giovedì, maggio 31, 2012

Molto forte incredibilmente vicino



Molto forte incredibilmente vicino” (Extremely Loud & Incredibily
Close” 2011) è il quarto lungometraggio del regista inglese Stephen
Daldry.
Delle gambe, delle scarpe, un corpo sfuggente, un viso, un’ombra negli
occhi. Senza enfasi alcuna, smussa senza titoli come un vuoto d’aria,
la discesa agli inferi di un animo innocente e di un padre in festa.
Né risale con noi, il volare leggero dei pezzi, come carta di nuvole
imbiancate, del titolo impresso nel mesto cielo.. “Molto forte
incredibilmente vicino”, tratto dal libro di Jonathan Safrab Foer
(quello di “Ogni cosa è illuminata” da cui è strato tratto l’omonimo
film), mostra una forza narrativa, seppur didascalica, decisa e
convincente; con senso di ricerca interiore, dove una bara vuota
rappresenta e ne simboleggia la recita intrinseca di un funerale
insoluto e di un pianto sconosciuto. Oskar, un bambino di nove anni,
che vive disperatamente senza padre dopo la sua morte nel ‘giorno più
brutto’, come dice spesso, l’11 settembre 2001, dentro alle Torri
Gemelle, cerca di sfuggire dal ricordo struggente che opprime ogni suo
gesto. E con la chiave della speranza di un passato cicatrizzato che
il bambino suona in ogni portone per carpire il sogno di un’apertura
agognata: quella della vita libera da ogni oppressione e stendardo
funereo. Un nome ‘black’ (un nerissimo giorno) che gli dà la forza di
ritrovare la vita dentro i messaggi in segreteria: la voce di suo
padre come una spada di Damocle dentro il forziere dell’erba ancora da
crescere. Quella voce ripetuta, costantemente, quel telefono mai
alzato e quel silenzio tombale tra i suoi sguardi futuri e le ceneri
volate di un corpo distrutto. Il film di Stephen Daldry si regge
(quasi) totalmente sulla prova encomiabile e pastosa di Oskar (Thomas
Horn) che riesce a reggere il racconto fino alla fine. E non è poco
per una storia dove i possibili personaggi potevano essere tanti
(oltre i genitori del bambino) come le segmentazioni: come il libro
d’origine facilmente poteva creare. La sceneggiatura di Eric Roth (già
autore di pellicole come “Forrest Gump”, “Alì”, “Insider”, “L’uomo che
sussurrava ai cavalli”) tende alla formalizzazione del contesto e a
scandagliare i rapporti di Oskar con un metro particolare. Il percorso
della madre a ritroso nella vita del figlio, la sola voce del padre,
l’incontro muto con Thomas Schell, le fugaci figure dietro ai portoni,
i silenzi e gli schermi tv, sono tutti proiettati nell’intimità
profonda di un bambino nascosto nei suoi pensieri con una bara (vuota)
accanto in modo permanente. Con i fantasmi che s’aggirano perennemente
attorno allo sguardo spaurito e compresso di Oskar.
Traspare nella regia un’emotività rigurgitante, un candore funereo,
una stoltezza umana inespressa: la retorica racconta se stessa quando
si schiude per lacerarsi il pulsare di una famiglia e lo snodarsi di
una vita. Lo sgretolarsi di un vuoto fisico che dischiude il gioioso
nucleo di ‘bella gente’, come amava salutare Thomas ad ogni rientro a
casa salutando sua moglie e il suo Oskar, scandisce il fagocitare
irrisolto di un oscuro, spettrale e merdoso ‘giorno più brutto’. Tutto
inacidisce, tutto si comprime, tutto in una voce: una mente felice e
smaniosa si spaventa di una ricerca ansiosa. Il lascito della chiave e
di un nome, Black, e i quattrocentosettantadue da visitare a New York
city per schiudere la serratura giusta ed avere una voce vera di suo
padre per meglio sognarlo e allontanare l’angustia impressa dentro. Un
uomo muto (Thomas Schell Sr.) che a Dresda ha lasciato la voce del
ricordo si insinua, con i suoi bigliettini pronti al dialogo, nel
sentiero numerico di Oskar. Un bambino virtuoso, mai domo, ingegnoso
di tutto, esperto del buon indizio si mescola con l’occhio lucido di
un vecchio ardimentoso. Bei i quadri disegnati dal regista in questo
vicinato rapporto tra tragedie lontane, immani e sedimentate in tempi
diversi. Mai colme e ricolme le ceneri di bare disperse e i fuochi di
bandiere ammainate. Oskar tra il 1945 e il 2001, tra morti
innumerevoli, cimiteri lontani, civili spenti e ardori in conflitto.
Un vegliardo ricompone il secolo di ieri ed un inizio scandito da un
orologio di morte. Dentro l’uomo e senza paracadute. Un volo
nell’abisso. Oskar trova qualcosa in quella chiave, arriva ad un
dialogo di vita mentre sua madre ricorda la voce del suo uomo. Una
retorica dimessa e guardinga si perpetua in questa pellicola
imperfetta ma ricca di significato, dove le ombre e i loro silenzi
nascondono verità inespresse.
Tom Hanks si ritaglia una parte minore (o per meglio dire meno
visibile) in un contesto narrativo dove la moglie (una bravissima
Sandra Bullock), il noleggiatore (un Max Von Sydow di grande classe)
fanno da contorno alla convincente interpretazione del bambino Oskar
(Thomas Horn), in uno stile desichiano, che rimane impressa nella
memoria visiva. La regia di Stephen Daldry tiene bene la storia; da
menzionare, infine, le musiche di Alexandre Desplat (che ha
collaborato all’ultimo Malick e Polanski) e la fotografia nascosta e
lucente di Chris Menges (da “Urla del silenzio”, “Le tre sepolture”
fino a The Reader” dello stesso regista).
Voto: 7 ½.
(recensione di loz10cetkind)

film in sala dal 1 giugno 2012

Attack the Block - Invasione aliena
(Attack the Block)
GENERE: Azione, Commedia, Fantascienza
ANNO: 2011
NAZIONALITÀ: Gran Bretagna
REGIA: Joe Cornish

Killer Elite
(Killer Elite)
GENERE: Azione, Thriller
ANNO: 2011
NAZIONALITÀ: Australia, USA
REGIA: Gary McKendry

La guerra è dichiarata
(La guerre est déclarée)
GENERE: Drammatico
ANNO: 2011
NAZIONALITÀ: Francia
REGIA: Valérie Donzelli

Lorax - il guardiano della foresta
(The Lorax)
GENERE: Animazione
ANNO: 2012
NAZIONALITÀ: USA
REGIA: Chris Renaud, Kyle Balda

Love and Secrets
(All Good Things)
GENERE: Drammatico, Giallo, Thriller
ANNO: 2011
NAZIONALITÀ: USA
REGIA: Andrew Jarecki

