giovedì, agosto 30, 2018

VENEZIA 75 - IL PRIMO UOMO


Il primo uomo
di Damien Chazelle
con Claire Foy,, Pablo Schreiber, Jon Bernthal
USA, 2018
genere, bografico, drammatico
durata, 133'

Dopo il trionfo degli Oscar e il conseguente successo ricevuto dal regista e dagli interpreti di "La La Land", non c'è dubbio che in termini di gradimento "The First Man" fosse uno dei titoli più attesi dal pubblico della 75° Mostra del cinema di Venezia. Ciò non vuol dire che il nuovo film di Damien Chazelle non costituisse un banco di prova per il regista che questa volta era chiamato a confermarsi in un genere - il biopic - mai frequentato prima d'ora, facendo a meno dell'elemento musicale - è questa la grossa novità - sia come parte integrante della storia che in qualità di supporto tecnico e creativo. In più, ad alzare la posta in palio c'era la scommessa di riuscire a convincere quella parte degli addetti ai lavori per i quali i film del regista americano rappresentano il simbolo della corruzione che ha intaccato anche un festival come quello veneziano, un tempo abituato a opere di assoluto rigore è oggi - secondo i detrattori - piegato alla volontà dell'industria americana che proprio al lido ha trovato il trampolino di lancio per inaugurare la campagna dei lungometraggi destinati a intrigare i membri dell'Academy. Certo è che la biografia di Neil Armstrong, il primo uomo a sbarcare sulla Luna, era di quelle fatte apposta per alimentare le perplessità dei suoi "nemici", tanto è sempre stata piena di retorica filo americana la cinematografia (persino quella del grande Clint Eastwood con "Space Cowboy") che si è occupata della conquista dello spazio da parte della compagine statunitense. 

Per questa ragione, sarà per molti sorprendente constatare cosa accade sullo schermo e per esempio osservare la particolarità dello sguardo con il quale Chazelle si rivolge alla materia del suo film. Costruito in maniera classica e, quindi, avendo come obiettivo quello di sviluppare la vicenda del protagonista senza perdere mai di vista la centralità che esso occupa all'interno della storia, il regista opta per una prospettiva che pur dando conto degli aspetti pubblici della vicenda - quelli che riguardano le implicazioni della missione rispetto alla contrapposizione con il nemico sovietico come pure dei risvolti con il fronte della politica interna, caratterizzati dalle proteste sessantottine - in realtà privilegia gli aspetti meno conosciuti della personalità di Armstrong, segnato nel profondo dalla scomparsa della figlioletta e quindi poco propensa a trovare nella celebrità mondana la giustificazione dei sacrifici che gli permettono di soddisfare (è questo il termine usato dall'interessato di fronte alle domande dei giornalisti che lo incalzano nel corso della conferenza stampa organizzata prima della partenza) i parametri necessari a ottenere il pass che gli consenta di guidare la spedizione. Ciò che ne viene fuori, dunque, è un resoconto più privato che pubblico in cui, anche quando si tratta di narrare i momenti più importati, per esempio quelli che si occupano di riferire i drammatici eventi che scandiscono le tappe di avvicinamento (nella quali persero la vita numerosi astronauti) e le sperimentazioni a cui si sottopongono i vari equipaggi delle varie missioni, a non venire mai meno è il contraltare che essi provocano nell'ambito famigliare e, soprattutto, dentro l'uomo che sta dietro al personaggio dei magazine e delle televisioni. 

Prova ne sia la sequenza di ambientazione domestica inserita a metà del film in cui vediamo nella stessa immagine, equamente divisi, da una parte la moglie di Neil intenta a seguire le imprese del marito impegnato a testare razzi e navicelle nell'orbita terrestre, dall'altra il figlio che la interpella con domande che esulano ciò che sta accadendo al genitore. Ma ancora di più basterebbe focalizzarsi sul modo con cui Chazelle decide di mettere in scena il personaggio di Armstrong, tratteggiato attraverso le silenziose espressioni di un grande Ryan Gosling - abituato a lavorare di sottrazione laddove lo show business hollywoodiano imporrebbe di caricare la verve emotiva -, indispensabili a riportare a galla il groviglio interiore che agita la personalità dell'astronauta, con la fotografia di Linus Sandgren (già direttore di "La La Land") che rinuncia all'ottimismo dei colori sgargianti in favore di chiari scuri scelti per manifestare la tormentata anima del protagonista. 

Se poi consideriamo che "The First Man" non rinuncia a rappresentare la morte per quello che è, dandone conto nei riflessi che essa ebbe nella vita del celebre astronauta, costellata dalla scomparsa di numerosi amici e colleghi periti sul campo, si può dire che "The First Man" realizza la celebrazione di un mito della storia americana che è anche un de profundis sul mito dell'eroe con le forme e i contenuti che furono del "Lincoln" di Steven Spielberg (non a caso executive producer del film). Alla pari del più celebre collega, Chazelle filma una sorta di seduta spiritica popolata di tragedie e di fantasmi in cui assieme alla straordinarietà degli accadimenti narrati, ad andare in scena è una profonda riflessione sulla caducità delle cose umane. Si prevedono parecchie nomination (Gosling su tutti) così come candidature ai premi della Mostra.
Carlo Cerofolini
(pubblicato su ondacinema.it)

VENEZIA 75 - THE MOUNTAIN


The Mountain
di Rick Alveson
con Tye Sheridan, Jeff Goldblum, Hannah Gross, Denis Lavant, Udo Kier
USA, 2018
genere, drammatico
durata, 196'


Rick Alverson non è un regista facile per lo spettatore. Oltre al ritmo piuttosto compassato la forma del suo cinema può rivelarsi ostica anche negli aspetti più basilari come possono esserlo i dialoghi, nei film da lui realizzati spesso avari di parole, oppure nei personaggi, per la maggior parte caratterizzati da una fisicità respingente e da una fisiognomica stravolta ai limiti del caricaturale. "The Mountain", presentato nel concorso ufficiale della 75° Mostra del cinema di Venezia non fa eccezione. Anzi, si potrebbe dire che la scelta di collocare una storia di fisiologie imperfette all'interno di un segmento temporale come quello dell'America degli anni Cinquanta, fotogenicamente impeccabile, sia il biglietto da visita migliore per attestare la singolarità del nostro regista. Il quale, in un certo senso, sembra riprendere il discorso interrotto con "Entertainment", continuando a presentarci un'America diversa - anche esteticamente - da quella pubblicizzata dalla propaganda ufficiale e soprattutto invisibile agli occhi degli osservatori meno attenti. La vicenda in questione infatti ci porta nella provincia del paese al seguito Dottor Wallace Fiennes (Jeff Godblum) specializzato in lobotomie e di Andy (il Tye Sheridan di "Ready Player One"), il giovane assistente che ha deciso di seguirlo dopo la morte del genitore. 

