The Post
di Steven Spielberg
con Meryl Streep, Tom Hanks, Sarah Paulson
USA, 2017
genere, drammatico, biografico
durata, 118'
“Journalism is the first rough draft of history”, era il motto di Philip Graham, editore de Il Wahington Post, testata che ereditò dal padre della moglie Katherine, destinata a dirigerlo dopo la scomparsa del consorte. Se il giornalismo è la prima bozza della storia l’opera filmica è, per citare Ferro o Sorlin de I Cahiers Du Cinema, la cartina di tornasole dei sentimenti e delle inquietudini del tempo di cui si fa espressione. Con la sagacia di un cercatore di oro, Spielberg passa al setaccio le acque della nostra realtà mediatica (e non) alla ricerca di qualche granello d’oro per la nuova statuetta Oscar (quattro nomination). Con sguardo profetico il già quattro volte regista Premio Oscar riesce ad anticipare le polemiche del #Time’s Up e #MeToo che di poco sarebbero seguite alla fine delle riprese del film, raccontando un pezzo di Storia americana attraverso una vicenda che sembra farsi carico della contemporanea voglia di riscatto della compagine femminile. La trama del film, riassumibile attorno alla vicenda che portò alla scoperta dei Pentagon Papers, con successiva gara di bravura fra The Post e Il New York Times, e il governo Nixon si divincola con fare pretestuoso dallo scandalo giornalistico, di per sé già sufficiente per un film culto, specie nell’età dell’oro delle fake news. Quale Re Mida della situazione Spielberg vanta Meryl Streep nei panni dell’eroina (capace di entrare nei guinness dei primati con ben ventun nomination) e Tom Hanks quale suo fido scudiero, diretti dalla sceneggiatura di Liz Hannah e Josh Singer, già Premio Oscar per “Il Caso Spotlight”, altra pellicola d’inchiesta giornalistica. The Post riesce, nel viaggio dell’eroina capace di attraversare le tappe che costituiscono, de rigeuer, la formazione di una protagonista redenta dalle difficoltà iniziali di aver ereditato un’azienda più grande di sé, a mostrare una donna capace di emergere in un mondo di squali che mal digeriscono d’essere messi in riga da una signora. In questo senso la trama del film viene meglio narrata dalle scelte d’abito della Streep più che dalle parole – la narrazione si incaglia in qualche dialogo melò un po’ stantio -, inizialmente ingessata in tailleur rigidi che la mimetizzano in una fauna virile, poi divina nell’abito di seta bianca dalla femminilità regale , utilizzato da Spielberg per segnare lo scarto tra le titubanze iniziali e la piena affermazione della sua personalità e delle scelte prese per affermare il diritto di informazione del suo giornale.
Erica Belluzzi
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