Margaret
(Margaret)
GENERE: Drammatico
ANNO: 2011
NAZIONALITÀ: USA
REGIA: Kenneth Lonergan

Marilyn
(My Week with Marilyn)
GENERE: Biografico, Drammatico
ANNO: 2011
NAZIONALITÀ: Gran Bretagna
REGIA: Simon Curtis

Viaggio in paradiso
(Get the Gringo)
GENERE: Azione, Thriller
ANNO: 2012
NAZIONALITÀ: USA
REGIA: Adrian Grunberg

martedì, maggio 29, 2012

Cosmopolis





Una visione globale. In una quotidianità virtuale e frammentata dai flussi informativi il compito più difficile è quello di mettere insieme le cose, di farle convivere in un unico quadro. E’ quello che tenta di fare David Cronenberg adattando per il cinema l’omonimo libro di Don de Lillo, uno dei numi tutelari della letteratura americana contemporanea, capace di far gridare al miracolo anche quando decide di soffermarsi sulla cronaca dettagliata di una partita di baseball diluita per almeno una cinquantina di pagine, quelle di apertura, solitamente bisognose di una concentrazione supplementare anche in presenza di una prosa meno complessa di quella utilizzata dallo scrittore del Bronx. Questo per dire che non bisogna farsi illusioni sulla versione cinematografica del regista canadese che alla stregua della sua fonte non fa niente per venire incontro allo spettatore. “Cosmopolis” infatti dichiara fin da subito la sua intransigenza con sequenze che non lasciano spazio ad alcun ripensamento collocandosi laddove devono essere, ovvero negli interni ovattati e tecnologici della limousine sulla quale si consuma la giornata di Eric Packer (un monocorde Robert Pattison), genio della finanza intento a fronteggiare le oscillazioni del mercato e con un taglio di capelli che deve essere aggiustato anche a costo di sfidare la congestione stradale di New York paralizzata dalla visita del presidente degli Stati Uniti ed invasa da migliaia di manifestanti che protestano contro le iniquità del sistema. Nei sedili di quella macchina e nell’arco di un intera giornata il film ci racconta di un mondo che cade a pezzi insieme ai moloch che l’hanno costruito. Nell’abitacolo diventato appartamento si succedono gli interlocutori di Eric, dal medico che gli controlla la prostata all’amante che si preoccupa di fargli acquistare un quadro di Rothko, alla consulente in tuta da jogging che lo eccita stringendo in mezzo alle gambe una bottiglia d’acqua – tensione sessuale gli dice Eric mentre il dottore gli sta tiene un dito nel retto per effettuare la visita – e poi ancora hacker e collaboratori fino all’incontro con l’individuo che sta cercando di ammazzarlo.


Se la struttura della trama non lascia spazio ad alcuna concessione in termini di spettacolo e fruizione la situazione non migliora quando si tratta di dare seguito alla vicenda utilizzando la parola che nella versione cinematografica risulta preminente quasi come nelle pagine del libro. Ed è proprio lì, nei dialoghi e nelle sentenze che il film mette in bocca ai suoi personaggi che si giocano le fortune di un opera astratta e speculativa, costruita sulla visione di un mondo dominato da numeri e dati ricavati dallo schermo di un computer o shakerati in maniera semiseria dalle conversazioni che hanno luogo nel corso dell’interminabile giornata. Cronenberg immagina la sua opera come una sorta di grande fratello televisivo facendo diventare i sedili della macchina il confessionale nel quale è possibile enunciare la propria verità. Una camera caritatis dove l’abilità affabulatoria del protagonista e dei suoi sodali si sforza senza successo di interpretare i segni di un esistenza sfuggente ed in continua trasformazione, mentre un’umanità senza anima – sguardi catatonici e voci sussurrate ricordano “Crash” – diventa il terminale di un atto di morte che ha il diagramma impazzito delle proiezioni economiche come quelle che Eric cerca di interpretare per valutare le conseguenze di una scommessa che potrebbe ridurlo al lastrico. Se le intenzioni restituiscono il regista alle atmosfere stranianti e grottesche ed allo stile cerebrale che gli è riconosciuto allo stesso tempo “Cosmopolis” non riesce a replicare in termini visuali l’abilità che sarebbe necessaria a tracimare nelle immagini la verbosità di cui il film si fa portavoce, con il conseguente scollamento tra quello che vediamo e quello che ascoltiamo. Omaggiando il cinema contemporaneo che predilige protagonisti senza passato ed emotivamente criptici “Cosmopolis” ci offre una tipologia umana che nel rappresentare il malessere esistenziale dell’uomo moderno rischia nella sua rarefazione di diventare una forma stereotipata e priva di interesse. Ancorato alla contemporaneità per i riferimenti alla crisi del sistema capitalistico e per i rimandi a possibili scenari di disubbidienza violenta il film perde progressivamente il suo fascino trasmettendo all'opera l’apatia del suo protagonista. Alla fine si arriva stanchi e con la voglia di prendere una boccata d’aria. Come se in quella limousine ci fossimo stati noi.

domenica, maggio 27, 2012

THE AVENGERS

The Avengers
di Joss Whedon
con Robert Downey. jr, Scarlett Johansson, Mark Ruffalo
USA, 2012
genere, fantasy, avventura, azione
durata. 143'


La chiusura di un ciclo ed insieme il manifesto di un nuovo inzio. Così potrebbe definirsi l’ultimo film della Marvel, prodotto mediatico e di marketing in grado di offrire in un'unica soluzione molti dei supereroi già titolari di un film a loro dedicato. Le ragioni di questa affermazione si devono rintracciare nella natura derivativa di “The Avengers” anticipato dalle brevi sequenze che dopo i titoli di coda facevano da appendice alla singole pellicole con la chiamata alle armi da parte di Nick Fury impegnato a reclutare l’invincibile squadra e destinate a prendere forma in questo atto finale, ovvero il film diretto da Joss Whedon. E poi cosa più importante nella presenza di una poetica che mette in secondo piano i dilemmi e le nevrosi conseguenti al mascheramento dell’identità. Se infatti fuori dal mondo Marvel la possibilità di un altergo è vissuta come fattore scatenante di una malattia esistenziale (Batman, Watchmen)che fa male e rende soli, così non succede  nella casa delle idee dove i super poteri si rivelano senza la necessità di nascondere il volto di chi li possiede, con dichiarazioni pubbliche (Iron Man) clamorose esclusioni – nella saga di Thor la controparte viene addirittura cancellata – e pacifiche alleanze, come accade in “The Avengers” con la Vedova Nera, Capitan America per nulla preoccupati di confondere le acque a proposito della loro verà identità. Una semplificazione sul piano estetico in direzione di una normalizzazione del prodotto che rende "The Avengers" più adatto al “bagno di sensazioni” – visive ed uditive – del cinema (blockbuster) dominato da effetti speciali e riprese ipercinetiche, ma che allo stesso tempo assottiglia lo spazio delegato alla costruzione del quadro psicologico ed emotivo, sostituito in questo caso da rapporti di causa effetto quasi sempre basati sul confronto della forza. “The Avengers” in questo senso rappresenta il trionfo di questa tendenza con i supereroi messi insieme da Fury, il capo plenipotenziario dell’organizzazione governativa che cerca di salvare il mondo, tanto propensi ad utilizzare i loro corpi iperdotati quanto minimali nell’utilizzo delle risorse interiori. Per constatarlo basterebbe riflettere sulla centralità di un personaggio come Hulk, montagna di carne e macchina da guerra pronto a scatenarsi contro tutto e tutti e per questo motivo conteso da buoni e cattivi nel tentativo di avvantaggiarsi del suo talento, oppure soffermarsi sulla supremazia di sentimenti come quello della vendetta, il leiv motiv di tanto cinema americano ed anche qui determinante per mettere d’accordo personalità dominate da un ego smisurato ed incapaci di dominare i propri istinti. 