Confortato da una base storicamente riconosciuta (dietro il personaggi di Fiennes si nasconde quello del Dr. Walter Freeman, il pioniere della procedura medica summenzionata) e fondato su una messinscena realistica nella ricostruzione di ambienti e tipologie umane, "The Mountain" circoscrive l'universo dei personaggi non solo dal punto di vista visivo, ovverosia scegliendo un formato ridotto rispetto al normale, ma anche per quanto riguarda la composizione delle singole scene nella quali Andy, il vero protagonista del film, è spesso ripreso da solo e all'interno di strutture (sanitarie e domestiche) che rimandano all'isolamento del ragazzo rispetto al resto del contesto. Se appare esagerato equiparare questo slittamento di senso a un approccio percettivo nei confronti della vicenda, è pur vero che con il passare dei minuti la presenza di deformazioni ottiche e un uso del suono a volte sgrammaticato segnalano la compresenza di due piani di narrazione: quello ricavato soffermandosi sulla superficie degli eventi, di numero ridotto e in molti casi lasciati in sospeso, e l'altro, invece che pare il riflesso di ciò che accade dentro la mente del protagonista. E se nel primo dei due aspetti la trama segue un binario abbastanza scontato e talvolta ripetitivo, è il secondo a offrire gli spunti più interessanti quando si tratta di dichiarare la propria impotenza di fronte all'ineluttabilità del destino umano, condannato dalle caratteristiche intrinseche di una "malattia" non solo endemica ma pure "democratica", capace di colpire anche coloro che dovrebbero curarla. 

A proprio agio quando si tratta di suggerire atmosfere e stati d'animo proprie della condizione umana, "The Mountain" diventa quasi impacciato nel momento in cui i personaggi si trovano per forza di cose a dover prendere delle decisioni e, per dirla senza mezzi termini, a dare seguito alle premesse dei propri comportamenti. Messo alle strette dalle istanze narrative, Alverson finisce per andare fuori giri, pasticciando un lavoro che fino a un certo punto era stato impeccabile: dapprima inserendo nella tragedia una svolta sentimentale che porta Andy a prendere decisioni drastiche ma un po' forzate e, in seguito, rifugiandosi in un finale dal sapore trascendentale suggellato da un monologo di Denis Lavant, catapultato nella storia un po' per caso e non si capisce per quale motivo chiamato da Alverson a interpretare una specie di guru/sacerdote. A rincarare le stravaganze poi ci pensa la scelta di attribuire virtù carismatiche alla montagna del titolo, (forse) depositaria di una salvezza che però sembra giungere fuori tempo massimo. Per i personaggi e pure per lo spettatore.
Carlo Cerofolini
(pubblicato su ondacinema.it)

domenica, agosto 26, 2018

LA FOTO DELLA SETTIMANA


Il primo uomo di Damien Chazelle, film d'apertura della 75° Mostra del Cinema di Venezia

INVISIBILI - THE MYSTERIOUS GEOGRAPHIC EXPLORATIONS OF JASPER MORELLO

The mysterious geographic explorations of Jasper Morello
di, Anthony Lucas
Australia, 2004 -
genere, animazione
durata, 27’

Negli anni scorsi - e già non sembra più l’altro ieri - la Pixar ci aveva abituato a una quasi costante ridefinizione non tanto e non solo dei limiti tecnici dell’animazione, quanto e soprattutto degli ambiti (quindi delle concrete possibilità) di espressione - in un mondo sempre più compiaciuto del proprio approssimarsi alla razionalizzazione assoluta - della meraviglia. Adesso che il colosso di Emeryville è più che intenzionato a sublimare/esorcizzare una fisiologica stasi successiva a una parallela crescita duratura, come anche un qual debito di creatività attraverso la capitalizzazione sistematica di brillanti ma trascorse intuizioni (i nuovi capitoli di vecchie storie, infatti, vengono annunciati con una prevedibilità che di per sé rende superfluo qualunque sospetto - o prevenzione - inerente a una precisa strategia industriale), il sapore della meraviglia, spezia rara per definizione, deve essere ricercato in opere magari piccole o piccolissime del recente passato, come questo “The mysterious geographic explorations of Jasper Morello”, minifilm (27’) di Anthony Lucas il cui titolo, da solo, è già una liaison struggente tra nostalgia e senso di perdita per, ad esempio, i mondi impossibili descritti da Jules Verne.


Alcuni retaggi dell’infanzia possono essere fuorvianti - si pensi alla precoce predominanza dell’elemento fantastico in grado, se non temperato, di generare aspettative irrealistiche col sovrappiù, a mo’ di deprimente effetto collaterale, d’un rapporto fin troppo contrastato col tessuto del quotidiano - arrivando a solleticare, per contrasto, la sensibilità alla meraviglia come risposta a un fastidiosa frustrazione, ossia rilevandone i tratti anche là dove le circostanze non li prevedono. Contraddizione con passione e metodo disinnescata dalla presente opera del regista australiano, in raro equilibrio tra meraviglia come costante opportunità d’interscambio tra la linea narrativa prescelta - quella avventurosa - e le forme via via chiamate a evocarla (qui un sodalizio armonico tra animazione classica e computerizzata), e le sue eventuali epifanie. Del resto, la ricorsività delle vicissitudini dell’ufficiale di rotta Jasper Morello, a cui un recente trascorso non ha risparmiato la ventura d’una tragedia destinata a ossessionarlo nel presente, ben si presta al passo dell’anabasi, a quel suo incedere tortuoso, in genere foriero di complicazioni ma intrinsecamente aperto all’imponderabile ovvero, a volte, proprio alla tanto ritrosa meraviglia.


