e a qualsiasi prezzo.
Riccardo Supino