Un linguaggio semplice e diretto che parlando di una gruppo di persone incaricate di salvare la terra trasla sul piano dello spettacolo e dell’intrattenimento l’idea di una nazione che concepisce se stessa in chiave democratica e salvifica. Da questo punto di vista non bisogna allora stupirsi del consenso nei confronti di un prodotto che vende la violenza e la guerra come forma di supremo eroismo, che si confronta con il mito di Prometeo uscendone vincente. Se poi vogliamo tornare al cinema c’è da rimpiangere gli ultimi prodotti della Marvel, parliamo di “X- Men: l’inizio” e di  “Capitan America” dove la ricostruzione storica serviva anche a sviluppare la costruzione dei personaggi. Qui a vincere è soprattutto la capacità promozionale ed una gestione delle risorse che la Marvel è riuscita ad ottimizzare con il minimo sforzo e con il massimo dei ricavi. Intanto nuovi episodi di “The Avengers” sono già pronti per essere prodotti

giovedì, maggio 24, 2012

film in sala dal 25 maggio 2012

Men in Black 3
(Men in Black III)
GENERE: Azione, Commedia, Fantascienza
ANNO: 2012
NAZIONALITÀ: USA
REGIA: Barry Sonnenfeld

Molto forte, incredibilmente vicino
(Extremely Loud and Incredibly Close)
GENERE: Drammatico
ANNO: 2012
NAZIONALITÀ: USA
REGIA: Stephen Daldry

Operazione vacanze
(Operazione vacanze)
GENERE: Commedia
ANNO: 2011
NAZIONALITÀ: Italia
REGIA: Claudio Fragasso

Cosmopolis
(Cosmopolis)
GENERE: Drammatico
ANNO: 2012
NAZIONALITÀ: Canada, Francia
REGIA: David Cronenberg

La fuga di Martha
(Martha Marcy May Marlene)
GENERE: Drammatico
ANNO: 2011
NAZIONALITÀ: USA
REGIA: Sean Durkin

lunedì, maggio 21, 2012

ANOTHER EARTH

La notte in cui viene scoperto il duplicato esatto del pianeta Terra, proprio nel sistema solare ed orbitante attorno alla Terra stessa, la diciassettenne Rhoda Williams, appassionata di astronomia e destinata a studiare le stelle al Mit di Boston, è causa di un incidente mortale notturno (scontro frontale con un'altra auto), poichè guidava in stato di ebbrezza.
Sopravvissuta alla tragedia, sconta quattro anni in carcere alimentando un enorme quanto inestinguibile senso di colpa verso le proprie vittime. Nell'incidente perdono infatti la vita una donna incinta ed il figlioletto mentre ne esce in coma il marito della donna, il compositore John Burroughs.
Scontata la pena, Rhoda ritorna a casa, dalla sua famiglia piuttosto anafettiva e asettica, e si reinserisce nellla società scegliendo un lavoro faticoso ed umile: bidella ed addetta alle pulizie in una scuola.
Il senso di colpa si intreccia alla sua curiosità di scoprire che fine ha fatto il compositore ed alla morbosa esigenza di recuperare al proprio errore. Così Rhoda si insinua nella vita di Burroughs finendo con l'innamorarsene.

Mike Cahill mette in scena una storia abbastanza originale che richiama alla mente prodotti di ben altra levatura, come Solaris o Donnie Darko, e dei quali cerca di emulare l'estro e l'audacia con discutibile risultato.
Con relativamente poca spesa il regista realizza un lungometraggio interessante e dalle buone potenzialità ma che lascia in sospeso i conti.
Cahill indaga sul rapporto tra mente e spirito, sull'immagine che si ha di se stessi, sulla brama dell'uomo di conoscere il futuro che lo attende e sul mistero della vita. Che effetto ci potrebbe fare sapere che nel pianeta che vediamo muoversi nel nostro cielo c'è la stessa vita che c'è qui sulla Terra ed anzi ci siamo noi stessi, come in un parallelissmo di cloni perpetuo e misterioso?

Vincitore del premio speciale della giuria e del premio Sloan al Sundance Film Festival del 2011 "Another Earth" è un'opera prima scritta, diretta, prodotta, fotografata e montata da Mike Cahill. Ha ceratamente le caratteristiche del film indipendente ma non quella forza che ci potrebbe attendere.

La storia ha le sue buone potenzialità ma Cahill pecca di approssimazione nel delineare i personaggi e nello sviluppare gli eventi; non ci aiuta ad addentrarci nei recessi umani dei protagonisti, che restano piuttosto monocordi e guidati più dall'esigenza registica di stupire che dalla capacità di regalare una vera esperienza allo spettatore.

Il film mi ha lasciata da parte, non mi sono sentita coinvolta.
Per quanto apprezzabile l'idea di base e lo sforzo creativo, Cahill non convince.

I personaggi sono abbozzati e piuttosto cartonati. Il percorso di espiazione di Rhoda non sfocia in una reale catarsi.
Nonostante le premesse il film si abbandona ad una banailità che delude e lascia con la bocca amara.
Buon lavoro degli attori nonostante una sceneggiatura piena di buchi.

giovedì, maggio 17, 2012

film in sala dal 18 maggio 2012

Another Earth
(Another Earth)
GENERE: Drammatico
ANNO: 2011
NAZIONALITÀ: USA
REGIA: Mike Cahill

Il Pescatore di sogni
(Salmon Fishing in the Yemen)
GENERE: Commedia, Drammatico, Sentimentale
ANNO: 2011 
NAZIONALITÀ: Gran Bretagna, USA
REGIA: Lasse Hallström

La fredda luce del giorno
(The cold light of day)
GENERE: Azione, Thriller
ANNO: 2012 
NAZIONALITÀ: USA
REGIA: Mabrouk El Mechri

Margin Call
(Margin Call)
GENERE: Drammatico, Thriller
ANNO: 2011 
NAZIONALITÀ: USA
REGIA: J.C. Chandor