A tale risultato concorre, innanzitutto, la collocazione della vicenda in quella capricciosa parentesi temporale, figlia tanto dell’estro quanto di una fantasia irrequieta, disposta a far coesistere nelle affusolate silhouette all black dei protagonisti, come nelle linee e nelle soprelevazioni meccaniche addolcite da un lucore sabbioso della città di Gothia, la suggestione (e, volendo, una certa stretta al cuore) per la Parigi dell’Esposizione Universale del 1900, con le intelaiature metalliche, gl’infiniti ingranaggi, gli apparecchi di misurazione e le slanciate carenature di macchine volanti avveniristiche eppure partecipi di un ingegno e d’un gusto indiscutibilmente rétro. Al passo d’una cronologia ipotetica s’attaglia, poi, di slancio, la progressione drammaturgica archetipica centrata sulla variante del viaggio come mezzo per giungere a una conoscenza altrimenti non attingibile e come viatico eventuale per la composizione, sia del personale rovello interiore dell’eroe, sotto forma di gesto risarcitorio, sia, più in generale, dell’antagonismo principale che percorre l’intera fabula, ovvero il percorso materiale ed emotivo che lega gli sforzi compiuti da un gruppo di assortiti personaggi - il burbero Capitano Griswald e la sua ciurma; un ambiguo accademico, il biologo Claude Belgon - per debellare il misterioso morbo causa della decimazione e delle sofferenze patite da una comunità umana oramai rassegnata alla crudeltà della sorte occorsale. S’aggiunga, infine - non da poco - la sospensione morbida ma febbrile indotta dalla torsione letteraria di presentare gli avvenimenti come un resoconto imparziale, scientifico, quasi, tratto dalle note di bordo redatte da Jasper per l’amata compagna Amelia/Beaumont rimasta a Gothia a prestar opera di soccorso e sottolineate dalla voce di Joel Edgerton impostata su un registro al tempo confidenziale e rigoroso nelle descrizioni, tipico dell’intercalare alto anglosassone, ad alludere alla lunga tradizione di quella cultura in campo geografico e naturalistico.



A scaturirne - tra collisioni aeree, scoperte di strani mondi levitanti e ancor più singolari creature, carcasse di pesci abissali, dolorose agnizioni sulla volontà di potenza della Scienza, scelte estreme e stranite malinconie - è così un ritratto neanche tanto paradossalmente intimo, cioè più vicino al mistero d’un uomo scisso tra senso di responsabilità e senso di colpa (o, spostando l’accento sul respiro simbolico delle immagini, in bilico tra la necessità incarnata dal nero pece delle eliche, dal grigio pieno delle paratie, come dai mucchi di cadaveri infetti accatastati nei crepacci e l’immateriale conforto della longilinea eleganza e della soavità della voce di una donna - in una delle ultime trasmissioni, prima di sfidare la disperazione su rotte sconosciute, Amelia concorda con Jasper circa l’intenzione di metter su famiglia al suo ritorno -), che alle strambe contorsioni della Storia (per quanto immaginaria), e di fronte al quale i molteplici volti del mistero più grande, quello della Conoscenza, quello dell’enigma del Male, quello della Salvezza, si specchiano, si sovrappongono fin quasi a identificarsi, per lasciar subito dopo spazio a uno stupore nuovo, fugace e indifeso, primo passo che dal dolore conduce alla Meraviglia (“Un grado non è una grande distanza. In una bussola ha appena lo spessore di un’unghia. Ma in certe condizioni… un grado può essere una grande distanza. Abbastanza da distruggere un uomo”).
TFK

venerdì, agosto 24, 2018

FIRE SQUAD - INCUBO DI FUOCO


Fire Squad - Incubo di fuoco
di Joseph Kosinski
con Josh Brolin, Jennifer Connelly, Jeff Bridges
USA, 2018
genere, drammatico
durata, 134'



Allineata allo spirito del tempo e impegnata a colmare le richieste di un intrattenimento spettacolare ma costruttivo, Hollywood ha incominciato a considerare i generi cinematografici senza distinzione di sorta e quale contenitore unico di fatti e personaggi prelevati dalla realtà. Tra le opzioni possibili quella stabilita con il filone dei cosiddetti film catastrofici offre il vantaggio – per ovvi motivi – di flirtare con il box-office e, quindi, di poter legare gli scopi commerciali tipici del caso a una giusta causa come quella presente nel nuovo lungometraggio di Joseph Kosinski (Tron Legacy, Oblivion), dedicato alla vicenda dei Granite Mountain Hotshots, la squadra di pompieri che nel 2013 perse la vita nel tentativo di contrastare l’incendio scoppiato nei pressi in Arizona. Assurti a simbolo di massimo eroismo dopo i fatti dell’11 settembre, gli ideali e il coraggio dei pompieri americani trovano la loro apoteosi in "Fire Squad – Incubo di fuoco", non solo per il triste epilogo riservato ai protagonisti della vicenda, ma perché la sceneggiatura fa di loro una vera e propria incarnazione dei valori più alti della società americana.

Da questo punto di vista Fire Squad – Incubo di fuoco non sfugge all’esaltazione che sempre accompagna le celebrazioni del patriottismo yankees e quelle riferite allo spirito di adattamento e all’unità d’intenti messi in mostra quando si tratta di far fronte al pericolo comune. Così capita anche nella descrizione dell’addestramento necessario a trasformare i volenterosi ragazzi in specialisti del pericolo, chiamati a fronteggiarlo laddove si rivela più letale: alle cene e alle bevute organizzate per cementare amicizia e lo spirito di corpo, già da sole territorio d’elezione per certo tipo di sviolinate, si aggiunge, infatti, il surplus di retorica connesso alle vicissitudini del personaggio interpretato dal bravo Miles Teller, recuperato alla causa da una vita disgraziata e fallimentare grazie alla virtù della comunità/nazione che vince la scommessa dando fiducia al reprobo. Appesantito dal fardello drammaturgico Fire Squad riesce a salvaguardare le interpretazioni dei vari Josh Brolin,  Jeff Bridges e di una sempre più anoressica Jennifer Connelly dall’enfasi narrativa di certi passaggi e può comunque contare sulla regia visionaria di Kosinski, a suo agio quando si tratta di trasportare la storia su un piano metafisico e avventuroso.
Carlo Cerofolini)
(pubblicata su taxidrivers.it)

mercoledì, agosto 22, 2018

LA SETTIMA MUSA


La settima musa
di Jaume Balagueró

 Franka Potente,, Joanne Whalley, Leonor Watling,
 Spagna, Irlanda, Francia, Belgio, 2018
genere, thriller, horror



Immaginate un mondo dove sia possibile scrivere qualcosa che possa influenzare in maniera diretta (e soprattutto tangibile) l’esistenza di un altro; un verso, una lettera, una poesia…un qualcosa che possa prendere vita anche soltanto se bisbigliato all’orecchio, o urlato difronte lo specchio. Una realtà dove leggere “S’i fosse foco” ad esempio sarebbe in grado letteralmente di bruciare il mondo intero.
“Poetry can do incredible things” in questo mondo allora, nel mondo ideato dal regista Jaume Balagueró (divenuto celebre nel 2007 con “REC”) per il film “La settima musa”, non sarebbe soltanto una frase ad effetto con cui concludere l’opera e mandare i titoli di coda…sarebbe più un mantra, una chiave di lettura con cui dare un senso agli apparentemente inspiegabili eventi soprannaturali che si scatenano intorno ai personaggi del racconto. E così di fatto è.


La storia, ispirata al bestseller "La dama numero tredici" di José Carlos Somoza, è interamente incentrata sulla letteratura e sui poemi che hanno sancito la storia della cultura dell’uomo, da Dante a Neruda passando per Milton e Vaughan. Il protagonista è il professore di letteratura del Trinity College di Dublino, Samuel Solomon (Elliot Cowan, il Tolomeo giovane in “Alexander” e Lorenzo de’ Medici nella serie “Da Vinci's Demons”), autore innamorato della poesia e della sua bellissima studentessa Beatriz (Manuele Velles). Il suicidio di quest’ultima genera nel professore una crisi apparentemente senza via d’uscita, con le allucinazioni che periodicamente vengono a fargli visita nei momenti più bui della sua depressione post traumatica.


A creare un piccolo spiraglio di luce in questa tetra oscurità è però per assurdo un omicidio, una specie di rito sacrificale che il protagonista da mesi osserva nel palcoscenico del proprio inconscio e che un giorno trova riscontro nella realtà, quasi come se quei sogni non fossero stati altro che un loop premonitore di quello che sarebbe capitato di lì a poco. È sulla scena di questo delitto che Samuel farà la conoscenza della persona che stravolgerà la sua vita, la ballerina di lap dance Rachel (Ana Ularo, attrice rumena vista in “Inferno” con Tom Hanks) la quale gli insegnerà il segreto della poesia e delle figure che per secoli hanno ispirato gli artisti di tutto il mondo.

“La settima musa” è un horror più psicologico che terrificante, dalla trama interessante (anche se di recente si sono visti diversi thriller a carattere letterario, vedi “Dark Hall” nelle sale in questo periodo) ma forse banale e prevedibile, che finisce a volte nel lasciare lo spettatore in preda ad alcuni piccoli ma importanti buchi nella narrazione che di fatto la rendono non pienamente realizzata. Un poema incompiuto in cui si riconosce l’idea, ma non si riesce ad apprezzarne a pieno la perfezione nel suo insieme.
Lorenzo Govrnatori



martedì, agosto 21, 2018

LOCARNO 71 - M

M
di Yolande Zauberman
con Mehamen Lang
Francia, 2018
genere, documentario
durata, 105'


Il film di cui stiamo andando a parlare è di quelli che in un festival sono destinati a fare scandalo. Bravi sono stati dunque i selezionatori a non farsi spaventare dalla delicatezza, anche politica, del soggetto, a riprova che la libertà del Festival di Locarno, di cui si parlava in sede di presentazione, è tutt'altro che uno spot per lanciare il prodotto. "M" di Yolanda Zauberman è infatti il diario intimo di una vittima che torna sul luogo del delitto. Il famoso interprete di canti liturgici Menahem Lang riesce nell'impresa di farsi aprire le porte della città di Bnei Brak, la capitale mondiale degli Haredì, gli ebrei ultra-ortodossi, i "timorati di Dio" in ebraico, in cui egli stesso è nato e cresciuto. In partenza la difficoltà non consisteva solo nel filmare la vita privata dei riservati cittadini, ma il fatto di farlo allo scopo di metterne a nudo la versione meno piacevole e conosciuta. Lang infatti torna nella città natale per fare i conti con chi, quando era ragazzino, aveva approfittato di lui abusandone a più riprese. Ma non basta, poiché la ricerca personale e la volontà di affrontare i propri fantasmi prendendo il diavolo per le corna diventa in maniera spontanea una vera e propria terapia di gruppo alla quale partecipano i pochi audaci che, alla pari di Lang, hanno deciso di liberarsi del medesimo fardello, parlandone a cuore aperto davanti alla telecamera della regista. Se lo scandalo degli abusi sessuali commessi da esponenti del clero almeno da noi non è una novità, è altrettanto vero che a fare notizia è che se ne riesca a parlare in un contesto così riottoso ad aprirsi verso l'esterno.
Al cospetto di un'esperienza così drammatica e per certi versi indicibile il rischio per la Zauberman era quello di tralasciarne le ragioni per inseguire i vantaggi della scontata demonizzazione. Capita invece che pur soffrendo nel ricordo di quanto accaduto e portandone addosso ancora oggi i segni (e come lui gli altri suoi interlocutori) Lang si avvicini all'inferno con atteggiamento duplice: in questo è esplicativa la frase di Kafka che più o meno recita "porto con me il coltello per uccidere i miei nemici, lo porto per proteggerlo". Lo stesso fanno "M" e il suo protagonista. 