Quella casa nel bosco
(The cabin in the woods)
GENERE: Horror, Thriller
ANNO: 2012
NAZIONALITÀ: USA
REGIA: Drew Goddard

martedì, maggio 15, 2012

Dark Shadows




“Dark Shadows” (id., 2012) è il quindicesimo lungometraggio del
regista di Los Angeles.
Visionario come (forse) nessuno Tim Burton riesce ogni a stupirci(si).
Un grondare di effetti e di colori, uno sciorinare di immagini
ammaliatrici e riluttanti come in un gioco a specchio complementari
fra loro e mai di puro sadismo o di horror riprovevole. Un film che
scaccia ogni dubbio di facile gusto e riesce in un battibaleno a
conquistarti per una lettura divertita e divertente. E dopo un breve
prologo arrivano in corsa (di treno) i titoli di testa con un magico
respiro fine anni sessanta con la canzone “Night in White Satin” di
The Moody Blues (del 1967 la prima versione) mentre la didascalia del
film ci porta nel 1972. Una goduria impagabile vedere il sogno
mainstream non offuscarsi per nulla nella prima mezz’ora con una
genialità di ripresa e una corsa triscronovampirica a dir poco
salutare dopo un’attesa di oltre duecentoventi anni per l’alter-ego
del regista sperperare il suo mondo fantasioso dentro il set aggrumato
e umidificato di un’oscurità annebbiata e chiusa. Un’apertura come si
conviene per una pellicola (con un budget consistente) dove il regista
sa districarsi bene (e anche molto) pur con qualche allungo di troppo
nella sceneggiatura. Nonostante la pellicola (su commissione) non
fosse nei piani iniziali di Burton (lunga è stata la messa in opera
della scrittura) si deve dire che essa raggiunge uno stile personale
evidente e sequenze visionarie (come nella sua migliore tradizione).
E’ da rimarcare che la filmografia burtoniana segue un percorso
altalenante nelle produzione e nelle storie: i grandi investimenti
degli studios danno un certo campo di libertà di operare ma nello
stesso tempo il regista alimenta il suo cinema con archetipi maggiori
e con virtualità più di effetto che di apertura sapiente del suo mondo
personale. Si ha la sensazione che qualche intoppo (o qualche
accettazione di troppo) costringa (nel senso lato del termine) il
regista ad assecondare certi mega investimenti oltre l’utilità per
‘dimostrare’ e ‘saggiare’ il suo immaginario e darlo ‘a bere’ allo
spettatore. La pop-arte-filmica di Tim Burton è però, allo stesso
istante, succulenta, spinta e ammassata di molto da aggiungere come
sottratta da un mo(n)do classico e rituale.
Johnny Depp oramai affiato nel duo col regista (alla settima
collaborazione) è diventato icona di ciascun personaggio di cui veste
e testamento paradigmatico. Una sorta di sfera lunatica nello
spry-gotico di una volta celeste dark: che dire di meglio quando
l’oscurità vezzosa illumina di più (e meglio) di un cielo con luce
avvenente. Nel cinema burtoniano la bellezza è nascosta e si scopre
con contorni attoniti: le forme delle dame in posa sono scheletri
nell’armadio che si gonfiano in cadenza (model-botero) e si dileguano
nel set con maestria e voluttuosità. In questo le grazie di Elizabeth
Collins (Michelle Pfeiffer) sono il barlume chiaroscuro nelle
dispersive stanze di una villa sconfinata con un adombrato e imbevuto
vampiro Barnabas Collins (Johnny Depp). Il ritorno nella sua famiglia
e i duetti con vari ‘ospiti’ (parenti e non) sono teatralmente uno
spasso e distrattamente con un senso di commedia sottotraccia da
rendere il tutto leggero e succoso, spurio e ridente. La verve
recitativa dell’attore del Kentucky è sincopata e glossario di indici
intonati: un movimento del corpo e una posizione esemplare nei vari
ambienti. Il set è il mezzo unico in cui Depp e Burton si confondono
con se stessi. Anche perché lo spettacolo è in diretta e la cattura
dei ‘mostri’ della villa Collins da parte della polizia ha un pieno di
ammiratori: il dietro regia è circondato da comparse e vivi-non-morti
che vogliono essere dentro il cinema super estraniante di un uomo da
‘big-wood’ riprese. Una pellicola in piena esaltazione del gusto
dell’eccesso e dove ogni sua stessa misura richiede un palmo di mano
con colori da pitturare. Infatti la villa è presa d’assalto per la
costruzione scenografica da fuori-onda e da set in metamorfosi dove la
sigaretta si può anche spegnere sopra una tavolozza.
Da dire che il connubio mondo giovanile in avanscoperta (libertà,
pace, droga e sesso) e mondo vampirizzato del moderno(post) di ieri (e
oltre) è accattivante, intrigante e modello di un gioco narrativo non
buttato lì a caso., Tutt’altro. Forse una maggiore compattezza della
scrittura nella parte centrale avrebbe dato giusta linfa ad un’opera
non riuscita al meglio per definirla un piccolo capolavoro. In ogni
caso Tim Burton ha ritrovato una giostra e modi di girare da par suo e
il suo cercare costantemente cose nuove (dentro) ne ingigantiscono lo
sforzo e la voglia di andare oltre. La colonna sonora partecipa
accoratamente alla riuscita del tutto e alcune canzoni d’ambientazione
sono ad hoc. E l’ombra dark regna per bene in tutto il film.
Voto 7½.
(recensione di loz10cetkind)

lunedì, maggio 14, 2012

SISTER

Ai margini di una stazione sciistica svizzera, frequentata da gente benestante, abita Simon (Kacey Mottet Klein), dodicenne che afferma di avere 15 anni.
Vive di furti ai turisti, rivende sci, attrezzature, occhiali e tutto quello che riesce a rubare per mantenere se stesso e la sorella (Léa Seydoux) che non riesce e tenersi né un uomo né un lavoro.
Nessuna traccia dei genitori nello squallido alloggio popolare dove i fratelli tirano a campare.

Il secondo film della Meier, dopo il claustrofobico Home, conferma il talento della regista nel descrivere personaggi fuori dall'ordinario e paesaggi che poco hanno da spartire con i luoghi comuni.
Sister è una pellicola che ci descrive una Svizzera forse mai raccontata, fatta di case popolari, proletariato, emarginazione e fame vera.
Un mondo sconosciuto che vive ai piedi fangosi delle montagne fatte di candida neve e lussuosi chalet destinati alle vacanze dei ricchi.
Un film fatto di sguardi, allusioni, silenzi che tiene fortunatamente la giusta distanza dal melodrammatico e che pur puntando molto sull'unica, bella, svolta nella sceneggiatura tiene sulle corde lo spettatore fino all'ultima inquadratura.