Carlo Ceofolini
(pubblicato su ondacinema.it)

domenica, agosto 19, 2018

LOCARNO 71 - RAY & LiZ


Ray & Liz

di Richard Billingham
con  Michelle Bonnard, James Eeles, Sam Gittins
UK, 2018
genere, drammatico
durata, 108'


Ray & Liz di Richard Billingham è uno di quei film che per essere gustati appieno ha bisogno di qualche parola in più d'introduzione poiché la famiglia disfunzionale che viene raccontata nella storia non è solo un'estensione romanzata di quella reale in cui il regista è nato e in parte vissuto, ma la sintesi di un percorso artistico avente sempre come riferimento il medesimo soggetto, seppure mediato dalle tecniche di pittura e soprattutto dalla fotografa di cui Bellingham è diventato maestro (e pure docente in un'importante università dell'Inghilterra). La premessa è significativa perché permette di capire da dove venga il sentimento d'amore e di umana pietas che il regista riserva ai protagonisti, colpevoli agli occhi dello spettatore, ma non a quelli di Bellingham, di una degradazione morale e materiale che neanche l'indigenza della propria condizione sociale potrebbe giustificare. E ancora, per capire come la visione della galleria degli orrori che il film generosamente ci riserva (alcuni dei quali davvero insopportabili e ci riferiamo per esempio alla scena in cui il cane si precipita a saziarsi del vomito uscito di bocca dall'uomo riverso sul divano) non sia una furbizia escogitata dall'autore per fare scandalo, ma una sorta di terapia psicanalitica in cui l'accumulo degli episodi raccapriccianti altro non è che il modo per accelerare una catarsi che diventa pubblica solo in un secondo momento, collegandosi innanzitutto al vissuto personale del regista.

Ciò non toglie che "Ray & Liz" sia un film duro e provocatorio, pensato per mettere lo spettatore a disagio, spiazzato non solo dagli effetti dello shock visivo che il film gli somministra ma anche dal fatto di ritrovarsi di fronte alla versione lisergica del cinema dei vari Ken Loach, Mike Leigh e via dicendo. Questo perché la periferia di Birmingham e i suoi slum diventano un'installazione permanente in cui le soluzioni formali adottate da Billingham (a partire dal formato ridotto dell'inquadratura), cosi come la frantumazione della linearità narrativa, destinata a perdersi e ricongiungersi senza soluzione di continuità, altro non solo che le modalità con le quali il film riesce a far sentire, oltre che vedere, cosa significhi vivere in una dimensione esistenziale in perenne disfacimento. Per chi scrive, una delle sorprese del festival.
Carlo Cerofolini
(ondacinema.it)

giovedì, agosto 16, 2018

MOST BEAUTIFUL ISLAND: INTERVISTA AD ANA ASENSIO


Most Beautiful Island, esordio alla regia dell'attrice Ana Asensio, è un film indipendente che utilizza i generi cinematografici per raccontare la storia della protagonista e quella della città di New York, emblema di un sogno americano che forse non esiste più. Taxi Drivers ha incontrato la regista spagnola



Il tuo è un film molto duro, soprattutto dal punto di vista delle relazioni umane. Non c’è amicizia nella storia che non sia destinata a essere tradita e la rapacità sociale è il tratto dominante di New York City. Era questo un modo per creare uno sfondo più verosimile possibile alla vicenda della protagonista o, invece, era una maniera per esprimere una visione politica sul mondo e sulla città di New York?



Quello che mi premeva mostrare era il modo in cui gli stranieri irregolari fossero più predisposti a diventare prede del sottobosco della società capitalistica. Quando non puoi predisporre di beni necessari, sei costretto a prendere decisioni giorno per giorno, proprio per evitare di essere divorato dalla città. I rapporti che si costituiscono in questi casi sono quindi basati sul bisogno più che su un’autentica e comune visione del mondo. Per questo motivo, non credo che tali rapporti possano essere considerati veri e propri tradimenti, quanto un comportamento basato sulla sopravvivenza. Situazioni di vulnerabilità aumentano la possibilità di commettere errori; alcuni di questi sono pericolosi proprio come vediamo nel film.

A proposito di impegno, Most Beautiful Island è girato in 16mm, che è la pellicola usata dai documentaristi, mentre il film affronta con originalità il problema dell’immigrazione attraverso le vicissitudini di  Luciana. Se uno non avesse visto letto il tuo nome sui titoli di testa sembrerebbe di vedere un film di Ken Loach.

Aver  paragonato in qualche modo Most Beautiful Island a un film di Ken Loach è uno dei più grandi complimenti che avessi potuto ricevere. Apprezzo il realismo sociale nei film e quello che cercavo era il modo di esprimerlo. Ho usato persone reali nella parte di se stesse, l’intero film è stato girato con la camera a mano per cogliere la crudezza della città e il primo montatore del film lavora esclusivamente sui documentari. Nella prima metà del film la gran parte delle scene si basano sull’improvvisazione: sia per ciò che attiene l’azione che per i movimenti della cinepresa. Ho lasciato che gli attori (e l’ho concesso anche a me stessa) di interpretare le scene in modo libero rispetto alle parole che avevo scritto e ai movimenti di camera che avevo originariamente predisposto. Questo funziona specialmente quando lavori con i bambini o interagisci con i passanti newyorkesi.

Nonostante quello che abbiamo, detto Most Beautiful Island è prima di tutto un thriller con venature horror. Essendo il tuo primo film in assoluto, ti volevo chiedere com’è nata la storia e perché la scelta di esordire con un film di genere.

Non avevo previsto, infatti, di fare film di genere. Volevo fare un dramma realistico con qualche elemento di mistero. Volevo aumentare l’incertezza e l’ansietà del personaggio principale e desideravo che lo spettatore facesse la stessa esperienza. Credo che il film sia un ibrido e penso di aver inserito elementi tipici di ogni genere di film. Molti di questi nascono da decisioni prese in sala di montaggio, fuori da qualunque previsione.

Olga, l’amica di Luciana, ad un certo punto le dice che “A New York tutto è possibile”. Ti chiedo se per te è davvero così e in caso di risposta positiva da dove viene questa convinzione.

Credo doveroso che sia così. Questa città attrae persone che cercano di trovare i propri limiti e questo può accadere in modi diversi.

Tra gli interpreti del film c’è un cameo di Larry Fassbenden (presente anche in veste di produttore), figura imprescindibile dell’indie horror statunitense. Ti volevo chiedere se la sua presenza fosse in qualche modo anche una dichiarazione di ammirazione nei confronti del suo lavoro.

Ammiro davvero molto Larry, per molte ragioni. Devo dire che la più importante di queste sono la sua morale, tanto nel lavoro quanto nella vita privata. Lui è un sognatore, un anticonformista. Nel suo primo film, Habit, ha dimostrato di essere anche un visionario. Ha creato una filmografia attraverso la Glass Eye Pix, che prende sotto la propria ala molti nuovi cineasti in cerca di un luogo dove mettere a punto le loro prime opere. Questo è veramente generoso da parte sua! Dopo aver letto la sceneggiatura, Larry mi ha offerto il suo aiuto e io ne sono stata onorata. Sapeva che la mia intenzione era quella di fare un film molto personale e io non potevo promettere che sarebbe stato un film di genere. Lui ha abbracciato la mia visione ed è stato anche così gentile da parteciparvi.


La sequenza clou del film, quella che si svolge nello scantinato, è davvero efficace per tensione e drammaticità. Nella prima parte della stessa lavori con il fuori campo, nascondendo ai personaggi e allo spettatore il destino che attende Luciana dentro la stanza in cui dovrà entrare. Ci puoi raccontare come hai lavorato per realizzarla?

Tutto si basava sulla possibilità di creare tensione senza parlare. Non mi interessava che i personaggi parlassero, così gli attori dovevano vivere quella particolare situazione attraverso i loro respiri… tutte quelle ragazze si tengono tutto dentro e lo fanno per davvero. Abbiamo girato in un luogo oscuro e freddo e loro sono dovute rimanere sui tacchi alti per molte ore e ciò ha permesso loro di immedesimarsi con il disagio e la tensione della storia. Ho isolato dei dettagli per rilevare la loro apprensione (tipo le mani e i piedi) ma sono stata attenta a non esagerare. Mi sono concentrata sui loro volti, tutti molto belli eppure colmi d’angoscia. Il silenzio è stato poi riempito in post produzione con dei rumori creati nella sound design room. Quando i personaggi non parlavano non ci sono soprassalti, lo spettatore assorbe davvero la tensione e i minuti scorrono davvero piano…

Nei primi minuti del film inserisci alcune sequenze che funzionano come presagio di ciò che sta per succedere: mi riferisco a quella iniziale dove ci fai vedere diverse ragazze che sembrano essere le protagoniste del film e che invece ritroveremo solo in un secondo momento e poi agli scarafaggi che escono dal muro del bagno e si posano sul corpo di Luciana. Il fatto di lasciarle aperte e senza una spiegazione immediata concorre a creare un clima di incertezza e di disagio allo spettatore. Le hai pensate per ottenere questo effetto?



La sequenza d’apertura del film è una delle cose di cui mi sento più orgogliosa e tra l’altro non era nella sceneggiatura originale. È stato quando ho finito l’ultima scena del film che ho capito di aver bisogno di una nuova introduzione, qualcosa che stabilisse il tono della storia e allo stesso tempo l’ampliasse. È la storia di Luciana, ma poteva essere quella di qualunque delle donne precedentemente viste. Non avevamo più soldi per girare, così io e Noah Greenberg, il direttore della fotografia, siamo scesi in strada e abbiamo cominciato a girare con la sua camera digitale. Non c’era nessun altro con noi e le attrici hanno acconsentito di lavorare gratis per queste scene addizionali. Mi è piaciuto molto riprenderle, mi sono sentita molto libera. Inoltre volevo introdurre la città come il personaggio principale della storia. Il tema musicale più importante è stata la chiave per gettare ulteriore incertezza che si prolunga attraverso il resto del film.
Carlo Cerofolini
(pubblicata  su taxidrivers.it)

mercoledì, agosto 15, 2018

MOST BEAUTIFUL ISLAND

Most Beautiful Island
di Ana Asensio
con Ana Asensio, Natasha Romanova, Larry Fessenden
USA, 2017
genere, thriller
durata, 80'


L’unica cosa di cui sorridere a proposito dell’opera prima di Ana Asensio è il titolo. A fronte di un film che fa di tutto per mettere alle corde la tranquillità dello spettatore, precipitandolo nell’angoscia che sempre subentra quando si parteggia per l’incolumità del protagonista, messa a repentaglio da un incombente quanto sconosciuto pericolo, Most Beautiful Island rappresenta quasi una boutade, riferendosi si, alla città di New York, ma qualificandola con un superlativo assoluto che per nulla corrisponde al tenore della vicenda raccontata nel film. Questo perché dopo una partenza drammatica ma tutto sommato ordinaria, in cui la regista suggerisce le ragioni del dolore che perseguita Luciana, inducendola ad allontanarsi dalla famiglia nel vano tentativo di tenerlo a distanza, Most Beautiful Island, e con esso la metropoli newyorkese, diventano in realtà lo scenario di un incubo a occhi aperti. Succede infatti che la protagonista, a corto di soldi e allettata dalla lauta ricompensa di un lavoro apparentemente sicuro, si presenti in abito corto e tacchi a spillo nello scantinato di un edificio fuori mano dove ad attenderla ci sarà una misteriosa organizzazione e un gruppo di notabili alla ricerca di emozioni forti.