Ursula Meier mette il naso in diverse realtà nascoste, ma punta decisamente su un argomento spesso occultato o comunque ricordato solo in occasione di eventi tragici.
La regista franco-svizzera ci parla della maternità controvoglia, ci dice chiaramente che una madre non sempre è buona e angelica, ma che esistono deviazioni a quello che è l'istinto materno.
Allo stesso tempo ci lascia la speranza che una volta toccato il fondo ci si possa redimere e lo fa in maniera asciutta con l'ultima, impeccabile sequenza.

Sister, comunque, non sarebbe un film così riuscito se non fosse supportato da due attori di assoluto livello.
Léa Seydoux (Mission Impossible 4 - Inglourius Basterds)  possiede un volto disperato che colpisce al cuore e il piccolo Cacey Mottet Klein (Home) è di una bravura strabiliante.
Un film, quello della Meier, che ricorda Loach, ma che dal punto di vista narrativo è indubbiamente influenzato dai fratelli Dardenne.

Da segnalare l'ennesimo scempio dei distributori italiani che trasformano il titolo del film “L’enfant d’en haut”, (Il bambino di sopra) in Sister, spostando addirittura il centro dell’attenzione verso il personaggio femminile che è sicuramente importante, ma non quanto quello del bambino a cui si riferisce il titolo originale.
Orso d'argento all'ultimo festival di Berlino.

giovedì, maggio 10, 2012

Open 24h

Scenari dall’apocalisse. Tra una discarica di rottami in cui lavora come guardiano notturno e l’appartamento dove vive con il vecchio padre ed il fratellino catatonico si consuma la vita di un uomo segnato dalla prematura morte della madre. Le ripetizione dei gesti quotidiani è scandita da piccole vicissitudini come quella degli esami clinici effettuati per far luce sul malessere che lo ha colpito oppure i colloqui con l’avvocato che lo deve aiutare a fargli avere un risarcimento economico per un licenziamento non dovuto. Intanto nella discarica il verificarsi di piccole anomalie inizia ad attirare la sua attenzione. 

Girato in un bianco e nero che azzera nei suoi limiti cromatici la mancanza di una vera alternativa allo squallore quotidiano che caratterizza la vita del protagonista “Open 24h” è anche la rappresentazione di un mondo freddo, regolato da meccanismi che rispondono ad una logica di causa effetto anche laddove entrano in gioco le vite degli esseri umani. Il film in questo non lascia spazio a dubbi o ripensamenti. Basterebbe pensare all’indifferenza della cassiera del supermarket che non distoglie neanche gli occhi dal cellulare quando riceve i soldi della spesa, oppure all’avidità dell’avvocato che lucra sulla somma del risarcimento mettendosi d’accordo con la controparte ed ancora all’odio che il padre riversa sul figlio nelle rare occasioni di dialogo, oppure alla figura del fratellino, un involucro senza parole ne coscienza la cui presenza innocua eppure stridente nel sua vita priva di senso sembra un presagio di quello che verrà.

Un inferno metropolitano che l’esordiente Carles Torras trasforma in un incubo ad occhi aperti con immagini estremamente controllate, pronte a sfruttare le geometrie dell’ambiente o il contrasto tra luce ed ombra per disegnare il percorso mentale di un alienazione che potrebbe assomigliare a quella che abbiamo incontrato nel cinema di Lynch ripreso anche nell’uso del sonoro, ossessivo e disturbante. Ma questa volta l’impressione è quella di un film sin troppo corretto nel mettere in pratica le regole del cinema ma timido nel manifestare un punto di vista personale oppure un urgenza che permetta al tutto di essere qualcosa di più di un compito ben riuscito.

"Open 24h" è stato presentato in prima italiana al festival del cinema spagnolo giunto alla V edizione ed in corso di svolgimento al cinema Farnese di Roma.

mercoledì, maggio 09, 2012

Il pescatore di sogni

Il pescatore di sogni

Questa volta bisogna dargli ragione. Costantemente alla berlina per la disinvolta traduzione dei titoli che accompagnano l’uscita di pellicole straniere, il distributore italiano può andare fiero di quello assegnato all’ultimo film di Lasse Hallstrom.
Un’ oculatezza derivata non solo dalla caratteristica fin troppo pragmatica di quello originale ("Salmon Fishing in the Yemen") poco adatto ad una storia sintonizzata sulle frequenze del cuore e dell’amore, ma anche perché il suo enunciato sembra fatto apposta per visualizzare e mettere insieme la densità e la rarefazione presenti all’interno dell’opera.

La pesca con le sue regole ed i suoi tempi affiancata dall’anarchia estemporanea ed impalpabile del desiderio.
Da una parte il pretesto di un hobby che fa entrare in contatto tre persone normalmente divise per ragioni culturali ed esperienze personali, dall’altra il potere di immaginare una vita diversa da quella che il dottor Alfred Jones non ha il coraggio di vedere, imbavagliato com’è da un lavoro (burocratico) che rinuncia al suo talento e trincerato dietro le abitudini di un matrimonio con una donna che non ama più.
A rompere la sua routine esistenziale ci penserà il progetto di uno sceicco yemenita deciso a servirsi di lui per esportare la pesca del salmone alle latitudini fisiologicamente proibitive di quel paese.
Lo scetticismo del Dottor Jones, rafforzato dall’evidenza scientifica, dovrà però confrontarsi con l’idealismo del mecenate convinto della fattibilità del progetto, e poi con l’opportunismo del governo inglese deciso a sfruttare quella collaborazione come propaganda di una distensione continuamente smentita dalle notizie di morte provenienti dal fronte militare. Ad affiancarlo nell’impresa Harriet, collaboratrice dolce e sensibile che lo aiuterà a rivedere le sue posizioni, e di cui alla fine si innamorerà.

Ennesimo esempio di un cinema, quello classico, che mantiene ancora intatta la preminenza della sua funzione narrativa, “Il pescatore di sogni” è abile nell’intrecciare la dimensione sentimentale dei personaggi coinvolti con diverse modalità in un’esperienza destinata a cambiargli la vita – non solo quella amorosa e romantica vissuta dai due colleghi di lavoro ma anche quella dello sceicco intenzionato a cambiare il destino del suo paese utilizzando le risorse derivate dal sistema idrico costruito per dare seguito al progetto – con la progressione degli eventi, belli e brutti, posti in essere da un umanità che il film concentra nelle sembianze e soprattutto nel carattere di una lady di ferro come la portavoce del ministro, interpretata da Kristin Scott Thomas, chiamata ad aggiustare le malefatte del suo capo attraverso il ritorno di immagine assicurato dalla riuscita del progetto messo in piedi dal sovrano.

E’ lei con quel mix di acidità ed humor nero ad impedire al film di appesantirsi con le atmosfere melò provocate dalla notizia della scomparsa del fidanzato di Harriet, un militare impegnato in territorio afghano, trasformando in chiave intimista e personale il rapporto con Jones, fin lì vissuto nella formalità cortese ma distante della buona educazione.