Prodotta da Larry Fessenden, uno dei campioni dell’horror indipendente americano, Asensio si pone sulla scia dei tanti connazionali che si sono imposti sulla scena internazionale cimentandosi nel prodotto di genere. Quello di Most Beautiful Island è infatti un thriller che si avvicina al macabro quando lascia intendere che l’immaginazione in esso contenuta si avvicini di molto alla realtà, e che le pratiche messe in atto dai loschi figuri che tengono prigionata Luciana altro non siano che la trasfigurazione di fatti reali, accaduti davvero, seppur a nostra insaputa. Tenendo a mente un film come Tesis e la maniera con cui Amenabar era riuscito a romanzare uno dei pochi tabù del nostro tempo (la realizzazione degli Snuff Movie), la regista enfatizza il realismo della messinscena con riprese e fotografia che riprendono il paesaggio alla maniera del cinema documentario. A parte questo, Most Beautiful Island utilizza meccanismi e stilemi tipici del genere, come quelli di far salire la tensione nascondendo fino all’ultimo che tipo di inferno attende Luciana nel momento in cui entrerà dentro la stanza degli orrori.

Girato con un budget esiguo che però nelle mani della Asensio diventa risorsa, permettendole di “sporcare” la storia con una buona dose di verosimiglianza, Most Beautiful Island deve molto all’efficacia del montaggio che taglia il superfluo e concentra la vicenda in ottanta minuti di pura follia. Distribuito nelle sale nel prossimo Agosto, il film è di quelli da godersi in un sol boccone.
Carlo Cerofolini
(pubblicato su Taxidrivers.it)

martedì, agosto 14, 2018

DARK HALL


Dark Hall
di Rodrigo Cortes
con Anna Sophia Robb, Uma Thurman, Isabelle Furhman
USA, 2018
genere, drammatico, fantasy, thriller
durata, 96'


“Canta in me, o musa, e attraverso me racconta la storia”.
È con questa citazione di Omero che Cortès dedice di dare il La alla sua narrazione. Un richiamo diretto al discorso del premio Nobel per la letteratura del 2016, Bob Dylan. Un messaggio forte allo spettatore, forse quasi un avvertimento: la storia che verrà rappresentata sarà tutt’altro che qualcosa di lineare e di logico, dove il passato tornerà a far visita al presente attraverso l’ala abbandonata di un vecchio palazzo del 1800.

Un racconto di muse e di arte, di persone e di strumenti, con questi ultimi due aspetti che finiscono inevitabilmente per confondersi spesso l’uno nell’altro.

Dark Hall è la vicenda di 5 ragazze problematiche, scartate dalla società ed allontanate da tutti, ai cui genitori si presenta la classica illusione della speranza risolutiva nel momento di maggiore bisogno: la costosissima Blackwood School dispersa nei boschi Americani dove tentare l’ultima occasione prima della prigione che troppe volte è già stata rimandata.

Le parole con le quali le adolescenti vengono accolte rendono bene l’idea della loro situazione attuale: “Benvenute a Blackwood. Le conseguenze delle vostre azioni vi hanno portato qui. È un'alternativa alla galera”.
Allontanate da tutti per l’appunto tranne che da Madame Duret (Uma Thurman), direttrice della scuola ed unica ad essere disposta a dare l’ennesima seconda occasione alle adolescenti in questione. Una donna dura e spigolosa, determinata e fortemente orientata all’obiettivo, la quale conserva nel proprio ufficio i quadri con i volti ed i nomi dei suoi più grandi successi con la medesima cura con cui il cacciatore custodisce normalmente le teste delle sue vittime. L’obiettivo di Madame Duret e dei suoi collaboratori infatti, è quello scovare e di offrire al mondo il talento speciale che ciascuno di loro ha ma che non sa ancora di avere….e l’illusione dell’istituto è tutta qui, con le ragazze che d’un tratto iniziano a scoprire capacità artistiche ed intellettive che mai si erano palesate nel corso della loro vita.
La protagonista è la giovane Kit (AnnaSophia Rob, la piccola Violet Beauregard nel film “La fabbrica di cioccolato”), che operando da detective neanche troppo silenzioso riesce piano piano a far luce sugli scopi reali della scuola e della sua ambiziosa direttrice.

Si capisce l’idea inziale del regista di voler trovare la giusta collocazione cinematografica all’opera della talentuosa Lois Duncan (“Down a Dark Hall” del 1974), ma quello che esce fuori è una storia di fantasmi e nulla più, con pochi momenti di suspense e gli effetti horror limitati al “c’è qualcuno dietro di te” …un racconto per la fascia Young Adult che non annoia ma che sicuramente non entusiasma.
Lorenzo Governatori


ANT-MAN AND THE WASP


Ant Man and The Wasp 
di Peyton Reed
con Paul Rudd, Evangeline Lily
USA, 2018
genere, azione, fantascienza, avventura
durata, 118'


Il Diavolo si nasconde nei dettagli. Considerati dai più come il risultato di quella mentalità mercantile che a Hollywood è virtù indispensabile, mentre da noi incarna quanto di meno conforme ci sia a un’idea corretta di settima arte, i film della Marvel ad ogni uscita, oltre a ribadire l’accuratezza della confezione, non perdono occasione di ritagliarsi uno spicchio di autonomia dal resto del contesto per utilizzare nuove tecniche e mettere a segno qualche miglioria. Confermata la riconoscibilità del prodotto con una serie di ingredienti pressoché immutabili, tra cui annoveriamo la soluzione oramai consolidata di affiancare agli attori protagonisti un parterre di vecchie glorie dello spettacolo hollywoodiano, (oltre a Michael Douglas, qui la new entry è Michelle Pfeiffer) anche Ant Man and The Wasp riesce a ritagliarsi la propria linea distintiva, a cominciare dalla scelta di un tono, quello da commedia, appropriato alle stravaganze connesse con il fatto di avere a che fare con le avventure di eroi “lillipuziani”, più di una volta costretti a difendersi da pericoli che, in taluni casi, non farebbero paura neanche a un bambino.