Immerso nella compostezza quasi irreale del paesaggio naturale ed ammorbidito dai toni caldi e soffusi della sua fotografia “Il pescatore di sogni" è una favola moderna con lieto fine incorporato che si avvale di attori di gran classe, tra i quali fa piacere ritrovare un Ewan McGregor finalmente centrato e perfetto nel tratteggiare il mutamento fisico e psicologico di un uomo prigioniero di se stesso e delle sue assurde ostinazioni.

Non sarà un capolavoro e non avrà neanche la magniloquenza richiesta per conquistare il botteghino ma il film di Lasse Hallstrom possiede la qualità di trasfigurare la realtà senza dare l’impressione di farlo. Ed è proprio in questa verosimiglianza che rimane sempre tale che si rinnova la magia di un arte in grado di far sembrare la vita più vivibile.

Provare per credere!

film in sala dal 11 maggio 2012

Chronicle
(Chronicle)
GENERE: Drammatico, Fantascienza, Horror
ANNO: 2012
NAZIONALITÀ: Gran Bretagna, USA
REGIA: Josh Trank

100 metri dal paradiso
(100 metri dal paradiso)
GENERE: Commedia
ANNO: 2012
NAZIONALITÀ: Italia
REGIA: Raffaele Verzillo

Dark Shadows
(Dark Shadows)
GENERE: Drammatico, Horror, Fantasy
ANNO: 2012
NAZIONALITÀ: USA
REGIA: Tim Burton

Disoccupato in affitto
(Disoccupato in affitto)
GENERE: Documentario
ANNO: 2011
NAZIONALITÀ: Italia
REGIA: Pietro Mereu, Luca Merloni

Il richiamo
(Il richiamo)
GENERE: Drammatico
ANNO: 2011
NAZIONALITÀ: Italia, Argentina
REGIA: Stefano Pasetto

Isole
(Isole)
GENERE:
ANNO: 2011
NAZIONALITÀ: Italia
REGIA: Stefano Chiantini

Napoli 24
(Napoli 24)
GENERE:
ANNO: 2010
NAZIONALITÀ: Italia
REGIA: Giovanni Cioni, Bruno Oliviero, Gianluca Iodice, Diego Liguori

Sister
(L'Enfant d'en haut)
GENERE: Drammatico
ANNO: 2012
NAZIONALITÀ: Svizzera, Francia
REGIA: Ursula Meier

Special Forces - liberate l'ostaggio
(Forces spéciales)
GENERE: Azione, Drammatico, Avventura
ANNO: 2011
NAZIONALITÀ: Francia
REGIA: Stéphane Rybojad

Tutti i nostri desideri
(Toutes nos envies)
GENERE: Drammatico
ANNO: 2011
NAZIONALITÀ: Francia
REGIA: Philippe Lioret

Workers - Pronti a tutto
(Workers - Pronti a tutto)
GENERE: Commedia
ANNO: 2012  
NAZIONALITÀ: Italia
REGIA: Lorenzo Vignolo

martedì, maggio 08, 2012

CinemaSpagna 
Festival del cinema spagnolo 
V edizione 
Cinema Farnese Persol 
Roma – 4/10 maggio




Di seguito il programma di mercoledì 9 e giovedì 10 maggio, ultimi due giorni di proiezioni e incontri di CinemaSpagna, il festival del cinema spagnolo giunto alla sua quinta edizione che si tiene al Cinema Farnese Persol di Campo de’ Fiori di Roma

Il programma di mercoledì 9 maggio prevede alle ore 17:00 la proiezione del film vincitore del Festival di San Sebastian, Los pasos dobles (87 min), di Isaki Lacuesta, road-movie interamente girato in Mali, la storia del pittore François Augiéras, interpretata dal grande artista Miquel Barceló. Alle ore 19:00 il tema dell’Alzheimer è invece al centro del lungometraggio di animazione Arrugas (89 min), di Ignacio Ferreras, vincitore di due Premi Goya 2012 come miglior film di animazione e come miglior adattamento, tratto dal fumetto omonimo (Rughe, edito in Italia da Tunuè) di Paco Roca, esempio di animazione sofisticata capace di incantare giovani e adulti. Alle ore 21:00 è di scena l’omaggio dedicato al genio di Luis Buñuel con la proiezione speciale de L’angelo Sterminatore (95 min), nel 50° anniversario del capolavoro che nel 1962 si aggiudicò il Premio FIPRESCI al Festival di Cannes. A seguire, incontro moderato da Bruno Torri e quindi la proiezione di Simon del desierto (40 min), cult incompiuto del 1965, che conquistò il Leone d’Argento e il Premio FIPRESCI alla Mostra di Venezia.

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Il programma di giovedì 10 maggio, ultimo giorno del festival, prevede alle ore 17:00, per la sezione de La Nueva Ola, la proiezione di Open 24h (70 minuti) una favola nera dagli echi bressoniani e dal forte impatto socio-politico. Alle ore 18:30, nell’ambito della retrospettiva dedicata alla commedia pura y dura, proiezione di Días de fútbol (2003 – 115 minuti), di David Serrano con Fernando Tejero, vincitore del Premio Goya come miglior attore rivelazione. La serata e la quinta edizione del festival CinemaSpagna si concludono con la proiezione in anteprima italiana, a ingresso gratuito fino ad esaurimento posti, del film Madrid, 1987 (102 min) alla presenza del regista e scrittore David Trueba e dell’attrice protagonista María Valverde (già in Melissa P. e nei due remake spagnoli di Tre Metri sopra il cielo e Ho voglia di te) che risponderanno alle domande del pubblico. Il film è riflessione sulla vita, l’arte, i passaggi generazionali, già in concorso al Sundance Festival, che racconta il rapporto fisico e intellettuale tra un professore e una sua allieva.

Gli infedeli

“Gli Infedeli” (Les Infedèles, 2012) di una schiera di registi (sette)
per una pellicola a episodi (sei) più un prologo prima dei titoli di
testa.
Un film studiato per essere puro intrattenimento e indagatore di vizi
e problemi maschili (e non solo). Ma tutto si rivela scombinato,
spappolato, denigratorio a rovescio, discutibile e, soprattutto,
spudoratamente (nel senso vero) col fiato molto corto. Nessun episodio
(a parte qualche rarissimo intermezzo) emana un certo gusto di cinema
sagace e riflessivo: tutto rotola al facilissimo cliché risaputo senza
mai una vera zampata, non dico d’autore, ma almeno di fini(ssima)
commedia dell’arte o di pochade irriverente. Si sente puzza di
bruciato lontano un miglio e il poco ridere di gusto è assente o
meglio neanche presente nel miglior piatto succulento del più rinomato
ristorante parigino. Qui siamo dalle parti di una bettola con cinque
stelle al contrario. Sesso e dintorni in un guazzabuglio di luoghi
comuni e di sketch (frammisti a lungaggini inutili) mal riusciti e
tristemente goffi. Poi va da sé che il meccanismo, molto telefonato,
si capisce nel prologo (mah..) e tutto resta lì: il resto robaccia di
terza categoria dove certi film cosiddetti ‘scollacciati’ fanno la
loro ‘degna’ figura e altri ad episodi sull’argomento non sembrano ma
sono capolavori (affermati). Basti pensare a “I mostri” (1963),
“Sessomatto” (1973) e “Sesso e volentieri” (1982) tutti di Dino Risi
con lo schema a episodi da molti imitato ma che nessuno è riusciuto ad
eguagliare o quantomeno ad avvicinarsi per irridere (sul serio) la
società (e non solo). Nella pellicola francese di irridente c’è solo
il titolo che non trova riscontro su feroci episodi: un susseguirsi di
un parolaio cazzeggiante (e cazzaro), di inverosimili ambienti e di
sfigati adulteri. Che imbecillità si può raggiungere nello scrivere di
un incontro tra due fuori da una famiglia inesistente: le zoccole
(libera traduzione riconoscibile) sono il meglio per le mogli di
disperati sesso-maneggiati mariti. Qualche leggera retorica (sfumata
al massimo), e senza senso, su un paio di quadretti con papà, mamma e
figlioletto che legge una poesia o che guarda distrattamente i suoi
adulti. Che pena doversi sorbire una simile idiozia filmica senza un
riso convinto e una riflessione veramente corrosiva (come sapeva fare
benissimo certa commedia nostrana e anche certa altra che non ambiva a
dare lezioni di regia ad altri). Lo scoramento è tale mentre un
episodio finisce e ne inizia un altro senza lasciare una traccia
sensibile: le sequenze da discoteca in ‘slow motion’ sono
inconcludenti, come l’incontro con gli amici della giovanissima da
portarsi a letto o addirittura poverissimo il dialogo in una camera
d’albergo tra il lui che non vede l’ora di ‘avere’ una lei qualsiasi
tra i tanti corridoi. Un vero squallore nei personaggi e in quello che
gli girano attorno. “Mi scoperei mezza Francia” o tutta vuole essere
(forse) un assioma razionale e cartesiano (controsenso-logico) per
parlare di cose alte del mondo d’oltralpe di oggi ma il segno è ben
più misero e stupido e non fa centro neanche da un centimetro di
distanza (e il punteggio totale è oltremodo basso). Una goduria di
brachedatela vedere il fondoschiena dei due ‘rampolli’ parigini che
vogliono mostrare il davanti a chi di turno si porge per toglierlo il
fastidio di un’eiaculazione precoce mentre il povero cagnolino di casa
stava trattenendo il preservativo del ‘bastardo’ di buona famiglia
che, per l’arrivo sgradevole della consorte, non vede altra altra
alternativa che buttare l’animale amico fuori dalla finestra (per
nulla far scoprire alla moglie un po’ ‘scema’). Chi sa i registi tutti
si sono sorbiti “I soliti idioti” (per il culo in mostra e le
parolacce senza tristezza) più volte o altre simili amenità per
cercare di tirar su il meglio (e anche altro) dal grande duo attoriale
(stavo dicendo i soliti che per idioti si stanno sbellicando dalle
risate…personalmente neanche una…che becera e invereconda tristezza…).
Fermo da simili episodiche idiozie si deve (per obblighi redazionali
personali..che non esistono) parlare dei due attori: Jean Dujardin
(quello premiato come miglior attore per “The Artist”) e Gilles
Lellouche che vestono parecchi personaggi con commiserevole pochezza
d’intenti mentre le altre comparse (o comparsate) danno il meglio e il
peggio (a seconda dei punti di vista). La regia multipla è fiacca e
quasi priva di struttura narrativa, Che manchi il mordente in quasi
tutto si era (forse) già capito. Tra i registi è da segnalare la
presenza dell’ultimo Oscar Michel Hazanavicius: sopravvalutato o no,
non si segnalano avvistamenti effettivi della sua presenza a questa
‘pregevole’ ultima sua opera (in grande compagnia di stile) (sic…).
Ps.: l’escursione turistica-monetaria e femmina a Las Vegas è
oltremodo risibile e degna di una pochezza strabiliante. Las Vegas val
bene una…puntata (stavo per dire altro). Alla prossima (‘speremo di
no…’).

(recensione di loz10cetkind)

giovedì, maggio 03, 2012

Roma, 4 - 10 maggio 2012
CinemaSpagna
Festival del cinema spagnolo
V edizione
Cinema Farnese Persol - Roma


 


Torna a Roma, dal 4 al 10 maggio 2012, CinemaSpagna, il festival del cinema spagnolo giunto alla sua quinta edizione, che presenterà come di consueto al Cinema Farnese Persol di Campo de’ Fiori, le ultime novità del cinema iberico, dai lungometraggi ai film di animazione. Il festival, diretto da Iris Martín Peralta e Federico Sartori, è prodotto da EXIT med!a in collaborazione con l’Ambasciata di Spagna, la Reale Accademia di Spagna, l’Istituto Cervantes di Roma, Turespaña, l’Istituto Ramon Llull e l’ICAA.

Tutte le proiezioni di CinemaSpagna sono in versione originale con sottotitoli in italiano (programma completo su www.CinemaSpagna.org).
I cinemaniaci ci saranno sicuramente

La mia vita è uno zoo


Sei anni sono qualcosa di più di una pausa di riflessione. Sei anni rappresentano la differenza tra due generazioni contigue. Sei anni è quasi il limite temporale che un matrimonio impiega prima di entrare in crisi. Sei anni è il tempo che ha impiegato Cameron Crowe per realizzare il suo nuovo film. Un assenza giustificata dall'insuccesso dal suo penultima pellicola "Elizabethtown"(2005), un film irrisolto nel suo non saper amalgamare dramma e commedia ma non solo. Più probabile la presa di coscienza di una crisi creativa che aveva fatto smarrire al regista la scioltezza dei primi film, quel modo divertente e nostalgico di guardare ai luoghi della sua giovinezza. Il mondo dello spettacolo ed in particolare quello musicale a cui si era avvicinato giovanissimo scrivendo articoli per una rivista come Rolling Stones, le varie fasi dell'amore e soprattutto la sensazione di un esperienza esistenziale vissuta all'insegna di una continua meraviglia si erano impantanati in un remake (Vanilla Sky,2001) inutile anche per chi come Tom Cruise lo aveva fortemente voluto.

Il risultato di questa riflessione è un film come "La mia vita è uno zoo" - We Bought a Zoo - ispirato alla storia vera di Benjamin Mee un giornalista che dopo la prematura morte della moglie e con la responsabilità di due figli ancora piccoli decise di rimettersi in gioco acquistando uno zoo in disuso con l'intento di riportarlo agli antichi splendori. Una vicenda di sicuro effetto cinematografico non solo per l'empatia di un evento luttuoso che deve essere superato e che il film ci mostra nel rapporto tormentato tra Benjamin ed il figlio maggiore, ma anche per l'ambientazione sui generis che risponde sul piano dello spettacolo e dell'intrattenimento alle istanze ambientaliste evidenti nell'accostare la rinascita dei protagonisti alla decisione di lasciare la città per trasferirsi in un paesaggio agreste, fin qui espresse dal cinema americano soprattutto sul versante documentaristico.