Ma non finisce qui, perché nel carrozzone delle meraviglie allestito da Peyton Reed (confermato alla guida della serie) a smarcarsi dalla norma è ciò che accade in una delle prime sequenze, con Douglas e Pfeiffer miracolosamente ringiovaniti e pronti a figurare senza alcuna forzatura nei panni dei genitori di Hope van Dyne, alias The Wasp, l’intrepida eroina che, insieme ad Ant-Man, si prodiga per ritrovare la madre scomparsa anni prima nel regno Quantico. Così,  è vero che a rimanere impressi sono gli effetti speciali collegati alle scene d’azione meglio riuscite, come quella che – citando Godzilla – vede il protagonista emergere dalle acque della baia con un corpo di gigantesche misure, oppure l’ironia che ogni volta accompagna il mutamento di dimensione di oggetti e persone: una su tutte quella relativa al quartier generale del professor Pym, all’uopo rimpicciolito dal padrone di casa e portato a spasso come un qualunque trolley. 

D’altro canto, in prospettiva, è la sequenza di cui dicevamo prima a lasciare il segno, perché da ciò che abbiamo visto non passerà molto tempo dal giorno in cui gli interpreti potranno essere letteralmente “programmati” per restare giovani senza bisogno di ricorrere ad Avatar o chirurgia plastica. Tornando al presente, invece, a intrigare di Ant Man and The Wasp è la scelta di certe soluzioni narrative: pensato come spettacolo per famiglie, la sceneggiatura ne mette in campo addirittura due – quelle di Hope/The Wasp e di Scott/Ant-Man -, entrambe rimaneggiate, entrambe da salvare. Impossibile non identificarsi con esse e non sperare che tutto vada a finire per il meglio. Anche qui, però, ce n’è per tutti i gusti e, quindi, anche per coloro che ai sentimenti e alle riflessioni preferiscono risate e leggerezza: la contagiosa simpatia di Paul Rudd e della squadra di amici capitanata dall’ottimo Michael Pena si dimostra all’altezza del compito tanto da farci dire che sono proprio loro i veri effetti speciali del film!
Carlo Cerofolini
(pubblicata su taxidrivers.it)

domenica, agosto 12, 2018

LOCARNO 71 - A LAND IMAGINED


A Land Imagined
di Yeo Siew Hua.
con Peter Yu, Jack Tan, Luna Kwok, Kelvin Ho.
genere, drammatico 
Singapore,Francia, Paesi Bassi, 2018,
durata, 92’




Se nella scorsa edizione la presenza massiccia del cinema di genere era stato una delle novità più sorprendenti del programma, quest'anno a livello di concorso ufficiale la categoria in questione era ancora latitante. A rompere il digiuno ci ha pensato il regista di Singapore YEO Siew Hua con un'opera che solo in apparenza si risolve nella messa in campo della classica indagine investigativa, giustificata dalla scomparsa di un personaggio e focalizzata sulle ricerche messe in campo da chi ha il compito di ritrovarlo. Siccome la vittima di turno è scelta nell'ambito del sottoproletariato cinese assoldato dalle compagnie industriali che lavorano nelle aree di recupero di Singapore (presenti per rubare terre alle acque dell'arcipelago ed estendere i metri quadri di suolo calpestabile), la storia di "A Land Imagined" si sviluppa quasi subito lungo la direzione di un doppio binario, con la trama poliziesca che rappresenta il motore narrativo, quello che da cui si dipana il detour sensoriale voluto dal regista per amplificare gli orizzonti del suo film, doppiata da un sottotesto politico che ragiona sulle sfruttamento degli immigrati presenti nelle industrie del suo paese e sul sacrificio di vite umane necessario alla messa in opera di nuove aree edificabili.

Considerato che stiamo parlando di una città che è tra i principali centri finanziari del mondo e di una comunità in assoluto tra le più cosmopolite, la scelta di rappresentarla attraverso uno dei suoi aspetti più inquietanti e meno conosciuti non è casuale. Se poi ci mettiamo che a essere protagonisti sono due tipi umani che per necessità (l'operaio) e predisposizione (il detective) si collocano ai margini della società, si capisce quale sia la misura e la forza con cui il film in questione si oppone alla visione dominante delle cose. Ed è proprio la percezione, reale e immaginaria, dell'esistenza dei due protagonisti e la prospettiva dei rispettivi sguardi a far scattare il cortocircuito narrativo che spinge "A Land Imagined" verso territori in cui niente è vero e tutto è permesso: innanzitutto al regista, che approfitta di questa libertà per alimentare un gioco di specchi nel quale a fare da filo conduttore è il tema del doppelganger, abbinato tanto alla trama, replicata da punti di vista "uguali e diversi", quanto ai personaggi, destinati ad apparire alla fine del "falso" inseguimento messo in campo dall'investigazione come le due facce della stessa medaglia.

Detto che, come capita con i film di David Lynch - i deragliamenti dei protagonisti così tanto ricordano - il modo migliore per gustare "A Land Imagined" non è la tentazione di mettere ordine ai suoi continui detour narrativi, ma piuttosto quello di lasciarsi trasportare dalle sensazioni prodotte dalla fantasia del suo tessuto visivo, l'impressione è di trovarsi di fronte a un regista di talento che però si affida più di quel che dovrebbe alla cinematografia preesistente e, per esempio, a quella del primo Wong Kar-wai, invece di "rischiare" di suo. Il risultato è esteticamente affascinante, ma fin troppo scoperto nei suoi intenti.
Carlo Cerofolini
(pubblicata su ondacinema.it)