Ambientato quasi esclusivamente all'interno del parco naturale che ospita lo zoo il film si sviluppa mettendo in campo una serie di situazioni paradgmatiche che vanno dal superamento delle difficoltà economiche
necessarie alla messa a norma dell'infrastrutture appena acquistata, a quelle di cui già parlavamo e che riguardano le dinamiche interne di una famiglia che cerca di riprendersi da un dolore indicibile, aspetto che in qualche modo si riversa anche nel rapporto tra Benjamin e Kelly un'impiegata di lungo corso(Scarlett Johansson) destinato a trasformarsi in un sentimento amoroso non prima di aver segnato con le inevitabili titubanze del caso (per la ferita ancora fresca di lui e la dedizione al lavoro di lei) i vari passaggi di quella convalescenza. Aspetti drammatici che però il film e Crowe sono bravi a stemperare nella commedia e nell'intrattenimento, presentando di volta in volta personaggi stravaganti - tutta la squadra che coadiuva i protagonisti lo è - ed anche un pò ridicoli come quello dell'antipaticissimo agente che dovrà rilasciare la licenza per l'apertura dello zoo e che durante i controlli farà di tutto per evitare che questo avvenga. Magari al film avrebbe giovato un maggior approfondimento del personaggio interpretato da Scarlett Johansson un pò troppo sacrificato assieme al resto dei comprimari alla visibilità del terzetto familiare, ma nel tabellino dei risultati "La mia vita è uno zoo" riesce nel suo essere un film trasversale, adatto alle famiglie senza nessuna esclusione, e distante nel suo modo poco esibito di mostrarsi, dalla maggior parte della produzione commerciale. Cameron Crowe ha messo da parte l'arte ma ha realizzato un film di senso compiuto.

mercoledì, maggio 02, 2012

film in sala dal 4 maggio 2012

Hunger Games
(The Hunger Games)
GENERE: Azione, Drammatico, Fantascienza
ANNO: 2012 
NAZIONALITÀ: USA
REGIA: Gary Ross

American Pie: Ancora insieme
(American Pie: Reunion )
GENERE: Commedia
ANNO: 2012
NAZIONALITÀ: USA
REGIA: Jon Hurwitz, Hayden Schlossberg

Gli infedeli
(Les infidèles)
GENERE: Commedia
ANNO: 2012
NAZIONALITÀ: Francia
REGIA: Michel Hazanavicius, Emmanuelle Bercot, Jean Dujardin, Fred Cavaye...

Seafood - Un pesce fuor d'acqua
(SeeFood)
GENERE: Animazione, Commedia
ANNO: 2011
NAZIONALITÀ: Malesia
REGIA: Aun Hoe Goh

martedì, maggio 01, 2012

Ho cercato il tuo nome


Un tempo c'erano i film di Matarazzo ed i romanzi di Liala, oggi invece a sopravvivere è un tipo di letteratura apertamente indirizzata ad un pubblico femminile in cui tra melodramma ed inevitabile lieto fine l'amore viene celebrato nelle sue manifestazioni più lacrimevoli e dolorose. Così se da una parte gli omologhi del regista italiano sono scomparsi dallo schermo, lasciando spazio ad uno stuolo di onesti professionisti capaci di replicare senza soluzione di continuità il marchio di fabbrica di quel filone, dall'altra si è ormai affermata nel cinema americano la presenza di uno scrittore come Nicholas Sparks, una specie di Philip K. Dick della tenzone amorosa che grazie a romanzi sfornati con impeccabile tempismo è diventato un riferimento costante per quelle produzioni mainstream che hanno voglia di aggiornare al tempo presente le gesta degli eroi e delle eroine che resero eterne le opere di Jane Austin ed Emily Bronte.

Una tendenza che il cinema hollywoodiano ha trasformato in un vero e proprio sottogenere in grado di riprodursi attraverso codici ben definiti, lontani da qualunque tipo di originalità, perchè in fondo tutte le storie si sviluppano attorno ad un amore che diventa possibile a patto di pagare dazio ad una via crucis di speranze e delusioni, ma dotati di un'efficacia derivata dall'equilibrio con cui gli stessi vengono distribuiti lungo il corso della storia.
Ed anche questa volta come già in "Dear John"(2010) altro film tratto dal prolifico scrittore - sono ben sei i libri tradotti sullo schermo ed altri sono già stati opzionati per lo stesso scopo - c'è di mezzo una guerra ed in particolare quella combattuta dall'esercito americano nel teatro iracheno dove presta servizio il sergente dei marines Logan Thibault (Zac Efron) miracolosamente sopravvissuto ad un imboscata del nemico. Convinto di essere stato salvato dalla foto di una donna raccolta sul luogo dell'incidente Thibault una volta a casa decide di mettersi alla sua ricerca e quando la trova finisce per innamorarsene. Conquistare Beth però non sarà facile perchè oltre alle ferite per la recente scomparsa del fratello dovrà tenere a bada l'arroganza e la perfidia dell'ex marito.
Girato in maniera professionale ma senza nessuna sorpresa da un regista, Scott Hicks, diventato famoso per aver diretto il film (Shine,1996) che ha fatto vincere l'oscar a Geoffrey Rush, "Ho cercato il tuo nome" conferma luoghi e situazioni rintracciabili in tutto il cinema targato Sparks a cominciare dai personaggi costruiti sulla base di un trauma che solo l'amore è in grado di lenire e portatori di una bellezza sofferta e naturalmente introversa, e poi dal paesaggio,disegnato come un eden in cui trovare rifugio ed in grado di rispecchiare l'integrità delle figure che lo abitano, per non dire della costruzione drammaturgica ancora una volta innescata da un omissione che in questo caso ruota attorno alla mancata rivelazione da parte di Thibault dell'esistenza della fotografia e del motivo che l'ha portato a cercare Beth.

Classico nello sviluppo della trama e nella centralità dei personaggi il film doveva essere un altro passo verso la maturità cinematografica della star che lo interpretava: in questo senso la performance di Zac Efron delude perchè la preoccupazione di mostrarsi adulto imprigiona l'attore in una postura perennemente irrigidita ed in una recitazione legnosa, in cui il famoso sorriso si trasforma in una seriosità senza luce. Meglio di lui fanno sicuramente i suoi partner, da Taylor Shilling, una Beth dolce e tormentata ma soprattutto Jay R. Ferguson in uno ruolo come quello del marito geloso, intriso fino all'ultima goccia da un maledettismo funesto e senza speranza che sembra uscire direttamente da una piece di Tennessee Williams.
(pubblicata su ondacinema.it)